Rebirth di Nausicaa Di Stelle (/viewuser.php?uid=33208)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La palude dell'Eden ***
Capitolo 2: *** Conseguenze inaspettate ***
Capitolo 3: *** Una nuova vita ***
Capitolo 4: *** Tra sabbia e onde ***
Capitolo 5: *** Quel che accadde e che Tadashi non scrisse ***
Capitolo 6: *** Spie ***
Capitolo 7: *** Metamorfosi ***
Capitolo 8: *** In fuga ***
Capitolo 9: *** Una difficile confessione ***
Capitolo 10: *** Nelle mani di Raflesia ***
Capitolo 11: *** Due calici di rosso ***
Capitolo 12: *** Una calcolata follia ***
Capitolo 13: *** Il mio Capitano ***
Capitolo 14: *** Sulla barca di Caronte ***
Capitolo 15: *** Spettri ***
Capitolo 16: *** Epilogo a tre voci ***
Capitolo 1 *** La palude dell'Eden ***
La
palude dell'Eden
Dal
Diario di Yuki
Non
so da dove cominciare! Mi sento così in colpa... e non so se
esiste
un modo per rimediare al guaio che ho combinato. No, non io in
verità... Tutto è iniziato a causa di Tadashi e
della sua
imprudenza, ma una parte della responsabilità è
anche mia e non
posso certo far finta di niente.
Non
avrei abbandonato la nave se non fosse stato per corrergli dietro e
cercare di salvargli la pelle. Ma chi ci ha salvato alla fine
è
stato il capitano. Ed è lui che ci ha rimesso più
di tutti. Non ho
ancora avuto il coraggio di andare a trovarlo in infermeria per
vedere come sta! Del resto, le ultime notizie non sono confortanti.
Sono
uscita con un Lupo Spaziale per raggiungere Tadashi e riportarlo
indietro dopo che si era gettato all’inseguimento di una
mazoniana
che fuggiva dal combattimento. Avevamo sbaragliato senza problemi la
pattuglia di cui faceva parte e forse lei cercava soltanto di
mettersi in salvo. O forse voleva attirarci in una trappola. In ogni
caso, Tadashi c’è caduto in pieno e l’ha
inseguita senza farsi
pregare due volte fino al pianeta Eden.
A
dispetto del nome, si tratta di un luogo molto pericoloso e pieno di
insidie naturali... e soprannaturali!Il capitano lo sapeva e ha
inutilmente richiamato indietro Tadashi. Ma questi non ha voluto
ascoltarlo... o forse non lo ha nemmeno sentito. Sembra che le
comunicazioni siano molto disturbate, se non impossibili, una volta
che si entra nella zona d’influenza del pianeta.
Ah,
ma anch’io non avrei dovuto disubbidire al capitano per
raggiungere
Tadashi! Se l’avessi fatto, adesso non saremmo in questa
situazione...
Con
il mio gesto l’ho costretto a venire a salvarci tutti e due:
deve
essersi preoccupato... e arrabbiato quando dall’hangar gli
hanno
comunicato che un altro Lupo Spaziale stava abbandonando
l’Arcadia
e che a bordo c’ero io. Che vergogna... la sua brava Yuki che
gli
disubbidisce come l’ultimo dei suoi sottoposti!
Il
capitano dev’essere uscito subito dopo di me
perché mi ha
raggiunta quando ero penetrata da poco nell’atmosfera di
Eden.
Giusto in tempo per vedere il caccia nemico che mi attaccava alla
sprovvista, e che si era levato in volo da una radura che mi ero
lasciata alle spalle, nascosta dalla selvaggia vegetazione del luogo.
Il
capitano non ha fatto in tempo a sparare per primo e così
sono stata
colpita: il Lupo Spaziale ha virato improvvisamente a destra,
perdendo quota quando l’ala è saltata. Ho cercato
di tenerlo su il
più a lungo possibile e devo dire che sono stata brava
(anche se è
una magra consolazione in mezzo a tutto questo casino): sono riuscita
ad atterrare dignitosamente in uno spiazzo erboso, nonostante le
condizioni del velivolo.
Nel
cielo sopra di me ho visto tracce di altri colpi sparati e ricevuti e
poi la navetta mazoniana che precipitava lontano da noi.
Ero
spaventata, ma non per me e nemmeno per il capitano: non avevo visto
alcuna traccia di Tadashi nei paraggi e questo mi angosciava. Forse
le mazoniane lo avevano già catturato?
Poi
il Lupo del capitano ha sorvolato la mia zona, passando oltre.
All’inizio credevo non mi avesse vista, ma subito dopo ho
immaginato che fosse perché il punto dove mi trovavo non era
sufficientemente ampio per tutte e due le navette e lui non sarebbe
mai riuscito ad atterrare. Poiché non potevo sapere dove
avrebbe
trovato posto per planare, decisi di aspettare all’interno
dell’abitacolo del mio Lupo. Sapevo che sarebbe stato lui a
venirmi
incontro e se avessi cercato di raggiungerlo io avremmo rischiato di
non trovarci mai, dato che ci era impossibile comunicare, sia con le
trasmittenti delle navette che con quelle inserite nei caschi delle
tute spaziali.
Sembra
che mi stia giustificando, ma non è così: so di
aver fatto la cosa
giusta. L’unico errore è stato aver preso
l’iniziativa senza
consultare il capitano, uscendo da sola alla ricerca di Daiba. Ma
anche adesso, nonostante tutto quello che è successo, forse
rifarei
la stessa scelta... oh, non lo so... è che Tadashi rischiava
troppo,
là fuori da solo, perché lo abbandonassi a se
stesso.
Il
capitano mi ha raggiunta presto: l’ho visto arrivare con il
suo
consueto passo cadenzato e tranquillo. La sua sola vista mi trasmette
sempre un senso di sicurezza ed era stato così anche in
mezzo a
quell’inferno verde.
“Mi
dispiace, capitano!” è stata la prima cosa che gli
ho detto,quando
ci siamo trovati faccia a faccia.
Lui
non ha detto niente. Non mi ha rimproverata,non mi ha scusata...
Ha
risposto solo: “Seguimi, Yuki”.
E
questo mi ha fatto sentire ancora più in colpa.
Io
ho ubbidito e sono andata dietro a lui a testa bassa, come un
cucciolo che viene ricondotto alla tana dopo essere sfuggito alla
sorveglianza degli adulti.
Non
ho però abbassato la guardia: sarebbe stato da stupidi,
lì in
mezzo. Dentro di me potevo sentirla pulsare la certezza che fra
quegli alberi possenti, ricoperti di muschio e liane d’ogni
specie,
si nascondevano le nostre nemiche. E non sbagliavo.
L’assalto
è stato furioso e fulmineo, come è nello stile
delle mazoniane. Ben
presto ci ritrovammo in una situazione simile a quella che Harlock
aveva già dovuto affrontare con Tadashi nella foresta
amazzonica.
Solo che questi erano soldati ben addestrati, nulla a che vedere con
le selvagge driadi della foresta sudamericana.
Ci
hanno attaccato da tutti i fronti: con il vantaggio di trovarsi in un
ambiente a loro tanto affine credo sia stato molto semplice
accerchiarci, cercando di ucciderci come topi in trappola.
Nascosti
dietro ripari di fortuna, talvolta schiena contro schiena e sempre in
movimento nel tentativo di avvicinarci il più possibile al
Lupo
Spaziale, io e il capitano abbiamo dato battaglia alle serve di
Raflesia,difendendoci l’un l’altra.
In
quel momento avrei dato la mia stessa vita per lui: se era
lì con
me, completamente circondato da mazoniane pronte a tutto pur di
ucciderlo, era colpa mia e per nulla al mondo avrei permesso che
fosse lui a pagare per la mia scelta avventata.
Avrei
dovuto immaginare che un simile pensiero occupava anche la sua mente.
Harlock non ha mai permesso che a qualcuno dei suoi uomini accadesse
qualcosa quando era in suo potere impedirlo. Avrei dovuto rendermi
conto che con la sua pistola e la sua mira infallibile copriva anche
parte dei miei bersagli... accorgermi che in più di
un’occasione
mi faceva scudo con il suo corpo!
E’
una ferita da niente... Solo un graffio, ha detto lui. Sufficiente
però per lacerare la spessa tuta sul braccio destro e
procurargli
un’emorragia di una certa entità. Sufficiente
perché le
misteriose sostanze contaminanti di Eden penetrassero dentro il suo
corpo quando abbiamo attraversato la Palude...
Tutto
è accaduto durante il nostro tentativo di allontanarci dalle
mazoniane e di raggiungere il caccia. Non potevamo badare molto alla
strada da percorrere e inoltre il fatto di non conoscere il campo di
battaglia non ci aiutava di certo ad evitare i luoghi più
insidiosi.
Per questo motivo siamo stati costretti ad addentrarci nella
Palude... Un luogo fetido dal quale si levano miasmi verdastri che
solo i filtri sofisticati del nostro casco ci permettevano di non
respirare.
E’
stato lì che Harlock ha iniziato a sentirsi male.
I
misteriosi agenti contaminanti della palude devono essere entrati in
contatto con il suo sangue attraverso la ferita aperta,che non era
stato possibile fasciare. Spruzzi e schizzi si sono alzati in gran
quantità durante la nostra fuga attraverso quel luogo
maledetto e la
mia tuta integra mi ha protetta perfettamente, ma lui...
C’eravamo
lasciati indietro la palude da alcuni minuti quando il capitano
è
caduto a terra in ginocchio, ansimante. Già da un
po’ lo avevo
distanziato nella corsa, ma non pensavo che la causa potesse essere
diversa dall’emorragia provocata dalla ferita.
La
prima volta si è rialzato da solo, allontanando la mano con
cui
cercavo di aiutarlo a risollevarsi. Credo abbia dovuto fare forza
contro se stesso per trovare le energie necessarie a rimettersi in
piedi... non l’avevo mai visto così pallido! Aveva
fretta che ci
rimettessimo in marcia per non perdere il piccolo vantaggio
accumulato sui nostri inseguitori.
Ma
siamo riusciti a fare solo poche centinaia di metri prima che lui si
sentisse male di nuovo. L’ho visto cadere e sono tornata
subito sui
miei passi, decisa a sorreggerlo con le mie spalle se fosse stato
necessario. Non avrei ammesso alcun rifiuto, perché dentro
di me già
temevo che mi ordinasse di andare avanti da sola. L’avrebbe
fatto,
ne sono sicura, è tipico del suo cuore generoso. Lo avrebbe
fatto,
se solo ne fosse stato in grado.
Quando
mi sono chinata su di lui, Harlock ansimava in preda a forti dolori:
le braccia strette al petto, gli occhi serrati, sembrava quasi
insensibile ad ogni mia parola, ad ogni mio richiamo, ad ogni
tentativo di farlo rialzare per aiutarlo a fuggire via con me.
Ad
un tratto ho sentito che sussurrava il mio nome. Una supplica. Ed ho
capito che mi invitava a scappare senza di lui.
“No”
gli ho risposto “No, non lo farò mai. Io resto qui
con voi! Resto
qui: la mia pistola basterà per tutti e due!”
Sapevo
bene che non poteva essere così, perché le
mazoniane erano ancora
troppe, nonostante nel primo scontro fossimo riusciti a ucciderne un
gran numero. Non avrei mai potuto eliminarle tutte da sola. Ma avrei
potuto fargli scudo con il mio corpo fino all’ultimo,se fosse
stato
necessario, e salvargli la vita. O morire con lui.
Ero
praticamente sopra di lui, la pistola spianata, tutti i sensi vigili
per captare ogni minimo rumore, ogni più debole movimento,
quando ho
sentito qualcosa che mi sfiorava una caviglia. Mi sono voltata, in
allarme: era il capitano. Mi aveva toccato le gambe con le dita
tremanti e ora mi fissava, il suo unico occhio sbarrato... Mi sono
chinata su di lui, senza sapere che fare, temendo il peggio.
“Fammi
rialzare...” mi ha sussurrato.
Ho
annuito, le mani febbrili che cercavano di afferrarlo sotto le
braccia per tirarlo su.
“Ci
penso io capitano, vi rialzo, vi porto via... adesso...”
“No”
ha detto lui, la voce roca che stentavo a riconoscere
“Voglio...
combattere...”
Avrei
dovuto immaginarlo!
Non
mi avrebbe mai lasciata da sola a battermi contro le mazoniane,
né
avrebbe accettato di concludere la sua vita come un coniglio in fuga.
Ho
dovuto fare come mi diceva... Anche se avrei preferito disubbidire ai
suoi ordini. Ma come potevo contrariarlo dopo che era stato proprio a
causa della mia insubordinazione che lui si era ritrovato in questa
situazione?
E
soprattutto, come potevo dirgli di no quando il suo sguardo mi
ordinava e supplicava allo stesso tempo di lasciargli decidere come
voleva morire?
Con
la sinistra premuta al centro del petto, seduto con una gamba distesa
a terra e l’altra raccolta, la destra che reggeva con
saldezza la
cosmo dragoon come se il resto del corpo non fosse in preda a spasmi
dolorosi, il capitano si preparava ad affrontare le mazoniane che ci
avevano praticamente raggiunti. Le potevamo avvertire mentre si
appostavano dietro agli alberi, in attesa che tutte le unità
da
combattimento fossero al loro posto prima di attaccare. O forse,
vedendoci ancora lì allo scoperto in attesa del loro arrivo,
erano
convinte che gli avessimo teso una trappola.
Sentivo
la schiena del capitano appoggiata alle mie gambe, rigida per
controllare i tremori che attraversavano ogni muscolo del suo corpo,
e la sua presenza vigile e calda bastava a infondermi una calma
innaturale. Avrei combattuto per lui, per riportarlo vivo
sull’Arcadia dove il dottor Zero avrebbe potuto curarlo.
Le
mazoniane erano tutte in postazione: riuscivo a cogliere i cenni e i
comandi che si scambiavano oltre il fogliame rigoglioso. Sapevo che
stavano per fare fuoco, ma noi eravamo pronti a riceverle.
La
salvezza giunse dal cielo, inaspettata, assieme al ringhio selvaggio
del motore del Lupo spaziale e a una raffica di colpi che falciarono
la prima linea di soldati, incendiarono gli alberi e sfiorarono le
nostre teste con un vento caldo. Non sono mai stata così
felice di
vedere Tadashi!
Fortunatamente,
riuscì ad atterrare poco lontano con la sua navetta, quando
ormai le
mazoniane non erano altre che torce vive che urlavano di dolore o
cumuli di cenere dispersi dal vento.
Assieme,
abbiamo portato a spalle il capitano fino al Lupo spaziale di Tadashi
e io sono ripartita da sola con quello di Harlock: Daiba lo aveva
visto dall’alto mentre sorvolava la foresta e mi ha scortata
fino a
lì. Nonostante fossimo riusciti a scampare
all’attacco delle
mazoniane, io non riuscivo a sentirmi sollevata, troppo in ansia per
le condizioni del nostro capitano... E avevo ragione, purtroppo!
Quando
siamo arrivati sull’Arcadia, Harlock aveva ormai perso
conoscenza.
Il dottor Zero l’ha fatto portare immediatamente in
infermeria...
Aveva già la febbre alta e il suo corpo era contratto da
spasimi
dolorosi.
Adesso
non so come stia: il dottore è sempre là con lui
e credo che abbia
anche ultimato tutte le analisi, ma non ci ha ancora detto che cosa
ha scoperto. O forse preferisce non farcelo sapere...
Mio
Dio, che angoscia! E se Harlock dovesse morire? Non potrei mai
perdonarmelo!
Io
vorrei solo che guarisse, qualsiasi siano le conseguenze della
contaminazione.
Mi
chiamano dall’infermeria: notizie del capitano! Devo correre!
Yuki
|
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Capitolo 2 *** Conseguenze inaspettate ***
Conseguenze
inaspettate
Dalla
cartella clinica di Harlock
Ore
23.10 secondo il fuso terrestre
La
temperatura del capitano continua ad aumentare. Quando è
arrivato in
infermeria superava di poco i 38° C. Sono passate meno di due
ore ed
è quasi 40°. Nonostante gli antipiretici. Poco fa
gli ho
somministrato la dose massima di Zakimin consentita, ma il
paracetamolo non ha avuto nessun effetto significativo, se non quello
di tenere la febbre al di sotto dei 41°, almeno per adesso.
Le pulsazioni sono
molto accelerate e il battito è aritmico. Sto cercando di
tenere il
suo cuore sotto osservazione tramite l’elettrocardiogramma,
ma non
è facile perché il dolore e gli spasimi
improvvisi gli impediscono
di restare fermo nel letto.
E’ cosciente
solo a tratti.
Ore
24.00 secondo il fuso terrestre
La temperatura è
aumentata di nuovo, mantenendosi però di poco al di sopra
dei 41°.
Da quando il capitano è stato portato qui, Mime non lascia
mai
l’infermeria e fin’ora è stata una
preziosa assistente. Mi ha
aiutato meglio di quanto avrebbe potuto fare Masu-san, troppo piccola
per darmi una mano a tenere fermo il capitano nel suo letto, o Yuki,
che con i suoi sensi di colpa rischiava di avere un crollo
psicologico nel vedere Harlock in queste condizioni. Ho detto che me
la sarei cavata da solo e l’ho mandata a riposare, ma non
credo
riuscirà a dormire, povera ragazza.
Ho lasciato a
Mime il compito di eseguire delle spugnature di acqua fresca al
capitano: pur non essendo cosciente, credo preferisca di gran lunga
le affusolate mani di lei alle mie, per quanto siano più
esperte.
Il battito resta
molto accelerato e aritmico, le contrazioni muscolari improvvise non
sono ancora cessate. Ho prelevato del sangue per analizzarlo ma
è
difficile avere un quadro chiaro del tipo di contaminazione che il
capitano ha subito: le sostanze presenti su Eden sono così
misteriose e si comportano in modi talmente imprevedibili che non
sono in grado di immaginare quali saranno le conseguenze di questo
contagio. Ammesso che Harlock sopravviva. E’
un’eventualità che
la mia mente si rifiuta di considerare ma, come medico, non posso
fare a meno di ritenerla uno degli esiti possibili di un quadro
clinico così difficile.
Ore
01.40 secondo il fuso terreste
Il capitano dorme,
finalmente. Le convulsioni sono cessate, lentamente, poco fa.
La
temperatura
è scesa un po’ e si è stabilizzata
attorno ai 40°. Spero che la
dose di paracetamolo che gli ho appena somministrato lo aiuti a
riportarla su valori accettabili.
Il battito
cardiaco e la pressione sanguigna restano invece ben oltre la norma.
Sono intervenuto più volte per cercare di regolarizzare
anche questi
parametri, ma il fatto che le sostanze con cui è venuto a
contatto
mi restino sconosciute complica le cose e rende difficile la
somministrazione di una terapia adeguata.
Purtroppo le
analisi che ho effettuato sui campioni di sangue non hanno dato i
risultati ‘illuminanti’ che speravo.
Ore
03.20 secondo il fuso terrestre
Questa dovrebbe
essere una cartella clinica ma al momento non riesco a pensare a un
posto migliore dove scrivere quello che è successo. E credo
di avere
proprio bisogno di mettere nero su bianco due righe per riordinare le
idee...
Avevo
appena
mandato Mime a prendere dell’alcool nella sua stanza. La mia
riserva era finita (si capisce, con una nottata così lunga e
difficile!), anzi, stavo giusto sorseggiando l’ultimo
bicchierino,
con Mi acciambellata tra le mie gambe che dormiva, quando il bip
bip allarmato
proveniente dai
pannelli di controllo mi ha fatto sobbalzare. Ho capito subito cosa
doveva essere: l’elettrocardiogramma dava segnale piatto.
“Ecco,
troppo bello per essere vero”, mi sono detto
“Troppo bello che il
capitano stesse davvero migliorando”.
Ovviamente mi
sono precipitato di là. Ma la scena non era proprio come me
l’ero
figurata... Nel letto non c’era più nessuno: vuoto
e disfatto, mi
guardava come un enigma. Ma quando ho alzato lo sguardo l’ho
visto,
ho visto il capitano. All’inizio ho stentato a riconoscerlo,
è
naturale: chi non avrebbe avuto dei dubbi?
Era
in piedi
davanti allo specchio, nudo, e mi dava le spalle. In un primo momento
ho pensato persino che fosse Tadashi, ma le differenze erano
troppe... A cominciare dall’altezza: anche in quelle
condizioni, il
capitano resta più alto di Daiba almeno di una testa. E poi
cosa ci
sarebbe stato a fare Tadashi in infermeria, nudo, davanti allo
specchio?
Ho chiamato il
capitano a bassa voce, per non spaventarlo. In certi momenti
è
meglio usare molta prudenza, per non provocare traumi in soggetti
potenzialmente in uno stato di squilibrio psichico. Quando ha sentito
il suo nome, però, si è voltato subito e mi ha
guardato con occhi
spiritati, increduli. Ho temuto che non mi riconoscesse. L’ho
chiamato di nuovo, avvicinandomi con cautela e lui mi ha risposto,
con un filo di voce. Mi sembrava scosso. E del resto, chi non lo
sarebbe stato nel ritrovarsi, nel giro di così poche ore,
talmente
diverso? Nel ritrovarsi con almeno la metà dei propri anni?
Perché
quello che avevo davanti era solo un ragazzo che non poteva avere
più
di quindici anni.
Il capitano si
è lasciato cadere sul letto, gemendo e stringendosi la testa
fra le
mani.
“Che mi è
successo?” gli ho sentito dire.
“Vorrei tanto
saperlo anch’io” stavo per rispondergli, ma mi sono
guardato bene
dal farlo. Per il suo bene, dovevo riuscire il più
rassicurante
possibile.
In quel momento
è entrata Mime e ne sono stato proprio felice. Lei almeno sa
come
prendere Harlock nei momenti difficili. Forse era già
entrata da
qualche istante, ma mi sono accorto di lei solo quando mi è
passata
accanto, con il fruscio inconfondibile della sua veste. Ha preso la
coperta dal letto e l’ha gettata addosso al capitano,
avvolgendolo
con dolcezza, poi si è seduta accanto a lui sulla sponda del
letto e
gli ha messo una mano sulla spalla. Harlock ha sospirato e lei gli ha
sorriso con gli occhi, in quel suo modo così espressivo.
Avrei
voluto lasciarli soli ma in qualità di medico di bordo
dovevo
rendermi conto di quali fossero le reali condizioni psicologiche del
capitano, così sono rimasto un po’ indietro a
seguire il loro
dialogo, in attesa di poterlo visitare in modo approfondito.
“Sono contenta
che tu stia meglio, Harlock, e soprattutto, che tu sia ancora
vivo!”
ha detto Mime.
Santa donna,
solo lei poteva riuscire a trovare qualcosa di buono in un momento
simile! Ma del resto ha ragione: abbiamo ancora il nostro capitano,
mentre avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di mostruoso o di
insenziente. O avrebbe potuto morire.
Harlock ha
sospirato e l’ha guardata, non proprio rincuorato.
“Suppongo che
dovrei essere felice perché avrebbe potuto andarmi peggio...
molto
peggio.”
Mime
l’ha
accarezzato scompigliandogli i capelli e lui l’ha guardata
sbalordito, sgranando tanto d’occhi. Capisco che non debba
avergli
fatto per niente piacere quel tipo di confidenza da parte sua... Se
il loro rapporto, in privato, è mai stato di qualche natura
diversa
dall’amore platonico, beh... non credo sia mai stato vicino a
quello tra madre e figlio o, nella migliore delle ipotesi, tra
sorella maggiore e fratello, come era in quel momento.
“Non hai più la
cicatrice, hai visto?” ha continuato Mime.
Sul momento
Harlock sembrava non aver capito, poi si è riscosso ed
è tornato a
guardarsi allo specchio.
“Io... non ci
avevo fatto caso, ero troppo preso a rendermi conto di quanti anni
mi fossero stati improvvisamente tolti e di come fosse cambiato il
mio corpo nel suo complesso.” ha risposto.
Ha osservato
per un po’ la sua immagine riflessa, poi con gesti lenti,
quasi
seguisse un rituale, si è tolto la benda
dall’occhio destro. Non
so come sia possibile, per ora la medicina non ha una risposta per
una cosa del genere ma... ci vedeva! L’occhio destro era al
suo
posto, perfettamente ricostituito e, a quanto pare, ci vede come
l’altro.
A quel punto,
infatti, sono intervenuto io in qualità di medico e ho
voluto
visitare Harlock con la cura che le circostanze mi richiedevano e
devo dire che l’esito è piuttosto confortante: il
nostro capitano
sembra godere di ottima salute, nonostante la febbre e i dolori delle
ore precedenti. Inoltre è ancora nel pieno delle sue
facoltà
mentali e in possesso di tutti i suoi ricordi. Ha riconosciuto tutti
i membri dell’equipaggio, che gli ho mostrato attraverso
delle
schede, sa dove siamo e cosa stiamo facendo e questa non è
una cosa
da poco se teniamo conto che c’è ancora una guerra
da combattere!
E una nemica come Raflesia che ora più che mai è
alle porte.
Forse
dovremo
accontentarci di avere un capitano in miniatura (si fa per dire, dato
che è sempre uno stangone), ma non un capitano menomato
delle sue
conoscenze. Sarà ancora la nostra guida contro Raflesia, il
nostro
stratega, il nostro leader carismatico... O almeno... lo spero.
Harlock ha detto
che si sentiva meglio e voleva lasciare l’infermeria ma ho
insistito perché passasse qui il resto della notte, in modo
che
potessi tenerlo sotto controllo, del caso la situazione fosse mutata
improvvisamente. Fortunatamente, fin’ora è tutto
tranquillo.
Aspetterò
ancora un paio d’ore, poi chiamerò Yuki: il
capitano ha chiesto di
lei, voleva sapere se stava bene, dato che non riusciva a ricordare
come si erano messi in salvo e se Kei fosse rimasta ferita. Ma ho
preferito lasciarla riposare ancora un po’, povera Yuki:
credo ne
abbia di bisogno dopo quello che ha passato. Però sono
sicuro che
sarà molto contenta di sapere che il capitano è
fuori pericolo: si
sentiva così in colpa.
Spero solo che
questa novità su di lui non la turbi troppo... Dopotutto,
ora, hanno
praticamente la stessa età. E si sa come sono i giovani. Non
mi devo
dimenticare però che il capitano resta pur sempre un uomo
maturo,
coscienzioso e responsabile. Avrà giudizio per tutti e due.
Per leggere questa
storia con il font con il quale è stata scritta è
necessario installare un apposito carattere (Kingthings Trypewriter),
completamente free, che si trova a questo indirizzo
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Capitolo 3 *** Una nuova vita ***
Una
nuova vita
Dai
files del tablet di Tadashi
Il
capitano è vivo. Questo è un dato positivo. Forse
il solo dato
positivo, perché tutto il resto...
Ma
andiamo con ordine: credo sia l’unico modo per fare chiarezza
anche
nella mia testa.
Stavo
percorrendo il corridoio su cui si affacciano le cabine
dell’equipaggio quando ho visto Yuki uscire di corsa dalla
sua
stanza. Ho immaginato subito che si trattava del capitano e le sono
andato dietro. Mi sono spaventato, è evidente:
anch’io ero
preoccupato per Harlock e... sì, certo, mi sentivo in colpa,
in
parte.
Anche
se non è stato certo per proteggere me che è
rimasto ferito. Yuki
mi ha subito detto che era stato il dottor Zero a chiamarla e che
Harlock aveva ripreso conoscenza. Non sapeva nient’altro. E
di
certo nessuno di noi si aspettava di trovare quella... sorpresa.
Quando
l’ho visto ho stentato a riconoscerlo. Lui ci ha salutato
subito,
forse per darci un indizio, perché capissimo che era lui e
che ci
riconosceva ancora. Io sono rimasto piuttosto scosso ma, come ho
scritto all’inizio, il capitano era vivo e questo era di
certo un
bene. Credevo che per Yuki invece sarebbe stato uno shock molto
più
forte. Invece l’ha presa molto meglio di quanto mi
aspettassi.
All’inizio è rimasta impietrita, ma poi gli
è corsa incontro e
gli ha gettato le braccia al collo, scoppiando in un pianto dirotto.
Harlock
ci è rimasto di sasso, proprio come me e il dottor Zero.
Mime invece
si è avvicinata a Yuki e le ha accarezzato i capelli con
fare
materno, come a consolarla.
Anche
Harlock ha cercato di tranquillizzarla:
-
Sto bene, Yuki. - le ha detto.
Forse
non sapeva bene neanche lui come comportarsi, credo che fosse
spiazzato quanto me... ma comunque sia alla fine, invece di lasciare
Yuki alle cure di Mime come tutti noi ci saremmo aspettati,
l’ha
abbracciata. E l’ha tenuta stretta finché non ha
smesso di
singhiozzare!
Già
questo avrebbe dovuto bastare come campanello d’allarme.
Harlock
non l’avrebbe mai fatto, ne sono sicuro.
Yuki
era troppo contenta per rendersene conto. Continuava a ripetere che
le dispiaceva, a scusarsi, a dire quanto era felice che si fosse
ripreso. E più tardi, quando siamo usciti assieme
dall’infermeria
e ho cercato di farle notare che il capitano stava bene, sì,
ma
aveva almeno dieci anni di meno, lei ha minimizzato, liquidando
questo fatto come un particolare di poco conto.
-
L’importante è che sia vivo. - continuava a
ripetere - Al resto
c’è rimedio. Vedrai che il dottor Zero
troverà una cura: è un
medico in gamba, anche se non sembra. Torneremo sul pianeta Eden e
preleveremo dei campioni d’acqua dalla palude... riusciremo a
capire che tipo di sostanza lo ha contaminato.
Quando
le ho fatto notare, con molto tatto, che avrebbe potuto rivelarsi
un’impresa impossibile (so meglio di lei che in quella palude
le
sostanze contaminanti sono centinaia, non una soltanto!), Yuki mi ha
zittito dicendo che comunque, nella peggiore delle ipotesi, Harlock
avrebbe semplicemente dovuto invecchiare di nuovo, e questo non le
sembrava un problema.
Invece,
da quello che stiamo vedendo in questi giorni, non si tratta
semplicemente di “invecchiare di nuovo”...
La
reazione del resto dell’equipaggio è stata
altrettanto incredula:
quando Harlock è passato per i corridoi diretto in sala
comandi c’è
stato chi ha sputato tutto il ramen che stava
mangiando e chi
si è limitato a spalancare occhi e bocca, come un siluro in
cerca di
una preda... Harlock non ha degnato nessuno di una spiegazione e ha
tirato dritto per la sua strada, dimostrandosi in questo del tutto
coerente con il se stesso di prima, ma io ho notato che, per un
attimo, un sorriso ironico gli è spuntato sulle labbra.
Le
reazioni sul ponte di comando non sono state da meno e lo stupore
l’ha fatta da padrone: evidentemente, il dottor Zero, che
aveva
promesso di occuparsi di avvertire tutto l’equipaggio, si era
limitato a segnalare qualche generico “effetto
collaterale” senza
scendere nei dettagli, perché nessuno sapeva del
ringiovanimento di
Harlock.
Così,
quando il capitano è entrato, Yattaran ha rischiato di
lasciar
cadere il modellino che stava incollando con tanta cura e il
“che
mi venga un colpo!” di Maji è stato il commento
più appropriato
fra tutti quelli che ho sentito in sala comandi. Harlock si
è
limitato a sorridere davanti a quelle reazioni, prima di essere
subissato dalle domande: credo che molti, proprio come me, volessero
capire se era davvero ancora lui e soprattutto se era ancora in grado
di essere un comandante.
In
un certo senso credo che Harlock li abbia rassicurati tutti quanti,
dando prova di ricordarsi di ognuno di loro e di sapere perfettamente
contro chi stavamo combattendo e perché... Ma io non ho
potuto fare
a meno di ascoltare con una punta di sospetto ogni sua risposta... il
perché è difficile da spiegare... ma temo...
sì, temo che lui
sappia di non essere più quello di prima, e che faccia di
tutto per
nasconderlo.
Devo
aggiungere che, secondo me, anche la sua scelta di una nuova divisa
deve aver contribuito a generare certe reazioni stupefatte in tutto
l’equipaggio, creando l’effetto “estraneo
a bordo”.
Già,
perché il capitano ha provato i suoi soliti vestiti, ma si
è reso
conto che gli andavano un pochino grandi: oltre ad aver perso una
decina di centimetri in altezza, sembra abbia perso anche qualche
chilo rispetto a prima. Così si è fatto fare una
nuova uniforme dal
reparto sartoria, pensando bene di cambiare anche il modello. E
certo, l’altra ormai era fuori moda! E poi il mantello...
roba da
vecchi!
Meglio
un’uniforme tutta nera e attillata, con il classico collo
alto
stile impero, che fa figo...
Non
ho commentato: non mi sembrava il caso dopo che la sua trasformazione
era in parte causata da una mia insubordinazione... ma le donne
dell’astronave è parso che gradissero molto, a
partire dalla
signora Masu, che è stata la prima a vederlo quando
è passato
davanti alle cucine, per finire con Yuki, che è rimasta
imbambolata
a guardarlo per un intero minuto dopo che Harlock ha fatto il suo
ingresso in sala comandi.
Inizialmente,
quando ha ripreso a tutti gli effetti il suo ruolo di capitano, tutto
sembrava nella norma: il suo consueto piglio deciso ogni volta che
bisogna prendere una decisione, la ponderatezza nel calcolare le
mosse nemiche, lo spirito intrepido quando c’è da
intraprendere
una missione difficile... Ma sotto c’era molto di
più di quello
che noi riuscivamo a scorgere. C’era l’incoscienza
di un ragazzo!
E non solo l’incoscienza...
Io
me ne sono accorto già nel corso delle ultime battaglie
contro le
mazoniane, poco dopo la sua trasformazione, ma è stato
quando
abbiamo fatto sosta sull’isola Ombra di Morte che la cosa
è
divenuta lampante. A me, almeno.
Era
trascorso solo un giorno da che il capitano si era trasformato,
infatti, quando siamo stati attaccati nuovamente dalle mazoniane. Ci
stavamo dirigendo verso il piccolo pianeta B13, nostra meta prima
ancora della vicenda di Eden, dove pensavamo fosse stata installata
una base nemica, quando una formazione di caccia mazoniani è
comparsa sui nostri radar. Non era molto numerosa, ma poco lontano
dovevano esserci le navi madre perché, dopo che abbiamo
sbaragliato
la prima squadriglia, ne è arrivata subito una seconda. E
poi una
terza e una quarta... sempre più numerose. Questo era un
segno
inequivocabile della presenza di una base nemica sul pianeta B13!
La
battaglia è stata molto dura: credevamo di essere incappati
in una
delle solite brevi scaramucce con qualche navetta da ricognizione e
invece si trattava di una vera e propria imboscata: le navi madre,
molto più numerose di quello che credevamo
all’inizio, ci
aspettavano al varco, nascoste dietro il pianeta B13.
Il
comportamento che Harlock ha tenuto nelle fasi iniziali della
battaglia non ha destato in me alcun sospetto: ci ha guidato con la
consueta sicurezza, prendendo anche decisioni intrepide. Fin troppo
intrepide, mi sono poi reso conto!
Infatti
ad un certo punto, dopo una serie di scontri piuttosto cruenti tra i
nostri caccia e quelli nemici, Harlock sembrava essersi stancato
della battaglia... quasi annoiato.
Io
ero a capo di uno squadrone e stavo inseguendo alcune mazoniane
fuggitive (non è mia abitudine permettere a quelle dannate
di
lasciare indenni il campo di battaglia), quando il capitano ha
richiamando a bordo tutti i Lupi Spaziali!
Ho
protestato, ma Harlock è stato irremovibile.
-
Esegui l’ordine, Tadashi! - mi ha intimato.
Memore
degli ultimi eventi, ho voluto ubbidire. Del resto, il suo tono era
così perentorio che non ammetteva repliche e in questo
sembrava
davvero, in tutto e per tutto, il nostro capitano di un tempo, anche
se un poco più spazientito di come me lo ricordavo.
Siamo
rientrati tutti rapidamente perché lui
sembrava avere una fretta del diavolo.
Soltanto
una volta tornato sull’Arcadia ho capito qual’era
il suo piano.
Poco prima che desse l’ordine di rientrare, infatti, la
nostra
astronave era stata colpita su una fiancata in maniera pesante,
proprio nella zona in cui si trovano i reparti addetti al controllo
del nostro armamento: un’azione suicida di alcuni piloti
mazoniani
che si erano volontariamente schiantati con le loro navette contro di
noi... Non c’erano stati danni seri: avremmo potuto
continuare a
combattere, in attesa di poter riparare i danni.
Ma
Harlock aveva un’altra idea in mente.
Ha
preferito ingannare le mazoniane, ha preferito simulare che non
fossimo più in grado di usare alcun tipo di arma: e per
questo ha
dato ordine che un denso fumo nero si levasse dal fianco destro
dell’astronave, ma soprattutto ha ordinato che cessassimo il
fuoco!
L’Arcadia
ha continuato ad avanzare verso le navi nemiche, sotto il fuoco
pesante delle loro artiglierie, difesa solo da una temporanea
barriera di energia che attutiva i colpi più forti, ma non
la
risparmiava completamente dal subire danni.
Il
capitano stava in piedi davanti al timone, le mani serrate attorno
alle manopole della ruota, lo sguardo fisso davanti a sé...
Mi
sembrava preoccupato, come se si fosse reso conto della
temerarietà
della sua idea solo quando l’Arcadia si inclinava sempre
più sotto
le raffiche dei colpi nemici, bersagliata dai caccia e dalle grosse
navi corazzate.
Sono
sicuro che i comandanti delle diverse squadriglie si sfregavano le
mani dalla gioia nel vederci cadere, come un bocconcino prelibato,
nelle loro fauci.
Io
non ce l’ho più fatta a tacere... beh, certo, in
verità avevo già
tentato di dissuaderlo da questa impresa quando ne aveva avuto
l’idea. Ma in quel momento sono andato da lui vicino al
timone e
gli ho intimato di smetterla con questo giochetto, se voleva salvare
la sua amata nave.
-
O devo pensare che non te ne importa più niente, Harlock? -
ho
concluso. Tutti gli ufficiali di plancia, Yuki in testa, mi
guardavano allibiti, ma io non mi sono lasciato intimorire dai loro
sguardi. Ho continuato a fissare Harlock in modo truce... e lui ha
contraccambiato il mio sguardo con un sorriso di scherno, gli occhi
che gli brillavano. Non dimenticherò mai quello sguardo!
Poi
è tornato a fissare lo schermo davanti a sé.
-
Eccole che vengono ad accoglierci... - ha detto sottovoce, quasi
parlando tra sé o con la stessa Arcadia, osservando le
astronavi che
avanzavano verso di noi a breve distanza una dall’altra e non
più
in formazione.
E
poi ha ripreso a dare ordini, la voce stentorea che rimbalzava da un
capo all’altro del ponte
-
Diamo loro il nostro benvenuto: Arcadia, motori a tutta forza! Fuori
il rostro di prua!
-
Motori a tutta forza e fuori il rostro! – gli ha fatto eco
Yattaran... come se ce ne fosse stato bisogno!
-
Cosa vuoi fare, Harlock? - gli ho bloccato un braccio con entrambe le
mani, il braccio con cui si apprestava a far girare la ruota del
timone ancora saldamente in mano sua.
-
E’ semplice: voglio speronarle una dopo l’altra
come fossero uno
spiedino! - aveva ancora quel sorriso divertito stampato in faccia!
In quel momento, lo avrei preso a schiaffi!
Ma
Harlock, con uno strattone, si è liberato dalla mia presa:
nonostante sia diventato più giovane, conserva un nervo
davvero
invidiabile!
L’Arcadia
si è raddrizzata per poi di nuovo piegarsi su un fianco,
filando
dritta verso la prima delle astronavi nemiche.
Nessuna
di loro ha fatto in tempo a scappare: anche se le ultime hanno
cercato di fare dietro front, l’Arcadia le ha raggiunte in
extremis, speronandole senza pietà. Io ho distolto gli occhi
dalla
scena che si consumava sui monitor solo per fissarli addosso ad
Harlock ed ogni volta aveva lo stesso sguardo soddisfatto, gli stessi
occhi sfavillanti. Non sorrideva, forse perché non si
compiaceva del
massacro. Ma era comunque soddisfatto della sua
“bella” impresa,
ne sono più che convinto!
I
caccia mazoniani, ormai privi del supporto delle navi più
grosse, se
la sono filata a gran velocità. Naturalmente, Harlock non ha
ritenuto necessario inseguirli.
Alla
fine ci sono state urla di esultanza e il ponte si è
riempito del
vociare degli uomini che osannavano il capitano e la sua
spregiudicatezza. Harlock ha riso quando Yattaran gli ha detto che
quello era stato il più spettacolare degli speronamenti che
avessimo
mai fatto e poco dopo l’ho sentito ringraziare con voce calda
persino Yuki, che si era avvicinata per complimentarsi con lui.
Tutte
queste reazioni mi arrivavano solo attraverso le voci e le grida
dell’equipaggio perché, da quando la battaglia era
finita, avevo
smesso di seguire quello che accadeva in sala comandi. E dopo poco
sono uscito dalla stanza... ero nauseato e la testa mi scoppiava,
mentre una sola domanda si avvolgeva su e giù nella mia
mente come
una spirale di fumo: che ne sarà di noi, d’ora in
avanti, sotto la
sua guida?
La
notte è molto avanzata e devo cercare di dormire almeno un
po’.
Domani scriverò di ciò che è accaduto
su Ombra di Morte: ho molto
da riflettere su quegli avvenimenti... anche se so che può
sembrare
incredibile che sia così dopo queste ultime annotazioni.
Tadashi
Nota:
ho scritto questo capitolo utilizzando il font OCR A Extended, per
creare l'effetto schermo di computer in stile sci-fi.
|
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Capitolo 4 *** Tra sabbia e onde ***
Tra
sabbia e onde
Dai
files del tablet di Tadashi
Ombra
di Morte... La decisione di rifugiarci sulla nostra base segreta era
inevitabile, dopo gli ultimi violenti scontri: tutto
l’equipaggio
aveva bisogno di riposo e l’Arcadia necessitava di
riparazioni
urgenti.
Dopo
esserci allontanati dal pianeta B13 verso una zona più
sicura,
Harlock ha dato ordine di richiamare Ombra di Morte e ha impartito
ordini e diviso compiti tra tutto l’equipaggio con la solita
sicurezza, ben conoscendo capacità e mansioni di ciascuno.
L’unica
macroscopica differenza tra il passato e il presente, tra
l’Harlock
che conoscevo e quello di adesso, è che prima
di dare inizio
alle riparazioni ha concesso mezza giornata di riposo a tutti. Io
credo, anzi, sono convinto che, nella situazione in cui eravamo,
sarebbe stato indispensabile rimettere subito in sesto
l’astronave,
per non ritrovarci impreparati davanti ad un improvviso attacco
mazoniano. Solo dopo l’equipaggio avrebbe
dovuto riposarsi,
com’è giusto.
Ma
Harlock ha creduto che fosse bene fare diversamente. Non penso che
questa sarebbe stata la sua scelta se fosse stato “in
sè”.
Appena
sceso, ciascuno si è diretto alle sue consuete occupazioni:
Yattaran
al laboratorio, Mime e il dottor Zero verso la riserva speciale della
cantina... Yuki al mare...
Anzi,
ci siamo andati assieme al mare: pensavo che fosse ancora provata per
quello che era accaduto sul pianeta Eden, così ho creduto
che fosse
una buona cosa tenerle compagnia. Io ho portato l’ombrellone
e un
piccolo frigo pieno di bibite ghiacciate, Yuki i teli da mare: era
allegra e rilassata e lungo il tragitto non abbiamo fatto altro che
ridere e chiacchierare. Stavamo benissimo da soli. Ma non è
durata
molto.
Stavamo
prendendo il sole sdraiati uno di fianco all’altra,
ascoltando
vecchie musiche del XXI secolo a tutto volume, quando è
arrivato
lui.
-
Sapevo di trovarvi qui. - ha detto, mentre la sua ombra ci copriva
entrambi.
Non
potevo credere ai miei occhi e anche Yuki sembrava parecchio
sorpresa: Harlock era davanti a noi, in costume! E non uno di quelli
lunghi tipo bermuda, ma un pantaloncino nero leggermente attillato
che gli metteva in risalto il lato B più di quanto non
meritasse!
Forse
anche lui aveva pensato che fosse giusto tenere compagnia a Yuki dopo
l’ansia patita nei giorni passati, non lo so... Del resto mi
chiedo: per quale motivo ha voluto raggiungerci, dato che non lo
aveva mai fatto prima? Anche nei momenti di riposo su Ombra di Morte,
Harlock non si era mai veramente svagato. Mai prima d’ora.
Dato
che nessuno di noi due riusciva a dire niente è stato lui a
proseguire:
-
Con una bella giornata così non avete niente di meglio da
fare che
starvene immobili sotto il sole come due lucertole?
Approfittiamo
proprio di una bella giornata di sole per prendere un po’ di
abbronzatura, avrei voluto rispondergli. Nello spazio
c’è sempre
buoi, se non te ne sei ancora accorto...
Intanto
Yuki si era alzata e gli aveva chiesto di restare lì con
noi,
offrendogli persino il suo asciugamano. Ma lui ha risposto che
preferiva l’acqua alla sabbia.
-
Facciamo un giro! Ombra di Morte riserva infinite sorprese. - ha
detto.
Yuki
era raggiante e ha accettato subito, insistendo perché
venissi
anch’io. E’ stata molto gentile, ma in
verità avevo già deciso
di non lasciarla sola con quel nuovo Harlock dalla
personalità
sconosciuta.
E
così, abbandonati ombrellone e teli da mare, ci siamo
incamminati
dietro a lui, che sorrideva come mai prima gli avevo visto fare,
mentre Yuki si sforzava di tenere il suo passo per camminargli sempre
al fianco, tenendosi con una mano il largo cappello di paglia per
impedire al vento di portarglielo via.
-
Questo posto... per quante volte ci venga, è sempre
affascinante:
sembra incredibile che un cielo e un mare come questi siano racchiusi
dentro un asteroide artificiale! - ho detto ad un certo punto,
rimirando l’orizzonte del quale non si vedeva la fine, come
se
fossimo stati davvero su di un’isola sperduta in mezzo
all’oceano.
-
Sì... un microcosmo puro e perfetto creato apposta per noi,
come un
Paradiso Terrestre. - ha assentito Harlock e quelle parole,
pronunciate dalla sua voce calda, suonavano ancora più
convincenti.
Poi ha disteso un braccio in direzione di un’ansa della
spiaggia,
leggermente nascosta da un gruppo di palme cresciute fino a lambire
il mare.
-
Laggiù c’è sempre una piccola barca
ormeggiata: prendiamola per
fare un giro al largo!
-
Oh, sì, che bella idea capitano! - ha esclamato subito Yuki.
Non
volevo mettere in dubbio la sua parola, ma sul momento pensavo
davvero che si ricordasse male: non avevo mai visto barche ormeggiate
lì nei dintorni. Però devo ammettere che aveva
ragione lui, dato
che la barca era là, sulla spiaggia. Io non mi ero mai
spinto così
lontano, in quella direzione.
Harlock
e Yuki hanno raggiunto di corsa l’insenatura, sparendo poi
alla mia
vista per alcuni minuti. Non avevo voglia di corrergli dietro. Se
volevano fare il giro in barca avrebbero dovuto aspettarmi comunque:
il mio aiuto era indispensabile per mettere in acqua
l’imbarcazione,
Yuki non era abbastanza forte. E infatti, quando sono arrivato, lei e
Harlock erano ancora seduti sulla sponda della barca a chiacchierare.
-
Eccoti qui, finalmente! - ha detto il capitano appena mi ha visto,
venendomi incontro. Non sembrava per niente spazientito, anzi!
Avevano entrambi l’aria di essersi riposati, prendendosela
comoda.
-
Su forza, diamoci da fare! Anche su Ombra di Morte prima o poi il
sole tramonta! - sempre sorridendo mi ha dato un pacca sulla spalla,
come tra vecchi amici e mi ha fatto cenno di aiutarlo.
La
barca è scivolata dolcemente nell’acqua, spinta
dalle nostre
braccia, mentre Yuki, già seduta a bordo, ci guardava tutta
felice.
Sembrava una gita tra amici, la libera uscita di tre adolescenti per
la prima volta lontani dal controllo dei genitori. Almeno,
l’entusiasmo di Harlock per ogni cosa mi ha fatto sorgere
questo
pensiero... e anche l’entusiasmo di Yuki, a dire il vero. La
barca
era piccola, con una sola vela e scorreva veloce sulle onde, seguendo
il nostro capriccio.
Forse
è solo una mia idea, non lo so... forse mi sono fatto troppo
sospettoso... sta di fatto che anche quand’eravamo in barca
ho
notato strani comportamenti da parte di Harlock, cose che non avrebbe
mai detto o fatto prima.
Yuki
se ne stava appoggiata al parapetto, la faccia rivolta al sole e
l’ombra del cappello che le riparava gli occhi. Credo stesse
guardando il cielo, godendosi la brezza del mare.
Poi
la voce del capitano ci ha fatto sussultare entrambi.
-
Se vuoi prendere il sole devi metterti su questo lato: lì
dove sei
c’è l’ombra della vela!
Io
ero così intento a manovrare la barca da non essermi reso
conto che
Harlock la stava osservando già da un po’! Dubito
che persino Yuki
se ne fosse accorta. Quando ha capito che parlava con lei è
arrossita e ha balbettato qualcosa tipo: “già,
è vero, non ci
avevo fatto caso”. Lui le ha indicato con un gesto del
pollice il
punto migliore in cui mettersi, quasi che dare simili indicazioni
fosse una cosa di sua competenza!
Io
ho fatto finta di niente e mi sono girato dall’altra parte,
per non
continuare ad avere sotto gli occhi quei due che si scambiavano
fugaci occhiate. Ho continuato a manovrare la barra del timone
fissando il pelo dell’acqua che si increspava al nostro
passaggio.
Abbiamo trascorso parecchi minuti senza parlare, accompagnati solo
dallo sciabordare delle onde contro la chiglia.
E
poi, d’un tratto, ho sentito di nuovo la sua
voce, solo che
veniva da una direzione diversa. Mi sono voltato subito: era
appoggiato al parapetto vicino a Yuki, le braccia nude che sfioravano
quelle di lei. Sono rimasto a bocca aperta.
Harlock
non stava parlando sottovoce eppure non riesco a ricordare
precisamente le sue parole... credo che le stesse proponendo di
andare a fare una nuotata perché dopo poco ha rivolto la
stessa
domanda anche a me.
Prima
che io potessi dire la mia, Yuki aveva già accettato.
-
Fermiamo la barca qui. - ha detto Harlock – Il fondale
è bello,
ricco di conchiglie giganti e fra i coralli si nascondono pesci
multicolori.
-
Non abbiamo portato l’attrezzatura per fare immersioni. -
è stata
la mia osservazione.
-
Non sarà necessario fare delle vere immersioni. Basta avere
buoni
polmoni per resistere sott’acqua qualche minuto, il tempo
necessario per ammirare quello che si muove a un paio di metri sotto
lo scafo.
Harlock
era vicino a me mentre indicava l’acqua oltre il parapetto
della
barca: sotto la superficie appena increspata, pesci piccoli e grandi
danzavano attorno a noi, quasi ci stessero invitando a raggiungerli
in mare.
-
Io... non saprei... - ho detto, ma Harlock non ha prestato attenzione
alle mie deboli proteste. Non volevo certo lasciare sola Yuki, ma non
mi fidavo delle sue strambe idee. Continuavo a temere che ci
conducesse in qualche pericolo sconosciuto.
In
quel momento è intervenuta Yuki:
-
Su andiamo, Tadashi: non fare il difficile! Una nuotata non
potrà
farci che bene!
Non
riusciva ad intuire nessuna delle mie preoccupazioni!
-
Eddai Tadashi: è l’unica mezza giornata di svago
che hai, cerca di
godertela! - ha sentenziato il capitano, prima di salire sul
parapetto e gettarsi in acqua con un tuffo.
Yuki
ha seguito con lo sguardo la parabola compiuta dal suo copro che
s’inarcava contro la luce del sole prima di bucare la
superficie
liscia del mare. Poi ha messo giù il cappello e si
è tuffata dietro
a lui, una chiazza d’oro contro il cielo troppo blu.
Sembrava
felice come una ragazzina e la cosa mi preoccupava enormemente. Due
minuti dopo ero in acqua anch’io.
Abbiamo
nuotato per un bel po’, facendo su e giù dalla
barca per tuffarci.
Harlock e Yuki facevano a gara, si rincorrevano e si gettavano in
mare prima che uno riuscisse a raggiungere l’altro.
Io
non mi sono unito al loro insolito gioco, preferendo tenerli
sorvegliati a distanza. Tutto questo era così strano che non
potevo
fare finta di nulla, anche se mi ripetevo che in fondo non
c’era
niente di male. Qualche volta mi sono fermato sulla barca mentre loro
non smettevano di andare su e giù come bambini. E qualche
volta
anche loro si fermavano per depositare una conchiglia o per
richiamarmi in acqua se restavo a bordo troppo a lungo. Yuki veniva
persino a tirarmi per il braccio, quasi le desse fastidio che non
riuscissi a divertirmi come lei.
Non
riusciva a capire che non potevo assolutamente abbassare la
guardia... non riuscivo a fidarmi di quel nuovo Harlock, era
più
forte di me.
Finché
ad un certo punto non ho più voluto seguirli.
E’
stato quando Harlock ha proposto di andare a nuoto fino alla
scogliera a qualche decina di metri da noi. Yuki avrebbe dovuto
capire i motivi del mio rifiuto, avrebbe dovuto mettersi in sospetto
che c’era qualcosa che volevo dirle, che le stavo lanciando
un
messaggio. Ma, ancora una volta, non ha capito nulla.
E
così, quando davanti al mio reiterato rifiuto il capitano ha
detto
“Fa come vuoi: noi andiamo!” lei lo ha seguito,
lanciandomi una
lunga occhiata di biasimo.
Sono
rimasto da solo sulla barca a seguire con lo sguardo la scia dei loro
corpi nell’acqua mentre si rincorrevano senza riuscire a
raggiungersi. Harlock era molto più veloce di Yuki e le
stava sempre
davanti: sembrava che non volesse permetterle di superarlo. Non avevo
idea se stessero facendo di nuovo a gara: avevo seguito ben poco i
discorsi che si erano scambiati a proposito della scogliera.
Poi
li ho visti che si inerpicavano lassù, sopra quei massi
scoscesi e
taglienti, Harlock sempre davanti, Yuki dietro. La cosa strana
(un’altra!) è che si è pure fermato per
aiutarla a salire. Le ha
teso la mano e l’ha tirata verso di sé... riuscivo
a distinguerli
bene anche da lontano. Sono rimasti fermi un pezzo sulla scogliera, a
prendere il sole o a riposarsi, che ne so... Di certo non guardavano
nella mia direzione. Erano seduti vicini e sembrava che avessero un
mondo di cosa da dirsi perché non si sono mossi da
lì per almeno
mezz’ora. Io nel frattempo mi sono disteso sul fondo della
barca,
tra l’ombra della vela e gli ultimi raggi del sole che andava
sempre più declinando sull’orizzonte. Non era il
tramonto, ma la
luce giungeva meno diritta e sferzante dentro l’imbarcazione.
Tutte
le volte che mi rialzavo per controllare se erano ancora là,
li
ritrovavo praticamente nella stessa posizione.
Poi
ad un tratto sono ridiscesi verso il mare, sul lato opposto a quello
da cui erano saliti. Credevo che stessero per tornare alla barca ma
non era così. Stavano solo esplorando qualche anfratto
nascosto
della scogliera, forse alla ricerca di chissà quali tesori
nascosti
dai pirati! Li vedevo ogni tanto che riemergevano sul pelo
dell’acqua, per poi tornare ad immergersi, oppure salivano
sulle
rocce più basse a deporre qualcosa, prima di riprendere la
via del
mare.
Alla
fine mi sono stancato.
Ho
sciolto le corde che tenevano fissa la vela e l’ho
direzionata in
modo che cogliesse il debole vento che stava iniziando a spirare dal
mare verso la costa. Sarei tornato a riva senza di loro.
Dato
che amavano così tanto giocare a rincorrersi, ho creduto che
non gli
sarebbe dispiaciuto troppo farsela a nuoto fino alla spiaggia!
Mi
sono voltato indietro una sola volta: dovevano essere ancora in
acqua, perché non li vedevo da nessuna parte.
Mentre
facevo ritorno, ho persino provato ad immaginare le loro facce nel
momento in cui si sarebbero accorti che la barca non c’era
più.
Credevo che si sarebbero arrabbiati per essere stati lasciati
indietro, e pensavo che quello più infastidito sarebbe stato
il
capitano... La prenderà sicuramente come la peggiore delle
insubordinazioni da parte mia, mi dicevo. Totale mancanza di rispetto
verso l’autorità....
Invece,
quando alla sera ci siamo incontrati di nuovo nella grande sala della
mensa comune, sia Harlock che Yuki hanno fatto finta di niente,
comportandosi quasi come se fossimo tornati assieme con la barca fino
alla spiaggia. In verità, nessuno dei due ha menzionato la
nostra
gita. Solo Yuki, che durante la cena era seduta davanti a me, quando
avevamo quasi finito di mangiare e i posti vicino a noi erano rimasti
vuoti, ha fatto un’osservazione sul fatto che non li avevo
raggiunti sulla scogliera.
-
Vi avevo detto che non sarei venuto. - ho risposto scrollando le
spalle. Non volevo discutere degli avvenimenti della giornata e dei
miei sospetti a tavola, dove qualcuno avrebbe potuto sentirci.
Ma
Yuki non ha aggiunto altro e dopo un po’ si è
alzata e se ne è
andata, affermando che era meglio andare a letto presto, dato che il
giorno dopo ci sarebbe stato molto da lavorare.
In
verità, non so se quelle fossero le sue vere ragioni, anche
se sul
momento ho pensato di sì. Per questo motivo non
l’ho seguita.
Certo, dopo quanto era successo sulla spiaggia avevo i miei pensieri
e non desideravo trovarmi subito da solo con lei, perché
sono sicuro
che avremmo finito per litigare. Sapevo invece che avrei dovuto
essere sufficientemente calmo da farle capire che sbagliava a fidarsi
così ciecamente di lui.
Soltanto
qualche ora dopo mi ha preso il pensiero che effettivamente Yuki
poteva non essere andata a dormire... Infatti, quando lei si era
alzata, Harlock aveva lasciato da poco la sala mensa...
Ma
probabilmente mi sbaglio, su questo... Deve essersi trattato solo di
una coincidenza. Dopotutto, anche lui sarà stato stanco e
avrà
voluto riposare... Almeno, è ciò che spero.
Tadashi
Preview:
Appuntamento al prossimo capitolo con “Quel che accadde e che
Tadashi non scrisse”...
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Capitolo 5 *** Quel che accadde e che Tadashi non scrisse ***
Quel
che accadde e che Tadashi non scrisse
Dal
diario di Yuli
Ho
deciso di scrivere subito gli eventi di questa giornata: voglio
fissarli nella memoria finché sono ancora vividi, eppoi
tanto so
che, anche se ci provassi, non riuscirei a dormire... Oggi sono
accadute così tante cose e molte di esse sono davvero
insolite. A
cominciare dalla comparsa del capitano sulla spiaggia, in costume da
bagno. Non me lo aspettavo e, per quanto all’inizio mi abbia
colto
alla sprovvista, non l’ho trovato poi così strano:
credo che anche
lui avesse bisogno di rilassarsi dopo quello che gli è
accaduto. E
per me è stato così bello! Ho goduto
egoisticamente di ogni attimo
che abbiamo passato assieme, con l’illusione che ci stessimo
avvicinando sempre di più, che una dopo l’altra
stessero cadendo
tutte le barriere che ci sono tra noi.
Quando
ci siamo diretti verso la barca, Harlock ha proposto di fare una
corsa per raggiungerla. Credo che ce l’avesse con tutti e
due, ma
Tadashi ha fatto orecchie da mercante e non ci ha pensato minimamente
a correre assieme a noi, quasi che lo stare sotto il sole di prima lo
avesse stancato da morire. Io, invece, non ci avrei rinunciato per
nulla al mondo. Harlock non mi ha dato nessun vantaggio e ho faticato
a non farmi distanziare troppo, per quanto anch’io sia molto
allenata, ma l’ho anche visto che guardava indietro verso di
me,
quasi a voler controllare che riuscissi a seguirlo. Quello è
stato
il primo momento in cui il mio cuore ha battuto più forte.
Il primo
di molti.
Quando
però siamo arrivati all’insenatura ci siamo
accorti che Daiba non
era dietro di noi.
-
Ma dove è finito Tadashi? - ha esclamato il capitano,
guardandosi
attorno. E’ tornato sui suoi passi per controllare oltre la
curva
della spiaggia e i tronchi delle grosse palme, che in quella zona si
incurvano quasi fino al suolo. - Ah, eccolo laggiù: se la
sta
prendendo comoda!
Mentre
Harlock parlava io lo avevo raggiunto, giusto in tempo per sentire la
sua risata che riecheggiava nel mio petto, come le onde del mare che
si frangevano vicino a noi. Tutto sembrava dargli gioia, quel giorno,
ed io ho pensato che forse era da molto tempo che non si sentiva
così
vivo.
Dato
che Tadashi era ancora lontano, ci siamo seduti sul parapetto della
barca, all’ombra delle ultime palme, ad ascoltare il suono
della
risacca del mare. Il capitano aveva gli occhi fissi sulle chiome
più
alte, che si tingevano di riflessi d’oro sotto la luce del
sole. Io
continuavo a guardarlo cercando di trovare il coraggio di parlargli:
eravamo improvvisamente più vicini e speravo...
sì, speravo che mi
avrebbe finalmente aperto il suo cuore.
-
Mi sembrate contento di essere tornato su Ombra di Morte, capitano...
- speravo con tutta me stessa che la mia frase sembrasse buttata
lì
per caso, senza seconde intenzioni. Ma nello stesso tempo, desideravo
che fosse il giusto aggancio dal quale lui potesse proseguire per
raccontare qualcosa di sé.
Invece
ha semplicemente annuito e io ho aspettato, per un tempo che mi
è
sembrato infinito, che aggiungesse qualcos’altro, mentre il
cuore
mi martellava sempre più forte nel petto tanto che temevo
che lui
potesse sentirlo. Poi, quando avevo ormai perso la speranza e girato
lo sguardo da un’altra parte, Harlock ha aggiunto:
-
Questo posto è così... calmo. - su
quell’ultima parola la sua
voce era diventata quasi un sussurro eppure per me è stata
un’illuminazione: finalmente mi sembrava di aver afferrato un
frammento di verità della sua anima misteriosa e sfuggente.
Un
luogo calmo... Era
questo,
allora, quello che stava cercando? Pace
per un cuore sempre in lotta, per un animo tormentato e solo
all’apparenza freddo?
Stavo
per chiedergli dell’altro ma è stato lui a
proseguire.
-
E a te, Yuki, piace venire su Ombra di Morte?
Mi
ha preso un po’ alla sprovvista ma non volevo che si
accorgesse di
quanto ero turbata, così ho cercato di fare in modo che la
mia
risposta gli sembrasse il più pronta possibile.
-
Sì, è bello qui... e mi piace soprattutto
perché sembra di essere
sulla Terra, con la differenza che questo è un posto
tranquillo dove
nessuno può darci la caccia. Possiamo essere noi stessi e
possiamo
persino sdraiarci sulla sabbia e sentire di nuovo il sole sulla pelle
o vedere un profondo cielo blu... Tutte cose che nello spazio sono ci
sono precluse.
Harlock
non ha commentato: ha continuato a guardarmi dritta negli occhi e il
suo sguardo sembrava essersi fatto più dolce. Ma forse
l’ho solo
immaginato.
Poi,
improvvisamente, il capitano ha distolto lo sguardo dal mio viso
esclamando “Eccolo qui”, mentre Tadashi faceva la
sua comparsa.
Gli è andato incontro con l’aria più
rilassata del mondo e io
come una stupida ho pensato che fosse per non far capire a Tadashi
che ci stavamo scambiando le prime, timide confidenze.
Assieme,
si sono dati da fare a mettere la barca in mare e io devo confessare
che mi sono divertita a guardarli: sembrava che facessero a gara tra
di loro a chi spingeva più forte, i muscoli delle braccia
contratti
nello sforzo. Mi hanno lasciata comodamente seduta a bordo e mentre
li osservavo mi sembrava di avere due cavalieri serventi tutti per me
e, paradossalmente, proprio in quel momento, mi sono improvvisamente
sentita quello che sono... semplicemente una ragazza di 16 anni in
vacanza al mare. Non c’era nessun pirata spaziale, nessuna
fuorilegge ricercata dalla polizia terrestre, e ogni dolore o lutto
del passato sembrava improvvisamente sbiadito e offuscato, sospeso in
un tempo che non mi apparteneva più.
Le
ore trascorse sulla barca sono state quelle più strane, per
me, e a
tratti davvero difficili da ricordare, come il tempo dei sogni... o
come se avessi sbirciato per un po’ nella vita di
un’altra
persona. La sua allegria, i suoi sorrisi, le sue risate improvvise e
la sua voglia di stare con me (perché come altro potrei
definire
quel suo continuo cercarmi?) sono, di tutto il sogno, la parte
più
inverosimile e al tempo stesso più reale. Reale
perché costellata
non solo di sguardi ma soprattutto di contatti: il suo braccio che
sfiora il mio, il suo respiro caldo mentre mi parla più
vicino di
quanto sia mai successo prima... la mano che mi ha afferrato la
caviglia mentre risalivo sulla barca, durante la nostra pazza gara di
tuffi. Già... se ripenso a quei momenti fatico a riconoscere
anche
me stessa. Quanto devo essere sembrata strana, forse persino fuori di
me, al povero Tadashi che ogni tanto mi guardava con occhi
stralunati, quasi a supplicarmi di fermarmi, di non andargli
più
dietro. Di non andare più dietro al mio capitano...
E
io invece, come soggiogata da un potente incantesimo, non riuscivo a
smettere di fare qualsiasi cosa gli saltasse in mente. Oh, non ho
fatto nulla di cui vergognarmi, dopotutto, nulla di assurdo o
ridicolo... ma nello stesso tempo, tutte cose che non avrei mai
pensato di fare, con lui. Come appunto la gara di tuffi. Abbiamo
faticato a convincere Tadashi a seguirci e io credo che in effetti
non si sia divertito molto, soprattutto perché ad un certo
punto
Harlock ed io continuavamo a tuffarci e a risalire di nuovo sulla
barca quasi per vedere chi si sarebbe stancato prima, chi avrebbe
sbagliato il tuffo per l’ansia e la fretta. Era una gara
tacita e
senza accordi, scandita dal tempo delle nostre grida e delle nostre
risate. E’ stato proprio mentre mi sbrigavo a tornare a bordo
prima
che Harlock mi raggiungesse o, peggio, mi superasse, che mi sono
sentita prendere alla caviglia da una stretta ferrea e bagnata. Mi
sono girata e in un sorriso c’era lui: mi ha fatto
l’occhiolino
dicendo “Dove vai così’ di
fretta?”. Io sono rimasta
interdetta, spiazzata soprattutto da quel contatto inaspettato e
Harlock ha approfittato di quel momento di esitazione in cui la mia
presa sulla scaletta della barca era meno salda, per tirarmi di nuovo
in acqua. Credo di essergli praticamente caduta addosso
perché ho
sentito il suo corpo che strusciava contro il mio mentre io
sprofondavo in acqua e lui cercava di allontanarsi. Quando sono
riemersa, è stato il suono della sua risata ad accogliermi,
seguito
subito dopo dalla voce di Tadashi:
-
Smettila, lasciala in pace! - è stato l’ordine
perentorio che ha
rivolto al capitano.
-
Che c’è, ci stiamo divertendo! - gli ha risposto
lui, ancora con
la risata che gli vibrava nella voce.
-
Tu ti stai divertendo! Ma lei la infastidisci.
-
Ma che dici? - ha replicato Harlock tornando serio – Non le
ho
fatto male: è stato uno scherzo.
-
Uno scherzo idiota!
Il
capitano l’ha fulminato con lo sguardo.
-
Ti faccio notare che se Yuki si è stufata è
capace di dirmelo da
sola.
-
Non litigate. - sono intervenuta io, frapponendomi fra loro, ancora a
galla danti allo scafo della barca. - Non mi sono fatta nulla,
Tadashi, perciò non vedo per quale motivo tu te la debba
prendere
tanto.
-
Avrebbe potuto essere molto pericoloso! - ha risposto lui e io credo
lo abbia fatto più per dimostrare che aveva ragione a
preoccuparsi,
che perché temesse davvero per la mia incolumità.
-
Non siamo due bambini che non capiscono il pericolo. - mi sono
spazientita.
-
A me sembra di sì... - ha risposto Tadashi a mezza voce, ma
io ho
sentito benissimo. Mi sono infuriata e stavo per replicare, quando
Harlock è passato davanti a noi, aggrappandosi con la destra
al
corrimano della scaletta.
-
Continuate pure a litigare, se volete. Io vado avanti da solo. - sono
state le sue uniche parole.
-
Vengo anch’io, capitano. - mi sono affrettata a rispondere,
perché
volevo che sapesse che ero ancora con lui. Ho salito il primo
gradino, voltandomi di nuovo verso Tadashi – Dovresti
smetterla di
comportati così: sembri soltanto geloso.
Forse
non avrei dovuto dirgli quelle cose, ma ero così arrabbiata
per il
suo intervento fuori luogo che volevo assolutamente fargli capire
quanto il suo atteggiamento lo facesse apparire sciocco.
Abbiamo
fatto qualche altro tuffo, con molta più calma, e qualche
immersione
per raccogliere conchiglie e stelle di mare, che poi ributtavamo in
acqua. Tadashi non ci ha più seguito e io ho cercato di
ignorare il
suo malumore. Il capitano, invece, non sembrava arrabbiato con lui e
così, quando ha proposto di andare fino alla scogliera a
nuoto, ha
incluso anche Tadashi nell’invito. Ma quello zuccone ha
rifiutato
dicendo che sarebbe rimasto ad aspettarci sulla barca. Abbiamo
cercato entrambi di dissuaderlo ma lui è stato irremovibile
così
alla fine siamo andati da soli.
-
Ti do il vantaggio di partire per prima: vediamo se riesci ad
arrivare alla scogliera prima di me. Sempre che tu non sia troppo
stanca. - ha detto Harlock quando eravamo entrambi vicini al
parapetto, pronti a buttarci in mare.
Io
non mi sono lasciata intimorire dalla sua baldanza:
-
D’accordo: preparatevi a perdere, capitano. - gli ho
risposto. Lui
ha riso.
-
Se fossi uno che perde tanto facilmente, a quest’ora non
sarei qui!
- mi ha risposto. - Vai, Yuki: preparati a pentirti della tua
sicurezza.
Come
aveva promesso (ormai dovrei saperlo che mantiene sempre le sue
promesse), Harlock ha vinto “la conquista della
scogliera”. Ce
l’ho messa tutta per non farmi raggiungere ma credo che i
muscoli
delle sue braccia siano decisamente più potenti dei miei. E
la cosa
non mi dispiace. Però è stato molto gentile con
me, quando siamo
arrivati agli scogli: prima di salire mi ha aspettata e si è
complimentato con me.
-
Sei stata in gamba, Yuki! - ha detto tendendo la mano per aiutarmi ad
arrampicarmi. - Ho faticato a distanziarti.
Io
ho ansimato un “grazie” pieno di riconoscenza e lui
ha sorriso,
tirandomi su vicino a sé.
Mi
aspettavo quasi che mi cingesse la vita con un braccio per impedirmi
di perdere l’equilibrio... invece ha lasciato la mia mano
appena è
stato sicuro che fossi ben salda sulle rocce... e poi si è
allontanato, andando verso l’altro lato della scogliera,
quello
più a sole, invitandomi a seguirlo.
Eravamo
stanchi tutti e due per la lunga nuotata e così ci siamo
seduti
vicini a guardare il mare incresparsi in minute pieghe
d’argento
sull’orizzonte... un orizzonte che sembrava infinito come su
un
pianeta vero. E per un tempo lunghissimo nessuno di noi ha parlato.
Abbiamo
aspettato a lungo che anche Tadashi ci raggiungesse, ma non
è mai
venuto. Molte volte mi sono voltata verso di lui senza riuscire
più
a vederlo: doveva essersi sdraiato sul fondo della barca.
-
Starei qui per sempre a prendere il sole. - ha detto ad un tratto il
capitano sdraiandosi sulla roccia, le braccia incrociate dietro la
testa. - Ma credo che finirei per diventare rosso come un gamberetto.
Io
ho riso e gli risposto
-
Mi dispiace di non avervi offerto un po’ di crema solare,
prima di
andare a fare la nostra gita in barca.
Harlock
si è stretto nelle spalle.
-
E’ così tanto tempo che non prendo il sole che
persino la mia
pelle deve essersi dimenticata come si fa ad abbronzarsi... ma
nonostante abbia una carnagione chiara, di solito non mi scotto
facilmente. Spero solo che, trattandosi di un’isola
artificiale, il
sole cuocia meno che ai tropici sulla Terra.
-
In verità credo che non ci siano grossi pericoli: di solito
una
giornata su Ombra di Morte non basta a farmi cambiare colore. Anche
se, per abitudine, non dimentico mai di mettere la protezione
solare... essendo bionda, meglio non rischiare. - ho aggiunto.
-
Se sei bionda naturale sì.
Confesso
che le sue parole mi hanno lasciato un po’ spiazzata:
dubitava
davvero che fossi tinta? Anche se non mi stava guardando, deve aver
intravvisto con la coda dell’occhio la mia faccia dubbiosa,
così
si è voltato, facendomi l’occhiolino. Sorrideva in
quel suo modo
così accattivante, pieno di complicità e io mi
sono sentita
avvampare.
Si
è rialzato appoggiandosi sui gomiti, tornando a guardare il
mare.
-
Qui attorno è pieno non solo di grosse conchiglie ma anche
di
piccoli oggetti sommersi, come una vera isola del tesoro: hai voglia
di recuperarne qualcuno, Yuki?
-
Oggetti sommersi?
-
Sì... vecchie cose di tanti anni fa.
C’è di tutto. Mi chiedo solo
in che condizioni siano... Ma se non sei troppo stanca potremmo fare
un po’ di... archeologia subacquea.
-
Va bene: credo di essermi riposata abbastanza. - ho risposto e la
gioia che si sentiva nella mia voce era sincera perché
potevo stare
ancora con lui.
Harlock
si è rialzato velocemente, prendendomi di nuovo per mano:
una luce
piena di entusiasmo brillava nei suoi occhi castani, una luce a cui
non potevo dire di no.
Mi
ha condotto giù dall’altra parte della scogliera,
sul lato opposto
a quello da cui eravamo saliti, lungo una serie di gradoni naturali
formati dalle rocce. Mi indicava dove posare ogni passo con la sicura
esperienza di chi ha già percorso quella strada decine di
volte... E
non ho potuto fare a meno di chiedermi con chi. Ma la risposta,
così
ovvia, me l’ha data lui stesso poco dopo...
Era
vero, nel fondale lì attorno c’era di tutto: vasi
dalle forme
antiche, pettini d’avorio, statuette di bronzo di
divinità
mediterranee... Piccoli oggetti inutili in parte logorati dal tempo
ma che rendevano frenetica e curiosa la nostra ricerca, pur se
consapevoli che alla fine avremmo gettato tutti di nuovo in mare,
come già fatto con le stelle marine e le conchiglie.
Difatti,
quando eravamo troppo stanchi per continuare ad immergerci abbiamo
iniziato a restituire il nostro piccolo bottino alle onde, che si
frangevano sempre più grosse contro gli scogli.
Dall’alto della
scogliera, lanciavamo lontano i reperti perché fossero poi
le
correnti marine a sospingerle dove volevano. Io avrei voluto poter
gettare qualcosa di mio, qualcosa che sopravvivesse nel tempo a
ricordare per sempre questa giornata. Ma non avevo nulla con me...
eccetto il costume. Il solo pensiero di togliermelo per darlo in
pasto al mare e di restare nuda davanti a lui mi ha fatto arrossire
nuovamente con violenza.
Ma
proprio mentre questi pensieri turbinavano nella mia mente, Harlock
ha ripreso a parlare:
-
Sapevo che qui era pieno di reperti ma non ricordavo davvero che
fossero così tanti! E tutti qui attorno.
Ne abbiamo raccolti
a decine e lì sotto devono essercene ancora centinaia,
disseminati
per tutto il fondale, fin quasi alla spiaggia.
-
E perché sono così tanti? Non può
essere stato un naufragio... -
ho chiesto, riirandom tra le dita il piccolo pettine
d’avorio,
indecisa se ributtarlo o meno in mare.
Il
capitano ha scosso la testa.
-
No, infatti... Il mio amico credeva che tutte le piccole cose inutili
rendessero Ombra di Morte più vera, come
un’autentica isola dei
pirati. Ma soprattutto, un posto reale dove poter tornare per
sentirsi a casa... Così l’ha riempita di passaggi
che conducono in
superficie, di pesci provenienti dai mari tropicali della Terra, di
palme e fiori... e ha disseminato il suo mare di oggetti veri,
raccolti qua e là sulla Terra o sulle colonie. Questo luogo,
creato
dalla sua fantasia e dal suo genio, è un microcosmo
perfetto... un
luogo in cui anche il mio cuore si acquieta... - la sua voce si era
fatta più sommessa, come se provenisse dalle regioni remote
del
ricordo. - E dopo aver creato tutto questo... il suo fragile corpo si
è spezzato, portandosi via tutti i nostri sogni... Questo...
Ombra
di Morte e l’Arcadia, sono l’eredità che
ci ha lasciato.
-
Capitano... - avrei voluto fargli sentire la mia vicinanza con un
tocco, una carezza, ma non ho osato. Il suo volto, fisso
sull’orizzonte, era velato di tristezza e anche il mio cuore
si è
stretto per il dolore, quello stesso dolore che sentivo vibrare
dentro di lui e che tendeva i suoi muscoli trasformandolo in una
statua di carne e sangue.
Un
silenzio pesante è sceso fra noi ma io non mi sono mossa dal
mio
posto accanto al mio capitano. Aspettavo, senza sapere nemmeno io che
cosa... Forse aspettavo solo di vederlo tornare sereno e che, come
aveva fatto tante volte quel giorno, si voltasse
all’improvviso
sorridendomi di nuovo. Ma così non è stato.
Quando
si è girato di nuovo è stato solo per guardare
verso riva. Il
vento, che spirava ormai dal mare in direzione della costa, gli
scompigliò i capelli gettandoglieli sul viso così
che non riuscivo
più a guardarlo in faccia, ma nonostante questo no riuscivo
a
staccare gli occhi da lui.
-
Credo che dovremo ritornare a nuoto: Tadashi è tornato a
riva da
solo con la barca. - ha detto con voce tranquilla, spostandosi i
capelli dal viso con la mano.
-
Cosa?
Non
avevo guardato verso la spiaggia da quando eravamo tornati sulla
scogliera. Anche se non ce n’era bisogno mi sono spostata
sull’altro lato della massicciata, per essere sicura di
vedere
bene. Era vero: la barca era a riva e di Tadashi nessuna traccia.
-
Quel ragazzino... così... - ho brontolato a mezza voce tra
me, ma di
nuovo le parole del capitano mi hanno interrotta.
-
Pensi di farcela, Yuki?
Mi
sono girata nuovamente verso di lui, mentre il vento frustava il mio
corpo con alito sempre più fresco. Il suo sguardo
impassibile,
distante, era quello dell’Harlock che conoscevo, quello del
capitano impenetrabile che tiene nascosto il proprio cuore ardente
dietro un bianco, freddo teschio.
-
Sì. - ho risposto meccanicamente. Sapevo a cosa alludeva.
-
Bene. - ha annuito, avvicinandosi a me per passare oltre, e senza
aggiungere altro si è tuffato in mare.
Il
mio cuore ha avuto un sussulto. Come avrei voluto gridargli di
aspettarmi... o rincorrerlo, come avevamo fatto poche ore prima
giocando sugli scogli. Ma dentro di me sapevo che voleva stare da
solo con i suoi pensieri, con i suoi ricordi...
-
In mare non si vedono le lacrime. - ho pensato prima di gettarmi fra
le onde.
Per
tutta la sera, a cena, abbiamo mantenuto le distanze. Almeno, io le
ho mantenute, combattuta com’ero tra il desiderio di
chiedergli se
era tutto a posto e la consapevolezza che l’incanto si era
spezzato
e che mai, mai mi avrebbe aperto davvero il suo cuore. Poi
però,
quando l’ho visto uscire dalla sala mensa da solo, non ho
più
resistito e l’ho seguito. Ho cercato di non fargli capire che
ero
uscita proprio per lui, speravo che sembrasse casuale, ma non so
quanto abbia funzionato e, sinceramente, non me ne importa niente.
Quando
l’ho raggiunto stava camminando lungo il corridoio che
conduceva
verso l’uscita dell’edificio dove ci sono la mensa
e gli alloggi.
Stava tornando sull’Arcadia, ne ero sicura: avrebbe passato
là la
notte, da solo, come del resto avrebbe fatto quell’Harlock
che
tutti conosciamo.
-
Capitano! - l’ho chiamato, affrettandomi verso di lui. Era
già
davanti alla porta automatica, che spalancandosi aveva lasciando
entrare la brezza della sera assieme al profumo notturno di alberi e
mare.
Harlock
si è fermato, guardandomi dritta negli occhi, lo sguardo,
penetrante
e interrogativo ad un tempo. Anch’io mi sono fermata,
immobile,
senza sapere che dire.
No,
in verità sapevo cosa avrei voluto
dirgli, ma non sapevo
come.
Come chiedergli “va
tutto bene?” o “oggi vi ho visto turbato... volete
parlarne con
me?”. Come buttare giù quel muro di silenzi con le
giuste parole?
Ho
sospirato, abbassando lo sguardo.
-
No... niente... capitano. - ho risposto.
Lui
ha annuito mentre i suoi occhi sembravano passarmi da parte a parte,
con una consapevolezza che mi ha spaventato, come se avesse intuito
ogni cosa.
-
Buonanotte... Yuki. - ha detto soltanto prima di uscire
nell’oscurità.
Fuori,
immersa nel silenzio irreale di Ombra di Morte, con l’unica
compagnia della lontana risacca del mare, sono rimasta a guardarlo
allontanarsi in direzione dell’Arcadia finché la
sua sagoma scura
non è stata ingoiata dal buio e anche allora i miei occhi
hanno
cercato disperatamente di scorgere la sua figura da qualche parte,
laggiù, lungo il sentiero che conduce all’attracco
della nostra
astronave. Ma non ho visto niente, nemmeno una piccola luce
accendersi sull’Arcadia, o la sua cabina finalmente
illuminata.
Così mi sono diretta da sola verso la mia stanza nei
dormitori con
l’unico intento di scrivere quello che era successo in questa
lunga
giornata per fissarlo per sempre nella mia memoria e per non credere,
domani, una volta sveglia, che tutto questo sia stato soltanto un
sogno.
Yuki
Spero
di non aver deluso tutte quelle che si aspettavano una qualche scena
hot ma... non è ancora arrivato il momento ^_-
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Capitolo 6 *** Spie ***
Spie
Dal diario di bordo del capitano
Non avrei mai creduto di potermi cacciare in un
pasticcio simile, e per di più insieme a Yuki e Tadashi,
come un novellino alle prime armi. Ma a volte il caso (e la jella) ci
mettono del loro più di quanto dovrebbero.
Siamo scesi sulla Diamonds, l’enorme
stazione spaziale nei pressi della stella Yelda, per reperire un pezzo
di ricambio per l’Arcadia, che non abbiamo potuto sostituire
durante la nostra permanenza su Ombra di Morte. Ovviamente non siamo
atterrati con l’Arcadia. Anche se la stazione è
frequentata dalle razze provenienti da mezzo universo conosciuto ma non
da terrestri, nessuno sarebbe stato felice di vedere arrivare una nave
pirata. Meglio agire indisturbati, comprare quello che ci serve e
ripartire. Almeno, questo era il piano.
Ho voluto di andare di persona, tanto nessuno
avrebbe mai potuto riconoscermi con questo nuovo aspetto. Chi avrebbe
potuto sospettare che il terribile pirata Harlock fosse in
realtà un ragazzo di quindici anni che se ne andava a zonzo
per i corridoi, ammirando dopo una vita le vetrine dei negozi?
Ho fatto l’aria più
indifferente possibile e credo che Tadashi e Yuki non si siano accorti
di niente, ma è stato strano davvero camminare in mezzo a
tutta quella gente, soprattutto quando siamo arrivati ai piani high
class. Là c’erano solo persone abbigliate
all’ultima moda e donne con addosso interi capitali in
gioielli. Dietro le vetrine, capi d’abbigliamento con cifre a
tre zeri, equipaggiamenti lussuosi per rendere più
confortevoli i sedili delle astronavi passeggeri, oppure
l’high tech più sofisticato e inutile.
Nessuno faceva caso a noi. Gli stemmi di morte
erano ben coperti sotto ai mantelli e io mi sono divertito a spiare il
resto del genere umano, che non osservavo nel suo ambiente da un bel
po’ di tempo.
Yuki invece se l’è spassata
con ben altro. Tutti i negozi di calzature erano suoi e credo che molte
vetrine conservino l’impronta del suo naso. Non so cosa se ne
faccia di un paio di scarpe nuove con il tacco di dodici centimetri,
dato che sull’Arcadia porta solo gli stivali
d’ordinanza. Per fortuna ne ha comprato uno solo.
Nonostante tutto, non è stato
difficile sopportarla in questo momento di follia da shopping. Dopo gli
ultimi screzi, io e Tadashi avevamo persino recuperato un certo
cameratismo maschile e ci siamo presto dileguati nella zona delle
attrezzature sportive.
Avevamo già comprato il pezzo che ci
occorreva e, date le dimensioni piuttosto ridotte, ce lo portavamo
appresso dentro una borsa.
Tutto filava magnificamente.
Poi sono arrivate loro e la pace è
finita.
Yuki se n’è accorta per
prima.
Le ha notate già mentre percorrevano
il corridoio esterno, in una lunga fila, quasi una processione. Guardie
di scorta armate con discrezione e ancelle dalle vesti fluttuanti. In
tutto una dozzina di mazoniane.
Per qualche oscura ragione, la Regina era sulla
Diamonds.
Che potevamo fare?
Le abbiamo seguite. Senza dare
nell’occhio, e tenendo a freno Tadashi, che fremeva per la
smania d’intervenire.
Ma abbiamo dovuto fermarci davanti alle rigide
regole della stazione spaziale: esistono appartamenti privati nei quali
è vietato l’accesso, stanze di lusso riservate a
personaggi di alto rango.
Ovviamente ci siamo tenuti a debita distanza, ma
questo non ci ha impedito di scoprire in quale stanza fosse alloggiata
Raflesia.
Suite Emperor numero 3.
Tredici camere comunicanti. Tutte insieme
potrebbero formare un’autentica casa. Esistono persone che
non possono neppure permettersi tanto per viverci. Lei ci alloggia, per
una notte o per poche ore.
C’è persino una spa privata
con personale a disposizione, un mini cinema riservato, una sala da
musica...
Tutte informazioni presenti nel depliant
illustrativo della Diamonds. Conteneva anche la piantina stereometrica
con l’esatta ubicazione della Suite Emperor.
Si poteva raggiungere comodamente attraverso il
condotto di areazione.
Come resistere?
Tadashi ha fatto da palo, mentre Yuki e io siamo
penetrati all’interno, strisciando in silenzio dentro lo
stretto cunicolo fino alla grata dalla quale era possibile scorgere la
grande stanza da letto. Raflesia era lì.
Non so se il resto degli eventi sarebbe cambiato,
se ci fossi andato con Tadashi. Ma forse sarebbe stato meglio.
Sono salito per primo e ho aiutato Yuki ad
issarsi fino al bocchettone, afferrandola per le braccia. Un peso
così leggero che non è stato difficile
sollevarla. Dentro era buio e l’unica percezione che avevamo
di noi stessi era il nostro respiro e il suono ovattato di ginocchia e
gomiti contro le pareti metalliche. Finché un vago chiarore
è comparso in lontananza, facendosi sempre più
intenso mano a mano che ci avvicinavamo. Dietro di me, Yuki ansimava
più forte per la fretta. La sua curiosità si
mescolava alla mia, come il nostro fiato in quello spazio ristretto.
Mi sono bloccato a pochi centimetri dalla grata,
socchiudendo le palpebre per la luce.
Raflesia stava seduta davanti ad un grande
specchio, mentre un’ancella le pettinava silenziosamente i
lunghi capelli. Indossava una vestaglia di seta bianca dalle maniche
bordate di pizzo, che la rendeva quasi luminosa.
Era bella, più di tutte le volte in
cui l’avevo vista grazie ai suoi ologrammi. Lo era anche per
i miei occhi di quindicenne, ed anzi il suo fascino era ancora
più potente. Quello sguardo ad un tempo altero e
stanco mi attirava come la gravità di un gigantesco
pianeta.
Credo di aver mormorato il suo nome, prima che il
corpo di Yuki passasse morbidamente sopra al mio.
Mi ero quasi scordato che fosse lì.
Sono bastati i suoi seni rotondi, la curva
spigolosa del suo bacino, la carezza bionda dei capelli, a ricordarmi
con viva prepotenza che lei c’era.
Potevo quasi percepire che il suo umore era
mutato. Il nervosismo di Yuki s’insinuava come una corrente
elettrica fra i nostri corpi, nei millimetri d’aria che
separavano le divise e che mai come allora mi erano parse
tanto sottili.
In quel momento, per un brevissimo secondo che mi
gelò la pelle, desiderai che fossimo nudi. Lontani da
lì, in un posto ben più ampio e luminoso, dove
avrei potuto assaporare tutto di lei.
Yuki bisbigliò qualcosa. Anche lei
pronunciava il nome di Raflesia, con trasporto e una strana furia
femminea che non aveva mai avuto.
Forse fu a causa della collera muta che sentivo
crescere dentro di lei che commise quello sbaglio insignificante. E
probabilmente fu per punirmi sadicamente del lungo sguardo nel quale
avevo avvolto il corpo di Raflesia che più tardi
architettò quell’assurda messinscena.
Un oggetto che cade nel ripiano della condotta:
uno spicciolo avuto in resto al negozio di scarpe. Il piccolo rumore
che riverbera contro le pareti, rimbalza, fugge via, propagandosi
sempre più forte, come i cerchi di un sasso
nell’acqua.
Guardai in basso, nella stanza: la Regina si era
voltata. Per un istante gli occhi di Raflesia incontrarono i miei, pur
senza vederli. Vi si piantarono come spilli arroventati.
Le guardie si mossero dalla loro postazione ai
lati della porta, veloci e silenziose come lucertole, come i rampicanti
vivi che infestano Jura.
Guardai Yuki con la coda dell’occhio e
vidi la sua espressione mutare, trapassando da atterrita a determinata.
Non c’era tempo da perdere: dovevamo
scappare.
Harlock
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Capitolo 7 *** Metamorfosi ***
METAMORFOSI
Dal diario di Yuki
Forse non avrei dovuto fare ciò che ho fatto, ma appena ho
visto quella stanza ho pensato subito che il suo contenuto avrebbe
potuto essermi utile per tenerlo lontano da Raflesia.
Quand’ero sopra di lui in quel cunicolo, seno e ventre
premuti contro la sua schiena in tensione, ho avvertito con chiarezza
quel sentimento che forse è da sempre nell’animo
del capitano, ma che la distanza fra noi mi aveva fin qui impedito di
percepire.
La odiava e la desiderava in modo talmente potente e inconfessabile...
Persino adesso che aveva quindici anni.
Prima di uscire dal condotto, il capitano aveva avuto il tempo di
ordinare a Tadashi di ritirarsi.
Sgusciammo fuori in un corridoio deserto, mentre a poca distanza
rimbombavano già i passi delle prime guardie mazoniane.
Impensabile credere che non sospettassero della presenza di intrusi.
Svoltammo l’angolo appena in tempo per non farci cogliere sul
fatto, la grata d’areazione ricollocata al suo posto.
Eravamo lontani dalla Suite Emperor, ma ancora negli appartamenti high
class.
Mi domando da quale pianeta provenissero gli occupanti della stanza in
cui ci siamo nascosti. A giudicare dai loro vestiti dovevano essere
alti ed esili come Mime.
E’ stato veramente sadico da parte mia far indossare quegli
indumenti al capitano. Stringevano da ogni parte. Soprattutto addosso a
lui...
L’idea mi è scattata nella mente appena ho visto
quella parrucca sistemata sulla testa di un manichino, pronta
all’uso. Capelli biondi, lunghi e così naturali...
Ho evitato accuratamente di chiedermi che cosa se ne facessero quegli
sconosciuti e per quale motivo la indossassero e l’ho
afferrata, lesta come una ladra consumata.
Credo di avergliela lanciata tra le mani quando il capitano era ancora
in piedi davanti alla porta.
- Mettete questa! - ho ordinato, mentre con gli occhi già
frugavo la stanza alla ricerca di ogni cosa che potesse tornarci utile.
O meglio, tornare utile a me.
C’erano dei vestiti abbandonati su una sedia e sul letto: dei
leggins scuri, un abitino di raso, una maglia dalle maniche
traforate... Agguantai quello che stava più alla mia
portata, senza badare troppo a cosa fosse, e di nuovo lo lanciai fra le
braccia del capitano che, con un’espressione incredula e
quasi sbigottita, stava ancora osservando la parrucca bionda,
reggendola a un palmo dal naso come una pelliccia di coniglio.
- Cosa ci dovrei fare con questa? - ha sibilato a mezza voce
mentre si girava verso di me, i vestiti che planavano
sull’avambraccio libero.
- Cambiarvi, ovvio. E in fretta.
- Starai scherzando!
- Stanno arrivando, capitano! Le mazoniane potrebbero essere qui da un
momento all’altro. Non vorrete che ci trovino con addosso le
divise dell’Arcadia?
- Le ho sempre affrontate con addosso le divise dell’Arcadia!
Quanto mi parevano fuori luogo le sue proteste, in quel momento.
Com’era possibile che non si rendesse conto che, dentro
quella stanza nei quartieri extra lusso, non eravamo nelle condizioni
per affrontare un conflitto a fuoco? Il putiferio che avremmo scatenato
avrebbe richiamato anche tutti gli uomini di sorveglianza a
disposizione della Diamonds. Non poteva mettere da parte
l’orgoglio, per una volta?
Ah, come sono stata crudele! Già sapevo che non si trattava
solo di orgoglio maschile. Ma che potevo farci? Il mio piano mi
appariva allora così perfetto che nessuna delle sue
rimostranze avrebbe potuto farmi desistere.
I passi dei soldati mazoniani riecheggiarono oltre la porta, frettolosi
ma perfettamente sincronizzati. E si allontanarono.
L’efficienza di un esercito si misura soprattutto nei momenti
di emergenza, e quello di Raflesia non si faceva mai cogliere
impreparato. Difficile credere che avremmo potuto nasconderci ancora a
lungo, e questo lo sapeva bene anche il capitano. Lo fissai dritto
negli occhi, risoluta.
- Ritorneranno. Sanno che non possiamo essere andati lontano senza
finire nelle mani dell’una o dell’altra squadra di
ricognizione.
Il capitano ricambiò il mio sguardo con una lunga occhiata
torva. Era una di quelle che di solito riservava ai nemici, e anche se
mi fece male riceverla, non mi scomposi. Dovevo convincerlo.
- Vada per il cambio di vestiti. - le sue parole giunsero
così inaspettate che sul momento credetti di aver capito
male. - Ma non pensare che mi metta questa roba. E’ da donna!
E la parrucca atterrò, con un volo d’angelo, sul
letto disfatto.
Credo di averla fissata per un tempo che si dilatava nella mia mente in
una lunga catena di congetture, eventi e conseguenze, mentre il
capitano si spogliava in fretta dietro uno dei paraventi. Come
impedirgli di mandare a monte il mio piano e di finire tra le morbide
grazie di Raflesia?
Di nuovo, la risposta prese il suono del ritmico marciare degli stivali
nemici che da lontano si avvicinavano sempre più alla nostra
stanza. Era la seconda squadra.
- Anche quelli che mi hai passato sono abiti femminili, Yuki!
- Non parlate così forte, vi sentiranno!
- Al diavolo, e che mi sentano! Allungami qualcos’altro o mi
tengo la mia divisa.
La sua testa fece capolino oltre il paravento. Arrossii nel vederlo a
torso nudo: non eravamo più sulla rassicurante spiaggia di
Ombra di morte e anche se una parte di me desiderava con prepotenza
quel corpo che avevo sempre soltanto visto fasciato dalla divisa nera,
un’altra metà si vergognava al solo pensiero che
lui potesse vedermi nuda, o quasi.
- Non uscite, mi sono già spogliata.
Coprendomi il seno velato solo dalla lingerie di pizzo, gli lanciai
addosso un asciugamano che era stato abbandonato a terra. Il capitano
si ritirò oltre i paravento, evitando il colpo.
- Non posso mettere queste cose... - la sua voce traboccava di disgusto.
- In questa stanza potrebbero non esserci vestiti da uomo, ci avete
pensato?
La sua risposta è stata un brontolio soffocato, forse una
serie d’imprecazioni trattenute tra i denti, a cui hanno
fatto seguito una quantità indistinta di fruscii e rumori di
zip abbassate e richiuse.
Abbiamo finito di rivestirci nello stesso istante, e lui è
ricomparso da dietro il paravento.
I leggins che indossava gli fasciavano perfettamente le lunghe gambe
(del resto avevo sempre sospettato che le proporzioni del suo corpo non
fossero del tutto umane) ma di certo non erano adatti ad un uomo. Sul
nero della stoffa, lucida come pelle, salivano voluttuose rose
rampicanti rosse come il sangue. La maglia che gli avevo
frettolosamente passato era così attillata che metteva in
evidenza non solo i muscoli delle braccia ma anche i fianchi
così magri e quasi femminili, e poi ricadeva, più
morbida e bordata di larghi pizzi, fino a mezza coscia. Nascondeva
perfettamente i genitali come una graziosa minigonna.
Dio, come ho potuto essere così orribile nella mia
macchinazione?
Una rapida occhiata è scivolata fra noi, simile a una
corrente di acqua fumante, mentre le nostre orecchie restavano in
ascolto dei rumori provenienti dal corridoio.
La sua espressione era talmente furente che mi sembrava di sentire
rimbombare il tuono, in lontananza. Se avesse potuto mi avrebbe tirato
un pugno.
- Questi vestiti dovevi indossarli tu!
- Anche i miei sono da donna... - ho risposto tra i denti, facendo
scorrere il dorso della mano sul tubino fasciante.
- Ti farò pulire il ponte dell’Arcadia a vita.
Il nostro dialogo aveva qualcosa di surreale: bisbigliavamo in
un’enorme stanza vuota, abbigliati nel modo più
improbabile, mentre fuori di lì un intero reparto mazoniano
ci dava la caccia.
Poi il sincronico marciare che ormai conoscevamo bene ha ripreso a
percuotere il corridoio. Si era moltiplicato, segno forse che le due
squadre si erano unite in una sola.
Immediatamente il capitano ha allacciato il fodero, mentre la mano,
fulminea, andava alla pistola. Era pronto a combattere. Se fossero
entrate da quella porta avrebbe aperto il fuoco senza esitazione. E
anch’io lo avrei fatto, lo sapevo bene. Sapevo che non sarei
stata in grado di controllare una reazione che, dopo anni di
addestramento a bordo dell’Arcadia, era ormai divenuta
istintiva. Ma dentro di me, più forte di tutto, cresceva il
presentimento di quali sarebbero state le conseguenze dello scontro.
Non temevo per la sua vita, né per la mia. C’era
un solo nome che martellava la mia coscienza: Raflesia.
Per questo ho afferrato saldamente il capitano per le spalle,
sospingendolo verso il letto.
Immagino cosa ha pensato. L’ho capito dal modo in cui ha
mormorato il mio nome, gli occhi sgranati per la sorpresa. Ma non era
quello che avevo in mente io. Anche se, a ripensarci adesso, lo avrei
preferito a tutto ciò che è accaduto in seguito.
Almeno avrei guadagnato il premio delle sue labbra. Invece ben altra
bocca si è posata sulla sua, imprimendovi un segno
invisibile che nessuno mai potrà levare via.
- Che cosa vuoi fare, Yuki? - Non avevo mai sentito la sua voce
così tesa. Un rossore imbarazzato rendeva il suo viso ancora
più bello.
- State fermo. Farò in modo che nessuno vi riconosca.
Ho afferrato la parrucca con una mano e i capelli del capitano con
l’altra, affondandovi le dita. Oh, quei capelli
così morbidi che tante volte ho sognato di accarezzare... ma
non potevo perdere tempo!
In pochi secondi sono riuscita a fargli indossare il toupet, sistemando
le ciocche ribelli che tentavano di fuggire da sotto quella massa
bionda.
- Che diavolo ti salta in mente? No, neanche per sogno!
Ha tentato di divincolarsi e non so davvero come ho fatto a
contrappormi alla sua spinta. L’ho gettato lungo disteso sul
letto, sedendo a cavalcioni sul suo bacino, sforzandomi
d’ignorare tutto ciò che sentivo sotto di me.
Come mi pento di essere stata così brava, così
determinata nell’esecuzione della mia messa in scena!
Sul comodino, a un braccio di distanza da me, una trousse piena di
trucchi era spalancata come la bocca di una vecchia addormentata. Per
prima ho afferrato in punta di dita una scatolina rotonda, cipria
compatta ultra levigante, indispensabile per nascondere eventuali
tracce di barba incipiente (non ce n’era nemmeno
l’ombra, ma meglio essere sicure). Il capitano ha tossito
mentre gliela cospargevo ovunque sul viso e sul collo. Poi sono andata
di fard e di ombretto. L’ho implorato di stare fermo mentre
lo passavo, veloce e precisa, sulle palpebre. Non volevo certo
rischiare di renderlo di nuovo cieco ad un occhio. Per la prima volta
il capitano ha ubbidito, lasciandomi fare, e io mi sono rilassata un
poco. Non avrei dovuto.
Lui ne ha approfittato subito per disarcionarmi e spingermi contro la
parete, le braccia puntellate da un lato e dall’altro del mio
viso. Sotto il trucco riconoscevo perfettamente quello sguardo furioso
che tanto amavo.
- Yuki... ti punirò per insubordinazione. - ha detto. Mi
è sembrato di cogliere un lucore di riso dietro i suoi occhi
furenti e ho capito che non diceva sul serio.
Da lì, il resto l’ho preso come un gioco. Oh, lo
so, se qualcuno glielo chiedesse, direbbe che per lui non è
stato affatto divertente. E bisognerebbe credergli. Ma io che altro
potevo fare? Lasciarmi prendere dal timore per colpa di quegli occhi
roventi di collera e rinunciare al mio progetto, oppure proseguire, con
una risata birichina, come se nulla fosse? Ho scelto la seconda
soluzione.
Di nuovo ho allungato la mano verso la trousse e ho preso il primo
rossetto che è rotolato sotto le mie dita, passandoglielo
sulle labbra. Il capitano si è scostato
all’istante, pronto a levare via con il dorso della mano la
lucida pellicola. Sono riuscita a fermarlo appena in tempo.
- No, così rovinerete tutto, - ho protestato, bloccandogli
il braccio a pochi millimetri dalla bocca. - Manca l’ultimo
tocco e sarete perfetta.
Credo che sia impallidito al suono di quella parola, ma potevo solo
immaginarlo per via del denso strato di polvere che gli avevo steso
addosso. Prendendogli il mento fra le dita, gli ho abbassato dolcemente
la testa e sono riuscita a stendere una mano di mascara su entrambi gli
occhi. Com’erano lunghe le sue ciglia! Troppo lunghe per un
uomo, nere e lucide come fili d’ebano arricciati.
Ci siamo guardati insieme allo specchio: gli stessi capelli biondi e
caldi occhi nocciola, la stessa corporatura longilinea, un identico
gusto nel vestire. Sembravamo sorelle.
Provai un assurdo senso di trionfo e una nausea improvvisa, il disgusto
per ciò che io stessa avevo fatto, ma era troppo tardi per
cambiare idea. Il capitano si è girato, dando le spalle allo
specchio. Se avesse potuto probabilmente avrebbe vomitato.
E’ stato in quel momento che hanno bussato alla porta. La
voce perentoria di una mazoniana intimava di aprire, in nome della
Regina.
Nota: Quando hos critto
questo capitolo mi sono divertita molto. Spero che anche voi leggendolo
lo abbiate preso come una piacevole distrazione ;-)
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Capitolo 8 *** In fuga ***
IN FUGA
Dal
diario di Yuki
All’interno della stanza, la voce della mazoniana
è risuonata,
autoritaria e prepotente.
La mano del capitano è volata subito alla pistola, ma non
l’ha
estratta. Invece ci siamo guardati, scambiandoci un rapido cenno del
capo poi, in fretta e senza bisogno di accordi, abbiamo indossato due
spolverini scuri che erano stesi sul copriletto. Mi auguravo che
bastassero a nascondere il fodero. Le divise sono scivolate ognuna in una
busta di carta con stampato il nome di un famoso stilista, e un
istante dopo abbiamo aperto alle nostre nemiche.
Ovviamente ho parlato io: la voce lo avrebbe sicuramente tradito,
rivelando il suo sesso. Mi sono impegnata nello sfoderare
l’aria
più snob di cui ero capace e ho chiesto che cosa volessero e
perché
stavano facendo tutto quel fracasso.
Inutile dire che il comandante della pattuglia non mi ha degnata di
una risposta. Un paio di guardie sono entrate a perlustrare la camera
da letto e gli ambienti collegati: bagno, salottino e gli spazi
dietro paraventi e tende sono stati attentamente esaminati, mentre io
protestavo che si trattava di un’autentica invasione della
nostra
privacy e che volevo vedere immediatamente l’autorizzazione
scritta
per questo atto così incivile.
Ho sentito la mano del capitano che mi afferrava per il gomito.
C’era
un sorriso birbante sul suo viso mentre mi strizzava
l’occhiolino,
tirandomi verso di sé, e io non ho potuto fare a meno di
pensare che
era maledettamente graziosa!
Ci siamo allontanati accompagnati dal suono delle mie rimostranze e
dalla minaccia che sarei andata immediatamente a contattare la
direzione per porre fine all’indebita perquisizione. Mi
pareva una
scusa credibile per riuscire a dileguarsi. Del resto nessuno avrebbe
mai potuto sospettare che non eravamo due sorelle in viaggio verso
casa dal college lontano, come stavo millantando.
Dopotutto ci
assomigliavamo così tanto...
I corridoi della zona commerciale dell’high class
erano
gremiti di gente e questo rese più facile la nostra fuga.
Camminavamo spediti, occhi e orecchie all’erta, pronti a
captare
qualsiasi minaccia. Secondo gli accordi, Tadashi ci avrebbe aspettato
nella zona imbarco dell’hangar riservato ai veicoli privati e
dovevamo affrettarci per raggiungerlo, perché
c’era il rischio
concreto che qualcuno potesse iniziare ad avere dei sospetti anche su
di lui, soprattutto se notava qualche segno d’ingiustificato
nervosismo.
Credevo che il capitano si sarebbe cambiato appena fossimo stati
sufficientemente lontani dalle mazoniane, invece, complice anche la
nostra premura, si adeguò a mantenere il travestimento fino
alla low
class dalla quale avremmo potuto accedere agli imbarchi.
- Se il mio amico potesse vedermi adesso, scoppierebbe a ridere e
nessuno riuscirebbe più a farlo smettere.
La sua voce mi raggiunse in un sussurro e per un attimo mi
sembrò
quasi femminile, ma riconoscevo il timbro squillante che prendeva le
rare volte in cui il capitano si concedeva una battuta. Lo guardai:
stava sorridendo.
- Non lo diremo a nessuno, - replicai, strizzandogli l’occhio.
Il capitano rispose con un altro occhiolino e un cenno della testa,
proprio nel momento in cui un gruppetto di giovani rampolli appena
sbarcati da qualche nave di lusso incrociava la nostra strada. Uno di
loro era così vicino da strusciare contro il mio braccio con
le
maniche della giacca perfettamente stirata, prima
d’incontrare lo
sguardo del capitano. Forse ha creduto che il suo sorriso fosse per
lui, e anche il suo breve cenno.
- Bellissima, - ha commentato, abbastanza forte perché
potessimo
sentirlo.
Aveva denti bianchissimi e un sorriso da dongiovanni impenitente. Il
capitano non ha fatto una piega e abbiamo proseguito, mentre
l’altro
continuava a fissarlo, torcendo indietro il collo per vedere quale
direzione avremmo preso.
- Credo che il travestimento funzioni alla grande. Quel tizio ha
notato più me che te, - ha detto soltanto il capitano,
sempre a
bassa voce.
Se il commento lo aveva imbarazzato, riusciva a mascherarlo bene.
- Non mi state facendo un complimento...
- Nemmeno per me è un complimento. Ma tanto vale che la
prenda sul
ridere, dopo quello che mi hai combinato.
Sorrisi tra me: non era ancora il caso di spiegargli perché
l’avevo fatto. E in verità non avevo intenzione di
dirglielo mai.
- Farò conto di essere tornato ai tempi in cui ero poco
più che un
ragazzo e insieme col mio amico solcavo lo spazio, a cuor leggero e
con più allegria di quanto riesca a fare adesso.
Chissà se si rendeva conto, mi chiesi, che anche adesso era
poco più
che un ragazzo, o se qualcosa dentro di lui si rifiutava ancora di
accettare il cambiamento avvenuto nel suo corpo.
Mentre raggiungevamo l’ascensore che ci avrebbe riportati ai
piani
bassi, ho iniziato a far caso in maniera diversa agli sguardi dei
passanti. Lunghe occhiate maschili scivolavano su di noi, indugiando
particolarmente sulle nostre gambe bene in mostra, per poi
intrufolarsi, indiscrete, oltre lo scollo dello spolverino a cercare
le rotondità del petto. Impossibile trovarne su quello del
capitano:
non avevo avuto il tempo (né il coraggio) di proporgli un
qualche
genere d’imbottitura. Mi pentii di essere stata
così abile nel
creare il suo travestimento.
Prendemmo un ascensore che si era appena svuotato, pigiando subito il
pulsante per scendere, ma una mano s’infilò fra le
porte,
schermando le fotocellule, e un altro occupante prese posto
all’interno. Era il ragazzo dal sorriso bianchissimo.
Si lisciò la giacca priva di pieghe, prendendo una postura
impettita, prima di chiederci a che piano eravamo dirette.
Il capitano ha ingoiato una risata, mascherandola dietro la mano
inguantata, e la voce gli è uscita più sottile
quando ha risposto,
afferrando la mano del giovanotto e pigiando il pulsante insieme a
lui.
- Alle boutique d’alta moda.
C’era la consueta piega sarcastica nel suo sorriso, che solo
il
lucido velo del rossetto riusciva in qualche modo a rendere meno
beffardo.
- Ovvio... Ma allora
dovreste andare
al nono piano, non al secondo, - ha risposto l’altro,
sorridendo a
sua volta e, immediatamente, ha premuto il pulsante col numero nove.
- E non dovreste andarci senza qualcuno che vi accompagni. Questa
stazione così grande è frequentata anche da gente
di bassa risma.
Due fanciulle così giovani, tutte da sole...
- Siamo abituate a viaggiare da sole, - ho sbottato, guardandolo in
tralice. Quel suo modo di parlare mi stava dando sui nervi.
- Non è affatto prudente. Ma per vostra fortuna sono libero
e posso
accompagnarvi.
- Ma che gentile! - ha esclamato il capitano, e la sua voce aveva un
accento più grave.
Se non fosse stato per l’intromissione di quel bellimbusto
saremmo
di certo arrivati rapidamente a destinazione, raggiungendo Tadashi
senza alcun intoppo. Fu lui a rovinare il mio piano che fino ad
allora ci aveva garantito una fuga discreta e sicura verso i lupi
spaziali, senza il pericolo di essere notati da troppi occhi curiosi.
Mano a mano che attraversavamo gli altri piani e le chiamate
intercettavano il nostro ascensore, altra gente si stipava
all’interno insieme con noi, sospingendoci sempre
più sul fondo,
uno accanto all’altro. Il giovanotto
s’infilò fra me e il
capitano, passando le braccia dietro le nostre schiene con la scusa
che stava troppo stretto. Ci siamo girati entrambi verso di lui, per
evitare che toccasse accidentalmente le pistole o la cintura del
fodero, anche se dubito che avrebbe capito di che si trattava,
convinto com’era di essere incappato in due fanciulle
indifese. In
quel modo potevo di nuovo vedere in viso il capitano: aveva un largo
sorriso sulle labbra e credo che stesse facendo enormi sforzi per non
scoppiargli a ridere in faccia.
Quel ragazzo continuava a fargli domande, mescolate a complimenti.
Voleva sapere quanti anni aveva e dove studiava, come mai il suo
fidanzato non l’avesse accompagnata (perché di
sicuro ce l’aveva
un fidanzato, una ragazza così bella) e se preferiva andare
a sciare
o a fare vela. Diceva pure che tutti i club della sua scuola se la
sarebbero contesa come ragazza immagine e che avrebbe dovuto farsi
scortare al college da suo padre tutte le mattine per non essere
assalita. Certo, avevo fatto un ottimo lavoro con lui,
ma
tutti quei salamelecchi iniziavano a sembrarmi esagerati.
Quando infine ha aggiunto che gli sarebbe piaciuto vederla sfilare
sul ring del suo club di boxe in pantaloncini e maglietta attillata
reggendo fra le mani il cartello dei round, il capitano si è
voltato
dall’altra parte, appoggiandosi contro la parete metallica
dell’ascensore. L’ho sentito tossire e non riuscivo
a capire se
si stesse soffocando per colpa di una risata o se desiderasse poter
dare di stomaco.
Quando è tornato a voltarsi, sul viso era comparso lo
sguardo truce
che in tutti quegli anni trascorsi insieme avevo imparato a
riconoscere. Lo avrebbe passato a fil di spada se avesse potuto, ne
ero certa.
- Una ragazza di buona famiglia su di un ring, che
strana
combinazione proposta da un gentiluomo, - la voce del capitano, tesa
come la corda di un’arpa, sembrava più sottile,
quasi femminile.
- Non direi proprio.
Il damerino aveva un’espressione così viscida
mentre rispondeva,
scivolando con gli occhi dal viso al corpo del capitano, come se
fosse sicuro di riuscire a portarsela a letto entro quella sera, che
fui sul punto di pestagli un piede con il tacco appuntito delle
costosissime scarpe che mi ero comprata. Le avevo indossate ben
sapendo che sull’Arcadia avrei avuto davvero poche occasioni
per
sfoggiarle e in quel momento avrebbero mostrato tutta la loro
utilità.
Ma le porte si sono spalancate sui luccicanti corridoi dove si
affacciavano i negozi d’alta moda e la gente che occupava
l’ascensore si è riversata all’esterno,
accompagnata dalla
complessa miscela di odori e profumi che si era creata nel piccolo
spazio ingombro di così tanti corpi e razze diverse.
Finalmente ci
saremmo sbarazzati anche di quel tipo insopportabile: lo avremmo
lasciato uscire e poi ce la saremmo svignata alla velocità
della
luce verso i piani bassi, magari prendendo un ascensore di servizio,
meno gettonato di quelli usati anche dai passeggeri di prima classe.
Invece, quando la folla davanti all’ascensore si è
diradata, le
mazoniane sono comparse nel bel mezzo del corridoio.
Impugnavano tutte la pistola e insieme a loro c’erano dei
civili:
due donne alte ed esili alle quali sarebbero andati a pennello i
nostri vestiti. Appena ci hanno visto, hanno preso a gridare, facendo
dei gesti concitati nella nostra direzione. In un attimo, tutte le
pistole furono puntate verso di noi.
- Dannazione!
Il capitano ha estratto la pistola, un secondo di ritardo rispetto ai
suoi consueti tempi di reazione: lo spolverino sopra al fodero lo
impacciava nei movimenti. La canna della cosmo dragoon
baluginò
oltre le porte dell’ascensore e la mia gli fu subito accanto:
due
colpi uscirono e altri due entrarono, andando a conficcarsi contro lo
specchio sul fondo dell’ascensore. Con un pugno sul pulsante,
il
capitano richiuse le porte e noi riprendemmo a scendere. Aveva
premuto il tasto 0: significava discesa diretta fino
all’hangar
dove avevamo posteggiato le navette.
- Ora sanno dove siamo diretti, - fu il suo unico commento.
- Dovremo essere molto veloci ad uscire da qui, quando le porte si
apriranno di nuovo, - aggiunsi.
Il capitano si tolse lo spolverino, gettandolo a terra. Le forme del
suo corpo, sodo ma non troppo muscoloso, erano armoniose e
così ben
proporzionate... la magia del mio travestimento non sembrava ancora
essere venuta meno.
- Sie... siete due terroriste? - la vocina arrochita che riemergeva
da un angolo ci fece voltare di scatto. Lui non era
sceso.
Se ne stava rannicchiato, ancora con le braccia sopra la testa, la
giacca candida che rimandava sul viso tutta la luce delle
plafoniere, rendendolo ancora più bianco.
- Che ci fai ancora qui? - è sbottato il capitano.
- A... allora non siete due studentesse del college.
- Ah, meglio tardi che mai! - la sua voce era ruvida, tagliente.
- Ma com’è... possibile... Due ragazze
così deliziose.
Il capitano ha scosso la testa, portandosi una mano sugli occhi. Ha
fatto un passo, chinandosi verso di lui.
- Ma quali deliziose? Ancora non te ne sei accorto che sono un
maschio?
Il giovanotto lo ha guardato, spalancando tanto d’occhi, la
bocca
aperta come un grosso pesce ancora appeso all’amo. Poi la sua
faccia è tornata a ricomporsi, e le labbra si sono strette
in un
linea dura, quasi irritata.
- Mi stai prendendo in giro, - ha detto.
- Ma non la senti la mia voce?
- Sei troppo bella!
Un’esclamazione esasperata e il capitano si è
girato di nuovo
verso l’uscita dell’ascensore, la pistola stretta
in pugno.
- Potrei freddarlo qui... - sentii che mormorava tra sé.
Sorrisi. Sapevo che non diceva sul serio, ma da qualche parte dentro
di lui doveva parergli davvero una prospettiva molto allettante.
Poi lo sguardo di quell’idiota si è spostato su di
me.
- Allora... anche lei è un uomo, - ha detto con la sicurezza
che
hanno solo gli stolti.
Essere per la seconda volta messa in ombra come donna dal mio
capitano era davvero troppo.
- Che screanzato! Io sono una ragazza.
- Non ti credo.
Per quanto fosse poco dignitoso avrei voluto prenderlo a pugni:
almeno così avrei scoperto se quel damerino inamidato era
davvero un
boxeur, o se millantava soltanto.
Ma la voce del capitano mi ha distolto da ogni preoccupazione di
questo tipo, ricordandomi dove eravamo.
- Yuki, stai pronta!
Ho guardato il display del pannello comandi: indicava il piano numero
uno. Pochi secondi e le porte si sarebbero riaperte. Mi sono
accostata a lui, spalla contro spalla, il calcio della pistola
stretto fra le dita. Sentivo il metallo freddo sulla pelle priva di
guanti.
- Ci sono, - ho detto, pur sapendo che lui non aveva bisogno di
assicurazioni da parte mia.
Il capitano ha abbassato lo sguardo su di me, annuendo, ed entrambi
ci siamo spostati di lato, pronti a fare fuoco.
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Capitolo 9 *** Una difficile confessione ***
UNA DIFFICLE CONFESSIONE
Dai file del tablet di Tadashi
So che Yuki darà di nuovo la colpa a me.
Abbiamo perso il capitano.
Ma di certo niente di tutto questo sarebbe accaduto se lei non avesse
avuto quell’assurda idea.
E’ stato per colpa di quel travestimento idiota che gli
eventi sono
precipitati fino a questo punto e noi ora ci troviamo alla disperata
ricerca di un modo per salvare Harlock proprio da quelle mani nelle
quali Yuki voleva tanto evitare che cadesse. E adesso non si
dà
pace.
Se penso che ogni sbaglio commesso, ogni cosa che ho fatto su quella
maledetta stazione spaziale, l’ho fatto solo per lei, tutto
questo
mi fa ancora più male.
Le ho incontrate (il femminile è d’obbligo) che
ancora correvano
dopo aver lasciato a terra dietro di loro, ferite ma vive, le guardie
della Diamonds.
Dovevano essere state allertate dalle mazoniane, o forse
semplicemente dal breve conflitto a fuoco scoppiato nei piani della
high class. Comunque sia, sono state loro a
raggiungere per
prime Yuki e il capitano: scendevano ancora la scaletta di servizio
quando le porte dell’ascensore si sono aperte, al piano zero,
rivelando i sospettati dei quali erano a caccia: due ragazze bionde
di circa sedici anni, forse sorelle.
Così le avevano descritte dall’altoparlante, nel
lapidario
comunicato con il quale si mettevano in guardia tutti i passeggeri
della Diamonds. Sulle prime ho pensato che si trattasse di una
coincidenza: un furto, mi sono detto, avvenuto in concomitanza con la
nostra azione di spionaggio. Come avrei potuto sospettare che invece
erano proprio loro le “due ragazze bionde”?
Ovviamente non le ho riconosciute. O meglio, ho riconosciuto solo
Yuki, nonostante gli insoliti vestiti. Ma il capitano... Anche se ho
notato qualcosa di famigliare appena ho incrociato il suo sguardo.
- Non dire niente e continua a camminare, - ha intimato, la voce
torva.
Ho ubbidito, meccanicamente, la bocca aperta come un povero
stoccafisso. Era proprio così che mi sentivo, in effetti: un
idiota
che non capiva cosa stava succedendo.
Che senso aveva quella situazione surreale? Perché Harlock
s’era
conciato a quel modo nel mezzo di quella che, dopotutto, era
un’azione di spionaggio contro le mazoniane? Certo, il
travestimento, la necessità di restare in incognito... Ma
questo era
davvero troppo! C’era qualcosa di perverso nella loro diafana
bellezza, in quella perfetta somiglianza, qualcosa che mi disgustava.
Solo dopo ho capito di che si trattava.
Ovviamente con i tacchi alti Harlock non riusciva a correre alla
nostra stessa velocità.
Yuki, pur con le sue scarpe vertiginose, stava davanti a tutti,
simile a una leggera gazzella. Io le andavo dietro, a un metro di
distanza. Il capitano invece...
Neanche l’avessi fatto a posta, mi sono voltato verso di lui
giusto
in tempo per vederlo cadere. A terra, per un attimo si è
tenuto la
caviglia con la mano, in un gesto del quale non ho potuto non notare
l’eleganza tutta femminile.
Ho rallentato la corsa fino a fermarmi e ho sentito la voce di Yuki
che lo chiamava.
Harlock ha tentato di rialzarsi: faceva un po’ fatica su quei
trampoli e io, senza riflettere, sono andato da lui, come se davvero
avessi dovuto aiutare una ragazza in difficoltà.
- Andate avanti! - ha ordinato, alzando lo sguardo su di me.
Se non fosse stato per gli occhi di colore più scuro,
davvero avrei
potuto scambiarlo per Yuki. La voce, forse per il dolore, era meno
profonda del solito, o almeno così mi è sembrato.
Ma Yuki era a una decina di metri di distanza, che ci aspettava,
spostando nervosamente il peso da una gamba all’altra.
- Ce la fai? - ho chiesto, tendendogli la mano.
Non ha avuto nemmeno il tempo di rispondermi, o forse sono io che non
l’ho sentito, perché dal buio che
c’eravamo lasciati alle spalle
sono comparse le mazoniane.
Erano ancora lontane e di certo non ci avevano individuati: da quando
eravamo entrati nel vasto spazio dell’hangar riservato al
posteggio
delle navette e dei piccoli mezzi da trasporto, attorno a noi
andavano e venivano passeggeri ancora in tuta spaziale, meccanici e
addetti alla manutenzione.
Forse avremmo fatto in tempo ad allontanarci tutti e tre. Ma la
scelta del capitano ci ha portati alla difficile situazione in cui
siamo adesso. Sull’Arcadia, senza di lui, alla ricerca di un
modo
per riportarlo indietro.
Harlock ci ha ordinato di nuovo di andarcene. Sapeva che, se ci
avessero visti tutti insieme, le mazoniane avrebbero riconosciuto le
due “ragazze” dell’ascensore, e poi
probabilmente non voleva
togliere a Yuki il vantaggio acquisito con il suo passo veloce, che
le avrebbe permesso di mettersi presto in salvo sul Lupo Spaziale.
Ma io non lo avrei mai lasciato a terra, da solo, in quelle
condizioni. L’ho aiutato a rialzarsi.
- Vai avanti, Yuki, arriviamo, - ho gridato, facendo un gesto con la
mano.
Yuki ha esitato, ha mosso un passo verso di noi, poi un altro
indietro.
- Vai! - le ha gridato il capitano.
Yuki si è girata e ha ripreso a correre, più
lentamente di prima,
come se comunque volesse aspettarci.
Con il capitano aggrappato a me, sono tornato a guardarmi alle
spalle: ormai le mazoniane erano a poca distanza.
Così ho fatto la sola cosa che in quel momento mi pareva
potesse
risolvere il problema, permettendoci di passare inosservati...
Non mi sto giustificando, sono sincero. In quel frangente mi sembrava
davvero l’unica soluzione possibile, così alla
portata di mano,
quasi banale nella semplicità della sua esecuzione. Del
resto, era
già praticamente tra le mie braccia... Dovevo soltanto
essere
veloce.
Se ripenso a quel momento, vedo solo la parete di metallo, liscia e
nuda, alle sue spalle. Vicino a noi non c’era più
nessuno.
Rimbombavano tutt’attorno solo i passi delle mazoniane,
decine di
passi, cadenzati, decisi, inarrestabili.
Poi ricordo il sapore delle sue labbra velate dal rossetto. Mi
guardava con gli occhi sgranati mentre la baciavo e i passi nemici
sfilavano via dietro di noi come uno stormo di rapaci. Due
fidanzatini che passano inosservati.
Non mi ero neppure accorto che le stavo tenendo i polsi...
Uso il femminile, lo so. Ma era così che lo vedevo in quel
momento.
E sapevo anche il perché. Lui ovviamente no.
Un gancio sotto al mento è bastato a spezzare la vuota
illusione e a
ricordarmi con chi avevo a che fare. Mi sono ritrovato steso a terra,
mentre già le mazoniane passavano oltre, lui che mi fissava
con
occhi furenti e bui.
- Sei un idiota.
Le sue parole erano come tanti morsi. Si è passato il dorso
della
mano sulle labbra, lasciando sulla guancia una scia scarlatta. La
traccia del mio peccato.
Potevo avvertire tutto il suo disprezzo: pulsava sotto il mento e
vibrava nelle mie gengive e tra i denti. Non avevo parole da dire. In
quel momento non sapevo come giustificarmi, perché i
sentimenti che
provavo e la persona alla quale erano rivolti si erano
improvvisamente disgiunti.
Harlock si è levato le scarpe, gettandole a terra poco
lontano da
me.
Ho continuato a fissarlo mentre si allontanava, non più
lungo il
corridoio che stavamo percorrendo fino a poco prima: ha imboccato una
deviazione laterale, immersa in una fonda oscurità. Il mio
cervello
ha registrato l’informazione, ma mi è occorso un
po’ di tempo
prima di alzarmi e rincorrerlo. Dovevo spiegarmi, doveva sapere.
Non avevo idea di dove potesse essere andato finché non ho
visto un
uomo che correva fuori dal bagno reggendosi ancora i pantaloni per la
cinta slacciata. Scappava terrorizzato e in un baleno me lo sono
immaginato rivolgere qualche avances, del tutto
fuori luogo in
quel momento, alla biondina che doveva essere appena entrata. Mi sono
precipitato all’interno.
Harlock era in fondo, davanti alla fila di lavandini ingialliti dal
calcare e dalla scarsa pulizia. L’acqua scrosciava dal
rubinetto,
scorrendogli fra le dita. Si era levato la parrucca e si stava
lavando con vigore la faccia con il poco sapone del dispenser. Mi
sono avvicinato.
Il trucco si scioglieva, formando piccoli gorghi melmosi nel lavabo e
poi scorreva giù per lo scarico, portandosi via la ragazza
che poco
prima avevo baciato.
Di certo lui aveva avvertito la mia presenza, anche se gli ero
arrivato silenziosamente alle spalle, eppure continuava a ignorarmi.
D’un tratto ha ficcato la testa sotto il getto, inzuppando
completamente i capelli, e lì è rimasto per un
interminabile
minuto.
Ho preso coraggio e sono andato accanto a lui.
La mia immagine sbiadita nello specchio scrostato non rendeva
giustizia alla folla di emozioni e pensieri che mi tormentavano.
Dovevo gettarli lì, davanti a lui, in mezzo a
quell’acqua ormai
sempre più chiara, o mi avrebbero fatto soffocare.
Lì giù
sarebbero annegati, speravo, insieme al suo disprezzo, se avesse
conosciuto le vere ragioni del mio gesto.
- Harlock... io... non è come pensi.
Silenzio. Solo acqua che scorre.
- Non l’ho fatto perché sei tu! Anzi, non pensavo
proprio a te.
Io... tu... mi ricordavi così tanto Yuki, mi sembravi
proprio lei.
Non so che mi è successo. Vi siete fuse nella mia mente e io
ti ho
baciato pensando alle sue labbra, desiderando i suoi occhi di cielo.
Ho iniziato ad andare su e giù per la stanza, avanti e
indietro,
come se stessi sbrigliando un filo invisibile che fino ad allora mi
aveva tenuto prigioniero.
- Io non sono mai riuscito a dirle, né a farle capire,
quanto sia
importante per me e in quel momento... non so che mi è
preso,
davvero.
Le parole scorrevano dalla bocca, inarrestabili, come il getto
d’acqua che aveva inondato fino ad un attimo prima la chioma
del
capitano. Continuavo a parlare e non mi ero neppure accorto che lui
aveva sollevato la testa e mi fissava, in silenzio.
- Non volevo baciare te. Non l’avrei mai fatto se tu non
avessi
avuto addosso quel travestimento e quei capelli biondi, uguali ai
suoi. E non so nemmeno da quanto tempo sono innamorato di lei. Forse
da sempre, perché siamo da sempre così vicini,
così in confidenza.
Da quando sono salito sull’Arcadia, nel turbine di ogni prova
che
ho affrontato, c’era lei. Ma per Yuki non sono importante,
non mi
vede neppure. Esisti solo tu!
Devo aver smesso di parlare all’improvviso, quando mi sono
accorto
dello sguardo del capitano fisso su di me. Aveva l’aria
sfinita
come dopo la peggiore delle battaglie. Si è appoggiato alla
parete.
Le questioni di cuore non erano il suo forte.
- Se sei arrivato fino al punto di confonderti, credo sia giunto il
momento di dirle la verità, - ha mormorato.
La sua voce, bassa, calda, era quella delle confidenze tra vecchi
amici. Finalmente sono riuscito a rilassarmi.
- Ma non posso! Da lì in poi tutto sarebbe diverso tra noi.
- E non è quello che vuoi? Che lei finalmente ti veda?
- Sì, ma... rischierei di perderla, di allontanarla.
- Se non rischi non saprai mai cosa prova per te e forse non avrai
l’affetto che tanto desideri. In un universo fatto per la
maggior
parte di solitudine, le persone sono tutto ciò che abbiamo.
Non so a cosa pensasse Harlock quando ha detto quelle parole: se a me
e Yuki o ai vuoti ormai incolmabili della sua vita. La consapevolezza
che, ora che aveva di nuovo quindici anni, avesse finalmente
l’occasione di riempire quei vuoti, si è
affacciata all’improvviso
alla mia mente. Mi sono chiesto “Ma con chi?” e
subito ho visto,
nitida, non l’immagine di Meeme, e nemmeno la vaga ombra di
qualche
donna sconosciuta proveniente dal suo passato, ma il viso di Yuki.
Possibile che al capitano non importasse rinunciare al suo amore?
Eppure lo vedeva anche un cieco quanto era cotta di lui. Dunque non
eravamo rivali e davvero non ricambiava quei sentimenti che tanto
teneramente Yuki gli offriva?
- In verità è da tanto che vi osservo, e mi
chiedevo quando ti
saresti deciso a buttarti. Tu e Yuki fate una così bella
coppia.
Sarebbe un peccato se sprecaste l’occasione che avete avuto
d’incontrarvi, - le parole di Harlock mi sembrarono quasi
evocate
dai miei stessi pensieri e mi fecero trasalire.
“Una
così bella coppia.”
Lo guardai mentre
pronunciava quella
frase con tanta naturalezza e mi chiesi quanto fosse sincero
perché,
anche se sorrideva, il suo viso era colmo di malinconia.
- E adesso fai la
guardia alla porta
che mi tolgo questa roba di dosso. I bagni non si possono chiudere.
Passandomi accanto con
in mano la
borsa dove teneva la divisa, mi ha dato un pugno amichevole sulla
spalla, forse il suo modo per dirmi che l’incidente di prima
era
dimenticato. Non ho potuto far altro che sorridere: da quanto tempo
desideravo un simile cameratismo con il mio capitano?
Dopo pochi minuti, da
dietro la
porta della toilette annerita da migliaia di scritte, è
venuto il
suono della cerniera che si richiudeva e Harlock è uscito
con
addosso la divisa nera dell’Arcadia: finalmente era di nuovo
lui.
- Andiamo, Tadashi.
Faremo
arrabbiare Masu-san se arriviamo in ritardo per cena.
- Giusto.
Per tutto il tragitto
compiuto
fianco a fianco, non sono riuscito ad aggiungere altro. Camminavamo
vicini come potevano fare solo due vecchi amici, in silenzio, ma con
nella mente lo stesso pensiero. Il pensiero di un’unica donna.
Tutto sembrava essersi
aggiustato, o
quasi: le mazoniane erano state seminate e non ci restava altro che
raggiungere Yuki ai Lupi Spaziali e fare finalmente ritorno
sull’Arcadia, a casa.
Mi sbagliavo.
Nota: Spero
mi perdonerete per tutto quello che è accaduto al Capitano
in questo capitolo.
Non ho voluto mancargli di rispetto: è stato vittima degli
eventi. :-)
E se vorrete continuare
a leggere, nel prossimo capitolo vi aspetta:
"Nelle mani di Raflesia".
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Capitolo 10 *** Nelle mani di Raflesia ***
NELLE
MANI DI RAFLESIA
Dal diario di bordo del
capitano
Sapevo dove mi avrebbero
condotto appena hanno stretto
le mani attorno alle mie braccia, costringendomi a rialzarmi. La
guardia personale della terribile regina non poteva che avere
l’ordine di portare al suo cospetto gli intrusi che avevano
osato
spiarla in un momento tanto privato. Fortunatamente, degli intrusi
ero rimasto solo io.
Sono stato separato da Yuki e
Tadashi nell’ultima
parte della nostra fuga.
Poco fuori dal bagno abbiamo
incontrato Yuki. Avrei
dovuto immaginarlo che sarebbe tornata indietro a cercarci: stavamo
impiegando troppo tempo a raggiungerla. Ma la sua non è
stata una
buona idea, soprattutto perché ormai le guardie avevano
memorizzato
il suo travestimento.
Non ce l’ho con lei:
è il prezzo che si paga ad avere
un equipaggio composto prima di tutto da amici. E non ce l’ho
neppure con Tadashi, sebbene sia stata quella stupidaggine di
baciarmi che ci ha fatto perdere tanto tempo prezioso. Se ci ripenso,
un brivido mi scorre ancora lungo la schiena. Al confronto,
incontrare faccia a faccia Raflesia mi dava meno pensiero.
Probabilmente le mazoniane ci
hanno identificati anche
grazie agli stemmi delle divise. Del resto non ci sono molti pirati
nell’universo che possono pensare di mettersi contro Raflesia
e
contare di farla franca. Giusto l’equipaggio
dell’Arcadia. Ai
loro occhi siamo parsi certamente un bel bottino da presentare alla
regina.
Così di nuovo ci
è toccato fuggire. Abbiamo evitato di
sparare il più a lungo possibile, dato il gran numero di
civili in
giro nell’area scalo della Diamonds, e anche le mazoniane si
sono
limitate a starci addosso, esplodendo pochi colpi di avvertimento.
Non era strano, a pensarci ora: con il supporto degli addetti alla
sicurezza della stazione spaziale, ci stavano sospingendo in una
trappola.
Fortunatamente sono riuscito a
spingere anche Yuki oltre
la pesante grata di sicurezza, prima che questa si richiudesse con
uno schianto nel mezzo del corridoio che immette all’hangar.
Subito
dopo è arrivata la prima raffica di colpi mazoniani.
Ho sparato per proteggere i miei
compagni e me, mentre
Yuki, nonostante abbia ripetuto più volte gli ordini, non si
decideva ad allontanarsi. Si rifiutava di accettare che non ci fosse
più alcuna possibilità che anch’io
riuscissi a mettermi in salvo.
Infine anche una delle porte
stagne si è chiusa,
separandoci del tutto. Tadashi se ne è accorto giusto in
tempo per
trascinare Yuki con sé, prima di ritrovarsi entrambi
rinchiusi in
una sorta di scatola metallica senza uscita.
- Portala via da qui!
Credo siano state queste le
ultime parole che sono
riuscito a dirgli. Sapevo che Tadashi non se lo sarebbe fatto
ripetere due volte: la persona che stringeva fra le braccia era
troppo importante. Per me lo erano entrambi.
Nella vasta stanza inondata di
luce artificiale della
suite Emperor, Raflesia se ne stava accomodata su di una grande sedia
di vimini intrecciato e indossava il consueto, lungo vestito nero.
Com’era diversa dall’immagine che mi era rimasta
fissa in mente!
La donna eterea, avvolta nella candida vestaglia dalle maniche di
pizzo, quasi una farfalla di luce. Anche la sua espressione era
mutata. Tagliente e freddo come il filo di una katana, era di nuovo
lo sguardo che avevo imparato a conoscere.
L’ho fissata dritta
negli occhi, prima di essere
gettato in ginocchio a pochi metri di distanza da lei dalla zelante
caposquadra.
- Questo ragazzo sarebbe un
membro dell’equipaggio
dell’Arcadia?
La voce di Raflesia era
sprezzante, come se dubitasse di
quanto le avevano riferito le sue guardie. Dopotutto lei ci conosce
quasi uno a uno, dato che i miei quaranta uomini sono stati tutti
diligentemente schedati dalle Guerriere Ombra, in passato.
- Il modo in cui si rifiuta di
rivelare il proprio nome
e quello della nave su cui è imbarcato me ne danno la
certezza,
maestà.
- Un nuovo acquisto, e per di
più così giovane. Che
strano...
Ha inclinato appena la testa di
lato, come per studiarmi
meglio. Mi sentivo a disagio, lo ammetto. Forse perché non
potevo in
alcun modo sottrarmi alla sua vista. Non mi piaceva che mi vedesse
con quel corpo di adolescente.
- Che cosa ci facevate sulla
Diamonds, tu e i tuoi
compagni, e con quali ordini mi stavate spiando? E’ Harlock
che vi
manda?
I suoi occhi parevano
conficcarsi con più forza dentro
ai miei, aghi di ghiaccio che non potevo estrarre, simili a sonde
indesiderate capaci di arrivare fino all’anima.
Ho spostato
l’attenzione alla sua bocca. La ferita che
avevo riportato al braccio era profonda e il sangue che ne usciva
troppo: un vago ronzio iniziava ad avvolgere le parole di Raflesia e
io dovevo sforzarmi sempre di più per ascoltarla e restare
lucido.
Per questo cercavo di seguire il suo labiale.
- Rispondi ragazzo. Tacere non
ti sarà di alcun aiuto.
I tuoi compagni sono fuggiti e nessuno, tranne me, può
liberarti. E’
in mio potere farti torturare a sangue, finché non si
scioglierà
quel nodo che sembri avere alla lingua, - ha fatto una pausa, prima
di mormorare. - Credi forse che stia scherzando?
Scherzare? Se pensassi che
Raflesia è una che scherza a
questo punto la guerra sarebbe bella che persa. Fare ad alta voce una
simile affermazione avrebbe però significato ammettere che
ero un
membro dell’equipaggio dell’Arcadia. Ma dopotutto,
perché no?
Bastava il primo nome che mi veniva in mente: non era necessario che
sapesse che il ragazzo che aveva di fronte era capitan Harlock.
Forse a causa
dell’emorragia stavo riflettendo troppo
lentamente, perché l’ufficiale a capo della
guardia personale mi
ha colpito tra le scapole con il calcio del fucile e sono crollato
faccia a terra.
- Rispondi alla nostra regina,
stupido terrestre! - ha
latrato.
Sentivo il peso degli occhi di
Raflesia su di me, piombo
azzurro contro il mio corpo.
Nonostante le mani legate dietro
la schiena, mi sono
sforzato di rialzarmi. Che mi vedesse in ginocchio era già
troppo da
sopportare per concederle anche questa soddisfazione.
- Maestà, lasciate
che me ne occupi io. Saprò farlo
confessare in fretta...
Come una folata d’afa
insopportabile, le parole
dell’ufficiale scorrevano sopra di me, aumentando la fatica.
Raflesia deve averla zittita all’improvviso con un gesto e
lei ha
fatto un passo indietro.
- Non hai paura di morire?
Era di nuovo la voce della
regina, bassa, calma, simile
a un frullo d’ali nella notte. Ma non era per nulla
accomodante:
voleva sapere e questa volta non ammetteva silenzi. Eppure, dietro
l’irritazione, era stranamente carezzevole, come se le
importasse
davvero conoscere il perché del mio
“sì” o del mio “no”.
Ma
cosa potevo dirle? Conosceva già la mia risposta.
Mi è parso di sentire
il fruscio delle sue vesti sul
pavimento, e quando sono riuscito a raddrizzarmi, l’ho vista
in
piedi davanti a me. La curiosità con cui mi guardava era
quella che
si riserva alle cose inusuali, che non si sa ancora se si debbano o
meno temere. Pareva stupita dal comportamento del ragazzo che aveva
di fronte... il ragazzo che io ero quattordici anni prima.
Quando ho incrociato il suo
sguardo, la mia reazione è
stata quasi istintiva: ho sorriso, sarcastico, sollevando appena un
angolo della bocca. Raflesia ha inarcato le sopracciglia e il suo
volto si è fatto scuro. Ha serrato le labbra in una linea
sottile,
mentre quegli occhi simili ad acquamarina parevano trapassarmi da
parte a parte, come schegge di vetro.
Si è chinata su di
me, sollevandomi il mento con le
dita lunghe e un po’ fredde. Era un tocco delicato e deciso
come
quello di una pianta rampicante. L’ho fissata con aria di
sfida,
reprimendo emozioni che a quel contatto si sono risvegliate
all’improvviso, con la prepotenza dei sogni costretti
all’oblio
dalla coscienza. Odio, disprezzo e desiderio si mescolavano in un
torbido vortice dentro al quale mi rifiutavo di guardare.
Sentivo le sue unghie aggrappate
alla mia pelle come
grosse spine e una collera silenziosa che le cresceva nel petto, di
pari passo con il mio sdegnoso ritegno.
- Conosco questo sguardo, - ha
mormorato.
Una vertigine improvvisa e mi
è sembrato di precipitare
verso di lei, una nave errante attratta da un pianeta di antimateria.
Davvero mi aveva riconosciuto?
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Capitolo 11 *** Due calici di rosso ***
DUE CALICI DI ROSSO
Dalle
memorie segrete di Raflesia
Sedeva su quella sedia con la
consueta, sfacciata
baldanza che neppure il dolore per la ferita ancora aperta era
riuscito a togliergli. Era lì davanti a me, un prigioniero
con
l’aria da padrone, fiero e arrogante quasi fosse ancora nella
sua
cabina, sull’inespugnabile Arcadia, e io soltanto un
inoffensivo
ologramma.
Avrei preferito che non avesse
quindici anni.
Dopo il nostro faccia a faccia
ravvicinato, ho dato
subito ordine alle mie ancelle di medicarlo, mente io mi ritiravo nel
salottino più appartato dell’immensa suite
Emperor. Le guardie non
hanno gradito il trattamento che riservavo all’intruso,
l’ho
capito dagli sguardi muti che si sono scambiate l’un
l’altra. La
faccia del comandante Helma era la più scura di tutte. Ma
una regina
non può curarsi dell’umore mutevole dei propri
sottoposti, o non
avrebbe la libertà di prendere alcuna decisione. E il mio
prigioniero era troppo prezioso per lasciarlo morire dissanguato come
un qualunque criminale che avesse semplicemente osato spiarmi in un
momento di rara tranquillità.
Non c’erano
giustificazioni da dare. Non intendevo
svelare a nessuno il segreto che avevo rubato a quegli occhi che
conoscevo così bene: Harlock, il terribile pirata spaziale,
era
finalmente nelle mie mani, inerme come solo un ragazzo può
essere.
Tuttavia la soddisfazione era
amara tra i denti come
cibo scadente dopo una lunga attesa, e il mio cuore già
conosceva il
perché.
Ho indugiato alcuni istanti
prima di allontanarmi dalla
grande sala.
Lo confesso: anch’io
avrei voluto vederlo mentre si
spogliava della casacca nera, sotto gli occhi attenti di tre guardie
lasciate di sorveglianza e le bocche affamate dei loro fucili.
L’ho
osservato con la coda dell’occhio. Fingeva indifferenza
davanti
alle sue carceriere, ma io mi rendevo conto che stava controllando
ogni loro mossa: non aveva rinunciato all’idea di fuggire, da
solo,
senza l’aiuto dei suoi.
E l’ho spiato ancora,
dopo. Tramite l’impianto di
videosorveglianza, nel salottino si potevano controllare tutti gli
ambienti della suite: non l’ho perso d’occhio un
solo istante.
Dopo molto tempo, provai
qualcosa di simile al
rammarico. Mi rimproveravo per il desiderio che mi teneva legata a
lui, ed ingannavo me stessa convincendomi che era solo un modo, del
tutto lecito, per assaporare più a lungo un trionfo
inaspettato
quanto lungamente atteso. Così il mio sguardo indugiava su
quella
pelle pallida, della quale riuscivo quasi ad indovinare il profumo:
rose e un sentore di caprifoglio o spezie esotiche e zenzero? Ma non
era la pelle di un uomo... Forse allora odorava di vaniglia e
borotalco?
E’ stato lui in
persona a togliermi ogni dubbio. Forse
per non sciupare la fasciatura, quando l’hanno condotto al
mio
cospetto aveva la manica infilata solo nell’altro braccio e
la
casacca sbottonata fino al petto. Il suo corpo profumava di mare e
cuoio, di malinconia segreta e di fanciullezza perduta troppo presto.
L’ho respirato a fondo, socchiudendo gli occhi.
Quant’eravamo
simili, io e lui, l’ho scoperto in quel momento.
Harlock mi ha guardato senza
alcuna emozione, come uno
specchio che restituiva la mia stessa, ostentata indifferenza, ma un
groviglio pulsante d’inquietudine e desiderio tormentava di
certo
il suo cuore quanto il mio. Mi vergognavo di questo sentimento.
Forse sembrerà
strano, ma anche una regina dall’anima
di metallo come me conosce la vergogna di fronte a emozioni
così
oscure e prepotenti: possibile che la sua giovane età non
bastasse a
fermarmi?
Gli feci cenno di sedersi e lui
obbedì senza fiatare,
esausto. Si lasciò quasi cadere sulla sedia e il suo viso si
rilassò
per un istante.
Rimasi ad osservarlo.
Quale singolare turbamento nel
cercare di riconoscere
sul suo viso e nei suoi modi i tratti e i gesti dell’uomo che
avevo
conosciuto, proprio come si fa per i morti, con i figli che
sopravvivono ai padri! Provavo un’assurda tristezza, un
inspiegabile senso di vuoto. Quel giorno mi era davvero stato rubato
qualcosa.
Feci cenno con la mano e Merope
si avvicinò per
versarci del vino. I miei occhi erano sempre fissi su Harlock e
neppure me ne avvedevo. Su di lui che si comportava come se non ci
fossi. Mi guardava solo di sfuggita, sdegnandomi come si fa con
un’immagine virtuale.
- Era da molto tempo che volevo
sedere con te davanti a
due calici di buon vino, - dissi, mentre l’ancella si
congedava da
noi, lasciandoci soli.
Prendendo il bicchiere fra le
dita, Harlock si limitò a
farne ondeggiare il contenuto. Sembrava scrutare distrattamente il
proprio riflesso.
- Che cosa vuoi, Raflesia? -
chiese.
La riconobbi subito: era la sua
voce, solo un paio di
timbri più chiara, quella di un ragazzo con troppi pensieri.
Sorrisi
involontariamente: l’avevo trovato.
- Credo sia venuto il momento di
parlarci un po’, e la
sorte ci ha offerto oggi una splendida occasione. Ma tu non sei dello
stesso avviso, a quanto vedo.
Per un momento, sulle sue labbra
fiorì l’accenno di
una risata. Bevve un sorso di vino, lentamente, allo stesso modo in
cui diluiva nel tempo la sua risposta. Aspettai, placando
l’irritazione per la sua scortesia con lo squisito rosso di
Andromeda, il vino più pregiato delle nostre riserve. Il suo
sapore
permetteva al nostro mondo di sopravvivere in noi sotto una forma
appena tangibile, e ne prolungava l’amaro rimpianto,
rinvigorendo
l’attesa.
Il vino di Andromeda era un
privilegio per pochi, ma
sapevo che in fatto di alcolici Harlock era un buon intenditore ed
ero certa che l’avrebbe apprezzato. Innanzitutto sapeva come
berlo,
a piccoli sorsi, gustandolo in bocca come meritano le rare
prelibatezze. Era degno di conoscerne il valore.
- Il vino è di tuo
gradimento? - chiesi, senza celare
una punta d’ironia.
Da parte sua non mi aspettavo
niente di più che un
cenno della testa o un silenzio vagamente accondiscendente.
- Molto, - disse invece, e mi
sorprese.
Lasciai che ne bevesse ancora ed
aggiunsi.
- Viene da Mazone. Simile a un
fiume scarlatto, questo
vino migra insieme al suo popolo, in attesa di un luogo dove poter
nuovamente essere coltivato. - Riflesso sulla superficie ondeggiante
del vino, il mio volto era triste. - E’ molto prezioso...
- Perché mi usi tanto
riguardo, Raflesia? Che cosa
speri di ottenere?
- Credi che stia cercando di
comprarti? In questo
momento mi sarebbe più facile ucciderti.
- Perché non lo fai?
Pensi forse che rischierei la vita
del mio equipaggio e la mia stessa nave pur di mettermi in salvo?
- So bene che non lo faresti
mai. Il tuo onore è pari
al tuo orgoglio e perderesti l’anima per proteggere la
magnifica
Arcadia e quanto contiene.
- C’è anche
la mia anima, là dentro. Non potrei
vendere l’Arcadia senza vendere anche me stesso. Ma non credo
affatto che tu intenda fissare il prezzo del mio riscatto. Non
c’è
niente di barattabile per te.
Fu in quel preciso istante che
l’idea si formò nella
mia mente, chiara e integra, e mentre essa germogliava, nel mio cuore
nasceva una singolare soddisfazione, che non provavo da tempo, un
senso di completezza che temevo di aver perduto per sempre.
- Invece ti sbagli. Esiste
qualcosa che voglio avere in
cambio della tua libertà.
Harlock aggrottò la
fronte, fissandomi con malcelato
stupore. Non credeva che fossi davvero intenzionata a lasciarlo
andare. Del resto ancora adesso io stessa mi sorprendo della mia
decisione. Eppure, tornassi indietro, farei ad Harlock la stessa,
identica proposta.
- Di che si tratta?
La sua voce
m’incalzava, mentre il vino scemava nel
bicchiere suo e mio.
- Non così in fretta.
Prima voglio sapere cosa ti è
successo, conoscere ogni minimo dettaglio.
Di nuovo quella specie di breve
risata. Harlock mi ha
guardato, appoggiando la guancia sul palmo della mano.
- Cosa ti fa pensare che questa
sera io sia in vena di
confidenze proprio con te?
Avrei voluto ordinarglielo,
oppure avrei potuto
estorcerglielo con la forza, o con le droghe, ma a che cosa sarebbe
servito? Benché già la conoscessi, se volevo
ottenere da lui una
risposta il mio orgoglio di regina doveva piegarsi di fronte al
più
impenetrabile degli uomini.
- Per una volta potresti
semplicemente essere educato.
- Sono sicuro che i tuoi soldati
hanno fatto rapporto,
dopo il nostro ultimo scontro, e che già sai qual
è stato il
terreno di battaglia.
- Un gruppo di Lupi Spaziali ha
inseguito uno dei miei
caccia fino all’orbita di un piccolo pianeta.
- Un pianeta solo
all’apparenza paradisiaco.
- Non penso che tu fossi su uno
di quei Lupi Spaziali.
Perseguitare un nemico che scappa non è nella tua etica.
Il nostro dialogo assomigliava a
una partita a scacchi,
e questo mi divertiva: ogni parola una mossa attentamente studiata.
Harlock bevve un altro sorso,
svuotando il bicchiere.
- Non ha importanza per cosa ci
sono andato, ma c’ero
anch’io su quel pianeta.
- L’Eden è
un luogo insidioso per gli umani. Laggiù
tutto è vivo e ha una volontà propria.
- Non mi stupirei se fosse una
delle vostre basi.
Nascosi un sorriso dietro al
calice di rosso e posai a
mia volta il bicchiere vuoto.
- Sei stato nella palude?
- L’abbiamo
attraversata.
- Senza protezioni?
- L’equipaggiamento
era danneggiato.
- Solo il tuo DNA è
mutato?
- Fortunatamente.
- Dovresti piuttosto ritenerti
fortunato ad essere
sopravvissuto alla trasformazione. Ben pochi escono incolumi
dall’eredità della palude.
Non disse nulla, ma non ce
n’era bisogno. Potevo
immaginare da sola le sofferenze che doveva aver sopportato prima di
ritrovarsi così giovane. In segreto ammirai la forza
d’animo
dell’unico terrestre degno di sopravvivere alla nostra
invasione.
L’unico terrestre che dovevo uccidere ad ogni costo.
Pensai al vino di Andromeda: un
giorno lo avrei bevuto
sulla Terra, ricordandomi dell’implacabile avversario che
avevo
sconfitto.
Un giorno forse, ma ora lui era
vivo. E volevo
che lo rimanesse.
- Sei disposto a provare un
dolore persino più atroce
di quello che già hai sperimentato? Un dolore che potrebbe
ucciderti?
Harlock fissò lo
sguardo su di me, rabbuiandosi.
- Non parlare per enigmi,
Raflesia. Che cosa vuoi dire?
- Ti sto proponendo una cura.
- Cosa?
- Non dirmi che non vuoi tornare
ad essere quello che
eri.
- E tu vuoi farmi credere che
saresti davvero in
grado di invertire la trasformazione?
La sua breve risata fu simile a
una folata d’aria
calda.
- Non vorrei mancare di rispetto
alla grande regina di
Mazone, ma mi scuserai se non ti credo.
La sua reazione non mi scompose:
non mi aspettavo certo
che accettasse con entusiasmo. Ma io non avrei tollerato un rifiuto.
- Sto parlando molto seriamente,
invece. O hai forse
deciso di ricominciare la tua vita daccapo? Non credevo che un uomo
come te sentisse il bisogno di una seconda occasione.
- Non mi provocare, Raflesia.
Sai bene che rivorrei il
mio corpo così com’era, con ognuna delle sue
cicatrici. Ma che
proprio tu venga ad offrirmi una soluzione... A meno che non ti sia
messa in testa di giocarmi un brutto scherzo mentre sono sotto i
ferri o di ottenere chissà quale ricompensa.
- La Terra non è la
posta in gioco, se è quello che
temi. E non dovrai andare sotto i ferri.
- E allora cosa vuoi?
- Niente.
Mi alzai, avvicinandomi
all’unica, stretta finestra
che si affacciava sullo spazio buio. Le stelle erano piccole
lucciole, simili a un miraggio nella loro quieta lontananza. Non lo
sentii avvicinarsi. D’un tratto comparve accanto al mio
riflesso.
Il suo viso tirato era fiero e inaccessibile, ma forse era solo la
febbre a farne brillare così tanto gli occhi.
- Perché lo fai? Una
simile offerta non ha alcun senso,
lo capisci da sola.
Non risposi. Io conoscevo il
perché, ma come potevo
ammetterlo davanti a lui? Potevo forse sopportare che quel pirata
ridesse di me?
- Raflesia...
Disse il mio nome con una
dolcezza inaspettata.
E’ solo stanco,
pensai. E soprattutto, non è
esattamente la sua voce, piena di delicatezza quando si rivolge a
quella bambina, ma dura e sarcastica ogni volta che parla con me.
Sembrava piuttosto una farsa: la sua voce, calda e gentile, ma un
poco più giovane, il suo viso, quasi intenerito, ma privo
dei segni
delle molte battaglie che lo avevano reso così
indecifrabile. E
affascinante.
Come una regina alle prime armi,
non riuscii più a
contenere le parole.
- Rivoglio il mio nemico, -
dissi. - Il mio
irriducibile, onorevole nemico.
- Cosa?
- Hai capito bene. - Lo fissai
dritto negli occhi, dura,
feroce.
- Stai cercando di umiliarmi,
Raflesia? Sono sempre io.
O forse temi che ti farò qualche sconto, che sarò
più tenero con
te solo perché ho quindici anni?
- Puoi cercare di convincere te
stesso che nulla è
cambiato, ma non puoi ingannare me, - risposi. - Io vedo nel tuo
cuore più a fondo di quanto tu possa immaginare,
più intimamente di
quanto tu stesso riesca a fare. E riconosco solo una metà
dell’uomo
che si frapponeva fra me e la Terra. Non ci sarebbe soddisfazione in
questa vittoria.
Harlock serrò forte
la mascella, le parole come un
fiume in piena contro la diga dei denti. Potevo sentirle riecheggiare
con rabbia in mezzo al suo silenzio: “Sono ancora un
uomo!”
- Non rivuoi ciò che
hai perduto? L’altra parte di te
stesso? - lo tentai, una voce carezzevole che non credevo di
possedere.
Mentre mi guardava, la sua ira
si stemperò in dolorosa
consapevolezza colma di rimpianto. Quella fiera baldanza pareva
oscillare, lo scudo rassicurante che aveva levato davanti a
sé
mostrava una minuscola crepa. Dovevo infilarvi in fretta il coltello
e allargare quella ferita per ottenere quello che volevo, ma
d’un
tratto mi ritrovai disarmata. Nell’improvviso smarrimento del
suo
cuore, in quell’infinita solitudine priva di scopo, rivedevo
me
stessa.
- E’ naturale che tu
sospetti un inganno, - ripresi. -
Ma mi sarebbe molto più semplice farti fucilare qui e subito
dai
miei soldati, non credi?
- La tua proposta non ha molto
senso, ne converrai.
- Un grande nemico rinforza la
determinazione nella
lotta e tiene unito un popolo errante
nell’immensità dello spazio.
Quando arriveremo sulla Terra la mia gente sarà temprata
dalle
numerose battaglie.
- Se
arriverete sulla Terra.
Gli sorrisi, velenosamente
condiscendente.
- Quale garanzia ho che la tua
cura funzioni?
- Nessuna, se non la mia parola,
e la certezza che
conosciamo Eden molto più di voi.
- Ottime credenziali. Perfette
per chi ama il rischio.
- Allora?
Ricordo come fosse ora il
sorriso divertito che incurvò
le sue turgide labbra.
- Accetto, - disse.
Qualcosa dentro di me
esultò di gioia.
Ottenni per lui il dissequestro
del Lupo Spaziale e un
lasciapassare a nome della Regina Raflesia dell’Onnipotente
Mazone.
Nessuno sollevò la benché minima obiezione. Solo
Harlock accettò
di malavoglia le facilitazioni che gli offrivo. Probabilmente avrebbe
preferito una rapida fuga dall’esito incerto
all’umiliazione di
sapere il suo nome associato al mio, seppure virtualmente.
Lo guardai partire dalle grandi
vetrate della sala,
seduta sulla sedia di vimini, a sorseggiare in solitudine un altro
calice di rosso.
Da quella notte, e per molte
altre notti, sognai di lui.
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Capitolo 12 *** Una calcolata follia ***
UNA CALCOLATA FOLLIA
Dai
file del tablet di Tadashi
Vederlo tornare da solo era
l’ultima cosa che ci
saremmo aspettati.
Riuniti in sala comandi attorno
alla sua sedia vuota
come davanti a un altare, stavamo pianificando l’operazione
che
avrebbe dovuto trarlo in salvo. Avevamo i minuti contati, lo
sapevamo: anche ammesso che non avessero ancora scoperto chi era,
quanto avrebbero impiegato le mazoniane prima di giustiziarlo?
Contavamo sulla
genialità di Yattaran e sulle sue
trovate per un intervento fulmineo, quasi chirurgico. Tentare
un’azione di forza usando la piena potenza
dell’Arcadia era
troppo rischioso, anche se l’idea di puntare i cannoni
direttamente
contro la Suite Emperor mi allettava non poco.
Poi, tutto d’un
tratto, il radar ha segnalato una
navetta in rapido avvicinamento, un Lupo Spaziale solitario.
Stentavamo a credere ai nostri occhi, ma la voce del capitano via
onde radio ha tolto ogni dubbio.
- Sono Harlock. Aprite il
boccaporto, sto rientrando.
Grida di giubilo si sono levate
in sala comandi,
mescolate a esclamazioni e sospiri di sollievo.
Non importava come avesse fatto
a liberarsi da solo: già
lo sapevamo che Harlock era capace di tutto. Ciò che contava
era
solo che fosse tornato vivo.
Non immaginavamo che dovesse
darci parecchie
spiegazioni.
Credo che, mentre si trovava in
infermeria, Harlock
abbia subito messo al corrente il dottor Zero dell’offerta
fattagli
da Raflesia. Del resto la sua permanenza lì dentro
è stata ben più
lunga di quella necessaria per una medicazione. Devono aver discusso
molto, e so bene con quali toni perché, quando sono arrivato
davanti
alla stanza, sentivo le loro voci accendersi e spegnersi oltre la
porta chiusa. Il dottor Zero non era mai stato così alterato.
Mi sono fermato ad ascoltare:
non ho impiegato molto per
mettere insieme tutti i pezzi della conversazione. Mi è
bastato il
nome di Raflesia unito alla parola “cura” e poi la
risolutezza
carica di apprensione con la quale il dottore cercava di dissuadere
il capitano dalla sua folle decisione. Invano. Per questo sono
intervenuto anch’io.
Non ho usato mezzi termini per
dirgli come la pensavo e
forse questo non ha facilitato le cose. Harlock si è
stancato di
ascoltare solo opposizioni ed è uscito, tornandosene nella
sua
cabina.
- Voglio riposare, - ha detto
semplicemente, e Mime è
andata dietro di lui come un’ombra sempre silenziosa.
Mi stupiva che non avesse nulla
da dire su
quest’argomento, che anche lei non si fosse unita ai nostri
tentativi di convincere Harlock a desistere da quel proposito.
Per questo andai subito da Yuki,
certo di trovare in lei
un’alleata perfetta.
Mi ha accolto in maniera strana,
devo dire, sembrava
quasi sorpresa di vedermi. Sulle prime non ho voluto dare importanza
alla cosa. Pensavo fosse solo stupita per l’apprensione che
dimostravo nei confronti di Harlock dopo i recenti bisticci. Soltanto
dopo ho saputo di che si trattava. In quel momento c’era
un’autentica emergenza che richiedeva tutta la mia attenzione
e mi
sono concentrato solo su quella.
Insieme abbiamo organizzato il
nostro piccolo assalto al
capitano, convinti che Raflesia lo avesse indotto ad accettare con
qualche subdolo inganno o con strumenti non leciti. Pensavamo che
potesse persino essere drogato.
Quando siamo entrati nella sua
cabina lo abbiamo trovato
ancora seduto sulla sponda del letto, vagamente assonnato. Non ci
aspettavamo che Mime fosse ancora lì con lui. A volte
suonava finché
Harlock non si era addormentato, ma gli concedeva tutta la privacy di
cui aveva bisogno quando finalmente si coricava. Ho sempre pensato
che fosse perché aveva rispetto di un uomo che non poteva
concedersi
il lusso di apparire inerme davanti a nessuno.
Ho lasciato che fosse Yuki ad
attaccare battaglia,
immaginando che sarebbe stata ben più convincente di me. Ora
che ero
sicuro di non avere più in questo giovane Harlock un rivale,
ma un
alleato e persino un confidente, ogni astio nei suoi confronti era
svanito, lasciando il posto a un desiderio di protezione del tutto
nuovo. Temevo per la sua vita in un modo che non avevo mai
sperimentato prima di allora e volevo la sua sicurezza come la si
può
volere per un famigliare o per la parte più importante
dell’Arcadia.
Se il computer era l’anima della nave, lui ne era il cuore e
nessuno sano di mente avrebbe potuto permettere a Raflesia di
affondarvi le sue radici tossiche.
Yuki si è seduta
sullo sgabello di fronte al capitano,
sulla faccia un’espressione severa piuttosto che preoccupata.
- Capitano, so della proposta di
Raflesia, Tadashi mi ha
raccontato tutto. Non dovete darle retta. Si tratta di una trappola,
non c’è dubbio. La regina di Mazone sa scrutare
nel cuore delle
persone e cerca di usare i sentimenti delle sue vittime per i propri
interessi di guerra. Ricordate cosa ha fatto con Zolba e Rucia? Lei
di certo immagina quanto desiderate tornare adulto e vuole soltanto
approfittarne.
Harlock, che aveva ascoltato in
silenzio il discorso di
Yuki, frenetico quasi come una raffica di mitraglia, si è
alzato
sospirando, dirigendosi verso le vetrate.
- Dopo la paternale di Tadashi
non mi aspettavo che
anche tu venissi a farmi la predica. Mi sembra di parlare con i miei
genitori.
Sono convinto che abbia usato
appositamente un simile
paragone: ho visto Yuki accusare il colpo mordendosi il labbro in
silenzio, prima di tentare di giustificarsi.
- Capitano, io...
- So che lo fai con le migliori
intenzioni, ma ho già
deciso. Io e Raflesia abbiamo un preciso accordo e le
modalità con
cui procedere sono già state stabilite. Non ho intenzione di
tirarmi
indietro.
- Un accordo? Non puoi parlare
sul serio, Harlock, - ho
esclamato, scambiando con Yuki uno sguardo terrorizzato. - Sapete che
non c’è da fidarsi delle parole di quella donna!
- Era sincera, lo so.
- Sincera? Quando mai Raflesia
è stata sincera?
Capitano, perché vuoi correre questo rischio? Dopotutto
questa
trasformazione cosa cambia d’importante? Hai una seconda
giovinezza
da vivere. Chissà quanti vorrebbero essere al tuo posto.
- Tadashi...
- No, Harlock, non tentare di
convincermi. Non so con
quali argomenti Raflesia abbia potuto ingannarti, ma stai commettendo
un grosso errore.
Nella foga della mia ramanzina
non mi ero accorto che
Yuki fosse sbiancata. Teneva gli occhi fissi su Harlock quasi senza
vederlo. Sbarrati, increduli, lo accusavano come se l’avesse
tradita.
Provai un improvviso smarrimento
e per un attimo
desiderai con tutto me stesso che Harlock le confessasse
chissà
quale orrendo rapporto carnale con la Regina. L’avrebbe
scoraggiata
forse, di certo delusa, o magari non sarebbe servito a nulla. Ma
doveva almeno cercare di allontanarla da
sé, ora che sapeva
ciò che provavo per lei. Se anche desiderava dirle qualcosa,
però,
Harlock non fece in tempo a parlare.
- Che cosa ti ha fatto,
capitano? Cosa è successo tra
voi quando siete stati insieme?
Non l’avevo mai vista
così. Parlava con un filo di
voce, quasi roca, e quel suo improvviso cambiamento stupì
Harlock
quanto me.
- Yuki?
- Non dovevi restare solo con
lei. Sei così
vulnerabile, ora.
- Che dici?
- Ho visto come la guardi.
Harlock si è
rabbuiato. Si è avvicinato a Yuki e per
un istante ho creduto che volesse schiaffeggiarla. Ma lei ha
proseguito come se quella nube irata non si stesse addensando al suo
orizzonte.
- Puoi cercare di mentire a noi,
ma non a te stesso. Tu
sai che la desideri.
La cassa dell’arpa ha
risuonato come se protestasse
mentre Mime la deponeva sul pavimento. Si è avvicinata ad
Harlock
mettendosi al suo fianco, una mano sulla spalla.
- Non dovete perdere fiducia in
lui. Harlock non è
cambiato, io lo so.
Ha detto così, con la
solita, inspiegabile sicurezza, e
io mi sono chiesto da quanto tempo lei fosse a conoscenza delle
oscure emozioni del capitano. Perché di certo stavano nel
suo cuore
da ben prima della trasformazione.
Yuki ha abbassato lo sguardo,
scuotendo la testa.
- Sono solo preoccupata per te.
Mi faceva così male
vederla soffrire a quel modo.
Vederla soffrire per lui. Harlock sembrava talmente insensibile,
protetto dalla corazza della sua divisa di pelle nera e dal jolly
roger stampato sul petto, lì al posto del cuore.
Invece, all’improvviso
l’ha abbracciata, attirandola
a sé, la testa nell’incavo della sua spalla.
- Mia piccola Yuki, - ha
mormorato, appoggiando la
guancia all’oro dei suoi capelli.
Yuki si è irrigidita
prima di aggrapparsi a lui con
tutte le forze, le braccia avvinghiate alla sua schiena. Piangeva
sommessamente.
Io e Mime abbiamo lasciato la
stanza uno dopo l’altra
senza dire nulla, senza il coraggio di guardarli neppure in faccia.
L’immagine di loro due abbracciati mi riempiva gli occhi.
Perché Harlock mi
stava facendo questo?
|
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Capitolo 13 *** Il mio Capitano ***
IL MIO CAPITANO
Dal
diario di Yuki
Sembrava un sogno uscito da una delle
mie notti agitate.
Ero seduta sullo sgabello di fronte alla sedia del capitano a bere
insieme a lui quel vino che tante volte aveva condiviso con Mime.
Nella cabina regnava un’intimità ovattata e il
cigolio della nave
cullava i nostri pensieri come una ninna nanna. Era questa
l’atmosfera che Mime aveva il privilegio di assaporare ogni
giorno,
sola con lui?
Quante volte avevo desiderato di
poter essere al suo
posto, per partecipare di quelle preoccupazioni che così
spesso
avevo visto trasparire sul viso di Harlock, per poterle alleviare con
una parola gentile, una carezza, o con la sola presenza. E adesso
finalmente stavo davanti a lui, e non c’era nessun altro.
Non mi importava che non fosse
un uomo: aveva un anno in
meno di me, ma sarebbe cresciuto. Soprattutto, lo avremmo fatto
insieme. Non mi sarei persa nulla della sua vita, delle sue
esperienze, persino delle sue sofferenze.
- Ascolta Yuki.
La voce di Harlock mi ha
ridestata da queste
fantasticherie. Ha spezzato il silenzio come una cometa fa con il
buio, ma vi riconobbi un tono grave che inutilmente mi sforzai
d’ignorare.
Era stato tanto gentile con me
solo poco prima,
lasciando che mi calmassi contro il suo petto. E mentre gli chiedevo
scusa per la mia reazione mi ha sorriso senza fare commenti.
Proprio la sua improvvisa
tenerezza, quell’abbraccio
tanto a lungo cercato senza alcuna speranza di riceverlo, mi avevano
fatto perdere il controllo, come una bambina. Sentivo ancora il viso
in fiamme per la vergogna.
Harlock aveva voluto che mi
sedessi a bere qualcosa.
Siamo rimasti sempre in
silenzio, mentre il mio
imbarazzo si stemperava in una tranquillità non priva
d’inquietudine. Stava per succedere qualcosa che avrebbe
cambiato
per sempre il mio rapporto con lui, ne ero certa e, di qualunque
natura fosse, non potevo fare a meno di avere paura.
- Apprezzo i tuoi scrupoli, e
quelli di Tadashi, - ha
ripreso. - Ma non devi temere per me. Non ho accettato la proposta di
Raflesia senza un minimo di assicurazioni da parte sua.
- In che cosa dovrebbe
consistere questa cura?
Mi sforzai affinché
la voce suonasse ferma, priva di
emozioni e mi sembrò funzionare fin troppo. Sembrava
asettica e
professionale come quella di un medico. Meglio così, mi
dissi.
Era questo l’ultimo
sistema che avevo a disposizione
per tentare di convincerlo: dimostrargli che i miei timori erano
frutto di una pacata analisi e non di turbamenti emotivi.
- Nell’iniezione di un
antidoto capace d’invertire
la trasformazione, - ha risposto.
- Non sarebbe più
prudente analizzare questa sostanza,
prima?
- Anche se lo facessimo non
saremmo in grado di capire
se funziona.
- Ma potremmo verificare che non
contenga nulla di
tossico o, peggio, di velenoso.
- Il dottor Zero sarà
presente durante tutta la
procedura. Gli chiederò di fare un’analisi prima
dell’intervento.
- Si terrà
sull’Arcadia?
Quasi le avesse preparate in
anticipo, il capitano
possedeva una risposta adeguata per ogni questione che sollevavo. Del
resto doveva averne già ampiamente discusso con il dottor
Zero. La
possibilità di raggiungere il mio scopo mi appariva sempre
più
remota.
- Ci incontreremo in un luogo il
più possibile
neutrale. Una nave ospedaliera mazoniana sosterà nei pressi
dell’Arcadia. L’intervento avverrà
lì, alla presenza del
dottore e di un medico mazoniano.
- Ma perché non
sull’Arcadia? Non oserebbero giocarci
un tiro mancino se fossero a bordo della nostra nave.
- Perché
lì hanno tutte le attrezzature necessarie.
Inoltre il medico sembra essere uno piuttosto importante. Raflesia
aveva a cuore la sua sicurezza.
- Si tratta solo di
un’iniezione. Si potrebbe fare
ovunque...
- Non è
così semplice, Yuki.
Si è alzato per
osservare le stelle oltre il graticcio
delle finestre. Steso sul suo volto vedevo il velo
dell’inquietudine
e mi chiedevo a cosa stesse pensando, lui che non temeva nemmeno la
morte. O forse con quell’intervento...
Un dolore freddo mi ha colto
d’un tratto alla bocca
dello stomaco. Al di là della minaccia costituita dalle
nostre
letali nemiche e dai trucchi di Raflesia, Harlock correva un pericolo
reale con quella nuova trasformazione.
Nella mia mente lo vidi di nuovo
nelle condizioni in cui
l’avevo riportato sull’Arcadia, semi incosciente e
in preda a
dolori atroci. Avrebbe dovuto di nuovo attraversare tutto questo?
Harlock, non lo devi
fare se questo è il prezzo. Non
lo devi fare!
Avrei voluto gridargli queste
parole stringendolo a me
per impedirgli di correre incontro al proprio destino. Avrei voluto
trovare un modo per dirglielo senza apparire spaventata, senza che
lui capisse quanto avevo paura di perderlo. Ma Harlock ha ripreso a
discorrere come se nulla fosse, e io non ho potuto fare a meno di
seguire la scia della sua calda voce, come un pesce che nuota nella
corrente.
Quando ci ripensai, mi resi
conto che le sue confessioni
avevano il sapore dolceamaro di un addio. Fui sciocca a non
accorgermene subito. Avrei provato a trattenerlo con maggiore
determinazione e forse non avrei perduto quel poco che avevo
conquistato. Colui che avevo di più caro al mondo. Ma
ciò che disse
aveva esattamente lo scopo di allontanarmi, cercava solo un modo
delicato per farlo.
- C’è
un’altra cosa di cui ti devo parlare, -
riprese.
Rimasi in silenzio aspettando
che proseguisse, mentre
dentro di me l’ansia cresceva come l’aria in un
mantice.
- Avrei dovuto farlo tanto tempo
fa, ma solo ora vedo
con chiarezza cose che probabilmente ho a lungo ignorato, chiamandole
con un nome che non apparteneva loro.
Si è voltato verso di
me e il suo sguardo limpido,
schietto, mi diceva dolorosamente che non mentiva.
- Ti sono grato per i tuoi
sentimenti, Yuki, ma sbagli a
rivolgerli a me. Io non sono in grado di ricambiarli.
Credo di aver pronunciato il suo
nome sottovoce. Ricordo
la pressione delle mie stesse dita al centro del petto. Come se mi
sentissi nuda di fronte ad un’arma ho cercato di proteggermi
il
cuore. Le parole di Harlock mi facevano del male come proiettili, i
suoi occhi arrivavano dritti all’anima come strali veloci. La
verità a lungo cercata e fuggita, il segreto di
ciò che provava per
me, era ora reale e sgradito come il peggiore dei doni.
- Il buio che mi porto dentro
è troppo vasto per poter
essere illuminato dalla tua luce gentile, per poter essere cancellato
da questa miracolosa trasformazione che ha riportato indietro per un
po’ il mio tempo. Chiuso nel profondo,
c’è il me stesso di
sempre, prigioniero di una specie di sarcofago tirato a lucido che
è
questo corpo.
- Non è
così! Questo non è un sarcofago. E’
carne
calda e giovane, e io l’ho sentita fremere contro di me.
Questa è
vita che può essere di nuovo vissuta!
Mi sono alzata di scatto,
gridando e, senza
accorgermene, in un attimo ero vicina a lui e gli stringevo le mani
ancora prive di guanti. Riuscivo a sentire il suo respiro sul viso e
il calore che s’irradiava verso di me, come
l’energia di una
stella nera che non si è ancora spenta.
Harlock mi ha accarezzato la
guancia, sciogliendo lo
stupore di un attimo prima in un’espressione carica di
tenerezza.
Avrebbe potuto essere quella di un innamorato, se non avesse appena
detto quelle parole, che pesavano su di me come tutta la Terra. Mi
sentivo schiacciata, spinta sempre più fuori dalla sua vita,
simile
a un inutile rifiuto.
Harlock ha sorriso, vagamente
sarcastico.
- Sono un trentenne nel corpo di
un quindicenne, Yuki. E
tu sai che dico il vero. Il mio tempo e il tuo sono così
lontani...
troppo.
Si è staccato da me
per versarsi un altro po’ di
vino, ma invece di berlo si è limitato ad osservarne i
riflessi
danzanti.
- Incontrerai qualcuno simile a
te, un giorno. Qualcuno
con la tua stessa luce interiore.
Ho fatto un cenno di diniego con
il capo, ma lui non è
parso rendersene conto.
- Presto questa guerra
finirà e ti ritroverai con il
futuro ancora tutto da scrivere. E ci saranno persone che potranno
farlo insieme a te, persone che forse hai già incontrato su
questa
nave.
L’unica
persona con cui vorrei scrivere le pagine
della mia vita sei tu, Harlock. Perché non mi vuoi al tuo
fianco?
Questo pensiero, gigantesco come
una montagna, mi
oscurava la mente e lo ascoltai appena mentre lasciava cadere con
noncuranza una frase fra noi, come si fa con un piccolo sasso
nell’acqua.
- Anche per Tadashi è
lo stesso. Quando alla fine avrà
saziato la sua sete di vendetta, avrà bisogno di un nuovo
scopo per
cui vivere, di qualcosa da costruire piuttosto che da distruggere.
Si è girato verso di
me, fissandomi negli occhi.
- Potreste farlo insieme, non
credi?
Faticai a comprendere il senso
di quelle parole. Erano
come una sagoma confusa dietro il vetro appannato della mia mente
disorientata. Mi stava davvero suggerendo di pensare a Tadashi come
ad un compagno di vita? Qualcuno con cui restare anche dopo aver
lasciato l’Arcadia? Non sarebbe stato piuttosto
l’amaro surrogato
di colui che avrei perduto abbandonando la nave, come il
caffè
solubile di cui ci si accontenta in mancanza di una buona miscela?
Scossi la testa con decisione.
- No... no.
- Yuki, non puoi pensare davvero
di trascorrere il resto
dei tuoi giorni su un’astronave pirata insieme a un
rinnegato. Io
non ho niente da offrirti, niente che valga veramente la pena. Anzi,
forse la mia presenza t’impedisce di vedere quanto sono
importanti
le persone che hai accanto, quanto ti vogliono bene.
- Non credo che Tadashi sia
interessato a me. E anche se
lo fosse, io avrei il diritto di non ricambiare i suoi sentimenti.
- Non pensi che potresti
semplicemente non esserti mai
resa conto di quello che provate l’uno per l’altra?
- Se avesse provato
qualcosa... me lo avrebbe fatto capire già da tempo.
E’ da tanto
che siamo insieme su questa nave. - Anche se non volevo, la mia voce
suonò più flebile, mentre l’imbarazzo
cresceva insieme al
riaffiorare di ricordi che avrei preferito cancellare. -
Non
penso che ci sia posto per nessun altro nel suo cuore, proprio come
nel mio, perché c’è già
qualcuno che gli interessa molto più di
me.
Harlock ha inarcato un
sopracciglio e mi ha fissato come
se lo cogliessi alla sprovvista.
- E chi sarebbe? - ha chiesto,
bevendo un sorso di vino
quasi per darsi un contegno.
Ho abbassato la testa, mentre
arrossivo per la vergogna.
- Vi ho visti mentre vi
baciavate.
Piegandosi in avanti, Harlock ha
iniziato a tossire, il
vino che gli andava di traverso sfregandogli la gola come carta
vetrata. Credevo che soffocasse. Mi sono precipitata su di lui, ho
afferrato il bicchiere che alla cieca stava tentando di posare da
qualche parte, e l’ho costretto a raddrizzarsi e a guardare
verso
l’alto per farlo respirare di nuovo. Ha faticato un
po’ a
riprendere fiato e a smettere di tossicchiare. Aveva le lacrime agli
occhi e il viso arrossato. Soltanto un ragazzo in una situazione
imbarazzante. Ma quanto era bello anche in quel momento.
- Va meglio? - ho chiesto,
mentre lui si lasciava cadere
pesantemente sulla sedia, una mano a nascondergli la faccia.
- Quando... come sei riuscita a
vederci?
Mi sono morsa il labbro,
distogliendo lo sguardo. Non
riuscivo a fissarlo mentre ripensavo a quella scena, alla ragazza
snella e bionda appoggiata contro la parete metallica del corridoio
dell’hangar, la ragazza che io stessa avevo creato e che
Tadashi
baciava con tanta passione.
- Sono tornata sui miei passi
quando sei caduto a terra.
Mi sentivo responsabile se eri impicciato nella corsa... il
travestimento era opera mia. Ma quando vi ho visti mi sono fermata, e
poi sono fuggita via da sola, allontanandomi dalle mazoniane per un
breve tratto, - ho fatto una pausa prima di aggiungere. - Ero
sconvolta, avevo bisogno di riflettere almeno qualche istante.
- Non mi sono neppure accorto
che eri ancora nei
paraggi.
- Quando vi ho raggiunti nella
zona delle toilette, è
stato un vero sollievo per me rivederti con addosso la tua divisa da
capitano.
- Chissà cosa avrai
pensato quando ci hai visto uscire
insieme dal bagno...
Sono arrossita di colpo. In
verità non avevo pensato
proprio a niente, in quel momento. Rivederlo di nuovo in uniforme,
maschile come sempre, era stato quasi un segno per me. Sembrava
volesse dirmi che quello che era accaduto poco prima era stato solo
un incidente, una faccenda di poco conto, della quale potevo
attribuire la colpa a Tadashi. Forse avrei dovuto preoccuparmi di
più?
- Comunque sia non è
successo niente. In bagno, voglio
dire. Tadashi si è soltanto scusato. E ha voluto che
conoscessi le
ragioni di quel gesto così assurdo. - Harlock mi ha guardata
dritta
negli occhi, un’espressione grave sul volto che ormai aveva
ripreso
il suo solito colorito. - Penso che sia giusto che le conosca anche
tu.
Sono avvampata di nuovo, mentre
rispondevo senza
riflettere con un laconico “Ne farei volentieri a
meno.”
- Non è come pensi,
Yuki. Non è affatto come pensi.
Anche se credo che dovrebbe essere Tadashi a parlarti personalmente
di queste cose.
- Di che si tratta? - ho
mormorato, sedendomi.
Temevo mi occorresse una buona
dose di coraggio per
ascoltare le parole del capitano, ma ad ogni modo ero certa che fosse
soltanto dalla sua voce che volevo sentire un simile racconto.
Sembrerà strano, ma non avevo davvero idea di quale potesse
essere
la misteriosa causa di un comportamento tanto inspiegabile.
- Possibile che tu non abbia
capito, dopo quanto ti ho
detto poco fa?
Ho scosso la testa, sul viso
un’espressione confusa.
Harlock si è sporto verso di me, allungando una mano a
stringere le
mie. Il mio cuore ha preso a correre come i motori
dell’Arcadia
lanciati a tutta potenza.
- E’ a te che pensava
Tadashi mentre mi baciava. Eri
tu l’oggetto proibito del suo desiderio, la stella
inaccessibile
sulla quale non ha mai potuto planare.
Incredulità,
smarrimento, rabbia. Uno dopo l’altro,
questi sentimenti sono spuntati nel mio animo, simili a fiori cattivi
su di un prato concimato con veleni. Ah, beffa crudele! Sentire la
tua voce che mi dice queste parole, e le dice a nome di un altro!
Quante cose avrei voluto
risponderti. Non volevo
l’affetto di un altro, ma soltanto il tuo cuore di uomo,
bianco
come quello di un fanciullo. Volevo te perché era te che
amavo. E
non capivo perché Tadashi non avesse mai provato a
confessarmi i
suoi sentimenti, perché avesse aspettato fino a generare un
simile
incidente. “Ma, dopotutto”, mi dicevo,
“cosa sarebbe cambiato
se anche l’avesse fatto prima?” Conoscere la
verità mentre
condividevo ancora la mia vita con entrambi, dentro
l’involucro di
metallo dell’Arcadia, avrebbe solo potuto rendere ancora
più
stridente ai miei occhi il contrasto tra l’uomo eccezionale
che
avevo scelto e la persona che si offriva a me in cambio, un ragazzo
che doveva ancora crescere.
E sopra a tutti questi pensieri,
come un ronzio confuso,
continuavo a chiedermi per quale maledetta ragione gli uomini non
abbiano mai il coraggio di essere sinceri sui propri sentimenti.
Pensavo a Tadashi, ma più di tutto pensavo a te.
Perché ero certa
che ci fosse ancora qualcosa che mi nascondevi, nonostante tutto.
Qualcosa che sapevi mascherare
come nessun altro.
Solo ora so che avevo ragione.
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Capitolo 14 *** Sulla barca di Caronte ***
SULLA
BARCA DI CARONTE
Dalle
memorie segrete di Raflesia
Forse se avesse saputo che sarei stata
con lui quel
giorno, Harlock non avrebbe mai accettato di sottoporsi alla
procedura che doveva riportarlo avanti nel tempo, ripulendo il suo
corpo dalla contaminazione della palude dell’Eden. Per questo
sono
entrata in incognito nella sala operatoria della nave ospedaliera.
Volevo essere lì quando avrebbe attraversato di nuovo
l’Inferno,
qualunque fosse stata la sponda sulla quale sarebbe approdato.
Perché
non era affatto scontato che la destinazione finale non fosse un al
di là irrimediabilmente lontano.
L’astronave
medica era stata attrezzata con cura di
tutti i macchinari capaci di ridurre quasi a zero i rischi connessi
alla somministrazione dell’antidoto. Ciononostante, il fatto
che
Harlock avesse subito di recente la trasformazione e che il suo corpo
fosse ancora provato nelle fibre più profonde molto
più di quanto
ci fosse dato vedere, rendeva pericoloso l’intervento.
Tesius si era
dimostrata meticolosa come le avevo
richiesto e non aveva tralasciato il minimo dettaglio. Era la
migliore scienziata di cui disponesse il popolo di Mazone e non
nutrivo alcun dubbio sulla sua professionalità. Ma temevo
che, se
avesse scoperto in anticipo l’identità del suo
misterioso
paziente, si sarebbe rifiutata di fare quanto le ordinavo e,
soprattutto, che non sarebbe stata scrupolosa nel tentativo di
garantirne l’incolumità. Per questo le ho rivelato
quel
nome solo una volta che siamo giunte sulla nave ospedaliera.
Eppure sono certa che
abbia iniziato a sospettare
qualcosa fin dal momento in cui l’ho informata della mia
decisione
di accompagnarla. Tesius ed io non avevamo ancora perso quella
sintonia che un tempo ci faceva muovere di comune accordo e che
l’aveva resa la più fedele delle mie alleate.
All’epoca riusciva
a leggere nel profondo le mie intenzioni.
- Chi può
essere così importante nell’universo da
far scomodare Vostra Maestà?
Con queste parole, e
senza nascondere un vago
disappunto, mi ha apostrofata non appena sono salita sulla navetta da
trasporto che ci avrebbe condotte a destinazione. Il fatto che non mi
scortasse neppure una guardia armata di certo accresceva le sue
perplessità.
Tesius era da sola ai
comandi e io mi sono seduta
accanto a lei, fissando lo spazio vuoto oltre il vetro.
- Lo saprai al
momento opportuno.
Ho liquidato
così quella e ogni altra domanda che
avesse potuto anche solo immaginare di pormi. Non era il momento
opportuno per parlare di Harlock. Ma la mia era una preoccupazione
inutile: Tesius aveva già capito tutto. Me ne rende certa la
fredda
indignazione con la quale ha reagito una volta che le ho rivelato la
verità. Mostrava una calma che andava ben oltre il rispetto
che si
deve alla propria regina.
Ci stavamo cambiando
nella piccola anticamera della nave
ospedaliera. Di là, nella sala operatoria già
pronta, presto
avrebbero fatto il loro ingresso Harlock e il dottor Zero.
Mi sfilai di dosso il
lungo vestito nero, lasciandolo
cadere come una pozza di denso inchiostro sul pavimento.
L’uniforme
bianca da infermiera si addiceva davvero poco alla mia anima scura,
ma non avevo altra scelta se volevo essere fisicamente presente
all’interno di quella stanza senza correre il rischio di
essere
riconosciuta. Come se fossi stata una paziente sottoposta ai raggi X,
Tesius mi ha esaminata da capo a piedi prima di esternare i pensieri
che ormai da un po’ la stavano tormentando.
- Anche davanti a
questo ridicolo travestimento volete
continuare a tacermi il nome della persona che avete tanto insistito
per farmi curare?
Mi sono voltata verso
di lei, sdegnata. Osava definire
ridicoli me e il mio abbigliamento solo perché sapeva che
né in
quel momento né in seguito avrei potuto punirla della sua
insolenza.
- Non ho intenzione
di tacerti alcunché, ma è evidente
che non tollererò un rifiuto.
- Immagino che non
saremmo giunte fin qui, altrimenti, -
ha prontamente ribattuto, e le sue parole traducevano perfettamente i
miei pensieri, a dimostrare ancora una volta, se mai ne avessi avuto
bisogno, quanto profondamente riusciva a capirmi.
- Di là
troverai il ragazzo che è stato mutato dalle
paludi dell’Eden. Sono certa che lo riconoscerai subito,
appena lo
vedrai. Porta uno stemma di morte sul petto e non abbassa mai lo
sguardo.
La mia voce ostentava
una noncuranza crudele. Come
regina, detenevo un potere assoluto, e mai come in quel momento ero
stata determinata ad usarlo fino all’ultima goccia. Tesius
doveva
prendere atto dei fatti, ubbidire alla mia volontà senza
porsi altre
domande. Senza porle a me. Perché non avevo alcuna
intenzione di
spiegarle per quale motivo lo stavo facendo. Altrimenti sarei stata
costretta a guardare dentro il mio cuore, e da troppo tempo non
potevo più concedermelo.
- Vostra
Maestà non può domandarmi di salvare la vita
all’uomo che è stato maledetto da tutto il nostro
popolo a causa
delle sofferenze che gli ha fin qui inferto. All’unico uomo
che si
frappone fra noi e la Terra!
Mentre pronunciava
quelle parole, Tesius ha riappeso il
camice al muro, incrociando le braccia al petto. Un po’ di
resistenza era inevitabile, dovevo farci i conti senza adirarmi,
poiché l’avevo già preventivata.
- Non ti è
richiesto niente di più e niente di diverso
di ciò che già sapevi di dover fare. Praticare
un’iniezione in
una dose non letale e tenere sotto stretto controllo tutti i
parametri vitali del tuo paziente, di modo che non soccomba. E se non
lo vuoi fare per ubbidire agli ordini della tua sovrana, lo farai in
nome del giuramento che pure i medici mazoniani pronunciano, prima di
esercitare la professione.
La mia voce suonava
dura e ferma, ma non era alterata.
Non traspariva alcun accoramento, nessuna necessità
personale. Non
era per me che doveva compiere quel gesto. Volevo che questa menzogna
fosse chiara. Altrimenti, come avrei potuto crederci io stessa?
Ho terminato di
vestirmi senza aggiungere altro,
annodando in alto i capelli in uno chignon voluminoso e nascondendo
il viso dietro una mascherina medica. Una volta pronta rimasi a
fissare Tesius in silenzio, non aspettandomi da lei
nient’altro che
la dovuta ubbidienza. Mi sono concessa un sorriso soddisfatto quando,
dopo un intero minuto, si è decisa ad indossare di nuovo il
camice
e, senza rivolgermi la parola, è entrata in sala operatoria.
Harlock e il dottor
Zero erano stati fatti salire a
bordo da poco dal personale di plancia. Nessuno dei due era armato.
Di nuovo lo avevo
davanti a me completamente
vulnerabile, avrei potuto prendermi la sua vita in qualunque momento.
Questo pensiero continuava a sfiorare la mia coscienza come un pesce
che cerca ossigeno oltre il pelo dell’acqua, per poi
affondare
nuovamente da solo, inconsistente e vuoto.
Tesius si
è soffermata a lungo a guardare il giovane
pirata che aveva davanti. Sembrava stentare a riconoscerlo. O forse
anche lei cercava, dietro le apparenze di quel viso da adolescente, i
tratti dell’uomo che era stato fin qui l’unico
ostacolo alla
conquista della nostra nuova patria. Harlock non aveva mostrato alcun
imbarazzo, sostenendo il suo sguardo, e alla fine di quella sorta di
esame preliminare aveva tranquillamente confessato ciò che
immaginavo si sarebbe invece sforzato di nascondere.
- Credo che la vostra
regina vi abbia informate di ogni
dettaglio, compresa la mia identità, - ha detto, parlando ad
entrambe.
- Sono qui solo per
eseguire i suoi ordini, e non mi
occorre sapere altro, - ha tagliato corto Tesius. Poi ha aggiunto,
indicando la capsula. - Vuoi sdraiarti, per favore?
Tesius ha appoggiato
su di un ripiano la valigetta
metallica che aveva portato con sé, facendo scattare le
serrature.
Dentro, chiuso in una fiala trasparente, c’era
l’antidoto
preparato da lei personalmente.
- Ehm, perdonate... -
ha borbottato d’un tratto il
dottor Zero, facendo un passo avanti. - Prima vorrei dare
un’occhiata
al contenuto di quella fiala. Un’analisi preventiva, diciamo
così.
Tesius lo ha guardato
come se fosse stato l’ultimo
delle sue matricole, un incompetente studente al primo anno
d’Università. Era evidente che non lo credeva
capace neanche di
capire se dentro quella fiala c’era o meno acqua. Ma la
più dura
lezione che mi ha insegnato questa lunga guerra è che non
bisogna
mai sottovalutare gli esseri umani, soprattutto quando dalla loro
apparenza sembrano valere così poco. Persino Harlock
inizialmente mi
sembrava un semplice fuorilegge, un delinquente scampato alla forca
che voleva riscattare passati insuccessi con il lustro di una
memorabile battaglia contro una flotta invitta. Ho trovato
più di
quel che cercavo sotto il teschio bianco che porta sul petto.
Solo allora, mentre
Tesius e il dottor Zero si
disponevano ad effettuare quell’ulteriore, inutile controllo,
ho
notato la presenza di un’altra persona che era rimasta fino a
quel
momento discosta e in silenzio. Era il giovane ufficiale di plancia,
la ragazza bionda figlia dello scienziato tradito da Kazuya.
Che fosse preoccupata
per la sorte di Harlock era più
che giustificato, trattandosi del loro insostituibile capitano. Ma il
modo in cui non gli levava gli occhi di dosso raccontava segreti ben
più profondi, su di lei e sui sentimenti che la legavano ad
Harlock.
Che fossero o meno ricambiati, però, restava un mistero che
non
riuscivo in quel momento ancora a sondare.
L’atteggiamento
di Harlock nei confronti di quella
ragazza era distaccato come sempre, impenetrabile persino a me.
Ancora una volta mi stupiva l’abilità con la quale
riusciva a
celare il suo animo, come se avesse nascosto il cuore in un forziere
e l’avesse gettato in fondo al mare.
Mi riusciva del resto
difficile immaginarlo con la
piccola Yuki nella luce soffusa della sua cabina, avvinghiati insieme
sotto un’unica coperta. Mi riusciva difficile immaginarlo con
chiunque altra.
In quel momento mi
ritornò alla mente un sogno che per
qualche tempo mi aveva perseguitato, un sogno che risaliva alla prima
visita che gli avevo fatto nell’intimità della sua
cabina.
Ero fra le sue
braccia, su quella sedia alta come un
trono. Ed ero nuda.
Distolsi lo sguardo
da Harlock e Yuki e mi allontanai,
mentre sentivo montare dentro un’assurda gelosia. Che cosa mi
assicurava che una simile fantasia non avesse preso corpo davvero con
una delle giovani donne che vivevano sull’Arcadia?
Per un po’
finsi di essere molto occupata con un
macchinario del quale ignoravo persino lo scopo, ma non potei
impedirmi di ascoltare le loro voci in sottofondo. Non capivo quello
che si dicevano, ma il tono di quella ragazza alternava diffidenza e
preoccupazione, mentre la voce di Harlock, pacata e calda, suonava
sempre così rassicurante. Rischiava la morte ma era lui a
rincuorarla. Sorrisi mentre pensavo che io lo conoscevo bene anche in
questo: non era un uomo che aveva bisogno di essere confortato.
D’un tratto
Tesius gli ordinò di spogliarsi: avrebbe
praticato l’iniezione quando fosse stato già
all’interno della
capsula.
- Perché
devo entrare lì dentro? - ha obiettato
Harlock.
-
Quest’apparecchiatura ci darà maggiori garanzie
sulla tua sopravvivenza. Quando ti sei trasformato la prima volta, e
il vostro dottore se lo ricorderà bene, la tua temperatura
corporea
si è alzata molto, non è così?
Il dottor Zero ha
annuito gravemente.
- Fino al limite
massimo.
- Qui, in questa
capsula per la criogenesi, potremo
tenerla molto bassa. Questo servirà anche a scongiurare
possibili
danni agli organi vitali, in particolare al cervello.
- Capisco.
- Puoi spogliarti
dietro quel paravento e poi entrare
nella capsula. Io aspetterò che tu sia pronto.
Ci siamo allontanati
per lasciargli un po’ di privacy.
Non m’interessava minimamente vederlo nudo a quindici anni:
il suo
corpo glabro e privo di cicatrici non esercitava su di me alcuna
attrattiva.
La giovane Yuki
invece doveva essere di un’idea
diversa: ho visto il rossore che le colorava il viso mentre Harlock
si spostava dietro il paravento e noi ci allontanavamo insieme, come
un unico gruppo medico che aveva a cuore soltanto la sopravvivenza
del paziente. Talvolta mi capita ancora di pensare a quel giorno
lontano e mi chiedo come abbiamo potuto stare così vicini
senza
tentare di ucciderci gli uni gli altri, lasciando che sul nostro odio
vicendevole prendessero il sopravvento le cure per un uomo che era la
causa del precario destino al quale andava incontro il mio popolo.
Tornammo a voltarci
solo quando era ormai dentro la
capsula, ma soltanto Tesius e il dottor Zero si accostarono a lui e
lei gli spiegò in dettaglio la procedura alla quale stava
per
sottoporsi: la temperatura corporea sarebbe stata gradatamente
abbassata mano a mano che il processo di trasformazione procedeva,
senza giungere mai al punto di avvio di un’autentica
ibernazione.
Il dottor Zero avrebbe vigilato affinché tutti i parametri
vitali
del corpo umano venissero rispettati.
Alle parole di
Tesius, Harlock non aveva mostrato alcun
segno di preoccupazione. Ascoltava attento e serio, gli occhi fissi
in quelli della mazoniana che aveva in mano la sua vita.
-
D’accordo. Procediamo, allora, - ha detto
semplicemente, e il vetro della capsula è stato chiuso su di
lui.
Nota: Torno dopo un bel
po' con questo nuovo capitolo. Spero che nessuno abbia perso le fila
della vicenda e che abbiate ancora voglia di seguirmi in questo viaggio
che sta giungendo al termine.
Ormai manca poco e se
volete sapere non solo cosa accadrà ad Harlock ma anche
quali sono gli inconfessabili segreti che si celano nel suo cuore non
vi resta altro che attendere il prossimo capitolo!
Prometto che svelerò (quasi) tutto ^_^
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Capitolo 15 *** Spettri ***
SPETTRI
Dal
diario di bordo del capitano
Tesius aveva un’ottima
mano: l’iniezione non mi fece
alcun male.
Il dolore venne dopo, insieme al
freddo della
criogenesi, quando il fluido prese a scorrere nel mio corpo
attraverso arterie, vene e capillari, propagando appena un leggero
calore. Ma poi di nuovo, come nella palude dell’Eden, quel
tepore
accese nel profondo del mio corpo una vampa inestinguibile. E ancora
una volta mi ritrovai ad affrontare l’Inferno, da solo.
Il resto del mondo scompariva
dentro quella piccola
capsula sigillata, diventando un globo lontano, senza più
suoni,
popolato di vaghe ombre che mi scrutavano di là dal vetro.
Mi
sembrava già di essere calato in una bara di metallo, dentro
una
fossa. Un gelo sempre più penetrante si diffondeva
tutt’attorno a
me, ma sotto la pelle ancora una volta mi sentivo bruciare.
L’ossigeno veniva
inalato da due bocchettoni, mentre
alcuni cavi collegati a degli elettrodi permettevano di tenere
monitorati dall’esterno battito cardiaco, impulsi elettrici
del
cervello e pressione. Non sarebbe stato molto scomodo se non fossi
stato legato.
- E’ per la tua
sicurezza, - aveva affermato Tesius
allacciandomi una cinghia attorno al polso, - In questo spazio
così
piccolo rischieresti di farti del male sbattendo contro la capsula, o
finiresti per strappare i cavi.
Il dottor Zero aveva annuito,
anche se dalla sua faccia
potevo capire che non era entusiasta di dover ricorrere a tale
sistema. In piedi nell’angolo più estremo della
piccola stanza,
Yuki stringeva forte la mano sulla fondina ormai vuota, dato che le
pistole avevamo dovuto consegnarle al nostro arrivo.
Per un poco dopo
l’iniezione riuscii a vedere il volto
concentrato del dottor Zero e quello tranquillo della mazoniana
davanti al display di controllo. Nessuno dei due mostrava
preoccupazione o nervosismo, segno che tutto procedeva nella norma.
Ma presto la mia mente mi
portò molto lontano da lì,
nel pozzo profondo e scuro di me stesso, e mi ritrovai solo, alla
presenza dei miei ricordi più scomodi.
Non temevo di stare faccia a
faccia con il mio passato:
avevo sempre agito in piena coscienza, seguendo soltanto i miei
ideali, senza scendere a compromessi con nessuno, senza farmi
comprare da nulla. Eppure, annidato nel buio dentro di me, esisteva
qualcosa capace di tormentarmi, qualcosa che aveva atteso a lungo
questo momento per rialzarsi dal proprio nascondiglio e guardarmi in
faccia con aria di sfida. I miei sentimenti.
Così, mentre
l’antidoto scavava dentro di me la sua
strada, impartendo nuovi ordini ad ognuna delle cellule e
ridisegnando per l’ennesima volta il mio corpo, io rivedevo
una a
una le persone che avevano segnato la mia vita, nel bene e nel male.
Il mio amico era il primo dei
fantasmi che mi stavano
aspettando.
In tutti questi anni, il
pensiero di lui non mi aveva
abbandonato un solo istante. Non si trattava soltanto di ciò
che
avevo perso, della sua presenza fisica o dell’allegria che
riusciva
a infondere anche dentro di me e che a volte mi mancava fino a
togliermi il respiro. Non era questo che mi tormentava, ma piuttosto
la dedizione incondizionata a quel sogno che ancora adesso mi
permetteva di vivere nell’unico modo in cui ero capace,
libero e
senza costrizioni. Era la sua totale abnegazione alla costruzione
della nostra Arcadia.
Arcadia. Il solo nome di questa
nave bastava ad evocare
in me un sottile senso di colpa. Sapendo forse che non gli sarebbe
mai appartenuta, Tochiro me l’aveva dedicata e ne aveva fatto
la
sua eredità. Era diventata la nave di Capitan Harlock,
terrore degli
stolti e miraggio degli ignavi, unica salvezza di chi voleva fuggire
dalla Terra. Ma soltanto io sapevo che anch’essa nascondeva
un
volto oscuro.
Era la tomba di un uomo grande
che aveva sacrificato
tutto se stesso perché fosse possibile quel sogno che
avevamo
condiviso. E ora io vivevo di quel sogno a prezzo della sua vita,
della consunzione del suo corpo. Tochiro era prigioniero di un
involucro d’acciaio che non gli permetteva più di
muoversi come un
essere vivente, di mangiare scodelle stracolme di quel pessimo riso
che sapeva cucinarsi da sé, nella fretta di un lavoro
febbrile, o di
assaporare insieme a me un calice di buon vino. E così lui
era
sigillato dentro il nostro sogno come un prigioniero, mentre io ero
diventato il simbolo stesso della libertà.
Non ne avevo mai fatto parola
con nessuno, nemmeno con
lui, ma quest’idea mi tormentava da sempre, forse anche
perché
nessuno me l’aveva mai fatto pesare, come se fosse una cosa
naturale. Tochiro era debole, fragile nel fisico quanto incrollabile
nella volontà, e non era morto per causa mia. Questo era
ciò che
tutti avevano cercato di farmi intendere. Ma nessuno aveva capito che
era morto per me. Io ne avevo
la certezza.
Il mio amico aveva fatto in modo
che il suo spirito
rimanesse a vivificare lo straordinario computer da lui progettato, e
questa era una prova sufficiente. La sua generosità, la sua
dedizione, erano stati senza misura. E forse proprio perché
un’anima
così grande non poteva essere contenuta da un uomo tanto
piccolo, il
corpo di Tochiro si era sgretolato, donandole una casa più
grande.
Una casa che gli permetteva di non lasciarmi solo.
Il freddo nell’angusto
abitacolo era cresciuto e ora
riuscivo a sentirlo fin dentro le ossa, segno forse che la cura era
efficace, o almeno che gli strumenti messi in campo per mitigare gli
effetti della trasformazione facevano il loro dovere. Avrei
desiderato potermi scaldare stringendomi le braccia attorno al busto
e forse questo mi avrebbe anche permesso di capire se c’era
qualche
cambiamento in me, perché la sensazione di formicolio che
avvertivo
dalla testa ai piedi m’impediva di comprendere cosa mi stava
succedendo. Peccato che ci fossero sempre quelle cinghie... Immaginai
che dovesse dare una certa soddisfazione al sadismo mazoniano sapermi
in quelle condizioni. Chissà come se la rideva Raflesia! Mi
aveva
promesso, anzi, garantito, una cura, e non avevo dimenticato quanto
era stata strana quel giorno, persino triste. Però era
impossibile
non pensarla ora seduta sul trono, con un sorriso di beffarda
soddisfazione disegnato sulle labbra, Raflesia che si gode la sua
vittoria su di me nell’unico modo che in quel momento le
è
concesso...
Ansimai, riaprendo gli occhi.
Una fitta di dolore acuto
mi attraversava il petto, come se il cuore si stesse spaccando.
Strattonai le cinghie con i polsi e le caviglie, invano. Oltre il
vetro riuscivo ad intravvedere il dottor Zero che mi faceva segno di
calmarmi con una specie di carezza sull’oblò della
capsula, e Yuki
che si precipitava accanto a lui, urlando qualcosa che non potevo
sentire in direzione di Tesius. Come doveva essere spaventata! Avrei
voluto tranquillizzarla io stesso. Dopotutto ero stato molto
più
male la prima volta, tanto che al confronto questa era quasi una
passeggiata. Quasi. Poi di nuovo non vidi
più nessuno davanti
al vetro e il mio orizzonte tornò ad essere quello dei
pensieri.
Doveva essermi salita la febbre,
perché ora proprio lei
mi veniva incontro, ma non come una
regina. Non indossava
il vestito nero e sulla testa non portava alcun diadema. Sedeva fra
le radici di una quercia che parevano volerla proteggere e lei pure
era bella come un albero antico, tra le cui fronde trovano riparo una
moltitudine di nidi. Sembrava emanare il calore di una casa, o di una
sposa. Pareva felice e una voce dentro di me mi diceva che era
perché
finalmente aveva trovato un piccolo mondo dove vivere in pace. Un
mondo che si offriva di condividere con me.
Non c’era
più motivo di battersi l’uno contro
l’altra, né odio o rancore per i passati
conflitti. Potevo sedere
con lei su quelle radici e assaporare la brezza del vento, godere
della luce del sole senza dover sempre fuggire come un fuorilegge.
Il suo viso a un palmo dal mio
era dolce e sereno e il
corpo bianco che mi offriva emanava un profumo invitante, come
caprifoglio sul far della sera.
Ma bruciava come il fuoco.
Le sue braccia avevano piccole
spine che non si
staccavano dalla pelle che a prezzo di dolorose abrasioni e quella
bocca cercava in me molto più che un bacio, come se avesse
voluto
togliermi con il fiato anche le forze.
Volevo liberarmi, ma le cinghie
mi tenevano inchiodato
sul fondo della capsula e per quanto cercassi aria inarcandomi su me
stesso, non riuscivo a saziarmi dell’ossigeno inalato dai
bocchettoni. Il mio respiro era rapido e irregolare mentre di nuovo
vedevo sopra di me Raflesia, con la spada sollevata per colpirmi,
nuda, furiosa e immensamente triste.
Le avevo strappato ogni cosa,
avevo sterminato le figlie
di Mazone senza riguardo, senza pietà. E del suo cuore, che
ne avevo
fatto?
C’era uno squarcio al
centro del petto che prima non
avevo visto e dietro lo sterno e le piccole costole stava solo il
vuoto. Raflesia voleva il mio cuore per riempire quel vuoto.
Perché
è così che si amano i nemici... Si amano
l’un l’altro solo per
nutrirsi.
Era così anche per me?
Mi ero nutrito delle sconfitte
che le avevo inferto,
della linfa vitale delle sue selvagge driadi, di ognuna delle
sofferenze che le avevo causato. Avevo calpestato il mio nemico solo
per trarne godimento? Qual era stato l’alto ideale che mi
aveva
guidato, in quel momento in cui la febbre mi frustava scuotendomi le
tempie, io non riuscivo più a ricordarlo.
Ricordavo solo di averla
desiderata e odiata come
nessun’altra mai. E di aver pensato migliaia di volte che
avrei
voluto avere almeno un’occasione per tenerla fra le braccia.
All’improvviso dentro
la capsula si era fatto ancora
più freddo. Il dottor Zero cercava di abbassarmi la
temperatura e mi
sorrideva goffamente da oltre il vetro un po’ appannato,
sollevando
il pollice per dirmi che andava tutto bene. Avrei voluto rispondergli
almeno con un cenno della testa, ma non c’era una parte del
mio
corpo che ubbidisse ai comandi. Anzi, non c’era una parte di
me che
sembrasse ancora appartenermi.
Per un po’ quel
refrigerio riuscì a darmi sollievo e
potei pensare in modo più razionale, ma non c’era
verso di placare
la sadica creatura che si era ridestata dentro al mio petto. Altri
pensieri, altri rimpianti, venivano sospinti verso di me e si
gonfiavano, ingigantendosi come vele nella tempesta.
Yuki era l’ultimo
della fila. Vederla mi provocò un
dolore più forte di quelli provati fino a quel momento, un
dolore
che andava ben al di là di quello fisico. Lei era il
più grande dei
miei rimpianti. E forse perché potevo farci ancora qualcosa,
perché
dipendeva da me perderla o meno, provai una sorda disperazione, un
sentimento che mai prima di allora avevo conosciuto.
Lei mi guardava ed era quasi
luminosa, fasciata in un
vestito candido, troppo corto e stretto perché avessi
bisogno
d’immaginare altro di lei. Era bella come la
felicità. E non era
mia.
Non avrebbe mai potuto esserlo.
Oh, se solo avessi avuto davvero
quindici anni!
Avrei colto l’amore
che mi offrivi come si fa con una
rosa, Yuki.
T’avrei tenuta stretta
fra le braccia per imparare il
profumo della tua pelle e il ritmo che prende il tuo respiro prima
che ti addormenti. Per conoscere ciò che di te non sa
nessuno.
Saresti stata accanto accanto a
me senza mai
appartenermi e forse il tuo amore mi avrebbe permesso di essere
migliore di quel che sono ora.
Ma questo genere di chimere
hanno ali di vetro e mentre
tentavo di gridare il tuo nome con labbra e voce che non mi
appartenevano più, o non mi appartenevano ancora, il tuo
viso si
allontanava da me, sfocandosi come dietro al vetro di quella
maledetta capsula. Quanto avrei voluto avere davvero quindici anni,
non portare il peso di tutte le cicatrici che si erano impresse ben
più sotto della mia pelle, in posti di me che nessuno sapeva
raggiungere, laggiù, tra le ossa e il cuore.
Laggiù dove non sapevo
arrivare più nemmeno io.
E avrei voluto gridarti, mentre
ti allontanavi alla
velocità alla quale cambiava il mio corpo e si rifaceva buio
fondo dentro di me, avrei voluto gridarti, Yuki, che ti amavo
anch’io.
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Capitolo 16 *** Epilogo a tre voci ***
EPILOGO
A TRE VOCI
Dalle
memorie segrete di
Raflesia
Dalla
capsula non proveniva
più alcun suono. Tutti i monitor erano spenti. Era tutto
finito.
Finalmente, lui riposava.
Sul
volto erano ancora
visibili i segni lasciati dalla sofferenza che aveva appena
attraversato, le tracce della nuova trasformazione, durata oltre
dodici ore.
Ho
aspettato che se ne
andassero tutti per avvicinarmi a mia volta alla capsula. Ognuno di
loro aveva sostato a lungo presso il corpo di Harlock come davanti ad
un feretro, prima di lasciare la stanza. Dopo essere stato quasi in
criogenesi, era necessario che si svegliasse lentamente, in modo
naturale, e noi pure avevamo bisogno di riposare dopo la lunga
veglia.
Ero
certa comunque che non
sarebbe stata una lunga attesa: non era da Harlock far aspettare
qualcuno. Perciò sapevo di non avere molto tempo.
Ad
uscire per ultima è
stata la giovane ufficiale di plancia, Yuki Kei. Credevo non volesse
più andarsene e non sapevo cos’altro inventarmi
per fingermi
un’infermiera molto occupata in qualche genere di
attività
post-intervento. Così ho però avuto modo di
osservarla mentre
accarezzava, a lungo e dolcemente, il vetro della capsula, proprio
come se fosse stato il viso di Harlock. Gli parlava sottovoce, ma ho
capito ugualmente cosa diceva.
-
Continuerò ad amarti
anche così, - prometteva, con quell’assoluta
certezza che hanno
solo le ragazze innamorate. - E non m’importa quanti anni
hai, né
quanto tempo dovrò aspettare.
Ero
certa di aver colto nel
segno con lei fin dal momento in cui l’avevo vista entrare
nella
sala operatoria, così trepidante per l’intervento
al quale Harlock
aveva accettato di sottoporsi, e in quel momento le sue parole non mi
stupirono affatto.
Harlock
possedeva il potere,
pericoloso e gestito con negligenza, di affascinare chiunque. Non
faceva nulla di straordinario per ottenere questo risultato. Era
semplicemente se stesso. Chissà quante delle donne che
avevano
incrociato la sua strada aveva lasciato dietro di sé, con il
cuore
spezzato? Di certo Yuki Kei era una di loro.
E
io?
No,
non avevo il cuore
spezzato, perché non c’era più un cuore
da spezzare.
Ero
passata quasi indenne
attraverso l’incontro con lui, e quando tutto fosse finito ne
avrei
serbato il ricordo come si fa con il più grande dei nemici.
Amarlo
sarebbe stato
impossibile, qualunque fossero state le condizioni nelle quali ci
fosse capitato di conoscerci. Se anche non avessi accettato di
diventare la regina spietata che sono ora, comunque non avremmo mai
potuto stabilire un legame, noi due, su nessun piano. Un pirata
reietto e vagabondo non avrebbe avuto niente a che spartire con una
nobile sovrana. Per noi non ci sarebbe stato nulla da condividere, se
non una notte d’amore clandestina.
Eppure
in quel momento
sentivo che proprio quella notte mi sarebbe mancata per sempre.
Yuki
aveva lasciato la
stanza e finalmente potevo avvicinarmi alla capsula. Presto il vetro
si sarebbe aperto da solo (questo lei non poteva saperlo) e il corpo
di lui sarebbe tornato lentamente alla normale temperatura.
Sono
rimasta a contemplarlo
in silenzio per lunghissimi istanti. Era di nuovo l’uomo che
conoscevo. Il mio nobile, implacabile nemico che stava nudo e inerme
davanti a me, e non c’era su di lui nemmeno una delle vecchie
cicatrici. La sua pelle ancora una volta era un universo inesplorato.
Ognuna delle cellule era mutata e sotto ai miei occhi stava un uomo
nuovo.
Fino
a che punto la
trasformazione fosse scesa in profondità, fino a dove fosse
riuscita
a cambiarlo, lo avremmo saputo solo una volta che avesse ripreso
conoscenza.
Per
ora Harlock dormiva un
sonno pallido e freddo.
Infine
il vetro si era
aperto e io avevo allungato una mano verso il suo viso, scostando una
ciocca di capelli. Anche l’occhio destro era di nuovo
integro, la
palpebra incurvata sopra il bulbo, con le lunghe ciglia che
disegnavano un arco scuro. Desideravo poterlo guardare presto in
quegli occhi che, raddoppiando la potenza del suo sguardo,
già
sapevo mi avrebbero penetrata a fondo, in un modo che a lui in quanto
uomo non sarebbe mai stato concesso.
Nonostante
restasse una
piccola ruga in cima al naso, traccia della lunga sofferenza che
aveva appena patito, in quel momento pareva riposare sereno, ignaro
di avermi al suo fianco.
Affondai
di più la destra
nella chioma scomposta e con l’altra mano gli sollevai appena
il
viso. La sua coscienza era ancora troppo lontana dalla superficie del
presente per poter reagire. Navigava, forse, in qualche sogno
lontano, fra ricordi veri e fosche inquietudini. Sebbene in quel
momento Harlock fosse del tutto inconsapevole di se stesso, riuscivo
però a percepire la sua personalità, forte e
risoluta, e provavo
una strana emozione a stargli accanto. In particolare era il contatto
con la sua pelle, quel contatto così a lungo paventato e
atteso, a
farmi fremere dalla testa ai piedi, quasi che tutto il gelo
necessario alla semi-criogenesi si fosse riversato
all’esterno, in
quella piccola stanza.
Forse
si trattava soltanto
del piacere delle conquista, della consapevolezza, che mi scuoteva il
sangue, di tenerlo finalmente in mio potere.
Eppure
non volli dare
ascolto a nessuna di quelle voci. Ancora oggi fatico a confessare a
me stessa che l’emozione più potente che provai in
quel momento
non fu la gioia impetuosa del trionfo, ma un sentimento di una natura
così diversa che credevo di non poterlo più
nemmeno riconoscere,
oltre che possederlo.
Così
sono tornata ad
accarezzare il viso di Harlock, in silenzio, dalla guancia alla
mandibola serrata. Era ancora così gelido da sembrare morto.
Allora
mi sono chinata su di lui e l’ho baciato sulla bocca fredda.
E sono
stata felice... felice che non fosse vero.
Dai
file del tablet di
Tadashi
Finalmente
ogni cosa è di
nuovo al suo posto. Forse anche troppo. Per la verità
è come se non
fosse mai successo niente.
La
vita sull’Arcadia ha
ripreso a scorrere con il ritmo consueto, scontri con le mazoniane
compresi, e ognuno è esattamente ciò che
è sempre stato. O finge
di esserlo.
In
questi giorni ho
osservato a lungo il capitano e Yuki, cercando di capire dai loro
gesti se ciò che era accaduto, quello che si erano detti,
aveva
cambiato qualcosa tra loro. Ma non si sono mai rivolti una parola
né
uno sguardo di troppo. O meglio, il capitano non lo ha fatto,
trattando tutti con il consueto, imparziale distacco. Ma io mi sono
accorto di come Yuki restava a fissarlo un secondo di troppo, di come
cercava d’incrociare direttamente i suoi occhi, mentre lui
impartiva gli ordini o assegnava mansioni.
Già,
i suoi occhi. Come se
ci fosse bisogno che li riavesse tutti e due per completare
l’opera
di seduzione. Così, tutto tirato a nuovo, sembrava quasi un
ufficiale che ha appena stracciato l’uniforme per indossare
la
divisa da pirata, e anche se i suoi modi tradivano
l’esperienza di
anni da fuorilegge, con questo aspetto un po’ mutato
esercitava un
fascino inusuale. Non credo fosse quello di cui Yuki aveva bisogno.
Di sicuro non ne aveva bisogno il nostro rapporto.
Anche per
questo alla fine mi sono deciso a parlarle più chiaramente.
Ho
approfittato di un giorno
in cui ci siamo incrociati al simulatore di volo.
Negli
ultimi tempi mi pareva
che non facesse altro che cercare di tenersi occupata, e il
simulatoro o il tiro a segno erano solo alcuni dei diversivi ai quali
ricorreva.
Tuttavia
c’è da dire che,
nonostante l’indifferenza di Harlock nei suoi confronti, fin
dal
principio Yuki non mi era parsa troppo abbattuta. E’ stato il
nostro dialogo a svelarmi il perché.
Anche
se lei non è stata
molto chiara al riguardo, credo che il capitano le avesse accennato
qualcosa prima di subire la seconda mutazione. Intendo qualcosa di
ciò che provavo per lei, perché, quando le ho
parlato, non ha
mostrato molta sorpresa. Anzi, non ne ha mostrata affatto.
Mi
ha ascoltato con grande
tranquillità, solo un’espressione vagamente triste
negli occhi.
-
Sai quanto sia difficile
per me parlare di queste cose, – ho balbettato, tentando di
spiegarmi come meglio potevo. - Beh, forse non lo sai... ma
è
proprio perché il nostro rapporto è
così importante per me che ho
esitato per tanto tempo. Però ultimamente sono successe
delle cose
che mi hanno fatto capire che... insomma, forse dovevo essere
più
chiaro, con te, più sincero. E dovevo esserlo anche con me
stesso.
Yuki
mi fissava in silenzio,
in viso quella stessa espressione un po’ triste. Sapeva cosa
le
stavo per dire prima ancora che parlassi, ma non ha fatto niente per
impedirmelo. Forse voleva che mi togliessi quel peso, come si fa con
un sasso dentro lo stivale.
-
Vedi, io... - ho
continuato. - Tu... sei molto importante per me. Tutti
sull’Arcadia
sono importanti, siete stati la mia nuova famiglia. Ma tu lo sei in
un modo speciale, sei molto più di una semplice sorella o di
un’amica. Con te è sempre stato tutto molto
naturale, come se ci
conoscessimo da una vita. E’ solo da un po’ di
tempo che ho
iniziato a riflettere su questo, a fare caso alla nostra
famigliarità. Non lo so, forse tu te ne eri già
resa conto... di
quanto il nostro rapporto fosse naturale, intendo. Io ero troppo
preso dal mio rancore per le mazoniane per accorgermene, o forse ero
semplicemente troppo giovane. So che ora, con le mie parole, potrei
cambiare tutto, ma preferisco correre il rischio e fare queto salto.
Un salto nel buio, ma verso di te.
Per
il resto del discorso,
io e Yuki non eravamo riusciti a guardarci direttamente negli occhi.
Yuki dopo un po’ aveva preferito soffermarsi sul buio spazio
oltre
la finestra. In quel modo però io potevo vedere il suo
riflesso. Era
così pensosa, ma le mie parole... le mie parole non parevano
averla
emozionata.
-
Tadashi... ti ringrazio
per la gentilezza dei tuoi sentimenti e per avermene voluto parlare.
Capisco benissimo che nons ia stato facile. Non è facile
nemmeno per
me. Confessare ciò che proviamo per una persona è
complicato e
preferiremmo che se ne accorgesse da sola e che piano piano iniziasse
a ricambiare il nostro affetto. Ma non è quasi mai
così che
succede.
Mentre
parlava, mi resi
conto che Yuki non si stava riferendo a me. Pensava a se stessa.
Pensava ad un altro uomo.
-
Vorrei semplicemente poter
accettare ciò che mi offri, davvero, - ha aggiunto. - Ma
io... io
sto ancora aspettando. E non voglio arrendermi, non ancora. Non
finché lui è qui. Capisci,
vero?
Era
la risposta che temevo,
quella che sempre si era aspettato da lei. Eppure non mi fece male
come credevo, forse perché c’ero preparato, o
forse perché ero
più forte di quel che immaginavo. E neppure la mia reazione
fu
quella che tante volte mi ero figurato.
Non
battei in ritirata, né
rimasi muto a fissarla come uno stoccafisso. Capivo benissimo di chi
parlava e sapevo che tra me e lui non c’era confronto. Non
ancora.
Ma non per questo mi sarei arreso.
-
Anch’io continuo ad
aspettare, - dissi soltanto. - Non mi sono ancora stancato di
aspettare.
La
guardai: mi sorrideva.
Sperai con tutto me stesso che un giorno quel sorriso sarebbe
diventato un sì.
Dal
diario di bordo del
capitano
Ogni
cosa sembrava essere
tornata al suo posto, alla più banale normalità,
ma non era così.
Una volta che si è provocato un cambiamento, nulla
può ritornare
come prima. Soprattutto quando il cambiamento avviene in noi. E di
cambiamenti ce n’erano stati tanti, accuratamente mascherati
dietro
le più salde apparenze.
In
questo di certo ero il
più abile io. Sapevo da molto tempo come si porta un manto
di oscura
freddezza e sapevo anche quanto pesa. In questo, lo riconosco, io e
Raflesia eravamo simili.
Raflesia.
In quei giorni il
pensiero di lei perseguitava i miei sogni ed ero in sua compagnia
più
spesso di quanto avrei voluto.
L’ultima
trasformazione mi
aveva lasciato spossato in un modo che né io né
il dottor Zero
avevamo previsto. I primi tempi restavo a lungo nella mia cabina e
dormivo più del solito. Il dottore diceva che non poteva
farmi che
bene e che il riposo avrebbe aiutato il mio corpo a rigenerarsi. In
realtà mi sembrava piuttosto di perdere le forze,
perché nei miei
brevi sogni agitati continuavo ad incontrare lei. E avevo anzi
l’impressione che si trattasse di ben più che
semplici sogni.
Forse
davvero veniva a farmi
visita mentre dormivo, quando persino Mime lasciava la stanza? Erano
reali le mani che qualche volta mi sfioravano, riuscendo ad infilarsi
fin sotto le coperte, facendomi svegliare di soprassalto?
O
forse si trattava soltanto
di un’allucinazione, il frutto del turbamento lasciato da
quel
bacio (reale o immaginario) che era riuscita a prendersi poco prima
che mi svegliassi, là dentro quella capsula?
Perchè, per quanto
fossero annebbiati i miei sensi, io sono certo di averla vista
chinata su di me, i lunghi capelli come rampicanti scuri che
scendevano sul mio corpo nudo quasi a volerlo rivestire.
Da
allora lei ha
perseguitato indisturbata molte delle miei notti, spezzando il sonno
e lasciandomi talvolta ad ansimare nel letto, gli occhi aperti nel
buio, senza voler raccontare a nessuno cosa mi accadeva quando
cercavo di dormire. Non ne ho parlato mai neppure con Mime. E il
perché è semplice, anche se forse non tutti
possono comprenderlo.
Ma era una cosa tra me e la mia nemica. Il nostro conto in sospeso
che pagavo un poco alla volta. Il prezzo per aver accettato il suo
aiuto.
E’
stato durante una di
queste notti che Yuki è venuta a farmi visita, molto
più reale del
fantasma di Raflesia.
Era
da poco passata la
mezzanotte. Lo ricordo bene perché, uscendo dalla doccia
dopo uno
dei consueti incubi, avevo guardato la pendola sul fondo della
stanza. Poco dopo qualcuno aveva bussato. Credevo fosse Mime e avevo
pensato di farla entrare senza lasciarla ad attendere sulla porta,
anche se addosso avevo soltanto l’accappatoio.
L’ho
riconosciuta dopo,
dalla voce.
-
Oggi compio diciotto anni,
- ha detto Yuki, avvicinandosi un poco. Trasalendo, mi sono voltato
verso di lei. Indossava un abito lungo e reggeva fra le mani una
bottiglia di rosso dall’etichetta ricercata, qualcosa di
pregiato
tenuto in serbo per le occasioni speciali.
-
Posso festeggiarlo con te,
il mio compleanno? - aveva posato la bottiglia sul tavolino di fianco
al letto e si era avvicinata. - Soltanto un brindisi.
Il
suo compleanno, Yuki non
l’aveva mai veramente celebrato. Una volta Masu-san, credendo
di
farle piacere, le aveva preparato una replica scipita della torta che
cucinava sua madre, mentre l’anno scorso proprio Tadashi le
aveva
organizzato una piccola sorpresa, in sala mensa, appendendo un grande
striscione con la scritta “Happy Birthday” sopra la
tavola. Per
cena c’era solo minestra, ma anche in quel caso mi hanno
riferito
che Yuki ne era stata ugualmente felice. Me l’hanno detto,
sì,
perché io non c’ero né la prima
né la seconda volta.
Adesso
invece voleva
festeggiare solo con me.
Diciotto
anni non si
compiono tutti i giorni, ma forse non era soltanto questo che le
interessava. Un pretesto? Ci avevo pensato, per un istante, ma
ugualmente non l’ho mandata via. Avrei dovuto farlo, come
capitano.
La verità è che avevo piacere che lei fosse
lì con me, e non per
via degli incubi causati da Raflesia.
Avevo
piacere di fare quel
brindisi, e di vederla. Era bella come una nuova stella e profumava
più del vino. E non l’ho mandata via. Mi rendevo
sempre più conto
che, dopo la nuova trasformazione, nulla era cambiato nei sentimenti
che provavo per lei. Tutto ciò che i miei quindici anni
avevano
risvegliato era ancora lì dentro di me, vigile e pronto come
una
tigre rimasta troppo a lungo sedata. E la tigre, in quel momento,
faceva le fusa.
Quello
che è successo dopo
non può essere scritto, e quello che accadrà da
qui in avanti
nessuno di noi può ancora saperlo. Tutto in apparenza scorre
come
prima, ma siamo su strade aperte ancora da percorre, Yuki, Tadashi
ed io. E anche Raflesia. Ognuno sta su di un sentiero che ogni tanto
si biforca verso direzioni impreviste, ma cosa ci sia alla fine
nessuno riesce ancora a vederlo. Però questa volta non
voglio pormi
troppe domande.
Resterò
su questa strada e
farò come ho sempre fatto: cercherò di godermi il
viaggio.
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