Missing Moments - OS Trilogia della Luna (in revisione)

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una seconda occasione (Alec) - Agosto 2010 ***
Capitolo 2: *** Vigilia di Natale (Alec) - Dicembre 2010 ***
Capitolo 3: *** Fare, amare sperare (Lance) - Aprile/Agosto 2011 ***
Capitolo 4: *** Jerome's Secrets - Parte 1 (Giugno 2014) ***
Capitolo 5: *** Jerome's Secrets - Parte 2 (Dicembre 2015) ***
Capitolo 6: *** Jerome's Secrets - Parte 3 (Maggio 2016) ***
Capitolo 7: *** Jerome's Secrets - Parte 4 (Maggio 2016) ***
Capitolo 8: *** Jerome's Secrets - Parte 5 (Maggio 2018) ***
Capitolo 9: *** Jerome's Secrets - Parte 6 (Ottobre 2019) ***
Capitolo 10: *** Quando meno te lo aspetti (Jessie) - Gennaio 2019 ***
Capitolo 11: *** Huginn e Muninn - giugno 2011 (Branson) ***
Capitolo 12: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 1 ***
Capitolo 13: *** Dove tutto ebbe inizio (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 2 ***
Capitolo 14: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 3 ***
Capitolo 15: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 4 ***
Capitolo 16: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 5 ***
Capitolo 17: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 6 ***
Capitolo 18: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 7 ***
Capitolo 19: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 8 ***
Capitolo 20: *** Toc Toc. C'è nessuno? - (Brie/Duncan) - Luglio 2016 ***
Capitolo 21: *** Una ne pensa... (William - Hati di Bradford) Giugno 2011 ***
Capitolo 22: *** Una sola via da percorrere, mille decisioni da prendere (Gordon/Erika) Settembre 2015 ***
Capitolo 23: *** Ereditarietà (Gennaio 2015) Penny/Spike ***
Capitolo 24: *** To be, or not to be? (Settembre 2017) Penny ***
Capitolo 25: *** Essere lupa... e donna (Settembre 2021) Penny ***
Capitolo 26: *** Per diritto di nascita (Dicembre 2022) Keely ***
Capitolo 27: *** Dipende dai punti di vista - Colin Laroche (2019) MxM ***
Capitolo 28: *** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 1 (Liam Laroche) 2020 ***
Capitolo 29: *** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 2 (Liam Laroche) 2020 ***
Capitolo 30: *** Changing - Liam/Cerry e Colin/Chris (Gennaio 2020) MxM ***
Capitolo 31: *** E venne il giorno - Febbraio 2020 (Cerry) ***
Capitolo 32: *** She Wolf, He Bear (Novembre 2017) Beverly e Thor ***
Capitolo 33: *** Reversal - Parte 1 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 34: *** Reversal - Parte 2 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 35: *** Reversal - Parte 3 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 36: *** Reversal - Parte 4 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 37: *** Reversal - Parte 5 (Estelle/Bright) 2004 ***
Capitolo 38: *** Reversal - Parte 6 (Estelle/Bright) 2004 ***
Capitolo 39: *** Reversal - Epilogo (Estelle/Bright) 2004 ***
Capitolo 40: *** Past and Future (Joshua) - Cap. 1 - 2012/2007 ***
Capitolo 41: *** Past and Future (Joshua)- Cap.2 - 2012/2007 ***
Capitolo 42: *** Past and Future (Joshua)- Cap.3 - 2012/2007 ***
Capitolo 43: *** Past and Future (Joshua)- Cap.4 - 2012/2007 ***
Capitolo 44: *** Past and Future (Joshua)- Cap.5 - 2012/2007 ***
Capitolo 45: *** Past and Future (Joshua)- Epilogo - 2012/2007 ***
Capitolo 46: *** Beauty and the Beast -1 -(Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 47: *** Beauty and The Beast - 2 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 48: *** Beauty and The Beast - 3 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 49: *** Beauty and The Beast - 4 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 50: *** Beauty and The Beast - Epilogo - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 51: *** Perdonanza - Magnus (Odino) - Ottobre 2017 - Norvegia ***
Capitolo 52: *** Sangue chiama sangue - (Odino/Fenrir/Avya) - 2017 - Parte 1 ***
Capitolo 53: *** Sangue chiama sangue (Odino/Fenrir/Avya) - 2017 - Parte 2 ***
Capitolo 54: *** Sangue chiama sangue (Odino/Fenrir/Avya) 2017 - Epilogo - ***
Capitolo 55: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 1 - 2022 ***
Capitolo 56: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 2 - 2022 ***
Capitolo 57: *** Ama il tuo nemico -Tyler - (Branco di Cecily) - 3 - 2022 ***
Capitolo 58: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 4 - 2022 ***
Capitolo 59: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - Epilogo - 2022 ***
Capitolo 60: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.1 ***
Capitolo 61: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.2 ***
Capitolo 62: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Hugh e Tempest-) Cap. 3 ***
Capitolo 63: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.4 ***
Capitolo 64: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Hugh e Tempest-) Epilogo ***



Capitolo 1
*** Una seconda occasione (Alec) - Agosto 2010 ***


 
Una seconda occasione (Alec)
 
 
 
 
 
Ad Alec sembrava essere passato un secolo, eppure sapeva bene che non era così.
 
Erano partiti per affrontare un’orda di uomini-orso, e si erano ritrovati contro ben due dèi.
 
E altri tre come alleati.
 
Quante altre persone avrebbero potuto dire di aver affrontato un Fato simile?
 
Nessuno, credeva.
 
Eppure, non era questo a renderlo così ansioso.
 
Era, piuttosto, il pensiero di quello che avrebbe dovuto dire a sua madre, una volta giunto a casa con Penny.
 
Con la notizia del prossimo arrivo di Erin.
 
Già, perché Alec Dawson poteva essere tante cose, un licantropo feroce e coraggioso, un guerriero come pochi e un capo ligio alle regole… ma non poteva sopportare di veder soffrire sua madre.
 
Aveva impiegato anni – ed era servito l’aiuto di quella streghetta di Brianna – per capire quanto, il suo atteggiamento inflessibile e spesso crudele, avesse angustiato la madre.
 
Alec aveva guidato il suo branco con pugno di ferro, incorruttibile a qualsiasi tentativo di non seguire le regole. Aveva pensato, a torto – ormai lo sapeva –, che questo sarebbe servito a cancellare i comportamenti irresponsabili e incivili del padre.
 
Non aveva permesso a nessun lupo di comportarsi in maniera meno che corretta, ma lo aveva fatto instillando paura e timore nei suoi licantropi, convinto che loro volessero un leader forte.
 
Col tempo, il dolore e le violenze provati in gioventù si erano trasformati in una corazza di gelo che aveva finito per allontanare le persone che più amava.
 
Aveva quasi distrutto il futuro di sua sorella Pat, impuntandosi come uno sciocco perché sposasse Duncan. Per sua fortuna, sua sorella era stata abbastanza testarda da tenergli testa ma, per poter vivere serenamente con il suo Andrew, aveva dovuto abbandonare il branco, sua madre. E lui.
 
Naturalmente, Irina Petrova Dawson non aveva detto nulla al figlio, riguardo al suo comportamento riprovevole.
 
A un certo punto, Alec aveva anche desiderato che lei gli tirasse un orecchio per la sua cecità, ma sua madre non l’aveva fatto. Né l’avrebbe mai fatto.
 
Nel bene e nel male, era sempre stata una creatura delicata e fragile, un licantropo del tutto privo della tempra necessaria a reggere il carattere riottoso del marito e, in seguito, quello gelido del figlio.
 
Alec non gliene faceva una colpa. Il carattere non si sceglieva.
 
Irina era diventata Prima Lupa perché nessuna, nel branco, aveva avuto il coraggio di mettersi contro le decisioni di Fenrir. Non aveva dovuto affrontare nessuno scontro e, da quel momento, era stata guardata con rispetto, in primis, e compassione poco dopo.
 
Il branco, infatti, aveva impiegato poco per comprendere la scelta apparentemente inconsueta del loro Fenrir. Irina era stata elevata al grado di Prima Lupa non tanto per le sue capacità, ma per essere la vittima sacrificale delle ossessioni violente del marito.
 
In breve tempo, la sua condizione di Prima Lupa era divenuta ben poco invidiabile. I lividi, per quanto veloci a svanire, erano stati lampanti quanto un’insegna al neon, sul corpo di Irina, piegato dal timore e dal dolore.
 
La cicatrice che ne solcava la schiena, poi, le sarebbe rimasta fino a che non avesse esalato l’ultimo respiro. Così come quelle sul cuore, del resto, dovute alle violenze subite dai suoi due figli per colpa di un padre padrone e del tutto ingovernabile.
 
Patricia era riuscita a superare il dramma grazie a Andrew, prima, e a Phillip poi.
 
Ora, Alec cominciava finalmente a rendersene conto – e a comprenderne la portata –; avrebbe avuto la sua seconda occasione grazie a Erin e Penny.
 
Però, forse, sarebbe stato più carino – e corretto – avvisare la madre del suo ritorno in compagnia di Penny.
 
Ormai, però, si trovava sulla piccola stradina di Littlemoor nel sobborgo di Queensbury, proprio accanto alla città di Bradford, che conduceva alla sua proprietà.
 
Il boschetto che circondava il loro cottage lanciava ombre lunghe sulla strada asfaltata, e l’aria che penetrava dai finestrini aperti sapeva di cose familiari, un tempo temute ma ora più che mai apprezzate e amate.
 
Penny, seduta accanto a lui sul pick-up di sua proprietà, scrutava il panorama con aria eccitata, lieta probabilmente per la presenza di tutte quelle piante. Forse, le ricordavano la casa che aveva lasciato a Belfast.
 
La ragazzina scelse proprio quel momento per volgere gli occhi di cielo verso Alec e, sorridendo lieta, esalò: “E’ davvero bellissimo, qui!”
 
“Bene” borbottò lui, accigliandosi e tornando a scrutare la strada che, pian piano, li stava avvicinando a casa.
 
Assottigliando le palpebre, sorpresa da quel cipiglio scuro, Penny levò una mano a sfiorare la guancia sfregiata dell’uomo, che sobbalzò leggermente in risposta. Si sentiva sempre molto strano, quasi esposto, quando lui la toccava.
 
“Non stiamo andando sul patibolo, sai?” ironizzò la ragazzina, mettendo allegria nel suo dire.
 
“Forse” sbuffò Alec, sempre più deciso a gettarsi nel dirupo più vicino. Peccato non ve ne fossero, in zona.
 
Ma in che razza di guaio si era cacciato?
 
Non aveva permesso a Beverly, anni addietro, di avvicinarsi così tanto a lui perché sapeva di non poter offrire nulla a nessuna donna. Ora, invece, gli era balenata in testa l’idea di fare da padre a quella ragazzina così solare? E da marito alla madre di quella creatura bellissima?
 
Le avrebbe rovinate entrambe nel giro di un mese!
 
Brianna, e le sue maledette storie su un futuro roseo e felice!
 
Sbuffando, si ripromise di telefonarle per insultarla fino alla fine dei tempi. Non meritava altro, quella sensale da strapazzo! Se poi Duncan si fosse incavolato, tanto meglio! Aveva davvero bisogno di una bella scazzottata.
 
Il cancello di ferro che delimitava la sua proprietà, in quel momento aperto sul vialetto inghiaiato, gli disse che ormai era tardi per tornare indietro e scappare.
 
Era fatta. Era a casa, e avrebbe dovuto spiegare a sua madre perché non l’aveva chiamata prima di rientrare dalla missione, avvertendola a quel modo dei prossimi cambiamenti nella vita del figlio.
 
Penny esalò un sospiro di sorpresa quando scorse il cottage a due piani dove Alec era nato e cresciuto. Costruito in mattoni grigi e rossi, dalle limpide e bianche imposte rivolte verso il sole del meriggio, appariva idilliaco come una dimora delle fiabe, ma Alec sapeva bene quanti incubi notturni e diurni avevano visto quelle apparentemente amene pareti.
 
Le aiole erano perfette come sempre, dinanzi a casa, così come il prato all’inglese, rasato di fresco e brillante sotto il sole. Se c’era una cosa a cui sua madre aveva sempre tenuto molto, era il giardino. Era stata la sua valvola di sfogo, il suo luogo sicuro, l’angolo in cui ripararsi dopo le sfuriate del marito.
 
“Non sapevo ti piacessero le piante” mormorò sorpresa Penny, mentre Alec bloccava il pick-up dinanzi a casa.
 
“Infatti non è opera mia” mugugnò l’uomo, sfilando la chiave dal quadro prima di volgere lo sguardo verso la ragazzina.
 
Penny lo imitò, fissandolo con i suoi grandi e sinceri occhi azzurri, ora velati di curiosità.
 
La distruggerò, pensò tra sé, rabbrividendo al solo pensiero.
 
Sbuffando, Alec si grattò la nuca, indeciso su come affrontare l’argomento.
 
Penny sbatté le palpebre, confusa dalle sue reticenze a parlare, e disse: “Devi avere un rospo bello grosso, in gola, se non riesci a parlare. Da quando siamo usciti dall’aeroporto, bofonchi e borbotti monosillabi.”
 
Alec si accigliò a quel commento, ma dovette ammettere che era la verità. La ragazzina non si era lamentata, ma sapeva bene di non essere stato un compagno di viaggio molto simpatico.
 
“Devo dirti una cosa” ammise a quel punto.
 
“Okay…”
 
“La mamma non lo sa, per la cronaca” aggiunse Alec, storcendo la bocca.
 
“Hai una moglie, e non gliel’hai detto? No, perché allora ti conviene avvertire la poveretta, perché mamma la farà a fettine” ironizzò a quel punto Penny, sorridendo maliziosa.
 
Alec non poté che ghignare, di fronte a quel commento malizioso, ammettendo tra sé che Erin sarebbe stata davvero capace di sbranare un’eventuale avversaria.
 
Cosa ci vedesse Erin, in lui, doveva ancora capirlo, ma non voleva perdere quell’esigua possibilità di essere felice. Con tutta probabilità, avrebbe rovinato tutto, ma sapeva già a chi dare la colpa.
 
Brianna si sarebbe presa tutta la responsabilità, poco ma sicuro.
 
“Il giardino… e la casa… è … è mia madre a tenerli in ordine” ammise alla fine Alec, sciorinando quella verità come se stesse espellendo veleno dalla bocca.
 
Penny rimase alcuni attimi in totale silenzio, quasi si fosse aspettata una qualche tremenda verità. Dopo quell’iniziale sconcerto, però, strillò eccitata e, battendo le mani, esclamò: “Avrò una nonna, qui!?”
 
Nonna. Eh, già. Se Penny fosse diventata sua figlia, Irina sarebbe stata sua nonna.
 
Dio, e chi si sarebbe mai abituato ad abbinare le parole ‘Penny’ e ‘figlia’, all’interno della stessa frase?
 
Penny non gli lasciò il tempo di dire altro, perché uscì a precipizio dal pick-up per fiondarsi verso l’entrata di casa, già pronta a salutare la madre di Alec.
 
Terrorizzato, il licantropo la raggiunse in fretta per bloccarla prima che potesse mettere mano alla maniglia ottonata e, in un borbottio contrito, mormorò: “Aspetta, Penny. Non adesso.”
 
“Che c’è?” brontolò lei, fissandolo torva.
 
“Lei non sa nulla” le confessò, roso dal rimorso e dalla propria codardia.
 
Gli occhi azzurri di Penny si fecero grandi, addirittura enormi… e pieni di biasimo e tristezza. Le spalle le si incurvarono, e ogni gaiezza sul suo viso d’angelo svanì.
 
Ecco, ho già combinato un disastro, brontolò tra sé, dandosi dell’idiota.
 
Piegatosi su un ginocchio per poterla guardare agevolmente negli occhi, Alec le poggiò entrambe le mani sulle spalle, asserendo con tono roco e pieno di contrizione: “Non sapevo come dirle di voi. Non volevo turbarla.”
 
“Perché?”
 
La voce le uscì in un gracidio colmo di dolore, e Alec si sentì morire. Era così che la proteggeva? Erin avrebbe avuto ragione a scuoiarlo vivo.
 
Sospirando, l’uomo si sentì costretto ad affrontare una parte del suo passato per nulla idilliaco, per poterle spiegare il perché di simili scrupoli. Non che gli facesse piacere, ma doveva assoluta sincerità a quell’angelo biondo.
 
“Sai, vero, che mio padre non è stato uno stinco di santo…” iniziò col dire, vedendola annuire mogia. “… e che lui picchiava sia me che Pat.”
 
Penny assentì ancora, calmandosi un poco. La bambina aveva intuito quanto, l’argomento, pesasse molto sull’animo di Alec, perciò lasciò perdere la sua eccitazione per concentrarsi su di lui.
 
“Beh, picchiava – e molto – anche mia madre” ammise a un certo punto il licantropo, sospirando pesantemente.
 
Rabbrividì a quei ricordi così violenti, e Penny se ne accorse subito.
 
“Fa lo stesso, Alec… davvero” scosse a quel punto il capo la bimba, tornando a carezzargli la cicatrice.
 
“No, devi sapere almeno qualcosa, altrimenti tutta questa storia ti sembrerà assurda” scosse il capo l’uomo, facendosi forza.
 
Penny annuì e, senza dirgli nulla, lo abbracciò. Solo lei poteva farlo senza che il suo corpo si irrigidisse per istinto. Persino con Erin non era così, anche se le motivazioni erano un tantino diverse.
 
Con Erin, il suo primo istinto era quello di fare sesso sfrenato e senza limiti, perciò gli abbracci erano banditi, specialmente in pubblico.
 
Lei lo sapeva, ed era pure compiaciuta dalla cosa. La strega.
 
Sorrise a mezzo a quel pensiero e, nel carezzare la chioma bionda di Penny, Alec mormorò: “L’ha spezzata, Penny. Nell’animo. E’… fragile. Non è mai stata molto forte neppure prima del matrimonio ma, con lui, la cosa è giunta alle estreme conseguenze. Parlarle di voi due l’avrebbe scioccata, e non volevo farlo per telefono, quando non potevo essere con lei per sorreggerla.”
 
La bambina annuì contro la sua spalla, asserendo: “Alec sorregge tutti, vero?”
 
“E’ il compito di un Fernir. Sorreggere il proprio branco, renderlo sempre più forte perché sappia proteggersi al meglio, qualora io non vi riuscissi.”
 
“Questo non potrebbe mai succedere” ironizzò Penny, scostandosi da lui per fissarlo con scetticismo.
 
Come aveva potuto guadagnarsi una simile fiducia? Davvero non lo sapeva.
 
“Ora sei qui, e io non so come affrontarla” ammise l’uomo, tornando ad alzarsi.
 
Penny allora lo prese per mano e, sorridendogli comprensiva, mormorò: “Io parlerò e tu la sorreggerai, va bene?”
 
“Forse è meglio” assentì Alec, aprendo finalmente la porta di casa.
 
All’interno, però, non si udì alcun rumore e, anche con i suoi sensi sviluppati, Alec non avvertì nulla. Che fosse nel boschetto sul retro di casa?
 
“Non c’è?” domandò Penny, curiosa.
 
“Già. Pare sia andata a fare la sua consueta passeggiata” dichiarò a quel punto Alec, tornando fuori dall’abitato assieme alla bambina.
 
D’istinto, poi, sollevò Penny per poggiarla sulle sue spalle, a cavalcioni e, nel dirigersi verso il retro del cottage, borbottò: “Tieniti stretta, ranocchietta. Faremo una corsetta.”
 
Lei rise, poggiando le mani sui capelli a spazzola dell’uomo e, guardando dinanzi a sé, asserì: “Qui ci potrei mettere un’altalena. Che ne dici?”
 
“Tutto quello che vuoi” dichiarò Alec, incamminandosi.
 
***
 
Forse, era stata fuori troppo a lungo.
 
Dopotutto, Alec le aveva detto che sarebbe rientrato quello stesso pomeriggio, pur se non aveva specificato a che ora. Se non l’avesse trovata a casa, si sarebbe certamente preoccupato.
 
Quel ragazzo non aveva mai potuto rilassarsi un momento, in tutta la sua vita, e lei non era certo stata d’aiuto, in questo. Avrebbe dovuto proteggere sia lui che Patricia, ma non ne era mai stata in grado.
 
Aveva accettato senza fiatare le angherie di Roland per tutto il tempo, e non era mai stata capace di fermarlo quando, anno dopo anno, se l’era presa anche coi suoi figli.
 
Hati e Sköll poco avevano potuto, per aiutare lei e i figli, trattandosi del loro Fenrir.
 
Anche nel branco, nessuno era stato abbastanza forte – o coraggioso – da sfidarlo perché le sue violenze avessero una fine.
 
Soltanto Alec, appena quattordicenne, si era preso quell’impegno. Quel peso enorme.
 
Il parricidio poteva essere una croce orribile da portare, anche se il padre aveva meritato ampiamente quella fine, ma Alec l’aveva portata stoicamente, senza mai chiedere aiuto a nessuno.
 
Questo, lo aveva però portato a chiudersi in se stesso e a mettere fin troppo impegno nella protezione del suo branco. Le regole erano state fatte rispettare con un rigore quasi religioso e, pur di difendere sua sorella, Alec era quasi giunto a fare guerra al clan di Matlock.
 
Patricia si era allontanata proprio a causa di questo amore portato alle estreme conseguenze, ma Irina non se l’era mai sentita di farne una colpa ad Alec.
 
Che altro poteva pretendere che facesse, il suo caro figliolo?
 
Forse, ci sarebbe stato un tempo e un modo per riconciliarsi con Patricia, ora che il pericolo sembrava essere svanito, ma non voleva ossessionare il figlio con quell’argomento così spinoso.
 
Al telefono, comunque, Alec le era parso tranquillo, sereno come poche altre volte era stato nella sua vita.
 
Ricevere la visita di Beverly, e sentire dalle sue stesse labbra della buona riuscita della missione e della salute ottima di Alec, aveva rincuorato Irina.
 
L’alto e possente berserkr che aveva accompagnato la loro veggente le era parso una brava persona, e non aveva potuto non pensare a quanto, la cara Beverly, stesse bene al suo fianco.
 
Era tempo che quella ragazza pensasse anche al suo futuro, e non solo a quello del suo Fenrir.
 
Le spiaceva che le cose non avessero funzionato, tra lei e il figlio, ma mai e poi mai si sarebbe intromessa in una cosa simile.
 
“Mamma!”
 
La voce di Alec giunse alla sua destra, a circa mezzo miglio di distanza, strappandola a quei pensieri.
 
Bloccandosi a metà di un passo, Irina annusò l’aria per capire dove si trovasse, e questo la fece sobbalzare per la sorpresa.
 
Chi c’era con lui?
 
Indirizzando i propri passi verso la fonte di quel suono, la donna aumentò l’andatura per raggiungerlo il prima possibile, finendo con il ritrovarsi in breve tempo nella radura nei pressi della loro abitazione.
 
Lì, Irina si fermò per osservare senza parole la figura del figlio che, apparentemente, non si era accorto del suo arrivo.
 
Sulle sue spalle portava una ragazzina che non poteva superare i dieci anni, la cui chioma dorata brillava sotto il sole di quel pomeriggio d’agosto inoltrato.
 
Il fatto stesso che suo figlio stesse portandola a cavalcioni era di per sé un evento biblico, ma a sorprenderla fu altro.
 
Fu scorgere la sua fronte liscia, il suo viso del tutto privo dei pensieri ombrosi che solevano solcarlo, rendendolo perennemente cupo e accigliato. Tutto questo era apparentemente scomparso, dal bel volto del figlio.
 
“Sono qui, Alec” si permise di dire, attirandone finalmente l’attenzione.
 
Lui si volse, il viso gli si tinse di un insolito rossore e, avvicinandosi a lei, dichiarò laconico: “Immaginavo saresti andata in cerca di fiori. Lo fai sempre, a quest’ora.”
 
“Sono assai prevedibile” ammise, inclinando il capo di bianchi e corti capelli per sorridere alla bimba sulle spalle del figlio.
 
Con un movimento fluido, Alec fece scendere Penny dalle spalle e, dopo aver guardato la madre con espressione contrita, si passò una mano sulla nuca con fare nervoso.
 
Quel gesto sorprese non poco Irina, confermandole che doveva essere successo qualcosa di veramente grosso. Non vedeva il figlio così indeciso dacché aveva avuto dodici anni.
 
La bambina, nel frattempo, lanciò occhiate alternate ad Alec e alla minuta signora dinanzi a loro, prima di dire: “Io sono Penny. Ciao.”
 
Irina, allora, si piegò in avanti, poggiando le mani sulle cosce e, dopo averla squadrata meglio, sgranò gli occhi ed esalò: “Dio onnipotente, bambina… sembri proprio…”
 
“Già” borbottò Alec, assentendo all’occhiata significativa lanciatagli della madre.
 
Penny, allora, guardò a sua volta Alec e mormorò: “La bambina che mi somigliava?”
 
“Sì, ranocchietta” assentì l’uomo, sorprendendo non poco la madre.
 
Facendosi coraggio, Penny allora allungò una mano e disse: “Beh, io sono… o sarò…”
 
Si guardò ancora indietro, cercando l’approvazione di Alec, che annuì e dichiarò: “Sei.”
 
Ringalluzzita dal suo tono lapidario, Penny allora asserì: “Sono la figlia di Alec. Sì, insomma, la nuova figlia. Beh, quando sposerà la mamma. Non so bene come funzionano le cose, e sto facendo un sacco di confusione, mi sa…”
 
Irina si ritrovò a sbattere le palpebre di fronte a quel fiume apparentemente incessante di informazioni. Senza parole, ma del tutto conquistata da quell’angelo biondo dalla parlantina sciolta, strinse la mano protesa della bambina e, basita, fissò il figlio in cerca di spiegazioni.
 
Lui si limitò a fare spallucce, borbottando contrito: “Novità.”
 
“Ancora monosillabi, Alec?” brontolò Penny, fissandolo maliziosa.
 
L’uomo, allora, le passò una mano sui capelli, scompigliandoglieli, e Irina non poté che sorridere per la gioia, le lacrime già pronte a debordare dagli occhi grigio ghiaccio.
 
Subito, Alec se ne preoccupò, dopo un’imprecazione smozzicata, disse: “Ecco, lo sapevo… stai per piangere…”
 
“Smettila di preoccuparti come una chioccia, Aleksej!” sbottò gentilmente la madre, sventolando una mano dinanzi a sé per cancellare i suoi timori.
 
Lui si accigliò immediatamente, di fronte a quel rimbrotto ma Penny, fissando a bocca aperta l’uomo, esclamò scioccata: “Ti chiami Aleksej?!”
 
“Alec” brontolò per contro il licantropo, fissandola ombroso.
 
Lei non vi badò minimamente e, balzellando sul posto, lo prese per mano e trillò: “Ti chiami Aleksej! Ti chiami Aleksej! E’ troppo carino!
 
Il mannaro storse la bocca, di fronte a quella parola – carino – mentre la madre, del tutto spiazzata dal comportamento intimo e familiare della bambina nei confronti del figlio, esalava: “E io che pensavo di averle viste tutte.”
 
“Posso chiamarti Aleksej anch’io? Posso, posso? Posso?” mugugnò allora Penny, abbracciandolo con forza alla vita.
 
Alec a quel punto cedette e, nel piegarsi su di lei, le baciò i capelli e mormorò: “Tutto quello che vuoi.”
 
Irina carezzò la guancia sfregiata del figlio con il tocco leggero delle dita e, con voce esitante, domandò: “E’ davvero tua figlia?”
 
“Lo sarà quando sua madre si deciderà a venire qui da Belfast. E’ impegnata con il passaggio di potere sul clan, ma non ci metterà molto” borbottò Alec, scostandosi appena da quel tocco.
 
Irina non se ne stupì. Era raro che Alec si facesse toccare da chiunque, ed era dunque doppiamente mirabile che la bambina potesse abbracciarlo senza che lui si irrigidisse, o scantonasse.
 
“La mamma sbranerà tutte le lupe che cercheranno di impedirglielo, visto che mi ha detto che Alec sarà solo suo” dichiarò con orgoglio la bambina, guardando Irina con incrollabile fiducia.
 
Alec si esibì in una risatina imbarazzata, e il rossore tornò.
 
E da quando, suo figlio, arrossiva?, si chiese tra sé Irina, trovando l’intera scena più che surreale. Non vedeva l’ora di conoscere la donna che aveva compiuto un simile miracolo. Doveva essere davvero eccezionale.
 
Non meno della figlia, comunque, che sembrava avere del tutto in pugno il suo riottoso figliolo.
 
“Visto che sei, o sarai, la figlia del mio ragazzo, io posso essere la tua nonna?” le propose Irina, allungandole una mano.
 
Penny accettò con gioia l’invito e, presa nella sua la mano della donna, balzellò al suo fianco mentre rientravano a casa. Come una radio, quindi, la bambina iniziò a raccontarle di sua madre e di come si fossero conosciuti con Alec.
 
Le spiegò del loro primo incontro-scontro, e di come Brianna lo avesse fatto planare contro una cassettiera, il che portò Irina a ridere di gusto e fissare il figlio con incrollabile amore.
 
Alec le lasciò fare. Che sparlassero pure di lui, se volevano.
 
Si fece distanziare a sufficienza e, quando fu certo che non potessero udirlo, prese il cellulare e chiamò Erin.
 
Al terzo squillo, lei rispose e domandò: “Siete arrivati?”
 
“Già” assentì, lieto di sentire di nuovo la sua voce. Era già ridotto così male? A quanto pareva sì, e non gli dispiaceva per nulla.
 
“E Penny, come sta?”
 
“Sta sparlando di me e di te con mia madre.”
 
Un attimo di silenzio, ed Erin disse: “Oh. Tua madre. E come l’ha presa?”
 
Cos’ho mai fatto per meritarla?, pensò tra sé Alec.
 
Quale altra donna avrebbe preso una simile notizia con così tanto pragmatismo? Magari, un’altra avrebbe voluto sapere dell’ipotetica presenza, nella sua futura casa, di una suocera.
 
Erin, però, non era così. O, forse, gliel’avrebbe fatta pagare al suo arrivo. Chissà.
 
L’avrebbe scoperto tra qualche mese, comunque.
 
“L’adora già. Penso avrai qualche difficoltà a riaverla indietro, quando arriverai.”
 
Erin si lasciò andare a una risatina, replicando: “Per lei sarà una novità avere una nonna che non la guarda come se fosse il peggior errore mai concepito.”
 
Alec sbuffò a quelle parole, e dichiarò lapidario: “Cadranno teste, se qualcuno oserà mai guardarla a quel modo, qui da me.”
 
“Non avevo dubbi” asserì orgogliosa Erin. “Hai già incontrato il resto del branco?”
 
“Non ancora. Ma c’è tempo. Era più importante mia madre, prima di tutto.”
 
“Già” disse soltanto la donna, racchiudendo in quell’unica parola tutto il rispetto che provava per lui.
 
Alec poteva essere scontroso, ruvido e persino volgare, se l’occasione lo richiedeva, ma avrebbe sempre e comunque pensato al bene delle persone che amava.
 
Ora, però, lo avrebbe fatto con persone che, a sua volta, lo riamavano. E forse, col tempo, un po’ delle ombre sul suo viso sarebbero sparite.
 
“Assicurati che non la stanchi a forza di chiacchiere” lo pregò a quel punto Erin.
 
Alec allora rise – una cosa davvero rara, per lui – e dichiarò: “Prima che mia madre si stanchi di chiacchiere, nostra figlia sarà già adulta.”
 
Erin sorrise nell’ombra del suo ufficio, a quelle parole apparentemente innocue e, nel mandare un bacio ad Alec, chiuse la comunicazione.
 
Volgendosi poi a scrutare il suo fido Richard, la donna asserì: “Tutto bene. Penny è arrivata a casa.”
 
Già. A casa.







Note: Molte di voi mi avevano chiesto di creare qualcosa per i 'missing moments', per tutti quegli attimi che, per ragioni di spazio od opportunità, non ho potuto inserire nella Trilogia della Luna, come nello Spin-Off su Cecily e Darcy.
Questo spazio è dedicato a voi, alle vostre curiosità, ai vostri dubbi e, se vorrete, potrete propormi dei progetti, delle idee che, spero, potranno poi vedere la luce qui, per il vostro e il mio piacere.
Per ora, vi ringrazio se vorrete farmi sapere cosa ne pensate.
A presto!


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Capitolo 2
*** Vigilia di Natale (Alec) - Dicembre 2010 ***


 
 
Un amico ci accetta per come siamo e ci aiuta ad essere quello che dovremmo.
(Anonimo)
 
 
 
Vigilia di Natale (Alec)
 
 
 
 
 
La Vigilia di Natale.
 
Era un bel giorno per rivedere sua figlia e, al tempo stesso, un giorno terrificante.
 
Perché, all’aeroporto, non ci sarebbero stati soltanto Alec e Penny, ad attenderla – lui le mancava terribilmente, più ancora di quanto avesse immaginato in un primo momento – ma anche la sua futura suocera.
 
In quei mesi di lontananza, sia Alec che Penny si erano impegnati a sottolineare con Erin quanto Irina fosse tutto tranne che temibile. La figlia, letteralmente, ne era entusiasta, ma quello non l’aveva stupita.
 
Dopo il trattamento subito dai suoi ‘veri’ nonni– sia materni che paterni, tolti i genitori di Marcus – non l’aveva sorpresa sentirla così eccitata.
 
A Penny sarebbe bastata mezza parola carina, per trovarla simpatica, ma questo non le aveva certo detto di più, sulla madre di Alec. Certo, poteva apprezzare il fatto che Penny fosse ben voluta e amata, ma la cosa finiva lì.
 
Come ogni donna sapeva fin dall’inizio dei tempi, due femmine nella stessa casa difficilmente andavano d’accordo. La territorialità era innata in qualsiasi creatura dotata di gene XX, a maggior ragione se si trattava di due licantrope.
 
Come avrebbe trovato, quindi, Irina Petrova Dawson? Sarebbe stata la donna tanto decantata dai suoi due amori, o avrebbe trovato un’infida serpe che le si sarebbe annidata in seno?
 
Conosceva davvero poco la famiglia Dawson e, a parte ciò che aveva saputo da Patricia e le parole smozzicate e piene di incubi di Alec, aveva ben poche frecce al suo arco.
 
A onor del vero, però, Alec non avrebbe difeso a spada tratta una persona meno che meritevole e, soprattutto, non una che avesse trattato male la piccola Penny.
 
O no?
 
Sbuffando per l’ennesima volta, Erin deglutì a fatica quando l’aereo toccò finalmente terra. Era inutile rimuginare oltre. Avrebbe affrontato a testa alta la donna e non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno.
 
Non giungeva lì come ospite, ma come futura Prima Lupa.
 
Scese quindi in buon ordine dal velivolo e, dopo essersi incamminata per raggiungere il nastro scorrevole per recuperare la sua valigia, osservò torva la distesa di bagagli scorrere dinanzi a lei uno accanto agli altri.
 
Il resto delle sue cose sarebbe arrivato tramite corriere; con lei, aveva portato il minimo indispensabile per poter soggiornare a casa di Alec senza dover acquistare in toto abiti e quant’altro.
 
Quando, infine, il suo trolley rosso fuoco la raggiunse, Erin lo afferrò senza fatica e si diresse alle file per i controlli di routine.
 
Non impiegò più di mezz’ora per il disbrigo dei controlli al metal detector e, quando finalmente poté mettere piede nel terminal d’uscita, sorrise spontaneamente nel vedere la figura di Alec.
 
Imponente e statuario come lo ricordava, portava i capelli leggermente più lunghi rispetto alla zazzera militare con cui lo aveva conosciuto a Belfast pochi mesi addietro.
 
Accanto a lui, una donna minuta e dai corti capelli bianchi stava sorridendo ad Alec – Irina? – che, nel piegarsi su un lato, mise infine in mostra la figura di Penny.
 
Seminascosta dalla corporatura massiccia di Alec, Penelope sembrava essere immersa in un pesante piumino azzurro cielo, lungo fino a metà coscia. Il colletto di pelo le nascondeva in parte il viso, ma non i capelli che, a Erin, parvero un tantino diversi da come li ricordava.
 
Un attimo dopo, ne comprese il motivo.
 
La lunga chioma era sparita, sostituita da un taglio più sbarazzino e dalla linea scalata, che le faceva risaltare il visetto da fata.
 
Tra i capelli, portava un cerchietto col fiocco che Erin non le aveva mai visto.
 
A ben vedere, niente di quello che indossava sembrava provenire dal suo guardaroba originale.
 
Accigliandosi, Erin cominciò ad avvicinarsi a loro, domandandosi nel frattempo cosa diavolo avesse combinato Alec in quei mesi di lontananza. Non le aveva completamente rifatto il guardaroba, vero? Vero?
 
Tremò al pensiero di doversi imporre anche su quello. Come avrebbe fatto a far capire a un uomo testardo come Alec, che non si potevano accontentare tutti i capricci di Penny?
 
Lasciando per il momento perdere quel pensiero, levò un braccio per farsi vedere dal gruppetto in attesa e, infine, Erin esclamò: “Ehi, sono qui!”
 
Subito, Alec registrò la sua voce e, con possenti falcate, la raggiunse rapido per poi afferrarla possessivo alla vita. Un attimo dopo, la schiacciò contro il torace e fece sua la bocca della donna, imponendosi su di lei senza troppi complimenti.
 
Erin se ne compiacque. Le era mancata davvero la sua forza, così come i suoi modi di fare spicci e sbrigativi.
 
Istintivamente, gli avvolse le braccia attorno al collo e approfondì il bacio, infischiandosene del luogo e della tempistica. Che li guardassero pure. Non aveva nulla da nascondere.
 
Fu la risatina di Penny, però, a farli scostare l’uno dall’altra e, nel lanciare un’occhiata divertita alla figlia, Erin si piegò per abbracciarla, mormorando: “Ciao, amore mio. Come stai?”
 
“Sto bene, mamma. E mi sembra anche tu” chiosò la bimba, ammiccando all’indirizzo della madre.
 
Lei rise, arrossendo leggermente e, quando si rimise diritta, si ritrovò a curiosare dei profondi e limpidi occhi chiari, color ghiaccio, che la stavano ammirando con aria ammaliata.
 
Erano molto simili a quelli di Alec, ma del tutto privi della tempra da guerriero del licantropo che lei amava.
 
“Dalla reazione di mio figlio, non poteva essere che Erin. E’ un piacere conoscerla, finalmente” esordì Irina, allungando una mano verso la giovane. “Io sono la madre di Aleksej. Irina.”
 
Oh, già, Aleksej.
 
Si era sorpresa non poco nello scoprire il vero nome di Alec e, soprattutto, il motivo per cui non lo usasse mai.
 
Suo padre era stato solito chiamarlo così quando lo picchiava, o durante i suoi abusi più cruenti, perciò il licantropo aveva finito con il detestare anche solo il suono di quel nome.
 
A quanto pareva, però, sulle labbra di Irina assumeva un significato del tutto diverso, visto che al licantropo pareva non dare fastidio.
 
“Il piacere è mio, Mrs Dawson. Spero che mia figlia non l’abbia annoiata a morte, con le sue chiacchiere” si premurò di dire Erin, sorridendo poi alla figlia.
 
Irina, però, lanciò un’occhiata amorevole a Penny e, scuotendo il capo, replicò: “Non potrebbe mai stancarmi. Ha allevato un angioletto, Erin. E, da quel che ho capito, anche il padre di questa creaturina è stato un uomo degno d’onore e rispetto.”
 
Sorpresa, Erin fissò la figlia con aria piena di sorpresa ma lei scosse il capo, lanciando poi un’occhiata di straforo ad Alec, che stava facendo di tutto per non farsi notare.
 
Sorridendo spontaneamente di fronte a quella scoperta, la donna si avvicinò a lui per dargli un bacetto sulla guancia sfregiata e, in un sussurro, disse: “Grazie per aver decantato i doni di Marcus.”
 
“E’ merito suo se Penny è così, non certo tuo” ghignò per contro l’uomo, guadagnandosi un pizzicotto in un fianco.
 
Anche questo le era mancato; i suoi continui scherzi, le due punzecchiature spontanee.
 
I suoi rari sorrisi.
 
Era difficile comprendere come, un carattere così spigoloso e difficile, potesse piacerle, eppure era così. Marcus era stato la quintessenza della gentilezza e dell’amore, eppure non era mai riuscita del tutto a ricambiare una simile affezione.
 
Con Alec, invece, tutto era stato difficile fin dal principio, eppure si era sentita spinta verso di lui come l’ago magnetico di una bussola punta il Nord.
 
Lei non era fatta per le svenevolezze e i salamelecchi. Voleva un uomo di polso, che sapesse tenerle testa. Alec era tutto questo, oltre che un’ottima guida e un protettore per Penny, che letteralmente lo adorava.
 
“Direi che possiamo andare… o pensate di vegetare qui?” buttò lì Alec, avvolgendo le spalle di Penny, che passò un braccio attorno alla sua vita stretta.
 
“Sempre il solito elegantone, vero?” celiò Erin, cercando il suo trolley.
 
Nel vedere che era già nelle mani di Alec, sorrise.
 
No, non sarebbe mai stato un esempio di bon ton e cortesia vittoriana, ma era il maschio giusto per lei. Ruvido fuori, quanto morbido dentro.
 
***
 
La vista del cottage immerso nel verde la soddisfece – pur sapendo bene come fosse, grazie alle fotografie inviatele da Penny – e, quando si ritrovò di fronte al camino acceso e con una cioccolata calda tra le mani, sospirò tranquilla.
 
Alec e Penny erano fuori, nella legnaia, per fare scorta per la sera, mentre Irina sedeva con lei nel salotto, la voce dello speaker del TG a fare da sottofondo a quel pomeriggio sereno e passato in famiglia.
 
“La ringrazio per come ha accolto mia figlia. Immagino che debba esserle parso tutto molto strano. Vede partire suo figlio per una specie di caccia ai mostri, e torna con una bambina e…” indicandosi, Erin sorrise divertita. “… una donna pronta a invadere il suo territorio.”
 
Irina sorrise e, nello scuotere il capo, replicò con sincerità: “Mi ha sorpresa, questo è sicuro, ma in positivo. Erano anni che sognavo un futuro sereno per il mio ragazzo, un futuro che la mia viltà gli aveva impedito di avere.”
 
Irina quindi sospirò, lanciando un’occhiata alle lingue di fiamma che bruciavano nel camino, prima di proseguire.
 
“Roland non ha mai amato i suoi figli. Di certo, non quelli di primo letto, e neppure quelli di secondo, se è per questo” mormorò la donna. “Il fatto di poter procreare lo rendeva orgoglioso perché lo faceva sentire virile, ma il suo essere padre iniziava e terminava lì.”
 
Erin rammentava bene la storia della bambina che, il padre di Alec, aveva ucciso per errore. Non la stupiva che Irina sapesse dei trascorsi del marito, e non provasse rancore o altro.
 
Era più probabile che sentisse più dolore e compassione per quella perdita innocente, che odio verso la donna che l’aveva partorita.
 
Le donne che avevano generato i figli di Roland Dawson erano state vittime di un licantropo violento e senza scrupoli, ugualmente prigioniere di un uomo senza alcuno scrupolo morale.
 
“Sa, vero, dei trascorsi di Aleksej con suo padre?” le domandò l’anziana, fissandola dubbiosa.
 
Erin annuì. “Me ne parlò prima di partire. Di se stesso e di Patricia.”
 
“So che mia figlia è nel suo branco. Lei e Andrew stanno bene?” si informò allora Irina, tornando a sorridere.
 
“Sì, e mi hanno detto che verranno a Bradford per festeggiare il Capodanno con noi” la informò, vedendola illuminarsi tutta a quella notizia. “Le ho portato anche delle foto, se vuole vedere suo nipote.”
 
Subito, Irina si avvicinò a Erin per meglio vedere e, quando l’ebbe a portata di mano, la baciò su una guancia, sorprendendo appieno la giovane licantropa.
 
Erin la fissò basita, ma Irina si limitò a dire: “Grazie. Per tutto.”
 
“Non ho fatto molto…”
 
Un sorriso canzonatorio sorse sul volto dell’anziana, che ribatté: “Mi hai lasciato in custodia tua figlia, e ridato un figlio che pensavo di aver perso per sempre a causa della mia viltà. Ti pare poco, cara?”
 
Il gergo confidenziale le venne spontaneo e, nel prendere nelle sue una mano di Erin, Irina proseguì dicendo: “Ciò che hai fatto è enorme, e non potrò mai ringraziarti abbastanza, per questo.”
 
Stringendo quelle mani fragili e sottili, la giovane mormorò in risposta: “Alec ci ha salvate. Perciò, dovremmo essere noi a ringraziare. Diversamente, io avrei continuato a vivere solo per mia figlia, senza pensare a un futuro anche per me. E mia figlia sarebbe cresciuta senza un padre a proteggerla, o anche solo ad amarla.”
 
“Se non ti spiace, mi sentirò ancora in debito con te per un po’. Ma lo farò con discrezione” le propose allora Irina, ammiccando.
 
“Come crede…”
 
“Dammi pure del ‘tu’, cara, e chiamami pure ‘mamma’, se vuoi. Non ti obbligherò, ovviamente, ma mi renderesti felice.”
 
Gli occhi d Erin si fecero densi di lacrime che, però, non versò e, debolmente, mormorò: “E le … ti starebbe bene, come dote, la figlia che ho avuto da un uomo che non mi ha neppure voluta?”
 
“Penny non ha colpe per ciò che fece il suo padre naturale, come tu non ne hai per la viltà di questo lupo che non vi ha volute. La bimba è cresciuta sotto l’ala di una donna forte e di un uomo d’onore, che vi ha amate e protette. Ora, Penny diverrà donna con un altro uomo forte e che distruggerà il mondo, piuttosto che vederla infelice. Certo, che la voglio. Come voglio te come figlia, tesoro.”
 
Erin sbuffò per l’imbarazzo, si fece aria con una mano per darsi una calmata e, ridendo nervosamente, esalò: “Oh, cielo… beh, non so che dire… non me l’aspettavo, ecco.”
 
“Ero molto in ansia, proprio perché Penny mi aveva detto che, con i tuoi genitori, ci sono delle cose in sospeso” ammise Irina, sorprendendola.
 
“Non hanno accettato la mia decisione di tenere Penny” assentì Erin, adombrandosi in viso. “Ritennero stupida la mia scelta di aver giaciuto con un licantropo dalle spiccate doti di seduttore e, quando seppero della gravidanza, andarono su tutte le furie.”
 
“Posso solo dirti che io sono felice tu l’abbia tenuta e, nei limiti del possibile, cercherò di esserti d’aiuto. Non mi intrometterò, né sarò di peso alcuno. Me ne starò per i fatti miei, e…”
 
Erin sgranò gli occhi, di fronte alla lista di cose che Irina le pose innanzi e, soprattutto, alla sua decisione di non essere presente nella loro vita. Bloccandola perciò sul nascere, esalò: “No, no, no. Irina, la prego… ti prego! Questa è casa tua da un sacco di anni, e ci hai abitato con tuo figlio per lungo tempo. Sono io l’ospite, qui.”
 
“Non ospite, cara, ma futura moglie di mio figlio.”
 
“Non desidero che tu resti in disparte. Ci vorrà del tempo, perché io mi ambienti all’interno del branco, e saperti al mio fianco assieme ad Alec, mi rincuorerebbe” ammise Erin, sorridendole speranzosa. “Inoltre, non vorrei mai darti l’impressione di essere venuta qui per allontanarti da tuo figlio.”
 
“Il mio appoggio non ti mancherà mai, cara, ma preparati a un fuoco incrociato di domande, perché sia Hati che Sköll vogliono sapere come tu abbia fatto capitolare il loro Fenrir” ironizzò l’anziana, facendola sorridere.
 
Ridendo divertita, Erin esalò: “E hanno tutti e due il carattere di Alec?”
 
“Peggio, oserei dire. Come direste voi giovani, sono dei veri ‘bad guys’, ma adorano già Penny e hanno minacciato formalmente il branco di punizioni severissime, se fosse stato torto un capello alla bambina” ironizzò a quel punto Irina.
 
Erin si immaginò due licantropi grandi e grossi, con tanto di zanne esposte, mentre proteggevano la sua figliola da un branco in attesa di notizie.
 
La cosa la fece sorridere e, quando percepì l’arrivo di Alec, Erin si volse a mezzo per domandare: “E così, i tuoi ragazzacci hanno difeso Penny?”
 
Sentendosi interpellare, Alec lanciò un’occhiata divertita alla madre, che fece spallucce e, nel poggiare la legna nella cassa accanto al camino assieme a Penny, dichiarò: “William e Spike sono due teste calde, come avrai modo di scoprire, ma mi sono totalmente fedeli e, ora, sono i guardiani di Penny.”
 
“Devi conoscerli assolutamente, mamma. Sono simpaticissimi! Will mi ha anche portato sulla sua Harley e…”
 
Tappandosi la bocca un attimo dopo, Penny fissò spiacente un cereo Alec e una sorpresa Erin e, contrita, esalò: “Ops. Questo non dovevo dirlo, mi sa.”
 
“Vado ad ammazzarlo” ringhiò subito Alec, già pronto a battagliare contro il suo Hati.
 
La guancia sfregiata stava già pulsando minacciosa.
 
Penny, però, lo afferrò alla svelta a una mano e, con occhi sgranati e pentiti, mormorò: “Ti prego, ti prego, ti prego, perdonaloooo. E’ stato attentissimissimo. Mi ha fatta sedere davanti a lui, così che non potessi scivolare e non ha fatto più dei… dei…”
 
Assottigliando le iridi di ghiaccio, Alec ringhiò: “Spero, non più delle trenta miglia orarie, o lo eviro.”
 
“Alec!” esalò Erin, fissando sgomenta la figlia prima di frizzare con lo sguardo l’amato.
 
Penny, però, non fece alcun caso al suo linguaggio e, ridacchiando, celiò maliziosa: “Lorainne ci rimarrebbe mooolto male, se tu lo facessi.”
 
Levando un sopracciglio con evidente interesse, Alec si piegò su un ginocchio per avere gli occhi di Penny a tiro e, curioso, le domandò: “E tu che ne sai, ranocchietta?”
 
Erin sbuffò – aveva detestato quel nomignolo fin dall’inizio, almeno tanto quanto a Penny era piaciuto – ma Alec non le fece caso.
 
“Sei un maschio. Certe cose non le vedi” sentenziò la bambina, ghignando furba.
 
“Noto che ormai il suo contegno e la sua educazione sono andate a farsi benedire…” sospirò Erin, pur sorridendo. “Ormai è come te.”
 
“Cioè, è più che perfetta” sintetizzò Alec, battendo il cinque con la piccola.
 
“Non ho speranze, con voi” esalò la giovane madre, scuotendo esasperata il capo, ma gioendo dentro di sé.
 
Sì, Alec sarebbe stato un padre eccellente, per Penny.
 
Irina le sorrise complice e, mentre Penny spiegava ad Alec i motivi dei suoi sospetti in merito a una cotta di Lorainne – una delle sentinelle del branco – per il loro affascinante William, il campanello suonò.
 
“Oh, bene. Quei due squinternati sono arrivati” dichiarò Alec, levandosi in piedi e tirandosi dietro la bambina.
 
“Chi aspettiamo?” domandò curiosa Erin.
 
“Brianna e Duncan, la Prima Coppia del clan di Matlock” le spiegò Irina, sorprendendola non poco.
 
Sorridendo spontaneamente nell’apprendere quella notizia, Erin si levò in piedi per raggiungerli e, non appena intravide la chioma biondo castana dell’amica, le corse incontro per abbracciarla con foga, esclamando: “Ora è una Vigilia perfetta.”
 
“Lieta che lo sia. Non siamo riusciti ad arrivare prima, scusaci. Volevamo esserci anche noi, all’aeroporto” asserì Brianna, stringendola a sua volta con calore.
 
Duncan seguì l’esempio di Brie, abbracciando con affetto l’amica e, nello scostarsi da lei, le sorrise dicendo: “Ora che sei qui, mi sento un po’ più tranquillo.”
 
“Dubitavi di lui?” ironizzò Erin, lanciando un’occhiata da sopra la spalla in direzione di Alec, che ghignò.
 
Anche Duncan scrutò l’amico e, nel dargli una pacca sulla spalla, chiosò: “So quanto sia facile cadere nello sconforto, se separati dalla persona amata, perciò… mi sento più sereno, sapendoti finalmente al suo fianco.”
 
“Il solito sdolcinato” borbottò Alec, sollevando un pugno in direzione del licantropo.
 
Duncan lo imitò e, pugno contro pugno, si salutarono reciprocamente.
 
Irina li salutò con abbracci più delicati, pur se sentiti e, insieme, si diressero nell’ampio salone, dove Brianna si accomodò sul divano assieme all’anziana lupa e a Penny.
Scrutando poi il resto dei presenti, la wicca sospirò lieta e chiosò: “Vigilia di Natale migliore non poteva esserci.”
 
“Concordo in pieno, cara” assentì Irina, battendole una mano sul braccio.
 
Brie le sorrise con calore, annuendo, e Penny, non potendo farne a meno, domandò all’amica: “Farai volare ancora Alec per la stanza? E’ stato buffo, l’altra volta.”
 
Brianna scoppiò a ridere con la ragazzina e, nello stringerla a sé in un abbraccio, strizzò l’occhio ad Alec e chiosò: “Tu che dici, Alec?”
 
“Che stavolta passo” scrollò le spalle il licantropo, sospingendo poi Erin e Duncan verso il secondo divano. “Ne ho avuto abbastanza dei tuoi modi da bulla, streghetta.”
 
“Da che pulpito…” ironizzò Brianna, fissandolo con aria di sfida.
 
Alec, a quel punto, si levò in piedi a sorpresa e, dopo aver afferrato la ragazza a un braccio, la sollevò di peso dal divano e, ghignante, dichiarò: “Fuori. Io e te. Vediamo chi la vince, stavolta.”
 
La Prima Lupa di Matlock non poté che scoppiare a ridere e, divertita, lo seguì fuori, già pregustando un’altra vittoria.
 
Mentre i due contendenti si spostavano nel prato sul retro del cottage, ricoperto da una leggera coltre nevosa, dietro di loro si formò un piccolo capannello di curiosi.
 
Posizionatisi sotto l’architrave della porta, il gruppetto li studiò con interesse ed Erin, rivolta a Duncan, domandò: “Perché ho idea che questa diatriba sia nata ben prima del nostro incontro a Belfast? Ricordo che ne avevano accennato qualcosa.”
 
“Se vuoi saperlo, dovrai spillare la verità a uno di quei due. Nessuno me l’ha voluto dire” asserì esasperato Duncan, sorprendendola.
 
“Che cosa? Non sai nulla neppure tu?” esalò Erin, sgranando gli occhi.
 
In quel mentre, Brie si mise a braccia conserte di fronte ad Alec che, concentrato e teso allo spasimo, ringhiò: “Stavolta finirai tu con il culo a terra, streghetta.”
 
“Tutto da vedersi” replicò Brianna con aria tronfia.
 
Alec, allora, ghignò al pari di uno squalo e, aperta volontariamente la mente alla wicca, le trasmise immagini di sé ed Erin in atteggiamenti più che intimi.
 
Questo non solo colpì di sorpresa Brie, ma la fece anche arrossire fino alla radice dei capelli, distraendola.
 
Ciò permise ad Alec di avvicinarsi a lei senza vedersi sbarrata la strada dai suoi poteri e, con un sorriso trionfante, la afferrò alla vita e la sollevò su una spalla, vittorioso.
 
“Battuta!” gridò poi esultante.
 
“Non è valido, così!” strillò per contro la ragazza, che a stento sovrastava le risate provenienti dal loro pubblico.
 
“E chi lo dice?”
 
“La buona educazione!” sbottò Brianna, picchiandolo sul fondoschiena, a portata di pugni. “E chiudi quella cavolo di mente, Alec! Non ho intenzione di vedere tutto!”
 
Ridendo, Alec la accontentò e, nel rimetterla a terra, la abbracciò per un attimo, mormorando al suo orecchio: “Grazie di tutto, streghetta. Davvero.”
 
“Non c’è di che” replicò lei, rispondendo con calore a quel gesto così inconsueto, per Alec.
 
Un attimo dopo, però, si ritrovò ad affondare con il sedere nella neve fresca e, mugugnando un’imprecazione, la giovane esclamò contrariata: “Alec! Non è valido!”
 
“Neanche questo?” rise di gusto lui prima di venire afferrato a un braccio, strattonato e gettato a sua volta nella neve fresca.
 
Incurante del freddo, Alec continuò a ridere e si sdraiò a terra, lasciando che la neve lo bagnasse del tutto.
 
“Amen” sussurrò a quel punto Brie, imitandolo.
 
“Due a uno, streghetta.”
 
“Non la finirai mai di tenere il conto, Alec?” gli domandò lei mentre il resto del gruppo si avvicinava loro.
 
“Così, avrò sempre una scusa per vederti e tentare di batterti, no?” le strizzò l’occhio lui, sorridendo sghembo.
 
A Brie vennero gli occhi lucidi per le lacrime, a quelle parole, ma le trattenne.
 
Non avrebbe mai sentito dire ad Alec ‘ti voglio bene’, ma quella era la dimostrazione d’amicizia più bella che avesse mai ricevuto in vita sua.
 
Annuendo senza cedere alle emozioni, lei si rialzò a sedere e, quando vide la mano di Duncan pronta ad aiutarla, asserì: “Ci batteremo ancora, non temere. Finché vorrai.”
 
“Andata, streghetta” assentì Alec, aiutato da Erin a rialzarsi.
 
“E ora che vi siete bagnati ben bene, possiamo andare a cena?” domandò loro Erin, sorridendo ai due contendenti.
 
“Eccome! Ho una fame da lupi” dichiarò Alec, mentre il suo corpo si avvolgeva di pura energia per asciugarsi.
 
Nell’imitarlo, Brianna trattenne Duncan perché non rientrasse assieme agli altri e, quando furono a distanza di sicurezza, asserì: “Quando ci trovammo al Peak District per la riunione tra clan, io e Alec avemmo un diverbio verbale, che sfociò in uno scontro di auree. Ovviamente, grazie al mio potere di wicca, lo respinsi con facilità. Lui, allora, mi accusò di essere troppo potente, e che questo avrebbe innescato gelosie e pericolosi dubbi in tutti i capiclan, qualora io avessi parlato di ciò che era successo tra noi, e di come fossi riuscita a trattenere un Fenrir del suo calibro.”
 
Duncan annuì, perfettamente immobile al suo fianco, in attesa del resto della storia.
 
“Io, però, gli dissi che non avrei riferito a nessuno – nemmeno a te – di quanto successo tra di noi, perché non avrebbe avuto alcun senso. Subito, non mi credette e irrise le mie parole ma, quando si rese conto che non avevo parlato, mi fece capire che si era sbagliato, che mi aveva giudicata male, e che il mio silenzio aveva significato molto, per lui.”
 
“E perché me lo dici ora?” volle sapere a quel punto Duncan.
 
“E’ il mio regalo di Natale per te” gli spiegò Brie, sorridendogli.
 
“Davvero strano, come regalo” ironizzò Duncan, levando un sopracciglio con ironia.
 
“Non voglio che ti rimangano dei dubbi su Alec. E’ un buon amico per entrambi, oltre che un valido alleato per il nostro clan. Non c’è altro in sospeso, tra di noi, ora.”
 
“Non avevo alcun dubbio. Mi è bastato vederlo in quella grotta, alle Svalbard, quando continuava a lottare come un forsennato per coprirmi le spalle, in modo che io potessi raggiungerti sull’isola” le spiegò Duncan, sorridendole mentre rientravano in casa.
 
“Davvero?”
 
Annuendo, il licantropo mormorò: “Ha lottato come un indemoniato e, quando sei svenuta per la stanchezza durante il viaggio di ritorno, ha pensato in prima persona a tenerti al caldo.”
 
Brianna sbatté gli occhi, sorpresa, e Duncan aggiunse: “Sulle prime, non volli concederglielo, ma poi mi disse – mi pregò – di lasciarglielo fare, perché si sentiva in debito con te. Non volle mai spiegarmi perché, ma ora capisco.”
 
“Pensi che sia per quel fatto del Peak?”
 
“Non proprio. Credo piuttosto perché tu gli hai fatto capire che poteva fidarsi veramente di qualcuno che non fosse se stesso, o la sua cricca ristretta. Credo non gli fosse mai capitato prima, in tanti anni, e questo lo ha condizionato molto.”
 
Sorridendo nel chiudersi la porta di casa alle spalle, Brianna mormorò: “Anche questo è un bel regalo di Natale.”
 
“Spero che anche l’altro mio regalo potrà piacerti, dopo questo” ironizzò Duncan, baciandola dietro l’orecchio, nel punto in cui la carne era più sensibile.
 
Lei ansimò, annuendo, e disse: “Non prima di cena, ti prego, o non saprò come fare a trattenermi.”
 
Ridendo, Duncan assentì e, nel veder sbucare il volto accigliato di Alec dalla porta del salone, esclamò: “Arriviamo, arriviamo!”
 
“Stare zitti mai, vero, lupastro?” brontolò Alec, sulle cui gote chiare aleggiava un leggero rossore.
 
Duncan rise e Brie, nel corrergli incontro, gli stampò un bacio sulla bocca e disse: “Buona Vigilia di Natale, Alec!”
 
“Anche a te, streghetta” replicò lui, dandogli un pizzicotto sul naso. “Anche a te.”





Note: Pensavo fosse carino che il segreto mantenuto da Alec e Brianna riguardo ai fatti del Peak, fosse finalmente chiarito e portato alla luce. E che diventasse qualcosa di speciale come, per l'appunto, un regalo di Natale.
E, visto che siamo nel periodo giusto, auguro a tutti/e un meraviglioso Natale!

 
 
 

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Capitolo 3
*** Fare, amare sperare (Lance) - Aprile/Agosto 2011 ***


I tre grandi elementi essenziali alla felicità in questa vita sono qualcosa da fare,
qualcosa da amare, e qualcosa da sperare.
(Joseph Addison)
 
 
 
 
Fare, amare, sperare (Lance) – Aprile/Agosto 2011
 
 
 
 
Lo squillo del telefono risvegliò Brianna di soprassalto e, solo in quel momento, si rese conto di essere sola a letto.
 
Del suo uomo, neanche l’ombra.
 
“Ma che cavolo…” brontolò confusa, prima di rammentare.
 
Ma certo!
 
Duncan era partito la notte precedente per raggiungere Londra, assieme a Sarah e Branson, per una riunione con i Clan del Sud.
 
Lì, avrebbe rivisto Joshua e Cecily, così da definire sulla carta la redistribuzione dei berserkir nel Low England.
 
Da quando Thor si era trasferito nel Clan di Alec, a Bradford, altri uomini-orso si erano uniti a lui, e questo aveva reso necessario intervenire in merito. Se già era difficile nascondere la natura dei licantropi – fisicamente più possenti di un normale umano – con i berserkir la faccenda appariva assai più complessa.
 
Questo aveva reso necessario un ricollocamento di molti di loro, onde evitare che l’attenzione delle persone, dei normali, non gravitasse troppo su quegli energumeni così possenti e dall’aspetto truce. Se si fossero tutti trovati a Bradford, avrebbero attirato troppi sguardi curiosi, perciò si era resa necessaria una riunione d’urgenza.
 
Era piuttosto difficile, infatti, non notare una quarantina di uomini biondi, dalle spalle grandi come camion e l’altezza di un colosso.
 
Due o tre per volta, invece, erano più gestibili, e non solo dal punto di vista visivo.
 
I berserkir tendevano a essere un tantino attaccabrighe, quando stavano troppo a contatto con gli umani perciò era necessario, per non dire vitale, che non si cacciassero nei guai in gran quantità.
I gruppi esigui e sparuti erano d’obbligo.
 
Afferrato il cellulare, che stava continuando a urlare sul comodino e che l’aveva strappata al suo sonno, Brianna accettò la chiamata e bofonchiò: “Pronto…”
 
“Ehi, sorellina! Hai fatto le ore piccole, stanotte?” ironizzò Gordon, svegliandola del tutto con il suo tono di voce squillante.
 
Passandosi una mano sul viso, i capelli scompigliati e sparsi ovunque sul suo capo, Brianna mugugnò: “Non ricordi che Duncan è partito per Londra? Non pensare subito male. E’ che sono stata alzata fino a tardi per studiare. Sai che, tra qualche giorno, rientrerò a mia volta nella capitale, no?”
 
“Uh, già. Verissimo” assentì in fretta il giovane.
 
“Ergo, perché mi chiami alle…” mugugnò la ragazza, volgendo il capo per curiosare la sua sveglia. “… alle sette del mattino della domenica di Pasqua?”
 
“Forse è il caso che tu venga qui, prima di andare a casa di Jerome ed Erika” dichiarò Gordon, tornando serio.
 
Accigliandosi immediatamente, Brianna sgusciò fuori dal letto e, afferrati i pantaloni, tenne il cellulare tra guancia e spalla per poi domandare concitata: “Mary B non sta bene? Si sente male?”
 
“Mary B è okay. E’ il suo uomo che sta perdendo colpi.”
 
“Eh?” gracchiò a quel punto la giovane wicca, pensando al posato e serafico Lance, e cercando di capire cosa diavolo volessero dire le parole del fratello.
 
Di comune accordo, una volta venuto a conoscenza della gravidanza dell’amata, Lance e Mary B avevano deciso di comune accordo di sposarsi una volta che fosse nata la loro bambina. Lance, infatti, desiderava con tutto se stesso che fosse presente anche la piccola, e Mary B si era dichiarata più che d’accordo con lui.
 
Al momento, mancavano ancora quattro mesi al lieto evento, eppure i preparativi erano già iniziati da tempo. Lance si era trasferito nella casa di Mary B e Gordon, ben più ampia rispetto all’appartamento ove Hati aveva vissuto fino a quel momento.
 
Lì, avevano subito iniziato i lavori di ampliamento per costruire una camera per la nascitura, con l’opzione di una seconda cameretta al fianco. Nessuno dei due aveva voluto escludere nulla.
 
Da quello che Brianna sapeva, i lavori erano terminati a marzo e, in quel momento, si stava decidendo l’arredamento più adatto per la stanza.
 
La ragazza, perciò, si chiese cosa avesse voluto dirle Gordon con quelle parole sibilline.
 
Che lei sapesse, la gravidanza di Mary B procedeva benissimo, perciò non aveva senso che Lance si preoccupasse della sua salute. Ergo, cos’altro c’era?
 
Dopo essere uscita di casa salutando Jasmine sui gradini dell’ingresso, Brianna si catapultò in garage per recuperare la sua bicicletta e si immise in strada senza perdere tempo.
 
Non aveva senso prendere l’auto per fare tre miglia e, con la sua forza di licantropo, sarebbe occorso un attimo per raggiungere la casa di Mary B.
 
A quel punto, lei sperava, forse avrebbe potuto capire cosa aveva spinto Gordon a sollecitare la sua presenza a casa loro.
 
Con il vento che le schiaffeggiava la faccia, in quella mattina di Pasqua particolarmente calda e assolata, Brianna giunse infine di fronte alla villetta a un piano dei familiari.
 
Conosceva quella casa già da prima dell’arrivo nel branco della sua famiglia, essendo stata di proprietà di Marjorie – colei che più di tutte l’aveva voluta fuori dal branco, a causa del suo amore per Duncan. Le era parso strano che proprio Mary B e Gordon ne fossero diventati i proprietari ma, ormai da tempo, non pensava più ai suoi trascorsi con Marjorie.
 
Sapeva che si era rifatta una posizione nel suo nuovo branco, e tanto le bastava.
 
Raggiunta la proprietà, quindi, depose la bici nel vialetto d’ingresso e, senza bussare, entrò in casa, trovando Gordon appollaiato su uno sgabello, in cucina.
 
Un toast in mano e un bicchiere di latte nell’altra, il ragazzo esalò: “Più veloce della luce, sorellona!”
 
“Dov’è Lance?”
 
Indicando il retro della casa con un cenno del capo, poggiò la sua colazione sulla consolle e seguì Brianna verso il giardino.
 
Mary B era in ospedale come sempre, ma aveva promesso che per il pranzo di Pasqua si sarebbe presentata regolarmente. Questo aveva evitato eventuali discussioni con Hati, già pronto ad avvolgerla nella bambagia fino al giorno del parto.
 
Mary B tendeva a essere piuttosto protettiva, quando si trattava di Lance, ma anche lui non scherzava e, a volte, si era arrivati a paradossi davvero assurdi, con quei due.
 
La stessa Brianna si era sorpresa nel notare in lei un simile istinto protettivo, pur se aveva sempre saputo trattarsi di una donna molto amorevole e materna.
 
Chissà perché pensava che Lance avesse bisogno di …
 
Brianna non terminò mai quel pensiero, quando finalmente mise piede nel giardino sul retro della villetta.
 
Dinanzi a lei, simile a un piccolo laboratorio di falegnameria, se ne stava la più grande collezione di mobili che avesse mai visto.
 
Trucioli color nocciola, segatura di varia grandezza e pezzi di legno grezzo erano sparsi un po’ ovunque mentre Lance, impegnato a piallare, stava per ultimare la sua ultima opera.
 
Non fosse stato per la quantità enorme di oggetti presenti sul prato, Brianna avrebbe plaudito la bravura di Hati, ma tutta quella roba le sembrò un tantino eccessiva …specialmente se si considerava che doveva servire per una sola bambina, e non per una squadra di calcio.
 
“Capito che intendevo?” mormorò Gordon, al suo fianco. “Sulle prime, è stato carino vederlo lavorare sui mobili che avremmo messo nella camera di Keely – hanno poi scelto questo, come nome – ma ora, mi sembra che la cosa cominci a toccare i toni dell’inquietante. Anche Mary B è un po’ preoccupata.”
 
“Lo credo” esalò Brianna, avvicinandosi finalmente al suo Hati.
 
“Ehi, Lance…” esordì subito dopo la wicca, distogliendolo al suo lavoro.
 
Sobbalzando – Lance non si era affatto accorto della sua presenza, altra stranezza – il licantropo le sorrise spontaneamente e si alzò per abbracciarla. Fu così che Brianna si ritrovò stritolata tra le sue braccia taurine, rischiando di fatto di rimetterci qualche costola.
 
“Wow, amico, questo sì che è un abbraccio” esalò la ragazza, cercando di scostarsi da lui.
 
Lance allora rise e, nel riprendere la pialla in mano, dichiarò: “Ti si vede così di rado, da quando hai iniziato l’università, che è sempre un piacere riaverti a casa.”
 
“Lieta di saperlo” mormorò Brianna, poggiando le mani sui fianchi nell’osservare il lavoro svolto da Lance.
 
Eh, sì, con tutti quei mobili, avrebbero potuto arredare almeno sei nursery.
 
Un po’ troppe davvero.
 
“Senti un po’, mio Hati, non ti sembra di aver un tantino esagerato, quanto a lavori di falegnameria?” buttò lì la ragazza, ghignando all’indirizzo di Lance.
 
Imperturbabile, lui replicò: “Mary B deve avere a disposizione la migliore gamma di mobili possibili, tra cui scegliere. E di qualsiasi genere possa servirle.”
 
Gordon si passò una mano sul viso, esasperato da quel tono che, a quanto pareva, doveva essere divenuto la norma, in famiglia e Brianna, non potendosi impedire di fissarlo a occhi sgranati, esalò: “Scusa la domanda… ma quanti altri mobili vuoi fare?”
 
“Tutti quelli che saranno necessari” scrollò le spalle l’uomo, come se quella domanda fosse inutile, oltre che stupida.
 
“Ohsignoresantocielo” gracchiò la ragazza, facendo sorridere l’amico.
 
“Anche Gordon parla così, a volte. Come fate a non mangiare le parole e, al tempo stesso, a farle suonare incollate le une alle altre?” ironizzò Lance, del tutto calmo e pacifico nel suo stato di quieta follia.
 
Sembrava che nulla fosse cambiato, in lui, eppure…
 
Come trovare normale quell’eccessivo lavorio fisico, e quella sovrapproduzione di mobili che, per quanto belli, erano oggettivamente inutili, vista la quantità?
 
Lanciato uno sguardo a Gordon, Brianna lo pregò di allontanarsi e, una volta rimasta sola con Lance, la giovane wicca si permise di sondare senza ritegno il suo animo.
 
Quel che trovò la mise subito in allarme, e così Lance, che levò il capo a scrutarla con espressione dubbiosa.
 
“Beh, che c’è?” mormorò l’uomo, smettendo per un attimo di piallare.
 
“Che c’è, Lance?” ripeté a pappagallo la ragazza, afferrandogli una mano per stringerla tra le sue. “Non ti sei accorto delle condizioni della tua aura?”
 
Hati aggrottò la fronte, ritirando la mano da quelle dell’amica e, riprendendo a lavorare, borbottò: “Non ho niente che non va.”
 
Sospirando, Brianna allora sollevò una mano con l’intento di sfiorare l’aura dell’amico, ben attenta a non affondare troppo e toccare così il suo corpo tonico e forte.
 
Immediatamente, Lance si bloccò e, ansimando, si portò una mano al torace, quasi che un pugno lo avesse colpito al plesso solare.
 
Il suo battito cardiaco suonò irregolare al suo orecchio esperto e, nell’osservare torvo Brianna, ringhiò: “Che diavolo stai combinando, principessa?”
 
Ritirando la mano, lei replicò quieta: “Ti sto dimostrando che menti persino a te stesso. La tua aura è così frantumata che basta un esile tocco di potere, per mandarla in briciole. Se dovessi affrontare anche solo una discussione un po’ accesa con un licantropo, ti verrebbe un infarto, Lance.”
 
“Tutte sciocchezze” sbuffò l’uomo, fissandola con gelidi occhi da husky.
 
Ma perché gli uomini sono tutti così testardi?, pensò tra sé Brianna, allontanandosi di un passo dall’amico.
 
“Cosa ti preoccupa così tanto da ridurti in questo stato?” gli chiese con gentilezza, sperando di non acuire il suo stato di apparente nervosismo.
 
Speranza vana.
 
Lance si alzò di scatto, lanciando a diversi metri di distanza la pialla e, fissando arcigno l’amica, ringhiò: “Non. Ho. Niente. Vuoi ficcartelo in testa, principessa?”
 
“E da quando in qua ti rivolgi a me con le zanne scoperte, Hati, e mostri una rabbia che, se mal interpretata, potrebbe essere vista come un insulto al mio ruolo di wicca e Prima Lupa?” ribatté gelida Brianna, facendo leva sulla loro doppia natura.
 
L’uomo impiegò qualche attimo, per rendersi conto di ciò che stava effettivamente succedendo. Quando, infine, pose lo sguardo sulle sue mani – artigliate – fremette di contrizione e fissò l’amica con profondo dolore.
 
Crollando poi sulla panchetta su cui era stato seduto fino a un attimo prima, il corpo enorme afflosciato su se stesso, Lance esalò: “Mille scuse, principessa… non ho davvero agito per il meglio.”
 
Brianna, allora, gli carezzò il capo biondo e mormorò: “Puoi aprirti con me, lo sai. Nel bene e nel male, conosco ogni cosa di te, e posso capirti meglio di altri.”
 
Era stata nella sua mente il primo giorno in cui avevano iniziato gli allenamenti per il controllo dei suoi doni, e quell’assaggio di potere era stato devastante.
 
Per entrambi.
 
Non vi era nulla, nel passato e nel presente di Lance, che lei non conoscesse, e aveva idea che nei suoi ricordi fosse annidato il bandolo della matassa.
 
“Cosa non hai detto, di quella notte, a Mary B?” chiese quindi Brianna, accucciandosi accanto all’amico, il cui sguardo di ghiaccio stava perforando il prato dietro casa.
 
Lance si irrigidì appena, confermando i dubbi dell’amica che, stretta una mano sul suo ginocchio, sussurrò: “Mio Hati, parlami. Sono qui per te.”
 
“Prima Lupa…” mormorò l’uomo, levando appena il capo per affondare nelle ambrate profondità dell’amica.
 
Brianna sorrise appena e, nel poggiare la fronte contro quella di Hati, sussurrò ancora: “Getta fuori le ombre, mio Hati, affinché esse non percorrano il tuo sentiero. Lasciale fuori dalla tana, mio lupo.”
 
Nella mente della giovane wicca comparvero immagini veloci di una caccia, della predazione di diversi umani… e della loro inesorabile fine. Sarah era a capo delle sentinelle lanciate contro quel gruppo di Cacciatori e, tra loro, Brianna vide Lance.
 
I suoi occhi erano vuoti, del tutto privi della scintilla vitale che lei sapeva essere normalmente in loro. Erano occhi che avevano visto il peggio, e ora desideravano sangue.
 
“La caccia ai seguaci di…”
 
Lance annuì prima che lei pronunciasse quel nome, il nome della donna umana che aveva così barbaramente tradito la sua fiducia.
 
“Fosti tra gli assassini guidati da Freki?”
 
“Mi offrii volontario, visto il numero di Cacciatori da predare e l’esiguo tempo a disposizione per catturarli. Temevamo che diffondessero notizie su di noi” assentì l’uomo ammettendo le sue colpe, se di colpe si trattava.
 
“Rimpiangi quella caccia?” gli domandò a quel punto, accigliandosi.
 
“No. Ne fui felice” gracchiò, contrito.
 
E Brianna iniziò a comprendere.
 
“Oh, Lance… questo non ti rende una cattiva persona. E’ ciò che siamo. Se non aveste trovato quei Cacciatori, il branco sarebbe stato scoperto e molti licantropi sarebbero morti” mormorò Brianna, carezzandogli il viso con gentilezza.
 
“Io lo so, e lo capisco, ma Mary B… lei è…” balbettò, cercando di mettere a parole – senza riuscirvi – le sue peggiori paure.
 
“Temi non potrebbe comprenderti fino in fondo, Lance? Solo perché è umana come le persone che hai predato?”
 
“Lei è buona e gentile, comprende le esigenze del branco… ma non è come noi. Io l’amo, devi credermi, ma…”
 
Brianna prese il suo viso tra le mani, sollevandoglielo e, permettendogli di entrare nella sua mente, gli mostrò l’attimo in cui Patrick aveva cercato di ucciderla, quando era da poco divenuta licantropa.
 
Rivisse quei momenti concitati, concentrandosi sul volto determinato di Mary B, sul suo tentativo di allontanare a ogni costo il marito da Brianna.
 
Fremette, quando la vide cadere a terra, minacciata dallo stesso uomo che avrebbe dovuto proteggerla. Non mollò comunque la presa, e gli fece ascoltare le parole di fiele di Mary B, rivolte al marito e al suocero.
 
Quando vi fu l’esplosione, Brianna lasciò andare il collegamento e asserì: “Non è una donna che non capirebbe cos’hai provato, Lance. E’ una donna che si è messa contro il proprio marito, la propria razza, per salvare me e Jerome. E l’ha fatto perché sapeva da che parte voleva stare.”
 
Sul viso di Lance comparve un sorrisino mesto.
 
“Era davvero terrorizzata all’idea di perderti” chiosò Hati.
 
“Ma era soprattutto disgustata dalle azioni del marito e del suocero. Ci difese. Esattamente come facesti tu per il branco, predando quei Cacciatori. Credimi, quando ti dico che Mary B capirebbe benissimo la tua scelta di partecipare a quella caccia in particolare” gli confidò Brianna, rialzandosi in piedi.
 
Lance ne seguì i movimenti con lo sguardo e, contrito, domandò: “Dici che dovrei parlargliene ora, o forse è il caso che aspetti dopo il parto?”
 
“Ogni momento andrà bene, visto che so benissimo di che tempra è fatta Mary B” sorrise Brianna, guardandosi intorno. “Il problema, ora, è un altro.”
 
“E cioè?”
 
“Che diavolo ne faremo di tutti questi mobili?” esalò la giovane wicca, facendo scoppiare a ridere Hati.
 
***
 
Sdraiata sul letto assieme a Lance, le caviglie intrecciate e la mano destra distrattamente impegnata a carezzarsi il ventre arrotondato, Mary B mormorò: “Lance Gregory Rothshild, sei davvero uno sciocco. Lo sai, vero?”
 
L’uomo rise contrito, baciandole la chioma bruma sparsa sul suo torace nudo e, annuendo, asserì: “Sono già stato debitamente richiamato all’ordine dalla mia Prima Lupa, giusto oggi.”
 
“Brie ha fatto bene a sgridarti. Non avresti dovuto neppure pensare che io non avrei capito” gli fece notare la donna, levando lo sguardo a incrociare quello limpido e finalmente tranquillo del compagno.
 
“Errore mio, lo ammetto. Ma come scusante posso avere che non mi sono mai trovato in una situazione simile?”
 
“Scuse accettate, visti soprattutto i tuoi precedenti. Fossi stata al tuo posto, l’avrei divorata, probabilmente, ma non so se sono io a parlare, o gli ormoni” dichiarò Mary B, sorridendo sbarazzina.
 
La gravidanza stava procedendo senza intoppi e, al quinto mese di gestazione, Mary B era raggiante come un sole appena desto. Il dottore le aveva assicurato che, nonostante avesse già compiuto trentanove anni, non avrebbe avuto alcun tipo di problema.
 
Tecnologia all’avanguardia, nuove cure e qualità della vita molto alta, avrebbero permesso a Mary di avere una gravidanza sicura come quella di una donna vent’enne.
 
Poggiata la mano enorme su quella più sottile e piccola della compagna, Lance accarezzò a sua volta il ventre di Mary B e mormorò: “Vorrei potessi sentire la sua energia. E’ già così vitale!”
 
“Oh, credimi, arriverò a un punto in cui la sentirò più che bene, la sua energia!” ironizzò la donna, sorridendogli.
 
Osservando le loro mani giunte sulla sua pelle chiara illuminata dai raggi della luna, che penetrava nella stanza dalle finestre socchiuse, la donna mormorò poi seriamente: “Non devi nascondermi nulla della tua natura, Lance. Ho già accettato da tempo che ci sono cose, in voi, diverse da come le potrebbe concepire un normale umano. Non mi spavento facilmente, credimi.”
 
“Non vorrei mai darti un pensiero, specialmente ora” replicò lui, stringendola maggiormente a sé.
 
“Sono forte a sufficienza per sopportare un po’ di sangue, Lance, e anche un po’ di mattanza” gli ricordò lei, sollevando con ironia un angolo della bocca. “So che la legge del taglione non è stata introdotta a caso, nei branchi, e che ha un suo senso logico, all’interno della vostra società. Non pensare mai che non capisca.”
 
“Mi scuserai, però, se non ti racconto ciò che è successo alle Svalbard, vero?”
 
Mary B assentì senza problemi. “So che è un argomento che neppure Brie vuole affrontare perciò, se lo vorrete, mi racconterete ciò che è successo, altrimenti no. Non mi riterrò offesa, se rimarrà un vostro segreto.”
 
“Ci arriveremo, ma non ora. E’ davvero… troppo.”
 
Lance rabbrividì al solo pensiero di tutti quei morti, di quella feroce battaglia in cui il suo lato più primitivo era uscito con prepotenza attraverso i suoi artigli.
 
Dilaniare, uccidere, smembrare, tutto gli era parso semplice, persino piacevole, in quei momenti, e non era argomento da trattarsi con una donna incinta. A maggior ragione se la donna in questione era la sua amata compagna.
 
Mary B si volse a mezzo, poggiando il gomito sul materasso e, allungatasi su di lui, depose un bacio sulle sue labbra, mormorando subito dopo: “Quando sarò una licantropa come te, ne riparleremo, va bene?”
 
Se vorrai diventare una mannara. Non è necessario che tu lo diventi, credimi. A me vai bene così. Mi sono innamorato della donna. Non importa se è umana o mannara” ci tenne a precisare lui, sorridendole.
 
Non poteva che provare piacere, nel ripensare alle loro prime telefonate, quando tutto era cominciato quasi per scherzo. In quei momenti di confusa concitazione, Lance non aveva fatto granché caso alla dolce voce della donna con cui parlava al telefono di Brie, o ai suoi modi gentili e protettivi.
 
Quando, però, era stato obbligatorio utilizzare Skype per una pianificazione più accurata delle cure da prestare a Brianna, tutto era pian piano cambiato. Vederla era stato illuminante, e non solo per la sua ovvia bellezza.
 
Erano stati i suoi occhi a colpirlo. Occhi colmi di una bellezza profonda, che appartenevano a un’anima luminosa e pura, un’anima non toccata dalle brutture che la circondavano.
 
L’avvento di Mary e Gordon a Farley aveva segnato la sua capitolazione.
 
Lance aveva lasciato che il dolore per la morte di Patrick si stemperasse, nel cuore di Mary e, come un amico, le era stato accanto per consolarla. L’aveva aiutata a comprendere, poco per volta, di non essere sola, e che non tutti gli uomini erano bugiardi e traditori come lo era stato suo marito.
 
Quel che era giunto in seguito era stato una consolazione, per lui. Una liberazione, ma anche una sorpresa.
 
L’aveva baciata per la prima volta all’uscita dall’ospedale, quando l’aveva vista sotto tono e abbacchiata per un’operazione finita male. Il suo aveva voluto essere solo un gesto carino, ma si era ben presto trasformato in qualcosa di più.
 
Mary si era lasciata andare contro di lui, permettendo che il suo corpo, la sua essenza di lupo la proteggessero, la sorreggessero in quel momento di sconforto. Non aveva avuto paura, timore, nessun genere di remora ad avvicinarsi.
 
Né era successo la loro prima notte assieme.
 
Per quanto avesse desiderato quel momento, per quanto lo avesse bramato, i ricordi di Diane si erano confusi con quegli istanti perfetti, rischiando di rovinarli per sempre. Solo la dolcezza e, assieme, la determinazione di Mary, l’avevano salvato dall’affogare nei suoi stessi incubi.
 
E ora quel cedimento, quella paura di sbagliare ancora, di non darle tutto ciò di cui aveva bisogno.
 
Si era davvero comportato come un idiota, con Brianna e, anche solo per questo, avrebbe dovuto fare mea culpa fino alla fine dei suoi giorni.
 
Ma, per il momento, doveva pensare alla sua Mary.
 
“Ammetto di avere motivazioni molto egoistiche, sai?” ironizzò la donna, strappando Lance ai suoi pensieri.
 
“In che senso?”
 
Mary, allora, si pose a cavalcioni su di lui, meravigliosamente nuda alla luce della luna e, sorridendo maliziosa, mormorò: “Desidero con tutto il cuore fondermi completamente con te e, come umana, non riuscirò mai a farlo.”
 
“E’ già splendido così, tesoro…” asserì per contro Lance, carezzandola con lo sguardo e il dorso di una mano.
 
“Ma sei frenato, hai timore di farmi male” replicò lei, sedendosi mogia sulle sue cosce.
 
Il suo sguardo somigliava molto a quello di una bambina. Una bambina birichina che, però, portava in grembo sua figlia.
 
Dèi, faticava ancora a crederci!
 
Lance le sorrise, sollevandosi a sedere per baciarle la punta del naso alla francese e, nell’affondare una mano nella sua chioma ondulata e color cioccolato fondente, mormorò roco: “Non smetterò mai di volerti, Mary, anche se rimarrai umana per tutta la nostra vita assieme.”
 
“Ma io voglio essere per te tutto ciò che desideri. E so che vuoi più di questo” precisò la donna, testardamente.
 
Lance allora rise esasperato, le baciò una spalla e, attirandola in un abbraccio, asserì: “Perché ti è venuta in mente una cosa simile?”
 
Mary, chiaramente in imbarazzo, poggiò la fronte contro la spalla robusta del compagno e ammise: “Brie, una volta, mi disse come scoprì di… di Diane.”
 
Pur non volendo, l’uomo si irrigidì. Non amava parlare di lei, figurarsi quando era a letto con Mary.
 
In realtà, non amava parlare di lei. Punto.
 
Lei lo strinse più forte, pur se sulla pelle di Lance quella stretta fu poco più di una carezza, carezza che comunque apprezzò.
 
“Mi disse che scorse dentro di te un desiderio forte e inappagato.”
 
“Di cosa?” mormorò l’uomo pur rammentando le parole che, a suo tempo, l’amica gli aveva rivolto.
 
“Desideri amare sinceramente, e con tutto te stesso, una donna che ricambi allo stesso modo i tuoi sentimenti” asserì Mary, scostandosi per guardarlo negli occhi da husky con le sue smeraldine profondità.
 
Era assolutamente seria, in quel momento, e maledettamente determinata a fargli comprendere le sue motivazioni.
 
“Io sono quella donna, Lance, almeno per quanto riguarda l’amore che provo per te…” dichiarò con decisione, pur apparendo triste. “… ma non posso essere tutto ciò che vuoi, almeno finché non sarò una mannara come te. Diversamente, tu non potrai mai essere veramente te stesso, e io perderei una parte importantissima del nostro rapporto.”
 
“Ti riferisci all’intreccio di auree?” le domandò lui, carezzandole il contorno del viso.
 
Poteva vedere chiaramente la propria onda di potere mentre, simile a velluto, scorreva sulla pelle perfetta di lei.
 
Però, Mary neppure se ne accorgeva.
 
Si era sempre dichiarato soddisfatto del loro rapporto, lieto che lei lo amasse sinceramente, che non fosse spinta solo dal desiderio di cancellare il ricordo di Patrick. Sentir parlare dalla stessa bocca della sua amata di quel problema non da poco, glielo fece comunque riconoscere come reale.
 
Mary gli afferrò il viso con entrambe le mani e, pur tremando leggermente, dichiarò con fervore: “Quando saremo certi che Keely è sana e forte, tu mi muterai in un mannaro, e non accetterò un ‘no’ come risposta.”
 
Lance si limitò ad annuire e, dopo averle deposto un casto bacio sulla guancia, la scostò da sé per stenderla sul letto.
 
Lentamente, iniziò a solleticarle la pelle con teneri baci, inframmezzati a carezze leggere, operate con la punta delle dita.
 
Mary si inarcò istintivamente, artigliando le lenzuola e mugolando di piacere.
 
Lui sorrise per diretta conseguenza e, nell’osservarle il viso oltre la curva dei seni pieni, mormorò roco: “In attesa che tu sia una mannara, mia Mary, ti dimostrerò quanto, anche così, possiamo condividere insieme.”
 
“Non vedo l’ora” ansò lei, gemendo un attimo dopo, quando la bocca di Lance raggiunse la sua femminilità.
 
***
 
Quel fagottino tutto rosa e con una spruzzata di capelli biondi sulla testolina, era veramente sua figlia?
 
Lance aveva passato le ultime dodici ore a osservare imbambolato la bimba che, tranquilla, stava dormendo nella culla accanto al letto d’ospedale di Mary.
 
La sua bambina. Il suo miracolo. La sua speranza.
 
Tutte queste cose, tutte queste meravigliose sensazioni, erano nate grazie a quella donna, alla donna che il destino aveva messo sulla sua strada. Donna che, in quel momento, si risvegliò dal suo sonnellino pomeridiano e, vedendolo seduto lì accanto, sorrise.
 
“Ehi…”
 
“Ciao” mormorò Lance, levandosi in piedi per baciarla. “Come ti senti?”
 
“Indolenzita e molto, molto affamata” dichiarò Mary, lanciando un’occhiata alla loro bambina. “Keely ha dormito bene?”
 
“Neppure un vagito di traverso” ironizzò Lance, sorridendo con orgoglio.
 
Un quieto bussare alla porta fece loro volgere il capo e, quando Brianna e Duncan entrarono, la coppia sorrise.
 
Duncan si avvicinò al suo Hati, la fierezza e l’orgoglio a illuminargli il viso e, nel poggiare una mano sulla sua spalla, dichiarò: “Le mie più sentite congratulazioni, mio lupo. La luna brilla sulla tua bambina con rara forza.”
 
Brianna si piegò su Mary B per baciarla e, nell’ammirare la bimba e il padre, asserì: “Non potrebbe essere più bella e perfetta. Avete fatto davvero un ottimo lavoro. La mia sorellina è davvero un amore.”
 
Ciò detto, si chinò per baciare sulla fronte la bimba addormentata e, con una solennità che non sfuggì a nessuno, mormorò: “Cresci sotto una buona luna, figlia mia. Il mio artiglio ti proteggerà sempre, la mia tana ti darà conforto e calore e la mia forza sarà la tua, se mai la vorrai.”
 
“Ci onori, wicca” mormorò ossequioso Lance, levandosi in piedi per ripiegare rispettosamente il capo in direzione di Brianna.
 
Lei, però, non vi badò affatto, annullò le distanze che li separavano e, nel baciare anche lui, stavolta sulle guance, dichiarò: “Sarai mio padre, tra un po’, perciò piantala con tutte queste smancerie da lupi. Abbracciami come abbracceresti tua figlia, Lance.”
 
L’uomo si ritrovò a ridere, connettendo forse per la prima volta la duplicità del suo ruolo. Non sarebbe diventato solo il marito di Mary, ma anche il padre di Brianna e Gordon, dato che la sua amata era, per legge, già la loro madre adottiva.
 
Stringendo a sé Brie, la sua amica, la sua wicca, la sua Prima Lupa, esalò sconvolto: “Dèi… a questo non avevo davvero pensato, sai?”
 
“Me n’ero accorta” rise lei, tornando infine accanto a Duncan, che stava sorridendo tutto divertito. “E ti va ancora bene che siamo già piuttosto grandicelli e svezzati!”
 
Passandosi una mano tra i capelli biondi, leggermente più lunghi rispetto al solito, Lance gracchiò: “Meno male davvero, o non avrei saputo dove prendere!”
 
“Sarebbero venuti buoni tutti i mobili in più che avevi costruito” ironizzò a quel punto Mary, sorridendo al compagno.
 
Lui arrossì suo malgrado, rammentando quel momento di sbandamento e, nel ghignare all’indirizzo di Duncan, disse: “Grazie per aver trovato loro una casa, comunque.”
 
“Era un peccato farli finire al macero, visto quanto erano belli, ti pare?” replicò Fenrir, scrollando le spalle. “Staranno d’incanto nelle case dei licantropi a cui li ho venduti. Il ricavato è stato devoluto interamente alla piccolina lì nella culla.”
 
Chinandosi per ammirarla da vicino, Duncan sussurrò poi dolcemente: “Il tuo papà e la tua mamma ti amano già tantissimo, tesoro. Non potresti essere più fortunata di così.”
 
Proprio in quel mentre, la porta si aprì di colpo e, tutto trafelato, Gordon esalò: “Ehi, ma quell’infermiera è davvero un mastino! Ho dovuto correre alla disperata, per sgattaiolare dentro!”
 
Il gruppo rise di gusto, di fronte alla sua aria spensierata e per nulla dispiaciuta, ma Gordon non fece loro caso.
 
Si avvicinò alla culla proprio mentre la piccola Keely apriva i suoi occhi al mondo e, sorridendo gaio, le disse: “Anche il tuo fratellone e la tua sorellona ti amano già, piccolina. E ci penserò io a tenere buono il papà, quando sarai così bella da far girare la testa a tutti i licantropi del branco.”
 
Mary B e Brianna, a quel commento, esplosero in una calda risata di gola mentre Lance, accigliato, fissava torvo un Gordon tutto compiaciuto.
 
“Non avevi pensato neanche a questo, vero?” ghignò il ragazzo, prima di abbracciarlo goffamente. “Congratulazioni… papà.”
 
A Lance non rimase altro che abbracciarlo di rimando e, nello scompigliargli i capelli, replicò con falso rimprovero: “Ma proprio a questo dovevi farmi pensare, razza di disgraziato che non sei altro, e dopo un solo giorno dalla sua nascita?”
 
Gordon si limitò a sghignazzare, ma Lance non trovò altri argomenti con cui rimbrottarlo.
 
Dopotutto, anche lui poteva dire di non poter essere più fortunato di così.
 
Lui e Keely non avrebbero potuto capitare in famiglia migliore.
 
 







Note: Ed ecco spiegato cosa è successo a Lance e Mary B, di cui molte di voi hanno chiesto notizie.
Nelle prossime OS parlerò di Jerome che, in qualche modo, è stato un po' tagliato fuori dal contesto nella trilogia, così come nello Spin-off su Cecily. E' ormai tempo che trovi il suo spazio, perciò spero che i prossimi racconti su di lui vi appassionino.
Per ora, vi ringrazio di essere tornat* in questo magico mondo con me, e vi auguro di tutto cuore un sereno Natale!

 

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Capitolo 4
*** Jerome's Secrets - Parte 1 (Giugno 2014) ***


 
 
Jerome’s Secrets – Part 1
(Giugno 2014)
 
 
 
 
Passeggiare nei boschi era corroborante quanto una corsa in auto, o l’amplesso con una bella donna. Non che quest’ultima opzione gli fosse capitata spesso, ultimamente.
 
Da quando Duncan aveva preso pieno possesso del potere sul clan, le cose erano cambiate anche per Jerome. Quegli anni di inedia, passati a gozzovigliare e farsi bello del suo titolo di Skŏll, erano stati noiosi e ripetitivi – pur se conditi da un sacco di conquiste – e lui detestava annoiarsi.
 
Prendere su di sé parte del peso del branco, l’aveva aiutato a maturare, non soltanto dal punto di vista sociale, ma anche in ambito sessuale.
 
Prima dell’avvento di Brianna, aveva guardato con leggerezza alla compagnia femminile e, contrariamente al suo Fenrir, ne aveva goduto a piene mani.
 
Da quando Brianna aveva messo piede nel branco, facendogli scoprire tutto sulla sua anima, sul suo vero valore di uomo e lupo, tutto era cambiato.
 
Vedere quanto fossero uniti lei e Duncuan, quanto le loro menti fossero in sincrono e i loro corpi vibrassero in risposta, lo aveva illuminato.
Tutto ciò lo aveva spinto a migliorare se stesso, e questo era coinciso con il limitare i suoi incontri con il gentil sesso. La quantità non lo interessava più, poiché ora stava cercando la qualità.
 
Quegli incontri erano stati piacevoli, interessanti sotto molti punti di vista, e altruistici da ambo le parti, ma non era mai riuscito a trovare in essi una soddisfazione totale.
 
Brianna gli aveva chiarito anche quel dubbio. Desiderava di più, per entrambe le parti, e questo voleva dire privarsene per fare chiarezza con se stesso e con ciò che voleva per se stesso.
 
Aveva tentato di dare un ordine al caos che si celava nella sua mente, quando si trattava di donne, e questo aveva voluto dire fare tabula rasa.
 
Alle lupe che aveva frequentato – e di cui aveva goduto della loro compagnia – la cosa non era affatto piaciuta, ma si erano adeguate al cambiamento avvenuto.
 
Per questo, le lunghe passeggiate lontano dal Vigrond erano diventate così importanti per lui.
 
In quel luogo mistico, le energie residue dei licantropi erano troppo forti perché lui non le notasse, e Jerome desiderava pensare senza alcun tipo di distrazione. Skŏll, inoltre, tendeva a farsi ciarliero, ogni qual volta si avvicinava al loro Luogo di Potere, e lui aveva bisogno di silenzio per riflettere, vista l’importanza della cosa.
 
Ultimo, ma non ultimo per importanza, avrebbe rischiato di dover dare spiegazioni a Duncan o, peggio, a Brianna. Entrambi si sarebbero preoccupati per lui, e questo non lo voleva.
 
Con la faccenda dell’università e della piccola Keely – che si era rivelata un autentico diavoletto, anche se un diavoletto adorabile – Brianna aveva già un sacco di cose a cui pensare.
 
Non aveva bisogno di dover badare anche alle sue pene di uomo redento, e in cerca di un nuovo equilibrio.
 
Balzando oltre un paio di cespugli, Jerome si slanciò per afferrare il ramo robusto di un noce e, sorridendo, volò da un ramo all’altro come una scimmia. Voleva farcela con le sue sole forze, e senza impensierire nessuno.
 
Forse, non era destino che trovasse un’anima gemella ma, di sicuro, si sarebbe impegnato per diventare un lupo più profondo… non necessariamente più serioso e cupo, però. Solo più attento.
 
Non aveva bisogno di essere bello e misterioso come era suo cugino Duncan, pur se il suo metodo pareva aver funzionato, con Brie.
 
Il solo pensarci lo portò a sorridere divertito e, quando finalmente raggiunse le sponde del laghetto dove, ormai da settimane, soleva fermarsi per un riposino, sorrise al riflesso del sole sulle acque cristalline e mormorò: “Mi farai capire, Madre, se sto percorrendo la strada giusta?”
 
Uno ‘splash’ improvviso, seguito subito dopo da urla infantili e concitate, lo strapparono al suo monologo con la Madre Terra, per altro rimasto senza risposta.
 
Subito, i suoi sensi di lupo si misero in allarme e, in un attimo, registrarono l’origine dei suoni da lui percepiti.
 
Quella che sembrava essere una bambina, stava sbracciandosi in acqua, a pochi passi da un lungo pontile in legno scuro.
 
Pareva non essere in grado di resistere a lungo ma, cosa più importante, non dava l’idea di essere in grado di raggiungere il pontile per salvarsi.
 
Immediatamente, Jerome corse lungo la sponda del lago per raggiungerla, rendendosi conto che nessuno, nei dintorni, pareva essersi accorta di lei.
 
Lanciando un’occhiata veloce in direzione del centro medico che si trovava a poca distanza, Jerome si chiese fuggevolmente se la bambina fosse sgattaiolata, non vista, da lì.
 
Vista la mancanza di adulti nei paraggi, era più che probabile.
 
Non si era mai soffermato molto a chiedersi cosa facessero, in quel lineare e basso stabile dalle bianche mura e le ampie finestre a specchio. Si era limitato a girargli al largo perché non lo vedessero, mentre scorrazzava per il bosco, in modi ben diversi da quelli di un semplice umano.
 
Ora, però, la necessità lo spinse a intervenire.  Quella bambina sarebbe certamente affogata, se non l’avesse raggiunta per tempo.
 
Quando fu nei pressi del pontile, quindi, balzò in acqua e la raggiunse in poche, rapide bracciate mentre, a gran voce, esclamava: “Calma! Calmati! Ti ho raggiunta! Non ti succederà nulla!”
 
La bambina strepitò per alcuni secondi, prima di calmarsi e, con occhi sgranati quanto terrorizzati, esalò: “Non… non so nuotare…”
 
“Me n’ero accorto!” ironizzò Jerome, tenendosi a galla senza alcun problema mentre, con un braccio, afferrava la bimba al di sotto delle ascelle per tenerla fuori dall’acqua.
 
Senza perdere altro tempo, si avvicinò al pontile sbracciandosi con il braccio libero e, tenendosi alla scaletta di metallo che conduceva all’acqua, risalì fino a guadagnare la sua superficie solida e orizzontale.
 
Lì, la ragazzina sputacchiò acqua e rabbia assieme e Jerome, presala in braccio, le domandò: “Punto dieci dollari sulla tua risposta. Venivi dalla clinica?”
 
“Hai vinto” mormorò mogia la bambina, reclinando il viso per poggiarlo contro il torace muscoloso di Jerome.
 
Lui le sorrise, pur se la ragazzina non lo stava affatto guardando e, nell’incamminarsi verso la clinica, le chiese ancora: “In che reparto sei? Così ti ci porto.”
 
“Non vedenti” mormorò allora la bambina, bloccandolo a metà di un passo per la sorpresa.
 
Sgranando gli occhi cerulei, Jerome esalò un attimo dopo: “E… e che ci facevi qui fuori, tutta da sola?”
 
Punta sul vivo, la bambina si trincerò dietro un offeso mutismo, e al giovane licantropo non restò altro che catapultarsi all’interno della struttura, temendo già il peggio.
 
Aperta una porticina laterale con una spallata leggera – la stessa porta da cui, forse, era sgattaiolata la bambina – Jerome si ritrovò davanti a un intero reparto in subbuglio.
 
Pazienti che si sbracciavano senza emettere alcun suono si intervallavano a dipendenti che, di suoni, ne emettevano in quantità, e di tutte le lingue possibili e immaginabili.
 
Jerome percepì anche qualche imprecazione finché, una donna tra le altre, non gridò: “Ecco Maggie!”
 
Subito, decine di paia d’occhi si puntarono su lui, mentre altri tentavano di mettere ordine in quel caos, girando apparentemente a caso volti e mani per trovare qualcuno a cui chiedere informazioni.
 
Tossicchiando imbarazzato nel sentirsi al centro dell’attenzione, Jerome alla fine esalò: “S-salve… l’ho ripescata mentre si faceva un giretto al largo, e…”
 
Subito, la donna che aveva parlato lo raggiunse e, con un sorriso pieno di cortesia, allungò le braccia e disse lesta: “La dia a me, signore. Le peserà, ormai.”
 
Assentendo meccanicamente, pur non avvertendo alcun peso tra le braccia, Jerome la lasciò fare mentre altre infermiere si assiepavano attorno a Maggie, concitate e seriose al tempo stesso.
 
Il vociare aumentò con l’aumentare delle persone attorno alla bambina, bagnata come un pulcino appena uscito dal guscio ma sana e salva.
 
Nessuno badò a Jerome che, vagamente sconcertato, osservò la scena con aria sconvolta.
 
Fu l’arrivo di un’altra donna, in camice da dottore, stavolta, a mettere fine a quella bailamme senza senso.
 
Camminava spedita e sicura di sé, con i fluenti e lisci capelli biondi che sventolavano alle sue spalle al pari di un mantello leggero, e il suo volto chiaro era l’emblema stesso della calma.
 
Calma che riuscì a trasmettere a tutti, Jerome compreso, che la fissò strabiliato, ammirato da tanta compostezza e contegno.
 
Una vera leader nata.
 
“Ebbene? Abbiamo trovato la nostra fuggitiva, a quanto pare” esordì la donna, con una dolce voce di contralto.
 
“Dottoressa Graham… ci scusi, ma proprio non ci siamo accorte che era sgattaiolata fuori dalla sua stanza” mormorò contrita la donna che aveva preso in carico Maggie, guardandola spiacente e piena di rimorsi.
 
La dottoressa Graham, però, scosse il capo con aria gentile e replicò: “Se esiste al mondo un posto da cui Maggie non può sgattaiolare, allora io non lo conosco. Tranquillizzati pure, Helene.”
 
Allungata poi una mano sottile e dalle belle unghie laccate di rosa, la donna carezzò i capelli bagnati della bambina – che ora stava piangendo a dirotto – e mormorò: “Cambiatela, prima che si buschi un raffreddore estivo. L’acqua non sarà certo stata calda, vero, tesoro?”
 
Le infermiere assentirono e, mentre la maggior parte di loro seguì Maggie, una rimase accanto alla dottoressa Graham, mormorandole qualcosa all’orecchio.
 
Jerome, da parte sua, rimase in religiosa contemplazione dell’intera scena, ammirando la capacità della dottoressa di chetare quella situazione esplosiva. Non solo non se l’era presa con le infermiere, ma aveva stemperato la situazione potenzialmente esplosiva, riportando la calma laddove era il caos.
 
Una vera leader, tornò a pensare con ancora maggior convincimento.
 
Leader che, in quel momento, gli sorrise e disse: “Cecelia mi dice che ha aiutato la piccola Maggie a non affogare. Immagino che anche lei abbia bisogno di un ritocco, dopo quel bagno fuori programma.”
 
“Ehm… temo di sì” assentì lui, accennando un sorrisino nel guardarsi gli abiti intrisi d’acqua.
 
Ai suoi piedi si era formata una piccola pozzanghera.
 
La donna, allora, scambiò due parole con l’infermiera, che sussurrò un ‘posso pensarci io’, prima di venir smentita dalla dottoressa.
 
“Coraggio, mi segua” dichiarò poi la Graham, lasciando una perplessa infermiera nel bel mezzo del corridoio.
 
Jerome non disse nulla, limitandosi a seguire il suo passo spedito lungo quel percorso dalle consistenze diverse.
 
Impiegò solo un attimo per capire il perché dell’utilizzo di quei materiali di differente fattura. Trattandosi di un reparto per non vedenti, l’uso di materie prime di origine disparata – a cui ovviamente veniva dato un singolo ruolo specifico – aiutava a comprendere la posizione di una persona al semplice tocco.
 
Che il contatto avvenisse coi piedi, piuttosto che con l’uso di un bastone, poco contava.
 
Lanciate occhiate a destra e a manca, Jerome scoprì così che anche per i muri – e le mostrine accanto alle porte – avevano adottato soluzioni simili, aggiungendo specifiche sigle in braille.
 
Quando la dottoressa si fermò di fronte a una porta in particolare, sfiorò la targhetta appesa a lato prima di aprire il battente.
 
La luce si accese in automatico al suo passaggio e, quando anche Jerome vi penetrò, il giovane si trovò a scrutare un’infinità di scaffalature metalliche e ricolme di divise mediche di tutti i colori e taglie.
 
“Reparto approvvigionamento?” esalò Jerome, ghignando.
 
La dottoressa tastò un paio di ripiani, prima di estrarre una maglia e un paio di pantaloni azzurro cielo.
 
Voltatasi, li allungò a Jerome e disse: “Servono spesso dei cambi d’abito, in reparti difficili come questo.”
 
Dopo aver afferrato gli abiti dalla dottoressa, Jerome attese per qualche attimo che quest’ultima se ne andasse – o accennasse ad abbassare lo sguardo – ma, non notando nulla del genere, fece spallucce e cominciò a denudarsi.
 
Dopotutto, lei era una dottoressa e probabilmente vedeva corpi nudi da anni, non provando più alcun interesse per l’anatomia umana. Quanto a lui, essendo un licantropo, non era molto interessato ai tabù sulla nudità.
 
Con tono blando, quindi, chiosò: “Immagino succedano spesso incidenti più o meno piccoli, specialmente quando una persona è all’inizio del percorso di apprendimento.”
 
La Graham assentì, intrecciando le braccia sotto i seni mentre Jerome procedeva a togliersi i pantaloni.
 
La cosa lo lasciò vagamente confuso.
 
D’accordo che, essendo una dottoressa, era abituata al corpo umano e quant’altro… ma non aveva neppure una seppur minima reazione nel vederlo nudo?
 
Dubbioso, Jerome si scrutò dall’alto verso il basso, cozzando contro il torace ampio e muscoloso per poi proseguire lungo il ventre piatto e scolpito.
 
Le gambe lunghe e toniche avrebbero potuto rivaleggiare con quelle di un atleta, quanto a muscolatura, eppure alla dottoressa non fece alcun effetto.
 
Accigliandosi, si chiese se quel suo personale tentativo di diventare più profondo gli avesse completamente tolto sex appeal.
 
Quando ebbe terminato, ripiegò i suoi abiti e la dottoressa, con un sorriso, allungò una mano e mormorò: “Può darli a me. Li metteremo nell’asciugatrice e, nel giro di mezz’ora, saranno pronti.”
 
Jerome, però, non mosse un muscolo.
 
Era troppo impegnato a guardare quella mano aggraziata e fragile che, a meno di un metro da lui… stava puntando verso la porta.
 
“Lei… è cieca, vero?” gracchiò Jerome, riuscendo finalmente a mettere i suoi abiti nella mano protesa della dottoressa.
 
La Graham rise di gusto, di fronte al suo tono scioccato e, nell’avviarsi per uscire, dichiarò: “Cieca come una talpa, mio buon samaritano!”
 
***
 
Sorseggiando una tazza di tè caldo, il corpo completamente asciutto anche grazie a un uso sottile del suo potere, Jerome sorrise alla donna dinanzi a lui e asserì: “Sulle prime, ho pensato di esserle del tutto indifferente.”
 
Lei scoppiò nuovamente a ridere, una risata contagiosa che portò Jerome a unirsi all’ilarità della dottoressa.
 
“Oh, cielo! Forse, avrà anche pensato che ero una gran cafona, a starmene lì in piedi dinanzi a lei, senza neppure fare l’atto di voltarmi!” dichiarò per contro la donna, passandosi una mano tra i lisci e lunghi capelli biondi.
 
Gli occhi, socchiusi e ridenti, erano di un verde pallidissimo, appena accennato, eppure a Jerome parvero comunque bellissimi, pur se di fatto ormai inutili, per lei.
 
“Ammetto che, per un momento, mi sono sentito piuttosto in imbarazzo” ammise Jerome, ma non per i motivi che, sicuramente, stava pensando la dottoressa.
 
Nessun licantropo badava alla propria nudità. Lui aveva trovato fastidioso non vedere alcuna reazione emotiva – seppur blanda – in lei. Questo, lo aveva imbarazzato.
 
Imbarazzo inutile, a conti fatti, visto che la dottoressa non poteva vederlo.
 
“Sono talmente abituata a muovermi avanti e indietro per il Centro, che non faccio caso all’effetto che potrei fare su chi non mi conosce, Mr Rowley.”
 
“Jerome, la prego, dottoressa” replicò lui, poggiando la tazza sul vassoio d’argento che era stato portato – assieme a dei pasticcini – da un’infermiera.
 
Lo studio della dottoressa era luminoso e arioso, con un’ampia finestra rivolta verso il lago e leggere tende bianche a schermare il riflesso del sole.
 
La scrivania, ricoperta di carte scritte in braille, era bianca e priva di orpelli. Su di essa, un notebook Mac era aperto e attivo e, sul suo desktop, Jerome poté scorgere una luna calante e un bosco oscuro sotto di lei.
 
Chissà chi aveva inserito proprio quell’immagine, visto che lei non poteva vederla? E cosa voleva dire, in effetti, non vedere nulla di ciò che la circondava? Come gestiva i pazienti, le loro richieste, i loro desideri?
 
Certo, poteva capirli meglio di chiunque altro, però…
 
“Non è facile, ma aiuta essere dalla stessa parte del paziente” mormorò a un certo punto la donna, sorprendendolo.
 
Che avesse parlato ad alta voce?
 
“Ah… ecco…” tentennò Jerome.
 
Lei sorrise ancora, un sorriso luminoso e misterioso al tempo stesso, disegnato da labbra sottili e color caramella, e che lasciava intendere un’intelligenza sottile.
 
“So riconoscere il significato dei silenzi, il più delle volte, e il suo era parecchio assordante, Jerome.”
 
“Wow” esalò lui, facendo tanto d’occhi nel passarsi una mano tra i capelli mossi e disordinati.
 
Mai una volta che si asciugassero in una massa ordinata e morbida. Sembrava sempre uno spaventapasseri.
 
La donna lasciò che il suo viso vagasse con lo sguardo cieco lungo tutta la stanza, prima di portarsi in direzione del punto ove si trovava Jerome.
 
“E, per rispondere a un’altra sua domanda, sono cieca da quando avevo cinque anni. Una malattia degenerativa della retina” gli spiegò lei, come se nulla fosse.
 
Jerome si sentì molto piccolo, di fronte a una tale tranquilla serenità, alla sua totale mancanza di rabbia nei confronti di un Fato tanto avverso. Lui era lì, forte quanto dieci uomini – o forse più – inattaccabile da qualsiasi virus o batterio (a parte quello del raffreddore), eppure non si sentiva alla sua altezza.
 
“Ahhh… ehm… Maggie sta bene? Sì, insomma, la nuotata che ha fatto non le avrà causato danni, vero?” domandò Jerome, grattandosi nervosamente il torace.
 
Non sapeva davvero come scacciare quel senso di inadeguatezza che sentiva dentro, neanche gli avessero spalmato addosso catrame e piume come nel far west.
 
“A parte un po’ di rabbia per non essere riuscita a fare quel che voleva, direi che starà benissimo nel giro di mezza giornata” replicò la Graham con pacata ironia.
 
Jerome sorrise soddisfatto, ma non poté esimersi dal chiederle: “Perché ha detto che non esiste luogo da cui Maggie non sia sgattaiolata?”
 
La dottoressa si fece seria, a quell’appunto e, nell’allungare gli avambracci sulle cosce, mormorò: “Non è la prima clinica che visita. Né la prima da cui tenta di scappare.”
 
Immaginando vi fosse dell’altro, ma fosse impossibilitata a dirlo, Jerome scosse il capo e replicò: “Non ho il diritto di chiedere, mi scusi, dottoressa.”
 
“Cynthia. Se io posso chiamarla Jerome, pretendo che lei mi chiami Cynthia” gli sorrise allora lei, tornando a puntare il suo sguardo cieco verso di lui.
 
Ma come faceva?, si domandò Jerome, strabiliato.
 
Si sentì sciocco, ma lo fece.
 
Ampliò la sua aura fino a sfiorarla, e fu a quel punto che lei cambiò espressione. Si risollevò, la schiena diritta e in allerta e, sbattendo le palpebre con fare nervoso, esalò: “Che ha fatto?”
 
Jerome deglutì vistosamente, dandosi dell’idiota mille volte prima di gracchiare: “Ahhh, niente. Perché?”
 
Ma Cynthia non gli diede retta e, con un movimento repentino, si levò dalla poltrona per annullare la distanza che li separava.
 
Assurdamente, Jerome si rannicchiò su se stesso, quasi volesse fuggire da lei che, imperturbabile, allungò una mano fino a toccare la sua spalla. Ciò fatto, sgranò gli occhi e risalì veloce fino a delineare con le dita il contorno del viso di Jerome, esalando: “Mio Dio…”
 
Usando anche l’altra mano, sfiorò le sue spalle e nuovamente il volto, prima di aggiungere: “Un colosso, mi pare di capire.”
 
“Ci lavoro su…” ansò lui, cercando di non muoversi.
 
Perché si sentiva minacciato da quel tocco? Perché?!
 
A quel punto, Cynthia sorrise, si accucciò sul bordo del tavolino che le stava alle spalle e dichiarò: “Sei uno di quelli, vero?”
 
“Come?” gracchiò senza fiato Jerome, impallidendo quasi certamente a quel tono di voce così tranquillo e sicuro.
 
Cynthia non smise di sorridere e, allungate nuovamente le mani per cercare quelle di lui, riuscì infine a trovarlo e ad afferrare la sua mano destra.
 
Strettala poi con forza, mormorò: “Non temere. E, soprattutto, non temermi. Ma dimmi… sei diverso? Sì, insomma, diverso diverso?”
 
“Non capisco che vuoi dire. S-sono un inglese per nascita, di sesta, no, settima generazione. Mia madre è una contabile, e mio padre un ingegnere. Io ho un negozio di musica a Matlock e…”
 
Non sapendo più che altro dire, Jerome cercò di scostare le sue mani, ma lei lo trattenne con maggiore forza, borbottando: “Non ti ho chiesto di dirmi il tuo albero genealogico e di descrivermi il tuo stipendio… oh, ma forse…”
 
A quel punto, si scostò contrita lasciando andare la sua mano e, mordendosi il labbro inferiore, sussurrò con fare da cospiratore: “Non me lo puoi dire, vero?”
 
Sinceramente incredulo e ai limiti dell’esasperazione, così come del panico, lui bofonchiò: “Non so di cosa cavolo parli!”
 
E al diavolo l’educazione, il ‘lei’ di cortesia e quant’altro! Quella dottoressa gli stava mettendo addosso una strizza del diavolo!
 
“Forse mi sono sbagliata, eppure…” mormorò pensosa Cynthia, prima di domandargli: “…o magari, non ti fidi perché sono un dottore? Ma io non tagliuzzo la gente. Come potrei? Non ci vedo! Te lo sei scordato?”
 
Ora la confusione era totale.
 
Cynthia si stava comportando come una bambina di fronte a un cubo di Rubik da risolvere, e pareva davvero eccitata all’idea di riuscirvi.
 
Fu questo a fregarlo.
 
L’eccitazione che permeava dai suoi pori era come un dolce profumo inebriante, un profumo da cui si sentiva attratto come mai prima gli era capitato.
 
“Esattamente, cos’hai sentito?” domandò a quel punto Jerome, afferrando una sua mano e, di proposito, espandendo la propria aura.
 
Nuovamente, Cynthia sorrise e i suoi tratti si fecero rilassati, quasi avesse ritrovato un vecchio amico dopo anni e anni di separazione. I suoi occhi si riempirono di lacrime e, non potendo evitarlo, la dottoressa sollevò la mano di Jerome e se la portò al volto, poggiandovi la propria guancia.
 
Lui ne rimase più che sorpreso, ma non si scostò.
 
Era più che evidente che, quel gesto in particolare, doveva contare molto per la donna.
 
“Quando andai all’ospedale, cercarono di curarmi, pur se sapevano bene che nulla mi avrebbe restituito la vista” mormorò, gli occhi chiusi e le lacrime cristallizzate ai suoi lati.
 
Jerome annuì, preferendo non muoversi per non spaventarla.
 
“Non ricordo quasi nulla di quel periodo, tranne una cosa molto importante” aggiunse lei, sollevando le palpebre per mostrargli i chiarissimi occhi verdi. “Un dottore. Fu gentile con me, mi consolò e mi fece capire che, anche se avessi perso la vista, non avrei perso la vita che scorreva in me.”
 
Si lappò le labbra, quasi che condividere quei ricordi fosse difficile.
 
“Ricordo che mi sfiorò con la sua mano forte e gentile e, all’improvviso, percepii questo…” dichiarò, dando una pacca leggera al dorso della mano di Jerome. “… questo calore, quest’onda di energia morbida e tiepida. Non saprei come altro spiegarne l’effetto.”
 
“Lo capisco” assentì Jerome, accennando un sorriso.
 
Lei glielo restituì, mormorando: “Mi disse che sarebbe stato il nostro segreto. Che lui avrebbe continuato a farmi sentire quell’energia che mi faceva stare bene, almeno finché avesse potuto.”
 
“Stava alleviandoti il dolore?” le domandò Jerome, un po’ sorpreso.
 
“Forse. So solo che, quando lo faceva, io mi sentivo felice, e pensavo un po’ meno a ciò che sarebbe successo di lì a poco.”
 
Dèi benedetti! Una sensitiva! Forse, addirittura una völva, e neppure sa di esserlo!, pensò tra sé Jerome, sorpreso da quella scoperta inaspettata.
 
“Non lo rividi più, purtroppo, e anni dopo, quando lo cercai, mi dissero che era morto. Avrei tanto voluto fargli sapere che, grazie a lui, avevo deciso di fare il medico…” mormorò la donna, scostandosi un poco dalla mano di Jerome.
 
“Ricordi il suo nome? Forse l’ho conosciuto” le domandò, incatenato a quegli occhi che non avrebbero mai potuto vederlo.
 
“Dottor Professor Nelson Withlock” gli disse con voce tremula, tornando a poggiare la mano di Jerome sulla gamba di lui.
 
A quel punto, annullò il contatto, ma Jerome la bloccò, intrecciando le dita alle sue.
 
Era così strano conoscere qualcuno, al di fuori del branco, che potesse percepirlo a quel modo!
 
Non voleva che quel contatto finisse, non in quel momento, per lo meno.
 
“Scoprirò che fine ha fatto…” dichiarò Jerome, con determinazione. “… poi, tornerò da te a riferirtelo.”
 
“Non sei suo parente, allora?” domandò vagamente abbattuta Cynthia, forse pensando di aver trovato la risposta ai suoi dubbi decennali.
 
Jerome rise bonario, scuotendo il capo, e replicò: “In un certo qual modo… ma molto alla lontana.”
 
“In che senso?” volle sapere lei.
 
“Te lo dirò la prossima volta. Ora, purtroppo, devo scappare, o il mio negozio non lo aprirà nessuno” replicò lui, levandosi in piedi pur mantenendo il contatto con la mano di Cynthia.
 
La donna si levò a sua volta in piedi e gli poggiò la mano libera sul torace, come a volerlo bloccare.
 
“Come posso sapere che tornerai? Non ci conosciamo, e tu hai ascoltato una verità di me che nessuno conosce. Forse, mi hai preso persino per pazza, e non vedi l’ora di andartene da qui.”
 
Jerome, allora, fece la cosa più stupida che gli venne in mente e, nel calare su di lei, la baciò sulle labbra, riversando in Cynthia parte della sua aura.
 
Lei ansimò sorpresa, si irrigidì per un attimo prima di lasciar scivolare fuori un sospiro e, quando lui si scostò, mormorò roco sulla sua bocca: “Può andare, come promessa di un pronto ritorno?”
 
“Dovrei picchiarti per avermi prevaricata…” mugugnò lei.
 
“Ma…?”
 
“Ma, dopo, dovrei picchiare me stessa per essermi goduta il bacio, e allora… fa niente…” ironizzò lei, scrollando le spalle con un sorriso.
 
Jerome rise, rise di puro cuore e, incredulo di fronte a quella situazione assurda, esalò: “E dire che volevo essere più profondo e serio!”
 
“Come?” esalò la donna, confusa.
 
Passandosi una mano tra i capelli, Jerome borbottò: “Troppi trascorsi con le donne. Volevo darmi una calmata e fare la persona seria… poi ti bacio così, quando ci conosciamo da un paio d’ore, e mando in malora tutto. Sono senza speranza. E adesso tu sai una cosa segreta di me, che gli altri non sanno.”
 
“Che cosa? Che eri una celebrità tra le donne, o che ora vuoi tentare di fare il monaco?” lo prese in giro Cynthia, facendolo ridere di nuovo.
 
Da quanto tempo non rideva così spensieratamente?
 
Da quanto tempo non si godeva in santa pace una chiacchierata che non avesse a che fare col branco, o anche solo con pelo e artigli?
 
Forse, da una vita intera.
 
Fin da quando era nato, la sua vita era gravitata attorno ai suoi genitori, alla Triade di Potere, al branco e alla sicurezza del clan. Aveva sempre e solo avuto questo, nella mente.
 
Mai interessi esterni al branco. Anche le donne con cui era stato erano sempre e solo state lupe.
 
Ora, come un fulmine a ciel sereno, piombava nella sua vita quella donna così strana e gioviale, lucente come una stella, e lui non vedeva l’ora di tornare da lei.
 
Nonostante non se ne fosse ancora andato.
 
Era davvero pazzo. Pazzo da legare.
 
“Ti porterò notizie vere del dottore e, se mi prometterai di non dirlo a nessuno, ti spiegherò perché hai sentito le cose che hai sentito” le disse con calore, mettendo verità nel suo dire.
 
Cynthia assentì e, dopo aver levato una mano a sfiorare il viso di Jerome, passò il pollice sul suo labbro inferiore e mormorò: “Aspetterò il tuo ritorno e, nel frattempo, mi convincerò di non essermi comportata come una ragazzaccia, con te.”
 
Jerome rise ancora e, nell’uscire dal suo studio, non poté che guardarla un’ultima volta e chiedersi dove fosse stata nascosta fino a quel momento.
 
La salutò con una stretta di mano e, dopo essere uscito dalla clinica, lasciò che il sole gli inondasse il viso.
 
Cynthia sarebbe stata il suo segreto. Nessun altro avrebbe dovuto saperlo.
 
Per una volta, sarebbe stato bravo a mantenere i segreti visto che, per la prima volta in assoluto, era così importante per lui mantenerlo.
 

 
 
 
 
Note: la miniserie dedicata a Jerome durerà qualche puntata, perciò i prossimi aggiornamenti riguardanti le OS, saranno suoi.
Sembra che, finalmente, Jerome abbia incontrato una donna in grado di scuoterlo veramente, anche se non sarà facile far digerire agli altri il fatto che si vede con un’umana.
Visti i precedenti (vedi Lance), non sarà cosa semplice, né rapida.
Vi ringrazio per essere tornate con me in questo mondo, e spero vorrete farmi sapere se avete qualche OS in particolare che vi piacerebbe leggere.

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Capitolo 5
*** Jerome's Secrets - Parte 2 (Dicembre 2015) ***


 
Jerome’s Secrets – Part 2
 
(Dicembre 2015)
 
 
 
 
 
 
 
Il vento sferzava la città di Manchester, implacabile e indifferente a tutto e a tutti. Il luogo in cui lui e Cynthia si trovavano, poi, non invogliava a stare allegri.
 
Jerome aveva impiegato così tanto, però, per trovare la verità che Cynthia desiderava conoscere ormai da anni che, nonostante tutto, non si spiacque di essere lì.
 
Soprattutto, non gli spiacque essere lì perché era con Cynthia.
 
Jerome aveva idea che, in qualunque posto fosse andato, fosse un capanno nel bosco come una suite all’Hilton, per lui non sarebbe cambiato nulla.
 
L’importante, era stare con lei.
 
Non faticava, ora, a comprendere cosa avesse voluto dire, per Duncan, l’idea di perdere Brianna.
 
La sua prima scomparsa – volontaria – dal branco, lo aveva mandato nel panico più totale, e Jerome era stato spedito a Glasgow per riportarla a casa. Volente o nolente.
 
Quando, però, Brie era stata rapita dai berserkir, tutto era sembrato andare a rotoli. Duncan aveva gettato al vento ogni prudenza e, riversandosi come un fiume in piena ai confini con il territorio di Alec, aveva chiesto il suo sostegno e aiuto.
 
Si era arrischiato a promettere ad Alec qualsiasi cosa avesse voluto in cambio, ma Fenrir di Bradford aveva sorpreso tutti, chiedendo solo di poter partecipare al salvataggio.
 
Come Sköll, lui era dovuto rimanere in seno al branco per detenere il potere ad interim fino al ritorno di Duncan ma, per tutto il tempo, il suo cuore aveva corso con loro, in quelle lande di deserto ghiacciato.
 
Aveva passato intere notti a fissare il soffitto, inerme e furioso, dividendo poi le ore del giorno tra il suo negozio, il Vigrond e le riunioni giornaliere con le sentinelle scampate al massacro dei berserkir.
 
Si era infuriato più e più volte, di fronte a quel mondo indifferente, che era andato avanti senza scossoni, senza patimenti mentre la loro wicca, la loro Prima Lupa rischiava di morire.
 
Aveva pianto per i morti e pregato per i feriti, cercando di essere di maggior conforto possibile per le famiglie e sperando con tutto se stesso che la missione di salvataggio desse buoni frutti.
 
Neppure la quercia sacra aveva potuto consolarlo, tanta era la sua prostrazione, il suo disagio, la sua ansia. Lui, dopotutto, non era Fenrir e non aveva il dono di Duncan di parlare con Madre tramite la quercia.
 
Solo quando Duncan aveva telefonato dalle Svalbard, il suo cuore aveva ripreso a battere con una cadenza regolare.
 
Poi era giunta la Cerca, il tentativo di impedire l’invasione dei berserkir e, nuovamente, Duncan e Brianna si erano dovuti assentare dal branco.
 
Non gli era piaciuto prendere di nuovo su di sé le redini del clan. Non tanto per gli impegni che esso comportava, ma al pensiero di dover vedere nuovamente ripartire due persone a cui lui teneva moltissimo.
 
L’angoscia di sapere i suoi cari in pericolo, e l’assoluta certezza di non poterli aiutare, era stato un tarlo infaticabile che lo aveva divorato poco alla volta. Come secondo in comando, lui non avrebbe mai potuto combattere al fianco di Duncan.
Lui andava preservato.
 
Da un certo punto di vista, Sköll andava protetto ancor più di Fenrir, all’interno del clan, e Jerome non si era mai sentito degno di questo peso, di questo dubbio onore.
 
Quelle esperienze violente, improvvise e crude, lo avevano comunque aiutato a crescere e maturare, facendogli comprendere quanto, la sua solita vita fatta di mero divertimento, andasse rivista.
 
Conoscere Cynthia era stato illuminante, per lui.
 
Aiutarla a scoprire che fine avesse fatto il dottore che l’aveva curata, era stato un buon modo per rivederla. Non riuscire più a fare a meno di farle visita alla clinica, lo aveva invece turbato e reso lieto al tempo stesso.
 
Se, sulle prime, l’idea di rivedere quella donna così singolare e schietta, lo aveva divertito, quando aveva scoperto qualcosa in più su di lei come persona, le cose erano via via cambiate.
 
Non si era più trattato di fare visita alla curiosa sensitiva che l’aveva smascherato, o alla donna bellissima e intelligente che lui vedeva in Cynthia.
 
Ora c’era molto di più.
 
Si trattava di conoscere sempre più a fondo una persona che avrebbe potuto dividere tutto, con lui, anche la vita intera. Non era un pensiero da poco.
 
Allungando le mani per sistemare la sciarpa attorno al collo esile di Cynthia, Jerome mormorò: “So che non puoi vedere la lapide, ma ho pensato ti avrebbe fatto comunque piacere visitare il luogo in cui si trova.”
 
Cynthia annuì, il viso reclinato verso il basso, la chioma bionda coperta da una cuffia in lana color cielo. Avvoltolata nel suo pesante cappotto scuro, sembrava non avere la forza necessaria per sopportare i rigori di quell’inverno particolarmente cruento.
 
Jerome, però, sapeva bene quanto fosse sbagliato pensarla a quel modo. Poteva capirlo dal battito calmo del suo cuore, dalla temperatura interna del suo corpo perfetto, dal suo respiro regolare.
 
No, Cynthia stava benissimo.
 
Forse, era solo un po’ delusa all’idea di non aver potuto dare l’ultimo saluto al dottore che l’aveva protetta dalla paura. Al suo angelo custode, come era solita chiamare il dottor Withlock.
 
Anche Jerome aveva sperato, fino all’ultimo, che le notizie sulla sua prematura scomparsa fossero state solo un modo per depistare i curiosi.
 
Non era insolito che alcuni licantropi si ritirassero a vita privata nei boschi, sparendo anche dal contesto civile in cui erano vissuti per anni. Se ne inscenava la morte, così che loro fossero liberi di vivere come meglio credevano, lontano da tutto e da tutti ma, soprattutto, lontano dal giogo delle leggi umane.
 
Purtroppo, per il dottor Withlock non si era trattato di uno stratagemma, ma della mera, cruda verità.
 
“Com’è?” mormorò Cynthia, prendendo la parola dopo diversi minuti di assoluto silenzio.
 
“E’ in marmo bianco, con iscrizioni in oro. Un Old English, se ti interessa il font” le spiegò Jerome, atono. “C’è una piccola foto tonda, sulla sinistra, e lo ritrae con il camice da dottore. Ha i capelli a spazzola, brizzolati, e il viso è sorridente.”
 
Cynthia sorrise appena, annuendo, e disse: “Sì, ricordo il suo sorriso. Era caldo come il suo tocco.”
 
“C’è una dedica, in calce alla lapide” aggiunse Jerome, avvolgendole le spalle con un braccio per attirarla a sé. “E’ luna calante, amico mio, ma non disperare. Al rifiorire di un nuovo ciclo, tu sarai nella luce. E’ firmata Gabriel St. James.”
 
Cynthia volse il viso in direzione della voce di Jerome, domandandogli: “Sai chi è?”
 
“Sì. Volevo portarti da lui, dopo aver fatto visita al dottor Withlock” assentì Jerome, deponendo un mazzo di fiori dinanzi alla lapide.
 
“Grazie per aver preso delle gerbere per lui” lo ringraziò Cynthia, stringendosi maggiormente a lui.
 
Jerome non si stupì che la donna avesse indovinato il genere dei fiori; i suoi sensi non erano sviluppati come quelli di un mannaro, ma erano sicuramente sopra la media.
 
Baciandole una guancia con affetto, mormorò: “Andiamo. Comincia a fare veramente freddo, ormai, e il cielo minaccia neve.”
 
Assentendo, Cynthia si incamminò al suo fianco, il braccio avvolto attorno alla vita di Jerome e il capo poggiato contro la sua spalla.
 
Nonostante il vento, nonostante il sentore della neve che ammorbava l’aria, Jerome non fece fatica ad avvertire l’odore delle lacrime di Cynthia. Ma sapeva che erano lacrime leggere, senza l’amaro fiele del dolore che avrebbero potuto avere.
 
Cynthia era felice di aver finalmente scoperto la verità, pur se era una verità in cui non era più presente il suo angelo custode.
 
***
 
Le mani riscaldate da una tazza di cioccolata calda, Cynthia ne sorseggiò un poco prima di dire: “La ringrazio per averci accolti in casa sua, Mr St.James. Spero che il nostro arrivo non le abbia causato troppi problemi.”
 
“Affatto, dottoressa Graham. Fa sempre piacere conoscere qualcuno che ha condiviso la vita – anche se per poco – con i nostri amici. Nelson era davvero una brava persona” mormorò l’uomo, scrutando a momenti alterni la donna e Jerome, seduto al suo fianco.
 
La proprietà di Gabriel St. James era isolata, ben al di fuori del circuito di Manchester City. La villa principale, dove si trovavano in quel momento, era attorniata da un bel parco all’inglese mentre le due dependance attigue si trovavano accanto a un piccolo laghetto, sul limitare dell’alta muratura che delimitava la tenuta.
 
Ufficialmente, nelle dependance si trovavano i suoi laboratori di arte astratta, dove lavoravano anche un paio di apprendisti. In via ufficiosa, invece, nei seminterrati di tali strutture erano nascosti dei ricoveri per licantropi, una sala operatoria e un laboratorio di analisi.
 
Da quel che aveva saputo Jerome, St. James poteva contare anche su un’apparecchiatura per i raggi X e una per le ecografie. Quel luogo era, infatti, uno dei pochissimi Santuari per mannari di tutta la Gran Bretagna, ove i licantropi potevano essere ricoverati e curati da personale competente in materia.
 
“Mi ha sorpreso la sua telefonata, Mr Rowley e, quando mi ha parlato di Nelson, è stato bello sapere che un suo paziente si ricordasse di lui” asserì l’uomo, sorridendo come a un ricordo lontano. “Sono passati sei anni, ormai. Eppure, è come se quel maledetto incidente fosse avvenuto solo ieri.”
 
“Me ne può parlare?” gli domandò Cynthia, poggiando la sua tazza sulle ginocchia.
 
Annuendo, l’uomo si lasciò un poco scivolare sulla poltrona, mormorando: “Nelson era impegnato in un intervento d’urgenza sulla Motorway. Era uscito con diverse ambulanze per un bruttissimo incidente poco fuori Manchester. C’era il caos.”
 
Jerome rammentava bene quell’evento. Erano morte un sacco di persone, ma mai avrebbe pensato che, tra esse, vi fosse stato anche un mannaro.
 
“I pompieri stavano domando l’incendio nei pressi di una cisterna piena di etilene. Non volevano assolutamente che il fuoco le si avvicinasse ma evidentemente, nello schianto, anche la cisterna aveva subito un danno e…”
 
Con un sospiro, St. James si bloccò un attimo, prima di riuscire a proseguire.
 
“La cisterna esplose e pezzi di lamiera volarono ovunque. Uno piuttosto grosso colpì Nelson, trapassandogli il cuore da parte a parte. Morì sul colpo. In quell’incidente morirono ventitré persone, tra cui sei membri dell’ospedale presenti in loco.”
 
Cynthia si portò una mano al petto, quasi avesse sentito a sua volta un dolore lancinante trapassarle il cuore.
 
Jerome le sfiorò la nuca, massaggiandogliela e lei, nel sorridergli appena, mormorò: “Sto bene… davvero.”
 
“Nelson non aveva avuto figli e, non facendo parte di nessun branco, nessuno ha reclamato il suo corpo per la cerimonia al Vigrond” spiegò loro St. James che, pur essendo del tutto umano, conosceva a menadito le usanze mannare.
 
Niente di strano, d’altra parte visto che lui, come diversi altri umani in altri luoghi sparsi per il mondo, era il Guardiano di un Santuario.
 
“Io e i miei ragazzi, che ci occupiamo del Santuario – oltre che a lavorare qui come artisti –, abbiamo così pensato di tumularlo nel cimitero di Manchester City.”
 
“La Madre ne sarebbe lieta” mormorò Jerome, reclinando ossequioso il capo.
 
Sorridendo appena, St. James aggiunse: “Mi parlava sempre dei vostri riti, della Madre Terra che ci accoglie al momento della morte e così, per onorare lui e le vostre credenze, ho lasciato quella dedica sulla lapide.”
 
“Era molto bella” dichiarò Cynthia.
 
“Posso chiederle come ha saputo che Nelson era un licantropo, dottoressa Graham? Sono praticamente sicuro che lui non avesse detto a nessuno, a parte noi, di essere un mannaro.”
 
Sorridendo appena, Cynthia mosse le mani con grazia e disse: “Ho percepito che qualcosa non andava, che lui non era come gli altri. Quando lo dissi al dottor Withlock, lui mi disse di essere speciale e che, grazie al calore che io percepivo attraverso le sue mani, mi avrebbe aiutato a stare meno male. Non mi disse mai, però, perché fosse diverso dagli altri. Questo, lo scoprii grazie a Jerome.”
 
“Oh… una sensitiva, dunque” assentì con ammirazione St. James, rivolgendosi poi a Sköll. “Non Veggenti, ma Percepenti, giusto?”
 
“Esatto” annuì Jerome, stringendo nella sua una delle mani di Cynthia.
 
“Non mi stupisce, allora, che abbia avvertito l’unicità di Nelson. Era un mannaro molto potente” dichiarò St. James, annuendo più e più volte. “Non volle mai essere legato a nessun branco, per poter permettere a chiunque – anche a lupi in conflitto tra loro – di poter godere delle sue cure. Un buon samaritano, se vogliamo.”
 
“E il mio angelo custode” sorrise Cynthia, stringendo con forza la mano di Jerome.
 
“Pare ne abbia trovato un altro, dottoressa Graham” asserì a quel punto l’uomo, ammiccando all’indirizzo di Jerome, che sorrise.
 
“Sì, ne ho trovato davvero un altro.”
 
***
 
Immersi nella vasca da bagno dell’albergo dove avrebbero dormito per quella notte, Jerome stava insaponando i capelli lunghi e fluidi di Cynthia.
 
Dopo quella giornata così densa di emozioni, Jerome aveva trovato naturale come respirare, concedersi a Cynthia. Aveva tentennato fino a quel momento, temendo di poterle fare male a causa della sua natura, ma tutto era avvenuto nella più totale semplicità.
 
I gesti erano stati morbidi, privi di paure o dubbi, e Cynthia lo aveva accolto nel suo caldo abbraccio come se fosse da sempre destinata a essere sua.
 
Si erano amati per ore, alla luce debole delle abat-jour e, col fare di mezzanotte, si erano concessi quell’interludio nell’enorme vasca da bagno con idromassaggio.
 
Deponendo un bacio sulla spalla liscia e umida di lei, Jerome mormorò contro la sua pelle profumata: “Come stai?”
 
“E’ la sedicesima volta che me lo chiedi” ironizzò Cynthia, scivolando contro di lui per poggiare il capo contro il suo torace.
 
Jerome sospirò di puro piacere e, dopo aver azionato l’idromassaggio, l’avvolse tra le braccia. Il quieto borbottio delle bollicine li accompagnò per qualche minuto, mentre un silenzio rilassato scendeva su di loro.
 
Fuori, tutto era scuro, se non si contavano le illuminazioni cittadine e le pochissime auto per strada.
 
Il cielo era plumbeo e, prima del fare del giorno, sarebbe nevicato abbondantemente.
 
Il viaggio di ritorno sarebbe stato lento e costellato di traffico, pensò tra sé Jerome, già disgustato all’idea di rientrare. Non voleva che quell’idillio si spezzasse.
 
“Perché ti sei irrigidito? E non mi riferisco al ragazzone là sotto…” mormorò Cynthia, facendolo ridere sommessamente.
 
Se già aveva notato in lei una propensione al riso e a una naturale ironia, Jerome aveva scoperto quanto, l’atto sessuale, la rendesse spregiudicata. Non aveva avuto alcun timore di unirsi a lui, nonostante sapesse della sua forza inusitata e, anzi, l’aveva spinto a dare e prendere quello che voleva.
 
Jerome si era ovviamente trattenuto ma, potendo Cynthia percepire la sua aura, l’aveva avvolta nel suo potere, facendola fremere di piacere.
 
Mai aveva immaginato potesse essere così, con la donna che teneva tra le mani il suo cuore. Il sesso gli era sempre piaciuto, non ne aveva mai fatto mistero… ma amare, fare l’amore, era ben diverso.
 
Era così destabilizzante, così disturbante!
 
“Non voglio andarmene da qui…” mormorò infine, stringendola maggiormente a sé.
 
Dopo averle deposto un bacio tra i capelli, aggiunse: “Quando torneremo a Matlock, tu tornerai a essere solo la dottoressa Graham, per me, e io sarò Jerome Rowley di Music in the Bottle, oltre che Sköll del branco a cui appartengo. Non voglio!”
 
Scostandosi da lui, Cynthia si volse per potergli cingere il volto teso tra le mani e, nel baciarlo sulle labbra piegate in una smorfia, mormorò: “Jer, così deve essere. Finché non deciderai di presentarmi al tuo branco, io sarò questo, per te.”
 
“Sai perché non voglio farlo” brontolò Jerome, testardo.
 
“E sono ottime motivazioni, credimi. Se fosse successo a te ciò che, purtroppo, è avvenuto a Lance, io sarei impazzita. Avrei tagliato la testa a qualsiasi donna umana si fosse avvicinata a uno di voi” sorrise comprensiva lei, carezzandogli il viso. “Ma il fatto rimane. Se vuoi mantenere il segreto, a questo mi atterrò anch’io, e andremo avanti così finché vorrai. Ti amo, e voglio passare il mio tempo con te. Ma, se il mio essere umana ti crea dei problemi all’interno del branco, me ne starò in un angolino.”
 
“Non è giusto” replicò lui, abbracciandola. “Io voglio gridare al mondo quanto ti amo, Cynthia, quanto lo stare con te mi rende completo e felice, ma…”
 
“… ma pensi sia ancora presto, vero?” terminò per lui, carezzandogli la schiena squassata dai tremiti.
 
“Non so cosa pensare, Cynthia. Davvero. Ma ci sto lavorando.”
 
“Non abbiamo fretta, Jer, sul serio. E poi, dopotutto, un po’ di clandestinità e di rischio, mi piacciono. Vivere pericolosamente, per un cieco, è una normalità di tutti i giorni. Tenere segreti e comportarsi come una spia, invece, è qualcosa che di solito non ci capita” sorrise lei, mettendo ironia nel suo dire. “Mi hai cambiato la vita, Jer, e in meglio. Quante altre possibilità avrei avuto di vivere un’avventura simile?”
 
“Forse, avresti preferito una vita tranquilla con un uomo normale, che avrebbe potuto portarti ai pranzi di Natale o alle cene di famiglia” le fece notare lui, sbuffando scocciato.
 
“Che noia!” esclamò la donna, balzando in piedi prima di allungargli una mano. “Io non amo la noia, e tu sei tutto fuorché noioso, perciò, non lo diventare proprio ora.”
 
Osservandola rapito in tutta la sua splendida nudità, Jerome esalò: “Cosa vuoi fare?”
 
Cynthia sorrise maliziosa e, stando ben attenta a scavalcare il bordo della vasca, celiò: “Concedermi il bis?”
 
Jerome allora rise, spense l’idromassaggio e, dopo aver avvolto entrambi nei morbidi accappatoi, la riaccompagnò in camera, dove la stese gentilmente sul letto.
 
Distendendo le braccia sopra la testa, Cynthia mormorò: “Ho già avuto la vita piatta che mi hai prospettato essere ‘la migliore per me’, Jer, e mi ha fatto fuggire a gambe levate.”
 
Con un grugnito, Jerome le slacciò l’accappatoio e depositò piccoli baci sul suo ventre piatto, mormorando: “Non ricordarmi che hai avuto dei fidanzati, prima di me…”
 
“Che dovrei dire, io, allora, mio bel lupo rubacuori?” replicò lei, ridacchiando.
 
Ghignando nel risalire verso i seni, il licantropo asserì: “Non erano te. Nessuna è mai stata te.”
 
“E nessuno è mai stato te, Jer, perciò cerca di capire bene ciò che ti dico. Non vorrò mai la normalità di una vita qualunque, quando posso avere l’unicità di una vita assieme a te.”
 
Levando il capo a scrutarla con intensità, Jerome desiderò per l’ennesima volta che, per un istante, quegli occhi potessero scorgere la forza del suo amore per lei.
 
“E’ una vita difficoltosa…”
 
“E a me piace, perché ci sei tu a renderla speciale” gli sorrise Cynthia, allungando una mano per carezzargli i capelli. “Mi sta bene tutto ciò che potrai darmi, finché non potremo cambiare le cose. Ma mai, in nessun momento, vorrò cambiare te, o ciò che sei.”
 
“Cynthia…” sussurrò roco, liberandosi dell’accappatoio.
 
“Avvolgimi nel tuo potere e fammi tua, Jer. Amami, come io ti amo e ti amerò. Questo, non potrà togliercelo nessuno” replicò lei, attirandolo a sé perché la penetrasse.
 
Lui lo fece, sospirando di puro piacere al pari di Cynthia, che affondò con forza le unghie nella sua schiena arcuata.
 
I suoi movimenti furono lenti, quasi infiniti, lasciando che il suo potere aumentasse il godimento di entrambi.
 
Gli ansiti di Cynthia si confusero con i sibili compiaciuti di Jerome che, sul punto di cedere al piacere più grande, le sussurrò sulle labbra: “Resta con me per sempre, Cynthia. Resta con me.”
 
“Non devi neanche chiedermelo” replicò lei, lasciando che l’ondata di piacere li travolgesse, lasciandoli lunghi distesi sul letto, compiaciuti e del tutto stremati.
 
Scivolando via dall’amata per non pesarle addosso, Jerome la attirò a sé, abbracciandola stretta e, nel depositarle un bacio sulla guancia, mormorò: “Quanto durerà il tuo Master a New York?”
 
“Due anni, mese più, mese meno. Ma prometto di tornare tutte le volte che potrò e tu, naturalmente, sarai sempre il benvenuto” rispose lei, sospirando leggermente.
 
Sarebbe stato un incubo, separarsi, ma non sarebbe stato per sempre e, nel frattempo, lui avrebbe tastato il terreno per introdurre Cynthia nel branco.
 
Per quando fosse tornata, avrebbe avuto le risposte che stava cercando.
 
“Verrò da te ogni qual volta riuscirò a liberarmi dei miei impegni” le promise, stringendola ancor più a sé. “Ma, finché non partirai, ti dedicherò ogni mio minuto libero.”
 
“E io sarò tua ogni volta che vorrai” mormorò in risposta lei, voltandosi tra le sue braccia. “Ricorda, Jer, siamo uniti qui. Sempre e comunque.”
 
Ciò detto, poggiò una mano sul suo torace, all’altezza del cuore.
 
Jerome la baciò con tenerezza, annuendo contro le sue labbra perché capisse quel che aveva voluto dirgli.
 
Non sarebbero mai stati realmente lontani, in quei due anni di separazione.
 
Solo i loro corpi lo sarebbero stati. I loro cuori, mai.

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Capitolo 6
*** Jerome's Secrets - Parte 3 (Maggio 2016) ***


 
Jerome’s Secrets – Part 3
(Maggio 2016)
 
 
 
 
Jerome non sapeva decidersi. Era peggio Londra, o New York?
 
Per i suoi sensi sovra sviluppati, era comunque una tortura, ma tutto svaniva di fronte al sorriso di Cynthia e al suo abbraccio caloroso.
 
Aveva deciso di prendersi una settimana di ferie, piantando in asso tutto e tutti con la scusa di voler staccare un poco. Ovviamente, non aveva detto nulla sulla sua destinazione, si era mantenuto sul vago e, di proposito, si era mostrato scontroso e irritabile.
 
Forse, così, non avrebbero notato la sua crescente ansia di partire ma, soprattutto, i suoi pensieri rivolti verso un’unica persona. Cynthia.
 
Solo il tempo avrebbe potuto dirgli se il suo stratagemma aveva funzionato ma, al momento, gli interessava unicamente aver raggiunto New York ed essere tra le braccia del suo amore.
 
Era dal Natale precedente che non si vedevano e, anche se Skype era utilissimo –    soprattutto per lui – gli erano mancati il suo sorriso, la sua ilarità, la sua joie de vivre.
 
Vedere Cynthia era come rimanere abbagliati dal sorgere del sole, o venire travolti da infinite Morning Glory1, …insomma, era un’autentica forza della natura.
 
Poco importava che fosse cieca e non potesse scorgere la luce negli occhi di Jerome, o il suo sorriso estasiato. Lei poteva sentirlo dentro.
 
Quando, finalmente, Jerome ebbe la forza di staccarsi da lei, lanciò uno sguardo verso il basso e, piegatosi su un ginocchio, accarezzò il testone quadrato di Rocky, il suo cane guida, e mormorò: “Ehi, bello! Hai fatto buona guardia alla tua padrona?”
 
Cynthia rise mentre il bel labrador nero abbaiava un paio di volte al licantropo, come a volerlo rassicurare sulle sue capacità di guardiano. Subito dopo, si strusciò contro le gambe di Jerome e, adorante, lo guardò come in cerca di coccole.
 
Naturalmente, Jerome lo accontentò. Adorava quel cane, e saperlo accanto a Cynthia lo aveva reso un po’ meno nervoso, all’idea di lei tutta sola nella Grande Mela.
 
“Ha imparato subito il tragitto dall’appartamento alla Columbia University, e in facoltà tutti lo adorano” gli spiegò la donna, prendendo sottobraccio il compagno per uscire dall’aeroporto.
 
Rocky si mise subito a fare il suo lavoro, e guidò senza problemi Cynthia in quel caos disordinato di cose e persone.
 
Jerome lo scrutò curioso per un attimo dopodiché, rivoltosi alla donna, le domandò: “Come mai sa entrare e uscire dall’aeroporto?”
 
“Ho chiesto a una delle mie compagne di corso di insegnarglielo” si limitò a dire lei, levando il viso a sorridergli. “Volevo essere qui, per quando fossi arrivato.”
 
“Non ce n’era bisogno… ma grazie per il pensiero” mormorò Jerome, chinandosi a darle un bacio.
 
Erano anche piccole gentilezze come queste, a fargliela amare. Lui non aveva certo bisogno di essere coccolato, ma gli faceva piacere che qualcuno pensasse a carinerie simili.
 
Non appena furono all’esterno, la cacofonia non migliorò, cambiò solo di tono e, quando presero un taxi, Jerome fu quasi certo di essere pronto per uno svenimento. Una gamma di odori davvero poco piacevoli saturava l’auto e, per i suoi coni paranasali, era un’autentica tortura sopportare in silenzio quel supplizio.
 
Anche Rocky parve lagnarsi e, nel dargli una pacca sulla schiena, Jerome non poté esimersi dall’aprire un poco il finestrino. Sapeva benissimo di non poter risolvere il problema – all’esterno, i gas di scarico ammorbavano l’aria – ma, per lo meno, non sarebbe morto asfissiato per mancanza di ossigeno.
 
Raggiungere il 531 di W114th richiese quasi un’ora, ora che passarono in mezzo al traffico congestionato, alle auto strombazzanti e ai ciclisti folli. Costernato, Jerome si chiese come potessero arrivare a fine giornata, con ritmi simili.
 
Cynthia, però, non pareva minimamente turbata da tutto quel delirio e, quando il taxista li depositò di fronte al suo palazzo a mattoni rossi, chiosò: “La città che non dorme mai… che dire…”
 
“Vuoi farmi credere che è così anche di notte?” gracchiò Jerome, accompagnandola lungo gli scalini che conducevano alla porta d’ingresso.
 
Lei assentì, armeggiando con le chiavi – che avevano dei copri-chiavi di fattezze diverse – e, dopo aver trovato quella giusta, replicò: “Forse, non ci sono i pony express in bici.”
 
“Oh, dea…” esalò lui, chiudendosi la porta alle spalle non appena furono all’interno.
 
Lì, il rumore era quasi del tutto assente e, per un orecchio umano, del tutto inesistente. Per lo meno, vetri e muratura reggevano bene il peso di tanto caos esterno.
 
Dopo aver preso l’ascensore per l’ultimo piano, Cynthia gli domandò: “Per quanto tempo rimarrai?”
 
“Una settimana” le spiegò, avvolgendole le spalle con un braccio. “Ho fatto capire che ero un po’ stressato, e avevo bisogno di staccare.”
 
“Stressato? E perché mai?” ironizzò lei, uscendo non appena le porte si aprirono.
 
Tastando il muro dinanzi a sé, sfiorò il numero del piano a cui erano arrivati, dopodiché lasciò che la mano solleticasse porte e muri, avanzando al pari di Rocky.
 
Cosa voleva dire affrontare un mondo perennemente avvolto dall’oscurità?
 
Sì, Cynthia intravedeva ombre e luci, ma non distingueva né forme né colori, perciò tutto era estremamente complesso, per lei.
 
Jerome non riusciva a capacitarsi di quanto fosse brava e indipendente, nel suo giostrarsi giorno per giorno con un handicap così invalidante. Non era sicuro che sarebbe stato altrettanto in gamba, a parti invertite.
 
Quando infine raggiunse la porta giusta, Rocky abbaiò una volta e Cynthia, nell’estrarre un’altra chiave, mormorò: “Sente l’odore delle sue crocchette… e del lucido che uso per i mobili.”
 
“Un buon sistema” assentì Jerome, seguendola all’interno del monolocale.
 
Come gli aveva accennato per telefono, era piccolo, adatto a contenere giusto una persona con il suo cane ma, con i prezzi correnti, già averlo trovato era un lusso. Il fatto che possedesse un microscopico balconcino, era poi una vera rarità.
 
Cynthia aveva preferito non dormire al Campus. Si sarebbe sentita a disagio, in mezzo a giovani di diciotto, diciannove anni, mentre lei ne aveva già trenta.
 
Inoltre, avere un cane per ciechi, comportava tutta una serie di azioni giornaliere che, per un compagno di stanza, forse sarebbero risultate fastidiose.
 
L’appartamento era stata la sua soluzione migliore. Inoltre, questo le consentiva di poter ospitare Jerome a ogni sua visita.
 
I genitori di Cynthia, Clive e Mildred, le erano stati vicino durante le sue prime due settimane a New York, dandole una mano a sistemarsi e aiutando Rocky ad abituarsi a quei nuovi ambienti.
 
Da quel che Jerome sapeva, sarebbero giunti verso la fine di maggio, per venire a trovarla.
 
I coniugi Graham erano una coppia simpatica e allegra e, fin da quando la figlia aveva perso la vista, si erano prodigati per farla vivere nel miglior modo possibile. Tutto ciò che era stato possibile imparare, loro lo avevano imparato, e così anche Cynthia.
 
Le scuole avevano smesso di essere un problema già dopo un anno dalla perdita della vista e, quando infine si era iscritta all’università per studiare psichiatria, loro ne erano stati entusiasti e l’avevano sostenuta dall’inizio alla fine.
 
Lavorare fianco a fianco con persone non vedenti e ipovedenti, aveva aiutato Cynthia a rafforzare il suo carattere già indomito, dandole la possibilità di essere maggiormente indipendente.
 
Il suo praticantato alla Clinica di Matlock l’aveva resa padrona di se stessa, finalmente libera dalle ultime paure residue sedimentate ancora in lei. La possibilità di dare quel Master in Sociologia alla Columbia, era stata la ciliegina sulla torta.
 
Jerome non avrebbe potuto essere più orgoglioso di così e, quando la strinse a sé per un abbraccio, le mormorò all’orecchio: “Può un uomo amarti più di quanto ti amo io?”
 
“Non so… dovrei chiedere in giro” replicò Cynthia, sorridendo divertita.
 
Lui rise. Gli erano mancati il suo spirito e le sue battute.
 
Dio! Ne era così dipendente che, a volte, registrava le loro conversazioni solo per poter riascoltare il suono della sua voce.
 
Era davvero messo bene.
 
A conti fatti, forse, era più lui a essere vittima di lei, che il contrario, e questo lo fece un poco preoccupare. E se Cynthia, in quegli anni di separazione, avesse trovato un uomo meno complicato di lui, con cui stare?
 
Certo, lei gli aveva giurato che questo non avrebbe mai potuto succedere, però…
 
“Jer… la tua aura sfrigola e mi fa il solletico. Che succede?” lo mise in guardia lei, togliendogli con gesti tranquilli la giacca di pelle che indossava.
 
Con il sottofondo di Rocky che sgranocchiava le sue crocchette, Jerome la fissò a lungo senza parlare, indeciso su cosa dire.
 
Sì, lei non poteva leggergli nella mente, ma le auree dei licantropi, a volte, parlavano più delle parole. E lei era una Percepente coi fiocchi.
 
Sbuffando, si accomodò al piccolo tavolino di fronte all’angolo cottura e ammise: “Sono solo paranoie di un maschio innamorato, scusa.”
 
Cynthia sorrise appena, carezzandogli la massa setosa e scomposta dei capelli neri, mormorando: “Pensi che io non stia in pena tutto il tempo, sapendoti circondato da lupe che non vedono l’ora di averti?”
 
What?!” gracchiò Jerome, scrutandola con occhi stralunati.
 
“Oh, sii serio, Jer!” brontolò lei, accomodandosi a sua volta.
 
Era forse la prima volta in assoluto che lui la vedeva un poco preoccupata.
 
“Insomma, della Triade di Potere del tuo branco, l’unico a non essere accoppiato sei tu! Pensi che alle donne del tuo clan non sia passato per la testa, un pensiero simile?”
 
“Le ho già debitamente avvertite tutte, di non provare a fare le gatte morte con me” sottolineò Jerome, trovando suo malgrado confortante che anche lei, nel suo piccolo, fosse gelosa.
 
“Gatte morte… ah ah. Per un licantropo, deve essere un bell’insulto” mugugnò lei, poggiando il viso sulla mano protesa.
 
La nuvola di capelli biondi si mosse per diretta conseguenza, scintillando alla luce del sole, proveniente dalla finestra alle sue spalle.
 
Dio, sembrava l’incarnazione di un angelo, in quel momento, anche se Cynthia era convinta che lui, invece, lo fosse.
 
Almeno ai suoi occhi.
 
Allungando una mano attraverso il tavolo per prendere quella libera dell’amata, Jerome mormorò: “Nessuna potrebbe mai sostituirti, Cynthia, posso giurartelo su quanto ho di più caro e prezioso.”
 
Lei sospirò, e Jerome cominciò a pensare che vi fosse qualcosa sotto, qualcosa che lei non voleva dirgli.
 
Accigliandosi leggermente, le domandò: “Cosa è successo, Cyn?”
 
“Nulla. Davvero.”
 
Lo disse troppo in fretta, e con un tono fin troppo piatto perché lui le credesse sulla parola.
 
Levatosi in piedi, la sollevò a sorpresa dalla sedia e, portandola di peso nella stanza accanto, dove si trovava il letto matrimoniale, dichiarò: “Ho mille modi per farti parlare… e parlerai, credimi.”
 
Lei gli allacciò le braccia al collo, divertita, e replicò: “Oooh, vuoi torturarmi?”
 
“Direi di sì. Ti farò il solletico” ghignò Jerome, vedendola impallidire.
 
“No. Non puoi farlo” esalò Cynthia, cominciando a innervosirsi.
 
“Eccome se lo farò” replicò il giovane, depositandola sulle coltri morbide.
 
Cynthia non attese neppure un secondo e filò via, nascondendosi oltre il bordo del letto, sul lato opposto a quello di Jerome.
 
“Non puoi essere così crudele, Jer… non mi ami più?” tentennò la donna, ponendosi in posizione di allerta.
 
Era pronta a scappare al primo accenno di movimento da parte di Jerome e, anche se era cieca, la cosa non le importava.
 
Jerome aveva scoperto per puro caso che Cynthia era succube del solletico in modo quasi totalitario. Era stato divertente, a suo tempo, scoprire quel particolare.
 
Ora, però, era giunto il momento di sfruttare quel gap, visto che lei non aveva intenzione di sputare il rospo.
 
“Se non mi dirai cosa ti ha turbato, giuro che passeremo tutta la notte qui, e io ti farò il solletico per tutto il tempo.”
 
“Sai che si può morire, di solletico?” tentò di rabbonirlo lei, cercando di sorridere.
 
Fallì miseramente.
 
“Non arriverò a tanto, ma ti farò parlare” decretò lapidario Jerome. “Ricordati che sono figlio di una Freki. So essere piuttosto testardo, quando devo raggiungere un obiettivo.”
 
“Oh, ma dai… non puoi giocare proprio quella carta!” sbottò Cynthia, ora irritandosi.
 
Ah, allora qualcosa c’è!, pensò vittorioso Jerome.
 
Cynthia non se l’era mai presa a quel modo. Aveva sempre capito i suoi scherzi. Quindi, cosa l’aveva turbata tanto?
 
Balzando a sorpresa sul letto e facendola strillare di paura, Jerome la placcò alla vita e insieme caddero tra le coltri profumate.
 
Tenendola quindi stretta in quell’abbraccio protettivo, lui le disse in un orecchio: “Desidero solo aiutarti. Lasciami fare qualcosa per te, per una volta.”
 
Se fino a quel momento Cynthia aveva cercato di liberarsi, a quelle parole si bloccò e, sorpresa, esalò: “In che senso, scusa? Tu fai sempre qualcosa per me.”
 
“Aiutarti nelle faccende di casa non è esattamente quello che intendevo” brontolò lui. “E’ evidente che qualcosa, o qualcuno, ha turbato le tue sicurezze, e io voglio capire perché.”
 
“Anche quanto, non potresti farci niente” replicò Cynthia, poggiando il capo contro la sua spalla.
 
“Quindi, è successo veramente qualcosa.”
 
Sbuffando, la donna si lasciò finalmente andare al suo abbraccio e mormorò: “E’ successo poco dopo Natale, al mio rientro dall’Inghilterra.”
 
“Ebbene?” la incitò lui, dandole un bacetto dietro l’orecchio. Sapeva di fragole e lamponi.
 
Lei sorrise appena, e proseguì.
 
“Una ragazza, nel mio corso di sociologia, è una licantropa. L’ho capito quando, di proposito, la prima mattina dal mio rientro qui a New York, mi ha investito con la sua aura.”
 
“E perché mai l’avrebbe fatto?” esalò Jerome, stupefatto.
 
“Mi ha detto di aver sentito odore di lupo su di me, e la cosa l’ha irritata.”
 
“E ti ha affrontata così, senza minimamente chiedersi se tu potessi conoscere o meno la verità?” esalò Jerome. Ma che le diceva la testa, a quella lupa?!
 
Scrollando le spalle, Cynthia mormorò: “Ha minacciato di divorarmi, se non avessi mantenuto il suo segreto. Quando le ho detto che sapevo di voi, però, è esplosa. Mi ha detto che non concepiva che io potessi avere coscientemente un amante mannaro, mentre io ero ancora umana. Era inconcepibile, per lei.”
 
“Piuttosto razzista, mi pare…” brontolò Jerome, accigliandosi.
 
Annuendo, lei aggiunse: “Ha sottolineato che, se fossi stata americana, nessun lupo si sarebbe mai permesso di mantenermi nel mio stato di umana, dopo aver scoperto il segreto sulla razza.”
 
“Beh… questa poi! E’ un’assurdità bella e buona. A volte occorrono anni, perché un umano decida di essere mutato. Altre ancora, non accetta proprio di essere mutato, e si limita a vivere con noi, ma senza cambiare. Punto e basta” sbottò irritato, stringendola in un abbraccio protettivo.
 
“La parte carina arriva adesso…” mormorò Cynthia, sospirando. “… perché ha insinuato che non mi avevi trasformata, né mai l’avresti fatto, perché ho un handicap, e i lupi non amano le imperfezioni.”
 
Per Jerome fu troppo.
 
Balzò dal letto e, furioso come poche altre volte era stato, ringhiò: “Dimmi chi è. Questa ragazza ha bisogno di una lavata di testa come si deve.”
 
“Ma non serve a nulla, Jer. Se anche tu glielo dicessi, la settimana prossima non saresti qui, e non cambierebbe niente, ti pare?” gli fece notare lei, mettendosi seduta tra le coltri.
 
“Non se faccio intervenire chi dico io” sbuffò lui, puntando lo sguardo sul notebook di Cynthia.
 
Poteva fidarsi? Poteva davvero esporsi, ed esporre Cynthia, al giudizio di un membro del branco?
 
Beh, lo avrebbe scoperto presto.
 
***
 
Sbadigliando sonoramente, Brianna accettò la chiamata tramite Skype e, nel vedere la faccia di Jerome, esalò: “Ehi! Non mi sembri star male come pensavo. Perché, dalla telefonata che mi hai fatto prima, sembravi un cadavere…”
 
“Scusa… rabbia repressa…” brontolò lui, accennando un sorrisino.
 
“Nessun problema. Mi fa piacere sapere che sei tutto intero. Devo dedurre, però, che la vacanza rigenerativa non sta funzionando molto bene.”
 
“No, per ora no” ammise Jerome, prima di chiedere: “Principessa, me lo faresti un favore enorme? Ma davvero gigantesco?”
 
“Tu chiedi, e io vedrò che rispondere” lo incoraggio lei, sorridendo alla webcam.
 
Jerome tentennò un istante, guardò dietro di sé e, infine, fece un cenno a una persona poco distante, mormorando: “Cyn, vieni qui.”
 
Facendosi attenta, Brianna fissò senza parole la bellezza bionda che comparve a sorpresa nello schermo. Ella si accomodò sulle ginocchia di Jerome, dimostrando una intimità che Brie non si aspettava di certo e, dubbiosa, mormorò: “Ehm… salve.”
 
“Lei è Cynthia. E’ cieca, per cui non può vedere la tua faccia sconvolta…” ironizzò Jerome, avvolgendo la vita alla donna con fare possessivo.
 
“Scusa la mia sorpresa, J, ma è da un po’ che non ti si vede con una donna, per cui…” iniziò col dire, prima di bloccarsi e mugugnare: “…scusa la franchezza, ma la tua amica è…beh, insomma…”
 
“Sono umana, sì. Ma so di voi” asserì Cynthia, con un dolce sorriso.
 
Brianna lanciò un’imprecazione così forte che, dalla camera accanto, Amanda esalò: “Ehi! Che succede?!”
 
“Oh, scusa, Mandy… ho sentito una cosa che mi ha sconvolta. Chiudo la porta, così non ti disturbo” borbottò Brie, affrettandosi a chiudersi dentro la sua stanza.
 
Rimasta sola con se stessa e con i suoi interlocutori, la giovane dottoranda mugugnò subito dopo: “J, mi potresti dare uno straccetto di informazione in più? Mi sento abbastanza idiota, al momento.”
 
“Sì, scusa. La sto gestendo malissimo, ma non sapevo davvero che fare, e allora ho pensato che rivolgermi a te sarebbe stata la cosa più sensata, visto che tu sei wicca, e hai una madre che è stata umana, e poi…”
 
Brianna ascoltò lo sproloquio di Jerome per un minuto buono dopodiché, interrompendolo con un ‘basta’, esalò: “Okay, abbiamo assodato che la tua amica sa un sacco di cose, mentre noi – di lei – assolutamente nulla. Oltre a questo, ho capito che le sei molto affezionato, e lei a te, visto che ti sta sopportando in questa tua crisi da quindicenne con gli ormoni in subbuglio.”
 
Jerome la mandò al diavolo, ma a Brie non interessò nulla. Lei si concentrò sul sorriso di Cynthia, e sul modo in cui la sua mano stava accarezzando il braccio di Jerome.
 
No, quello non era un colpo di testa, che avrebbe potuto essere nelle corde di Jerome. Per lo meno, del vecchio Jerome.
 
Brianna, per quanto assente a causa dell’università e del praticantato in ospedale, aveva notato un cambiamento in lui, negli ultimi anni, ma il tempo e la discrezione le avevano impedito di ficcare il naso. Dopotutto, se Jerome avesse voluto parlare con lei di qualcosa, sapeva come e dove trovarla, no?
 
 Possibile che fosse anche, e soprattutto, merito di quella donna, ciò che aveva visto nel suo Skŏll?
 
“Tanto per fare le cose come dio comanda, io sono Brianna McKalister, e sono sposata con suo cugino, Duncan. Studio a Londra e sono una dottoranda all’University College Hospital. Immagino che la parte ufficiosa tu la conosca già.”
 
Lei annuì, replicando: “Io sono la dottoressa Cynthia Graham, e lavoro come psichiatra nella clinica privata St. Francis Medical Centre, che si trova su Snitterton Road, a Matlock.”
 
“Uhm, sì, ne ho sentito parlare. E’ un centro riabilitativo che si occupa di diverse disabilità, giusto?” assentì Brianna, fattasi pensierosa.
 
“Esatto. Io e Jerome ci siamo conosciuti lì, per puro caso. Jer ha ripescato una delle nostre pazienti dal laghetto che c’è dietro la clinica.”
 
Nel dirlo, sorrise a Jerome, che divenne rosso come un peperone.
 
Brianna ghignò spontaneamente, a quella vista.
 
Oh, sì! Quella non era una semplice sbandata, era amore vero, se lui si imbarazzava nel sentire l’orgoglio nella voce della sua donna!
 
“Bene, Cynthia… posso darti del tu?”
 
“Ovviamente.”
 
“A cosa devo l’onore di essere la prima a sapere di voi?” volle sapere Brianna, poggiando il mento sui palmi aperti.
 
“Dovresti dire due parole a una lupa piuttosto irrispettosa, se non ti scoccia troppo” la pregò Jerome.
 
“Oh. E quale sarebbe il motivo?” esalò sorpresa la giovane, facendo tanto d’occhi.
 
Dopo averlo saputo, Brianna era a dir poco furente.
 
“In questo momento, vorrei essere lì per strapparle i peli dalla schiena, uno a uno. E non solo io, credimi” Poi, guardandosi un attimo attorno, esclamò: “Mandy, puoi venire qui un momento?”
 
Jerome strabuzzò gli occhi, sconcertato, ma Brianna gli fece cenno di azzittirsi.
 
L’amica e collega di lavoro spuntò dalla porta pochi attimi dopo e, nel vedere Jerome nello schermo del PC, disse: “Ehi, Jerome! Ciao!”
 
“Mandy… tutto bene?”
 
“Ottimamente” assentì la ragazza, prima di chiedere lumi all’amica.
 
“Ti spiego in due parole, ma voglio da te l’assoluto silenzio, anche con Duncan e soci. Ho bisogno che mi copri” le disse Brianna, facendosi seria.
 
Amanda assentì del tutto seria e, dopo aver lanciato una seconda occhiata alla coppia su Skype, mormorò: “Parola d’onore. Non dirò nulla. Su cosa, a proposito?”
 
“Il branco non sa nulla, su di loro” dichiarò Brianna, su due piedi. “Ora, hanno bisogno che io li raggiunga, ma non voglio che a casa sappiano niente. Credo che qualcuno, e non faccio nomi, potrebbe sbarellare, se sapessero che la donna di J non è una mannara.”
 
Mandy lanciò un’altra occhiata al PC prima di esalare: “Oh, ma dai! Mica mordiamo, sai? Semmai, siete voi a mordere.”
 
Le due amiche risero di quel commento, e anche Jerome e Cynthia sorrisero.
 
Brianna aveva detto la verità all’amica al raggiungimento della Laurea e, da quel momento, Mandy era divenuta una mascotte, per il branco di Matlock. Ma, in quel caso, era stata una wicca, e la detentrice dell’anima di Fenrir, a prendere la decisione.
 
Questa, invece, era tutta un’altra storia. E con dei precedenti pessimi.
 
“Niente di più vero. Ma sai che alcuni lupi potrebbero dare di matto, no?” dichiarò Brianna, sbuffando contrariata.
 
“Non dire altro. So cosa vuoi dire, e capisco che ci sia una buona dose di riluttanza a parlare con noi umani, però, cavolo… che sfiga!”
 
“Esatto” assentì Brianna, passandosi una mano sul viso. “Per questo, ho bisogno di andare e venire in totale segretezza. Al lavoro, dirai che ho un bruttissimo caso di… di gastroenterite. E’ sufficiente per stendermi a letto morta e stecchita” dichiarò Brianna, facendo ridere l’amica.
 
“Poco ma sicuro. E, visto che siamo fuori dal periodo delle influenze, può reggere solo una cosa del genere, a breve termine” assentì l’amica. “Altro?”
 
“Se dovesse chiamare Duncan, ci penserò io e, se qualcuno contattasse te, dirai che sono fuori. Tutto chiaro?”
 
“Mi inventerò qualcosa, se necessario.” Poi, tornando a sorridere alla coppia, aggiunse: “Ci vorrà un po’ di tempo, ma sono sicura che, una volta che sapranno che avete l’appoggio di una come Brie, nessuno potrà dire nulla.”
 
“O mi staccheranno la testa prima che lei possa parlare” ironizzò Jerome, pur ringraziandola per l’aiuto.
 
“Domani sarò lì. Ora mi procuro i biglietti” dichiarò Brianna, salutandoli prima di chiudere il collegamento.
 
Quando l’immagine di Brie e Mandy svanì dal PC, Jerome sospirò e Cynthia, volgendosi verso di lui, domandò: “Perché proprio lei? Non è solo perché è la tua Prima Lupa, vero? E nemmeno perché è la wicca del branco.”
 
“Ni. In parte, è anche per questo. Per questioni simili, si parla con la Prima Lupa. Non si disturba di certo Fenrir. E’ sempre la Prima Lupa a decidere se la faccenda deve essere sottoposta all’attenzione del capoclan, o meno.”
 
“Ma…” lo incoraggiò lei, stringendo un poco le mani sulle sue spalle.
 
“Ma lei ha qualcosa che nessun altro ha, e che potrà cucire la bocca alla lupa che ti ha offesa” sospirò Jerome, dandole un bacio sulle labbra. “Dio… riesco a crearti dei problemi anche quando non sono presente.”
 
“Non preoccuparti di nulla e, soprattutto, non darti colpe che non hai. Quella ragazza avrebbe fatto comunque la bulla, anche se non avesse avuto te come scusa per farla. Non sono l’unica ad aver avuto problemi con lei ma, finché non mette le mani addosso a qualcuno, anche l’ateneo può fare ben poco. E’ brava, nell’evitare di fare cose veramente illegali.”
 
“Okay, d’accordo. Ma non doveva metterti dei dubbi in testa che non esistono. La faccenda della mutazione è una cosa seria, e devi essere innanzitutto tu, a volerla, non certo io. Io sono nato licantropo, è una vita che bazzico in questo mondo e so che mi piace. Tu, lo percepisci sulla pelle solo da pochi anni.”
 
“E mi fa sentire viva” sottolineò lei, carezzandogli una guancia.
 
“Pensaci ancora, e per tutto il tempo che vuoi. Ricorda che è una cosa che ti cambierà la vita per sempre. Dovrai mentire ai colleghi, ai tuoi genitori – se non ritieni che siano pronti a conoscere la verità – al mondo intero. Non è facile.”
 
Cynthia si chinò a baciarlo sulle labbra e, con profonda fiducia in se stessa, mormorò: “Un passo alla volta, Jer. Ora, finirò il mio Master e, quando tornerò a casa, ne riparleremo. Ma non avrò mai paura del tuo mondo.”
 
Jerome la abbracciò e, affondando il viso nell’incavo del suo collo, pregò di poter credere alle sue parole.
 
Desiderava con tutta l’anima che Cynthia non rinunciasse a lui, ma sapeva bene cosa le offriva in cambio.
 
Sotterfugi, bugie, pericolo. Non esattamente un anello di brillanti.
 
Ugualmente, pregò la Madre, pregò che quella donna splendida rimanesse nella sua vita.
 
Ma, soprattutto, pregò di essere abbastanza per lei, di essere – e rimanere – l’uomo perfetto per lei, il suo angelo custode.
 
Fino alla fine dei suoi giorni.







1 Morning Glory: sono delle nuvole di forma tubolare, che si estendono anche per km, una dietro l'altra, anche centinaia di volte. Si vedono soprattutto in Australia.
 

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Capitolo 7
*** Jerome's Secrets - Parte 4 (Maggio 2016) ***


 
Jerome’s Secrets – Part 4
(Maggio 2016)
 
 
 
 
 
Era stato un autentico tour de force, organizzare ogni cosa al meglio, ma Brianna sapeva che la posta in gioco era alta, e non aveva nessuna intenzione di sbagliare.
 
Jerome faceva parte della sua Triade di Potere, era uno dei suoi migliori amici e, forse per la prima volta, le aveva chiesto un favore. Si sarebbe fatta in quattro, per lui, anche a costo di far arrabbiare Duncan.
 
Il caso specifico richiedeva il suo assoluto silenzio, poiché spettava a Jerome decidere se e quando dire al branco di Cynthia. Come Prima Lupa, avrebbe innanzitutto protetto i suoi lupi, ma aveva fiducia nel suo Sköll, e non gliel’avrebbe fatta mancare proprio ora.
 
Dopo il fattaccio di Lance e Diane, tutti erano particolarmente sensibili sull’argomento, specialmente Sarah – in quanto Freki – perciò comprendeva bene le ritrosie di Jerome a parlare di Cynthia. Il fatto che si fosse arrischiato a parlargliene era sintomo di quanto tenesse a lei, e di quanto lui avesse fiducia nella sua wicca.
 
Quando, perciò, Brianna lo vide all’uscita dell’aeroporto, un sorriso incerto sul viso e l’aria di chi non sapeva come comportarsi, per lei fu facile capire come agire.
 
Corse ad abbracciarlo e lo baciò sulle guance, mormorando commossa: “Grazie per aver pensato a me, J. Grazie di tutto cuore.”
 
“Sono un opportunista, ecco cosa. Ma sono contento di averti qui, principessa. Ero stanco di dover tacere con tutti” replicò lui, stringendola forte a sé per un istante.
 
Presolo sottobraccio dopo aver dato e ricevuto calore con quell’abbraccio, i due si diressero verso un taxi e, annuendo, Brie asserì: “Capisco le tue reticenze, ma credi davvero che Duncan si rifiuterebbe di accettarla? Sei suo cugino, andiamo! Lui si fida di te.”
 
Jerome storse il naso, ma ammise: “Non è di Duncan che non mi fido… è di mia madre che ho paura.”
 
“Sarah, eh?” mormorò torva Brianna, salendo sul sedile posteriore dell’auto.
 
Lasciarono perdere l’argomento fino a che non arrivarono all’appartamento di Cynthia e lì, nel salire sull’ascensore, Jerome mormorò: “Non si fida degli umani e, se non fosse stato perché Mary B e Gordon sono tuoi parenti, non avrebbe accettato così facilmente la loro entrata nel branco. Né che Gordon frequentasse Erika quando ancora era umano.”
 
“Posso capirne le motivazioni. Fu lei a dare la caccia agli affiliati di Diane. Sono cose che non si dimenticano” assentì Brie, dandogli una pacca sulla spalla. “Ma non si fiderebbe del tuo giudizio?”
 
“Sono suo figlio. Il suo primogenito. E’ protettiva all’inverosimile, quando si tratta di me ed Erika, e poco importa se ormai siamo grandi e vaccinati. Inoltre, se anche Lance ha sbagliato, a suo tempo, chi sono io per ritenermi esente da errori?” sospirò Jerome, uscendo dall’ascensore assieme all’amica.
 
Il suo volto rispecchiava il timore assoluto di non essere compreso dalla donna che l’aveva messo al mondo.
 
“Beh, sì, essendo Freki, l’istinto di protezione è bello alto, in lei” ammise la giovane, non potendo smentire l’amico. “Ma sono sicura che Cynthia sia una brava persona.”
 
“Mamma non avrebbe il tuo stesso ottimismo. Le staccherebbe la testa prima ancora che io possa aprire bocca e dire ‘bah’. Sai com’è fatta. E’ dolce e gentile finché qualcosa non turba la sua quiete domestica. Diversamente, diventa una belva.”
 
“E’ una mamma.”
 
“E’ la madre di tutte le mamme protettive dell’universo” si lagnò Jerome, aprendo la porta dell’appartamento con una chiave.
 
Brianna sorrise di quella battuta e replicò: “Dalle una possibilità.”
 
“Prima, voglio che tu conosca Cynthia” asserì lui, facendola entrare.
 
In piedi accanto a un bell’esemplare di labrador nero, Brianna vide una donna alta ed esile, dalla lunga chioma bionda sparsa sulle spalle.
 
La riconobbe subito come colei che aveva intravisto il giorno prima, su Skype. Dal vero, però, era infinitamente più bella.
 
Le sorrise spontaneamente ma, prima di potersi dedicare a lei, richiamò a sé il cane guida per tranquillizzarlo. Nel momento stesso in cui aveva messo piede nell’appartamento, la sua postura si era irrigidita ed era giusto che lo chetasse in merito alle sue intenzioni.
 
Piegatasi su un ginocchio, emise quindi un basso fischio modulato e, subito, il cane trottò da lei. Dolcemente, lo carezzò sul testone ricoperto di morbido pero e, con tono sommesso, disse: “Bellissimo… sono qui in visita, e non voglio fare del male alla tua padrona. Mi permetti di rimanere?”
 
Rocky abbaiò un paio di volte prima di tornare al fianco di Cynthia e, a quel punto, Brianna si risollevò per procedere con le presentazioni.
 
Avvicinandosi a Cynthia con la mano protesa, disse: “Scusa se prima ho pensato a lui, ma era piuttosto confuso dalla mia natura e non volevo che si innervosisse, sapendomi vicino a te.”
 
“Rocky ha fatto qualche storia anche la prima volta che ha visto Jerome” ammise Cynthia, stringendo la mano di Brie.
 
“Diciamo che io ho qualcosa di diverso… e di più pericoloso, rispetto a lui, e il cane riesce a percepirlo abbastanza bene” replicò Brianna, guardando dubbiosa il suo Sköll.
 
Lui scosse il capo, perciò alla giovane non restò altro che aggiungere: “J ti ha spiegato da chi discende la nostra razza?”
 
“Sì, anche se ho faticato a credere a una simile eventualità. Parlare di dèi e creature ancestrali non è come sapere che esiste un’altra razza senziente, a parte quella umana. Al DNA mutato posso credere molto più che a qualche colpo di bacchetta magica, o a divinità scese sulla terra per fecondare donne umane.”
 
“Anima scientifica. Ne so qualcosa” sospirò divertita Brianna, rammentando bene quanto fosse stato difficile, per lei, accettare se stessa e i lupi. “Ma posso assicurarti che è tutto vero.”
 
Detto ciò, lasciò che la sua aura si espandesse un poco e Cynthia, esalando un sospiro di sorpresa, strinse maggiormente la mano di Brianna e mormorò: “E’… è completamente differente da quella di Jer! Molto più potente!”
 
“Coesistono tre entità distinte, in me, per questo la trovi differente” le spiegò Brie, aiutandola ad accomodarsi.
 
Non erano cose di cui si poteva parlare restando in piedi, per quanto una persona potesse essere forte di stomaco, o larga di idee.
 
“Tre? In che senso?” esalò la dottoressa, fissando il suo viso nella direzione da cui proveniva la voce di Brianna.
 
“Sono una wicca, la Saggia del mio branco, e possiedo doni legati alla luna e alla Madre Terra. Ma sono anche una licantropa, oltre che Prima Lupa del clan. Per finire, sono la custode dell’anima di Fenrir, il capostipite della razza.”
 
Cynthia sussultò a quelle parole e Jerome, stringendo le mani sulle spalle della sua donna, mormorò roco: “E’ tutto vero. Per questo, l’ho voluta qui.”
 
La donna si fece aria con una mano, il viso percorso dallo sconcerto più totale e Brianna, sorridendole con sincerità pur sapendo di non poter essere vista, disse: “Non sei svenuta, né hai dato di matto. Hai fatto meglio di me, credimi. Io ho avuto una bella crisi di nervi, quando seppi solo in parte ciò che mi attendeva.”
 
Cynthia scoppiò a ridere per diretta conseguenza e, nel passarsi le mani tra i capelli, esalò: “Oh, non sono ancora del tutto sicura che non sverrò. Cielo! Ma è sul serio tutto vero?”
 
“Sei una Percepente molto forte, da quello che mi ha spiegato J, prima che partissi. Se te la senti, posso escludere le altre auree per farti percepire solo quella di Fenrir. Noterai subito la differenza.” Poi, lanciata un’occhiata a Jerome, aggiunse: “Non è pericoloso, Skŏll. Rinfodera gli artigli, mio lupo. Non mi permetterei mai di farle del male."
 
“Jer… non innervosirti. Non penso che la tua amica voglia ferirmi, visto che si è sobbarcata questo viaggio per noi. Ti pare?” lo rabbonì a sua volta Cynthia, dandogli una pacca sulla mano destra.
 
“Scusate entrambe. E’ che, quando si parla di Fenrir, mi agito sempre un poco” borbottò il licantropo, sbuffando sonoramente.
 
Non mi permetterei mai di farle del male, figliolo. E’ l’ultimo dei miei pensieri.
 
Jerome sobbalzò, di fronte a quell’intrusione mentale e, rabbrividendo leggermente, esalò: “Le mie scuse, Padre, ma…”
 
Ho la mia reputazione a precedermi, lo so e, per quanto voi siate la mia eredità, certe ataviche paure sono dure a morire. Ma, se non ti senti sicuro, puoi chiedere a mio figlio, no? Dovrebbe essere abbastanza obiettivo, poiché mi ha conosciuto nelle vesti di genitore, e non di dio della Distruzione.
 
Jerome, allora, diede retta a Fenrir e, incuneandosi nella sua anima come alcune volte faceva – Sköll, il primo Sköll, non era molto ciarliero, ma era piacevole ascoltarlo quando aveva voglia di parlare di se stesso – domandò: “Posso stare tranquillo?”
 
La sua energia è inimmaginabile ma ormai, anche grazie al dominio di Brie, è totalmente sotto controllo. Se anche la Prima Lupa escluderà le sue altre due nature, Cynthia non rischierà nulla. Posso giurartelo, Jerome.
 
“D’accordo… grazie. E scusa se sono un po’ iperprotettivo.”
 
Per Cynthia lo sarei anch’io, se fosse mia, ironizzò l’anima di Sköll, facendo sorridere il licantropo.
 
“Più tranquillo?” domandò allora Brie che, sicuramente, aveva seguito quello scambio di battute.
 
“Procedi pure” assentì a quel punto Jerome.
 
Afferrata gentilmente una mano a Cynthia, Brianna chiuse gli occhi e mormorò nella sua mente: “Pronto a dare spettacolo?”
 
Se vuoi, le parlo. Questo lo posso fare, contrariamente a te.
 
“Oh… ma dai? Davvero?”
 
Sarò anche in un involucro umano - molto carino e intelligente, bada bene - ma sono pur sempre un dio.
 
“Sbruffone” ironizzò Brianna, facendosi però da parte.
 
Cynthia…
 
La donna, sobbalzando sulla sedia, esalò: “Oh, cielo! Chi è stato?!”
 
“Fenrir. Vuole parlare con te” le spiegò Brianna, trattenendo la sua mano per darle conforto.
 
Non volevo spaventarti, ma rassicurarti, e dirti che hai la mia benedizione, oltre a quella che ti imporrà Brianna come wicca. Vedo come rendi felice mio figlio, e questo è per me fonte di gioia. Tutti gli altri problemi si risolveranno. Ora, pensa solo che nessuno potrà farti alcun male. Noi siamo qui con te, e per te.
 
“Beh… grazie…” sussurrò Cynthia, scoppiando in una risatina vagamente isterica. “E’ proprio vero che, con te, non ci si annoia mai, Jer!”
 
“Poco ma sicuro” assentì lui, baciandola sul capo prima di sillabare la parola ‘grazie’, rivolta a Brianna.
 
Ritirando la mano, la giovane wicca dichiarò: “Molto bene. E ora, procediamo alla barriera mistica. Con questa, nessun lupo si sognerà mai di fare anche solo uno starnuto nelle tue vicinanze.”
 
Scoppiando a ridere per quell’esempio apparentemente assurdo, Cynthia domandò loro: “Ma perché… i lupi prendono il raffreddore?”
 
“Eccome, se lo prendono” brontolarono i due licantropi, chiaramente scocciati da quella possibilità.
 
***
 
Seduta accanto a Cynthia, le gambe che pencolavano dal muretto di cinta ove si erano fermate, Brianna lanciò un’occhiata tutt’intorno prima di domandare: “Come hai scoperto chi fosse in realtà Jerome? Solo avvertendo la sua aura?”
 
“Anni addietro, conobbi un dottore licantropo. Naturalmente, all’epoca, non sapevo che lo fosse. Sapevo soltanto che aveva un’energia speciale nelle mani, e lui mi disse che questa energia mi avrebbe aiutato a stare un po’ meno male.”
 
Assentendo, Brie mormorò: “Sì, in effetti i Percepenti possono assorbire parte delle nostre energie latenti. Così, questo dottore non ti disse mai chi era veramente.”
 
“Ero troppo piccola per capire, ma mi fece piacere saperlo al mio fianco. Era il mio angelo custode” le spiegò Cynthia, sorridendo a quei dolci ricordi. “Quando avvertii un’aura del tutto simile in Jerome, pensai fosse un parente del dottor Withlock. In seguito, fu Jer a spiegarmi come stavano in realtà le cose.”
 
“Devi averlo colpito molto, se si è arrischiato a rivelarti la sua vera identità” le fece notare Brianna.
 
Cynthia rise dolcemente e, annuendo, ammise: “Mi baciò, dopo aver parlato con me, al nostro primo incontro. Fu una cosa strana, e mi sentii anche un po’ sciocca per aver apprezzato così tanto un gesto simile da un perfetto sconosciuto, ma sapevo che era… giusto.”
 
“E molto da Jerome. E’ assai fisico, …più ancora del normale, per noi licantropi” assentì Brianna. “E’ un uomo impulsivo, quando si tratta di donne o, per lo meno, lo era fino a qualche anno addietro. Con te, invece, è molto attento e paziente. E non dipende dalla cecità. Ci tiene davvero molto, a te. Ti ama sinceramente.”
 
“E io amo lui, anche se so di frenarlo.”
 
Scrollando le spalle, Brie replicò pratica: “J non farebbe mai nulla, se non lo volesse. E’ una creatura solare per natura e dall’animo libero e, da quel poco che ho visto, con te brilla. E lui fa brillare te.”
 
“In che senso?” volle sapere Cynthia, sorpresa da quell’uso delle parole.
 
“Ogni creatura vivente è dotata di una propria luce interna e, come wicca, io posso vedere queste luci. La tua è sfolgorante, quando sei con lui” le spiegò Brianna, dandole una pacca sulla spalla.
 
Un attimo dopo, però, si irrigidì e, volgendo il capo, mormorò torva: “Ecco la tua persecutrice.”
 
“La avverti?” sussurrò la dottoressa, stringendo nervosamente le mani in grembo.
 
“Sì. E’ così sfacciata da non fare nulla per nascondere la sua aura. Se ci fosse qualche sensitivo come te, nei paraggi, avrebbe un attacco di prurito devastante” brontolò Brianna, levandosi in piedi. “La blocco prima che ti si avvicini. Con l’aura così esposta, potrebbe darti parecchio fastidio.”
 
“Grazie” mormorò Cynthia.
 
“Di nulla. Questo e altro, per J” ammiccò Brie, allontanandosi a grandi passi.
 
Accanto a lei, Rocky uggiolò.
 
“Non credo che le farà del male, Rocky. Brianna mi sembra abbastanza forte per reggere qualsiasi incontro” mormorò bonaria Cynthia, rivolta al suo cane.
 
L’unica a correre pericoli, è quella sciagurata.
 
Sbattendo le palpebre, confusa, la donna mormorò: “Fenrir?”
 
Ho pensato volessi una telecronaca dell’evento, visto che non puoi godertelo di persona.
 
Sorridendo divertita, Cynthia replicò mentalmente: “Con tutto il rispetto a lei dovuto, ma… non parla come una divinità.”
 
Passa anni e anni nella testa di una ragazza come Brianna, e acquisirai anche tu un certo slang.
 
“Oh, giusto. Ebbene, signor Fenrir, cosa sta succedendo?”
 
Solo Fenrir, cara, e dammi pure del tu. Comunque, Brianna si è fatta riconoscere, e le sta facendo notare che il suo comportamento è da veri idioti.
 
“Con queste esatte parole?”
 
No, ci sta andando giù più pesante, ma non volevo essere scurrile.
 
“Oh, …molto obbligata” sorrise Cynthia, trovando tutta quella conversazione davvero assurda.
 
Ancora faticava a credere di stare parlando con un dio, eppure era sveglia e lucida e, a meno che non fosse del tutto impazzita, stava succedendo davvero.
 
Anche Brianna ebbe qualche difficoltà ad accettare tutto, all’inizio. Le vostre menti sono molto simili, tra l’altro, perciò so che non avrai problemi, col tempo, a prendere per buono il nostro mondo.
 
“Credi che dovrei farmi trasformare da Jerome, una volta che avrò terminato il mio Master?”
 
E’ una decisione che spetta solo a te, ma mio figlio ti ama così come sei, perciò non è la mutazione che ti deve preoccupare.
 
“E cosa, allora?”
 
Devi capire se questo mondo può essere il tuo, indipendentemente dalla tua mutazione o meno.
 
“Non devo preoccuparmi di Freki?”
 
Di Sarah? Può sembrare molto protettiva e feroce, ma ama i suoi figli, perciò capirà ogni cosa, quando ti vedrà. E passerà sopra anche al fatto che sei umana.
 
“Lo spero…”
 
***
 
La brunetta che Brianna aveva incrociato lungo il marciapiede aveva un’aura davvero forte ma anche assai disarticolata, perciò fu semplice farle, per così dire, lo sgambetto.
 
Brianna le si avvicinò a passo di carica e, senza perdere tempo, le scaricò addosso la sua energia residua senza badare troppo all’etichetta.
 
Chi si comportava in maniera così esplicita e maleducata, non meritava il guanto di velluto.
 
La reazione della ragazza fu immediata.
 
Incespicò nei suoi stessi piedi, la fissò arcigna per un momento e, quando furono vicine, sibilò a denti stretti: “Come diavolo ti permetti di darmi fastidio? Questo territorio è mio!”
 
Brianna la scostò di malagrazia dal passaggio pedonale, portandola nei pressi di un prato poco distante. Lì, avrebbero avuto modo di confrontarsi senza attirare troppo l’attenzione.
 
“Nessun capobranco governa questo territorio, ho controllato prima di giungere qui, perciò frena la lingua, garmr1. Sei al cospetto di qualcuno che, invece, ha un titolo e un ruolo ben definiti, all’interno del suo branco di appartenenza. Porta rispetto e china il capo. Da brava.”
 
Ciò detto, Brianna lasciò che il suo potere di wicca venisse a galla come un’eruzione di lava da un cratere.
 
Questo fece impallidire la brunetta che, accigliandosi, esalò: “Una strega non può essere anche un lupo! Sei… sei un abominio! Questo è contro natura!”
 
Brie sbuffò. Quante altre volte, nel corso degli anni, le avrebbero dato dell’abominio?
 
Non le era bastato dover sopportare Sebastian? No, ci voleva anche quella ragazzetta presuntuosa, adesso.
 
“Quindi, qui ci chiamate streghe? Come quelle di Salem, forse? Comunque, è storia vecchia, mia cara. Mi hanno già chiamata così e guarda caso, chi l’ha fatto, ora sta marcendo nelle prigioni di Svartalfheimr, controllato dai nani oscuri in persona. Vuoi fare la sua stessa fine, figliola?”
 
Indietreggiando di un passo, la ragazza lanciò un’occhiata alle spalle di Brianna, alle persone che placide se ne andavano avanti e indietro per l’ateneo.
 
Fu solo dopo alcuni secondi che scorse Cynthia e, sputando un’imprecazione, le ringhiò contro: “Se sei venuta per lei, ti avverto. Non potrai proteggerla in eterno. Dopo la tua tirata da spaccona, saprò ben io come farla pagare alla tua amichetta umana. Rimpiangerà il giorno in cui ti ha chiamata in mezzo a questa faccenda.”
 
“Oooh, ma allora non capisci!” sbottò Brianna, sorridendole gelida. “Tu non toccherai neppure un capello a quella donna, perché è sotto la protezione di una wicca e, se non lo sai, il mio potere può seguirla – e proteggerla – anche se io non sono presente. Inoltre, grazie al tuo gesto idiota, non solo io la proteggerò…”
 
…ma avrai a che fare anche con me!
 
La voce di Fenrir rimbalzò nella mente della brunetta come un colpo di maglio, facendola barcollare fisicamente.
 
Mai mi sarei aspettato un comportamento così irriguardoso, da parte dei miei figli. La mancanza di capiclan di antica stirpe, nelle terre americane, ha prodotto generazioni di vagabondi, a quanto pare. Da quel che mi sembra di capire, neppure i tuoi genitori ti hanno insegnato a vivere nel modo corretto in un mondo che condividiamo in pace con gli umani. Forse, dovrei porre rimedio io stesso, a questo problema.
 
“Chi… chi sei?” balbettò la giovane studentessa nella sua mente ansiosa. “Perché avverto un potere così enorme intorno a me?!”
 
“Tu cosa credi che sia?” domandò a sua volta Brianna, parlando direttamente alla sua mente, ora terrorizzata. “Non mi piace impormi, o imporre la presenza di Fenrir, ma non mi hai lasciato scelta. Hai dato fastidio a una mia amica, alla compagna del mio Sköll e a una protetta del nostro Progenitore. Un bel risultato, complimenti, per una volta sola.”
 
“Non merita di conoscere il nostro segreto, e rimanere anche umana! Mio padre sa di Sköll e degli altri titoli che usate oltreoceano, ma dice che qui non contano nulla, che noi possiamo fare come vogliamo! Non ho paura di te e delle tue esibizioni da quattro soldi!” protestò stupidamente la ragazza “Inoltre, se il tuo lupo la voleva nella sua vita, doveva trasformarla, invece di lasciarla vivere nella sua forma impura e imperfetta!”
 
“Attenta a quel che dici. E perché mai non dovrebbe rimanere umana? Da quando in qua i lupi sono diventati così razzisti, da queste parti?”
 
“Qui funziona così. Non sottostiamo a stupide e vecchie regole” borbottò la brunetta, mettendo il broncio e fissandola con occhi colmi di sfida, oltre che di paura. “Nessun Fenrir può dirci come e quando dobbiamo fare le cose. Nessuno ci governa. Siamo liberi come dovrebbe essere qualsiasi lupo, e gli umani non fanno parte del pacchetto.”
 
“Oh, e così fate ciò che vi pare, vero? Complimenti! E quando verrete scoperti, cosa farete? A chi vi affiderete? Nessuno vi proteggerà, perché voi per primi non vi siete protetti!” sbottò Brianna, accigliandosi.
 
“Siamo più forti di loro…”
 
“E in minoranza numerica” sottolineò la wicca. “Vi ritroverete su un tavolo operatorio per essere vivisezionati, ecco che fine farete se non cercherete di creare un ordine dal caos.”
 
La brunetta sbuffò, ma il panico sorse imperioso a sostituire il suo senso di fiducia nei propri mezzi.
 
Alla fine, era davvero come una bulletta di quartiere. Messa con le spalle al muro, non sapeva più che dire, o fare.
 
“Sei proprio un garmr. Abbai, abbai ma, al minimo cenno di pericolo, guaisci come un cucciolo spaurito. Scommetto che, se adesso ti dicessi di saltare su una gamba, lo faresti” brontolò Brianna, disgustata.
 
“Non sei diversa da me…” protestò la ragazza.
 
“Pensi mi stia divertendo a imporre la mia superiorità? Mi fa schifo! Ma mi ci hai costretta. Hai dato fastidio – pur se indirettamente – a un lupo a te superiore, e questo ha richiesto che la sua Prima Lupa intervenisse. Si chiama gerarchia, cara, e tu dovresti imparare a conoscere i tuoi limiti, prima di pestare i piedi a qualcuno di troppo grande per le tue possibilità.”
 
***
 
Impressionata dallo scambio di battute che stava svolgendosi a pochi passi da lei, pur se tutto stava avvenendo nelle menti delle due contendenti, Cynthia esalò: “Non pensavo esistesse un simile potere. E Brianna riesce a imbrigliarlo senza problemi?”
 
Questo è niente, in confronto a quello che può sviluppare. Ma è meglio che tu non sappia mai cosa può fare, perché allora sarebbero guai seri.
 
“Beh, non penso possa far scoppiare il mondo, ti pare?” ironizzò Cynthia.
 
Non avvertendo alcuna risposta da parte di Fenrir, però, esalò turbata: “Non può… vero?”
 
Non tutte le storie sul mio conto, sono fasulle.
 
“Oh…” gracchiò Cynthia.
 
Direi che non devi comunque preocc… oh, toh! Le sta dando il suo numero di telefono.
 
“Come?” esalò Cynthia, sorpresa.
 
Brianna lo fa, ogni tanto. Preferisce la parola, alla verga. Ora sta tornando, perciò il resto te lo spiegherà lei.
 
“Grazie… di tutto.”
 
Di nulla, fanciullina. Di nulla.
 
Quando Brie tornò ad accomodarsi accanto a Cynthia, le domandò: “Chiacchiera molto, vero?”
 
“Ma è stato assai gentile. Come fate a dividervi a questo modo? Non ti confonde sentirlo parlare, mentre tu sei impegnata in tutt’altra attività?”
 
“Abitudine. E anni di addestramento. Volevo che fosse un po’ più libero di quanto non può esserlo normalmente, confinato com’è nella mia testa, così abbiamo iniziato ad allenarci a suddividere i miei e i suoi pensieri” scrollò le spalle Brianna. “Comunque, la tipa non ti darà più fastidio.”
 
“Posso chiederti come, se lecito? A un certo punto, ho chiacchierato con Fenrir, e abbiamo più seguito il vostro interludio.”
 
“Oh, è semplice. Le ho detto che le avrei staccato la testa a morsi, se ti avesse toccata e, grazie alla protezione che ho esteso su di te, le sarà impossibile toccarti. Ma, se provasse a minacciarti, lo saprei subito.”
 
Cynthia fece tanto d’occhi, sapendo che non scherzava affatto. La sua voce non mostrava alcun cenno di ironia.
 
“Lo faresti… sul serio?”
 
“Non so quanto sai delle regole all’interno di un branco, ma minacciare un umano è uno dei crimini più gravi concepiti nel nostro sistema giudiziario. A seconda del crimine commesso, viene inferta una punizione corporale adeguata.”
 
“E… staccarle la testa, sarebbe stata la sua punizione?” esalò Cynthia.
 
Annuendo, pur sapendo quanto fosse inutile, in quel caso, Brianna asserì: “Sei la compagna del mio Sköll, e sei umana. Sei doppiamente preziosa, e doppiamente da proteggere.”
 
“Gli vuoi davvero molto bene…”
 
“A quel mattacchione di J? Eccome. Ma voglio essere onesta, con te. Non lo faccio solo perché gli voglio bene. Il tuo essere umana ti rende preziosa anche dal punto di vista evolutivo. Non è una cosa che posso lasciar correre, anche se ti fa sembrare solo un oggetto, …cosa che assolutamente non sei.”
 
Cynthia, però, sorrise e le batté una mano su un braccio.
 
“Non devi scusarti, Brianna. Sono un medico anch’io, anche se mi occupo della mente, e non del corpo. So cosa comportano le leggi evolutive, e Jerome mi ha spiegato perché è difficile, per una mannara, portare a termine la gravidanza.”
 
“Non dico che Jerome debba metterti incinta…” sottolineò Brianna. “… ma è una cosa che devo valutare, come Prima Lupa del mio branco. Perciò, ti ho protetto perché lui ti ama, tu ami lui e il tuo essere umana è un dono prezioso. Da non denigrare affatto.
 
“Ti ringrazio per la tua sincerità e, soprattutto, per esserti sobbarcata questo viaggio per noi due. Non tutti l’avrebbero fatto. Gerarchia o meno che sia.”
 
“E’ la prima volta che J mi chiede un favore, perciò l’ho assecondato ben volentieri” sorrise Brie, carezzando una spalla a Cynthia. “Inoltre, ho approfittato di questa opportunità anche per capire come funzionano le cose qui in America.”
 
“Oh… coi lupi, intendi?”
 
“Sì. Da quel che mi ha spiegato quella ragazza, ci sono ben pochi branchi attivi, e molti lupi errabondi e senza clan, che addirittura non conoscono nulla del proprio passato. Dopo averla strigliata per bene, ho capito che, in fondo in fondo, era solo spaventata e incapace di capire come comportarsi senza una guida, così le ho dato il mio numero perché si metta in contatto con me, qualora ne avesse bisogno” si limitò a dire Brianna, facendo spallucce.
 
“Immagino che questo comporti non pochi pericoli” ne convenne Cynthia.
Annuendo, Brie aggiunse: “Se i lupi si cacciassero nei guai, non ci sarebbero wiccan nella zona a salvare loro e il loro segreto, compromettendo la sicurezza di molti. Se, però, qualcuno fosse interessato a diventare un po’ meno selvaggio e un poco più civilizzato per maniere e comportamenti, io potrei dare loro una mano, così eviterebbero di farsi beccare.”
 
“Parla la wicca, o Fenrir?”
 
“Tutta quanta me. Mi piace creare unioni, piuttosto che divisioni” sorrise Brie. “E ora, sarà meglio che chiami J, prima che gli venga un infarto.”
 
***
 
Sciogliendosi dall’abbraccio caloroso di Jerome, Brianna salutò con un bacio sulle guance anche Cynthia e, nell’afferrare il suo trolley, ricordò loro: “Chiamatemi ancora, se dovesse esserci bisogno di me per qualsiasi cosa.”
 
“Contaci” annuì Jerome, sorridendole.
 
“E’ stato un piacere conoscerti, Brianna, e grazie ancora per quello che hai fatto per me. Per noi” aggiunse Cynthia, stringendo con mani tremanti la maniglia del suo cane guida.
 
Afferrando d’impulso quelle mani, Brie espanse la sua aura calda e carezzevole per chetarla e, dolcemente, le disse: “Sei una sorella, ora. E ci si aiuta, in famiglia. Sappilo sempre. Qualsiasi cosa deciderai per te stessa.”
 
“Grazie” mormorò Cynthia, annuendo.
 
Con un saluto, Brie si diresse quindi verso il check-in e Fenrir, nella sua mente, asserì: I miei complimenti. Hai gestito molto bene l’intera situazione.
 
“Spero solo che anche Sarah la penserà così, quando saprà che io sapevo molto prima di lei” si lagnò Brie, un po’ preoccupata.
 
Anche Jerome è teso, all’idea di dirlo a sua madre. Ma, dopotutto, Sarah è una brava persona, oltre a essere assai intelligente.
 
“E’ una mamma. Una mamma mooolto protettiva. Ed è un Freki. Un Freki mooolto bravo. Fai due più due, e cosa risulta?”
 
Fenrir non rispose per un minuto buono. Alla fine, però, mugugnò: Un potenziale disastro.
 
“Ecco, vedo che siamo d’accordo, su questo punto” sospirò Brianna, mettendosi in fila.
 
Sperò con tutto il cuore di sbagliarsi.
 
Ma da quando la iella non la ascoltava, e non metteva il becco per smentirla?
 
 
 
 
 
 
____________________________
1 garmr: cane a protezione dell’entrata del regno di Hell. E’ assai rabbioso e coperto di sangue, ma un’anima può passare senza danno, se gli offre del pane imbibito del suo sangue.
Insomma, abbaia, abbaia, ma si fa anche alla svelta a rabbonirlo. Per questo, Brianna definisce la ragazza una ‘garmr’.

 


 
N.d.A.: Non ci rimane che capire se Jerome avrà il coraggio di dire tutto alla madre, o se manterrà il segreto per evitare ripercussioni. Secondo voi, che farà?
 
Grazie a tutt* per aver continuato a seguire le vicende dei nostri amici lupi!

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Capitolo 8
*** Jerome's Secrets - Parte 5 (Maggio 2018) ***


 
Jerome’s Secrets – Part 5
(Maggio 2018)
 
 
 
Sarah stava sistemando il contenuto delle borse della spesa nella dispensa quando, a sorpresa, scorse la figura del primogenito oltre la superficie trasparente di una finestra.
 
Jerome sedeva distratto sul ceppo tagliato di un abete secolare, morto l’inverno passato, e pareva perso in mille e più pensieri.
 
Ma non fu tanto la sua espressione stralunata a convincere la donna a uscire, quanto l’aura screziata che avvolgeva il figlio. Era visibile a occhio nudo, per un licantropo, e in quel momento non sembrava affatto sotto controllo.
 
Jerome era sempre stato, nel bene e nel male, un ragazzo gioviale, allegro, a volte un po’ infantile, ma mai tenebroso o cupo. Duncan e Lance lo erano stati molto più di lui, fin da quando lei aveva memoria.
 
Certo, con la nascita di Keeley, l’Hati del branco aveva perso gran parte della sua aura ombrosa, così come Duncan che, grazie a Brianna, aveva iniziato a brillare di luce propria.
 
Ne era felice, per entrambi e, proprio per questo, l’aspetto turbato del figlio la colpì come un maglio. Che mai era successo, da ridurlo in quello stato?
 
Nathan, il primogenito di Brianna e Duncan, stava bene e, a un anno dalla sua nascita, si poteva dire tutto, di lui, tranne che non fosse un bebè allegro e pieno di iniziativa.
 
Le cose tra i clan, inoltre, non potevano andare meglio. Da quel che sapevano del nuovo acquisto del clan di Falmouth, William Darcy, l’uomo sembrava essere un Primo Lupo d’eccezione, oltre che un lupo dalle capacità più uniche che rare.
 
La sua doppia natura di umano (ora mannaro) ed elfo ma, soprattutto, l’amore che lo legava a Cecily, lo rendevano un licantropo d’avvero eccezionale.
 
Rimuginando sull’argomento berserkir, che si trovavano in Gran Bretagna ormai da tempo, non trovò nulla di sua conoscenza che potesse aver creato dubbi o pensieri al figlio. Tutto si stava svolgendo più che bene, e coloro i quali si trovavano sul loro territorio andavano d’amore e d’accordo con tutti.

Il problema, perciò, non poteva venire da lì.
 
Loki o Hell non avrebbero potuto reincarnarsi se non tra molti secoli e, mai più, avrebbero potuto prendere possesso di un licantropo o un uomo-orso. Ergo, cosa stava succedendo al suo solitamente gioviale figliolo, ormai gagliardo trentacinquenne?
 
Lasciando da parte sedano e cicoria, Sarah uscì quindi sul retro di casa, passando dalla porta di servizio che dava direttamente sul cortile.
 
All’esterno dell’abitazione, le radiazioni incontrollate dell’aura del figlio si fecero ancora più evidenti, e percepibili sulla pelle.
 
Infastidita, Sarah si passò una mano su un braccio, prima di domandare: “J, che succede?”
 
L’uomo, dai cortissimi capelli neri come pece – le lunghe e fluenti chiome che aveva portato per un certo periodo, erano ormai sparite da tempo – levò il capo a scrutarla e l’aura si azzerò all’istante.
 
“Ehi, ma’! Ciao!” esclamò lui, sorridendo bellamente nel farle un cenno col capo.
 
La donna, per nulla rassicurata da quel saluto, si pose dinanzi a lui in posizione dominante, a gambe ben assestate sul terreno e con le mani sui fianchi. Non amava che le si mentisse, soprattutto se a farlo erano i suoi figli.
 
I chiari occhi lo sondarono con attenzione, come avrebbe fatto un Freki in cerca di informazioni, e non come una madre in attesa di risposte e, subito, il figlio si accigliò.
 
“Che stai combinando?” mugugnò Jerome, sul chi vive.
 
“Pensi di incantarmi, figliolo, facendomi questo bel sorriso e salutandomi come se nulla fosse?”
 
“Stai parlando con Sköll, oltre che con tuo figlio, ma’, quindi vedi di rinfoderare gli artigli, perché potrei offendermi davvero” sottolineò Jerome, levandosi in piedi per imitarne la postura.
 
Ovviamente, essendo un membro della Triade, l’uomo la superava di tutta una testa, e il fisico possente di Jerome era il doppio di quello della madre. Non per questo, però, Sarah indietreggiò, o cambiò atteggiamento.
 
La donna sapeva benissimo come far parlare i suoi figli, quando facevano i ritrosi. A volte, le maniere forti erano l’unica soluzione possibile, quando si aveva a che fare con dei licantropi zucconi e, di maniere forti, un Freki ne conosceva a bizzeffe.
 
Fronteggiando lo sguardo astioso del figlio senza tema di fallire, Sarah si limitò a sussurrare: “Ho vent’anni più di te, ragazzo, e so come piegare qualsiasi preda mi capiti a tiro, anche se questa ha il mio stesso sangue e io l’amo come e più di me stessa. Perciò, rendi a entrambi le cose più facili. Parla, e dimmi cosa ti turba.”
 
Jerome, però, non cedette e, quando Jonathan tornò da una commissione a Matlock e capì immediatamente che aria tirasse tra i due, pensò bene di svicolare all’istante.
 
Quando la moglie era in caccia, era meglio non intervenire.
 
Da quel che poteva vedere in quel momento, Sarah doveva aver subodorato qualcosa di grosso. Meglio lasciarla fare, quindi.
 
Alla peggio, avrebbe raccolto i cocci più tardi, e dato a Jerome tutto il suo appoggio maschile incondizionato, e tenuto ben nascosto al figlio il suo affetto di marito nei confronti della moglie.
 
Non da ultimo, avrebbe espresso in gran segreto la sua soddisfazione per la bravura della moglie nello sgamare i peccatucci dei figli.
 
In silenzio, perciò, sgattaiolò in casa, dove trovò Erika e Gordon in salotto, le teste nei libri e la concentrazione a farla da padrone. I Master erano una scocciatura per chiunque, anche per due studiosi come loro. Meglio che non partecipassero alla competizione là fuori, pertanto.
 
Ci sarebbero state fin troppe ferite da curare, ne era sicuro.
 
Gli bastava dover badare a un solo figlio per volta e, di certo, Erika sarebbe partita a spada tratta per difendere il fratello.
 
No, meglio evitare.
 
Salutati i due giovani, perciò, si diresse tranquillo al piano superiore, sperando che i due contendenti in cortile non decidessero di darsele di santa ragione, prima di arrivare al dunque.
 
Tra licantropi, poteva capitare.
 
***
 
Sbuffando infastidito, Jerome lanciò un’occhiata alla porta di servizio ormai chiusa e borbottò: “Papà è un fifone. Non si è neanche avvicinato, quando ti ha vista in posizione da generale nazista.”
 
Scrollando le spalle, Sarah si sistemò una ciocca dei chiari capelli e replicò: “E’ saggio, e mi conosce. Tutta un’altra cosa.”
 
A quel punto, il figlio sbuffò sonoramente e, scrollando le braccia con fare infastidito, esalò: “E dai, ma’! Con te non si può neanche tentare di fare un po’ le vittime! Non puoi semplicemente lasciarmi qui nel mio brodo?”
 
Rivolgendogli un sorriso sinceramente spiacente, Sarah replicò: “Tesoro, cercherò sempre di capire come fare per aiutarti… anche cavandoti la verità con un tronchese.”
 
“Grazie” gracchiò per diretta conseguenza il figlio, storcendo la bocca in una smorfia disgustata.
 
“Ebbene… ora che hai fatto la tua parte di scorbutico figliolo sulle sue, posso sapere cosa ti ha portato qui fuori a fare la controfigura del Pensatore di Rodin?” gli domandò Sarah, passeggiandogli intorno con fare apparentemente tranquillo.
 
Jerome, però, non si fidò neppure per un istante di quel comportamento falsamente rasserenato e, sul chi vive, mugugnò: “Sono un uomo adulto da un pezzo, ma’ e, se te lo fossi scordata, sono indipendente da casuccia vostra da almeno un anno, perciò penso di godere di qualche libertà in più di movimento, rispetto a Erika. Non potremmo soprassedere su questo terzo grado? So risolvermeli da solo, i problemi.”
 
Illuminandosi in viso, la donna esclamò: “Allora, c’è un problema!”
 
Imprecando tra sé, Jerome si diede dell’idiota per aver accennato alla cosa e, intrecciate le braccia sul torace possente, ringhiò: “Mamma, smettila! Ho detto che penserò da solo alle mie questioni, perciò, per una volta, fatti da parte.”
 
Sarah si bloccò immediatamente dinanzi a lui, assottigliò le iridi perlacee e lo fissò con sguardo adamantino, accigliata. Un qualsiasi altro lupo sarebbe indietreggiato terrorizzato, innanzi a un’occhiata raggelante di quel calibro, ma non Jerome.
 
Non che non tremasse, ben intesi, ma non poteva cedere di fronte a sua madre. Per tutti gli dèi, insomma!
 
Doveva pur difendere il suo amor proprio, no?
 
Lo sguardo rimase lì, e così pure la convinzione di Jerome.
 
Tutt’intorno, l’aria appariva immota, e non un solo rumore osava turbare i due contendenti. Pareva quasi che l’universo stesso stesse attendendo una risoluzione di quello stallo alla messicana.
 
Il trillo del cellulare di Jerome colse, perciò, entrambi di sorpresa.
 
Se per Sarah, però, la sorpresa si tramutò in un semplice sollevarsi di sopracciglia, per Jerome volle dire un balzo all’indietro, con tanto di urletto femmineo.
 
Non molto edificante.
 
Afferrato alla svelta il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans, Jerome cercò di accettare la chiamata, ma Sarah lo precedette. Acchiappò il telefono dalle sue mani tremanti prima che cadesse e, premuto il tasto verde, esordì dicendo: “Pronto, chi è?”
 
La voce all’altro capo parve sorpresa, ma disse ugualmente: “Ehm, buongiorno. Sono la dottoressa Cynthia Graham. Trovo il signor Jerome Rowley?”
 
La sorpresa di Sarah crebbe di una tacca e, nello scusarsi con la donna, passò il telefono al figlio, azionando il vivavoce.
 
Vivavoce che Jerome non osò togliere e, deglutendo a fatica, gracchiò: “D-dottoressa, buongiorno. Ora sarei impegnato. Potrei richiamarla più tardi?”
 
La risata della donna avvolse il licantropo come una coperta e, sotto lo sguardo sempre più sorpreso di Sarah, la sua aura prese a sfrigolare.
 
A divenire incandescente.
 
Tutte tipiche esternazioni di un licantropo… in calore.
 
“Ho commesso una gaffe, Jerome?” mormorò la donna all’altro capo del telefono.
 
“Temo di sì. Anche se non è colpa tua, Cyn, ma di mia madre, che ha la stessa delicatezza di uno schiacciasassi, quando si tratta di noi figli” sbuffò Jerome, staccando con platealità il vivavoce proprio di fronte al volto accigliato di Sarah.
 
Non che servisse, visto l’udito dei licantropi, ma fu una piccola vittoria che Sköll si volle concedere, dopo essere stato beccato a quel modo dalla madre.
 
Madre che non pensò minimamente di allontanarsi e, anzi, si mise in attento ascolto della telefonata del figlio.
 
“Non hai ancora parlato con loro, vero? E dire che pensavo che, ormai, fosse cosa fatta. Con i miei genitori, non hai avuto tutti questi problemi” gli fece notare la donna, sempre con quel tono di voce tranquillo e vagamente divertito.
 
“Visto che mia madre è un Freki, puoi ben capire perché non le ho parlato di te. Stavo tentando un modo di approcciare la cosa, ma non è come parlare con i tuoi genitori” brontolò Jerome, fissando accigliato la madre, che fece tanto d’occhi nel sentirlo parlare a quel modo.
 
“Oddio, spero che ora non venga qui per predarmi!” rise con allegria la donna, per nulla preoccupata. “Anche se sarebbe interessante capire se sarei in grado di riconoscere in lei qualche differenza da te, visto il tipo di mestiere che fa.”
 
A quel punto, Sarah si accigliò e, fissato malamente il figlio, ringhiò: “E’ un’umana?!”
 
“Mamma, basta!” ringhiò a sua volta Jerome, sorprendendo la madre per l’intensità della sua veemenza. “Cynthia è a posto e, se solo tenterai di torcerle un capello, me la pagherai cara!”
 
“Jer… calmati. Mi sembra che tua madre abbia tutto il diritto di agitarsi, non ti pare?” lo chetò la donna al telefono, con tono sereno e pacifico.
 
“Non mi va che pensi male di te” brontolò Jerome, pur calmandosi un poco.
 
Sospirando, Sarah fissò allora figlio con maggiore contegno e domandò: “Non credi che abbia il diritto di sapere, ora?”
 
“Di’ a tua madre di venire qui in clinica. Sarei felice di conoscerla.”
 
Jerome non parve per nulla d’accordo ma assentì e, quando chiuse la telefonata, lanciò un’occhiata di rimprovero alla donna che l’aveva messo al mondo, ringhiando: “Per una volta nella vita, potresti smetterla di essere un Freki, quando parli con noi?!”
 
***
 
Accoccolata sul grande letto che divideva con il marito, Sarah poggiò il mento sulle ginocchia e, fissando accigliata la figura di Jonathan, borbottò: “Perché sono sempre dovuta essere io, quella cattiva?”
 
“Perché gli artigli li hai sempre sfoderati tu per prima, tesoro, mentre io dovevo contenerti e, nel peggiore dei casi, curare le ferite” replicò con gentile fermezza l’uomo, sorridendo nel deporre un bacio sul capo della moglie.
 
Lei gli mostrò i denti in una smorfia minacciosa, ma lui non le diede alcun peso. Terminò di spogliarsi e, dopo essersi immerso nelle coltri profumate, attirò a sé la moglie per abbracciarla.
 
“Ti sta ben fatta, tesoro. Devi capire che, ormai, i nostri figli sono adulti e, se vogliono tenerci nascosto qualcosa, ne hanno tutto il diritto.”
 
“Ma io…” tentennò la donna, non sapendo che rispondere.
 
“Lo so. Tu sei Freki, e scovare i problemi – e chi li causa – è innato in te ma, a volte, ai figli piace risolvere le cose anche da soli. Specialmente ai maschi” la irrise bonariamente lui, baciandole il naso.
 
“Avresti dovuto vedere la faccia di Jerome. Non mi aveva mai guardata così” sospirò la donna, poggiando la fronte sul torace importante del marito. “L’ho deluso, stavolta.”
 
“Perché, stavolta, non è la sua classica sbandata per una bella lupa” motteggiò Jonathan, carezzandole la chioma biondo scura. “Evidentemente, di quest’umana è davvero preso e, se le ha detto di noi, è perché si fida ciecamente. Avremmo dovuto capire che c’era qualcosa che non quadrava, quando ha deciso di andare a vivere da solo.”
 
“Aveva l’età giusta” mugugnò Sarah, pur sapendo che, in parte, il marito aveva ragione. Non era strano che i licantropi rimanessero in famiglia anche in età adulta. Era un buon modo per evitare che il loro segreto sfuggisse di mano anche in modo involontario.
 
“Verissimo. E, forse, lui è stato così ermetico con noi per non preoccuparci. Dopo quello che successe con Lance, chi non starebbe in ansia?”
 
“Ma, e se fosse… se fosse…”
 
Azzittendola con un bacio, il marito replicò subito alle sue paure.
 
“Non è una Cacciatrice. Non è una seconda Diane. Pensi che Jerome non sappia riconoscere la differenza? Siamo rimasti tutti colpiti da quell’evento, e nessuno di noi commetterebbe più il medesimo errore.”
 
“Ma al cuor non si comanda” mormorò dolente Sarah, rammentando fin troppo bene quanto, Lance, avesse patito per il tradimento della donna amata.
 
Era stata lei a dare la caccia a coloro che lo avevano voluto morto, lei che gli aveva consegnato i Cacciatori da dilaniare, lei che per prima aveva fatto sparire Diane.
 
No, non avrebbe permesso che suo figlio soffrisse le stesse pene.
 
Ma doveva il beneficio del dubbio a Jerome, anche se il suo istinto di Freki la faceva gridare dal nervosismo e dalla paura di sbagliare.
 
“Vai da lei senza pregiudizi, cara e, soprattutto… non sbranarla” le disse Jonathan, guadagnandosi per diretta conseguenza un morso sul collo.
 
***
 
Il centro riabilitativo dove lavorava Cynthia si trovava appena fuori Matlock, su Snitterton Road, sulle rive di un placido laghetto ricolmo di germani reali e cigni dal candido manto.
 
La struttura a un piano era di un rassicurante color panna, con vetri ombreggiati e una discreta targa sull’ingresso che ne declamava i compiti.
 
Centro di recupero disabilità motorie, uditive e visive.
 
Sempre più sconcertata, Sarah discese dall’auto assieme a Jerome che, muto sin dal giorno precedente, si avviò verso l’entrata con passo sicuro. Come se conoscesse quel posto come le sue tasche.
 
All’interno, alcune infermiere lo salutarono allegre, denotando una familiarità con lui che non passò inosservata all’occhio attento di Sarah. Quel che la sorprese, però, fu notare come alcuni pazienti, a loro volta, riconobbero e salutarono Jerome.
 
C’era un sentimento misto di piacere e affetto, nelle loro voci, così come nei loro occhi umani. Non un solo licantropo si trovava in quella struttura, però. Come aveva fatto, Jerome, a finire lì?
 
Tenendo il passo con il figlio, Sarah si ritrovò infine a fissare la porta a vetri satinati di un ufficio, su cui compariva il nome della dottoressa Cynthia Graham.
 
Psichiatra. Quella donna era una psichiatra?
 
Lì, Jerome entrò dopo un paio di colpetti al battente e, gelido, indicò alla madre di seguirlo.
 
Mi costerà molto, il mio impicciarmi sempre, questa volta, pensò contrita Sarah, cercando di apparire il più docile possibile.
 
Non che fosse facile, per un Freki, ma stavolta doveva davvero impegnarsi molto per recuperare la fiducia del figlio.
 
Ad attenderli trovò una donna molto alta ed esile, avvolta in un camice bianco e profumato di lavanda. Sotto di esso, indossava un comodo tailleur color cielo notturno su scarpe classiche, dal tacco basso.
 
Dimostrava all’incirca trent’anni e, sulle spalle, scivolavano lisci e lunghi capelli biondi.
 
Il sorriso con cui la accolse disse molto a Sarah, così come la sua mano levata. Ciò che la turbò un poco, invece, fu il notare la totale mancanza di ricerca di un incrocio di sguardi.
 
Fu in quel momento che comprese.
 
“Lei deve essere la madre di Jerome. E’ un piacere conoscerla, Mrs Rowley. Io sono Cynthia” esordì la dottoressa, mentre Sarah le stringeva la mano.
 
“Il piacere è mio, Cynthia” replicò Sarah, lanciando uno sguardo d’accusa al figlio, che però non le rispose in alcun modo, limitandosi ad avvolgere protettivo le spalle alla donna.
 
Donna che, evidentemente, amava al punto di schierarsi contro sua madre. Forse, contro tutto il branco.
 
“Oserei dire che non le hai detto proprio nulla, vero, Jer?” ironizzò la dottoressa, sorridendo all’uomo al suo fianco.
 
Un attimo dopo, lei rise dolcemente e, rivoltasi nuovamente a Sarah, dichiarò: “Sono cieca come una talpa, come avrà ormai immaginato da sola. Vedo un miscuglio molto vago di luci e ombre, ma nient’altro.”
 
Jerome le baciò protettivo il capo, mormorandole all’orecchio qualcosa che Sarah non comprese e la dottoressa, per diretta conseguenza, esalò: “Ma è vero, che sono cieca, Jer! Perché non dovrei dirlo? Tua madre se ne sarebbe comunque accorta a breve, non ti pare?”
 
“Non ti definirei mai una talpa, comunque” precisò lui, con tono serio e amorevole. “Sei molto più bella, e decisamente più brava nel muoverti.”
 
Sarah li osservò per qualche secondo ancora, incredula e spaesata di fronte a quel Jerome che sembrava non riconoscere affatto.
 
Reclinando colpevole il capo, Freki mormorò: “Di sicuro, la cieca sono io, qui dentro.”
 
“Forse” ringhiò Jerome, guadagnandosi per diretta conseguenza una gomitata da parte di Cynthia, che si lagnò dal male un attimo dopo.
 
“Tu e i tuoi benedetti addominali scolpiti” ironizzò la dottoressa, massaggiandosi il gomito dolente sotto gli occhi sorpresi di Sarah.
 
“E sì che ormai dovresti saperlo, come sono fatto” ghignò il giovane, dandole un buffetto sul naso.
 
Cynthia gli mostrò la lingua con fare complice, prima di mormorare: “Si segga, Mrs Rowley, e lasci perdere il caratteraccio di Jerome. Tende a essere molto protettivo, quando mi vede qui, anche se non ne ha davvero alcun motivo.”
 
Fu in quel momento che Sarah percepì qualcosa che non avrebbe dovuto affatto esserci e, assottigliando le iridi perlacee, affrontò il figlio e domandò: “Perché l’aura di Brie la protegge? Lei, dunque, sa? E anche Duncan?”
 
Jerome si accomodò con fare sgraziato e accavallò le gambe, ordinando alla madre di fare lo stesso.
 
Quando Sarah l’ebbe accontentato – e Cynthia si fu accomodata alla sua scrivania – lui ammise: “Lo sa da due anni a questa parte. E no, Duncan non ne è a conoscenza. Volevo sondare il terreno per capire come l’avresti presa, e mi scoccia ammetterlo… avevo ragione da vendere a voler tacere.”
 
“Jer!” sbottò Cynthia, accigliandosi. “Stai pur sempre parlando a tua madre.”
 
Lui le mostrò i denti per un attimo e la donna, per diretta conseguenza, borbottò: “Oh, no, non metterai il broncio con me, Jerome Rowley. Stai sfidando una Sociologa e una Psichiatra a un battibecco senza senso. Non mi batterai mai nelle battaglie mentali. Sappilo.”
 
Jerome, allora, sbuffò con un mezzo sorriso, ammettendo: “Sì, lo so, mi freghi sempre, ma ho davvero le scatole girate, ora.”
 
“E non pensi che tua madre, pur con tutta la sua pazienza, non sia giustamente arrabbiata a sua volta?” gli rinfacciò lei, reclinando il viso nella direzione in cui si trovava Sarah.
 
Com’era in grado di trovarla con così tanta facilità, si chiese Freki, scrutandola con intenzione.
 
“Posso sapere da quanto tempo vi conoscete?” intervenne a quel punto Sarah, scrutandoli entrambi.
 
“Direi quattro anni, ormai” dichiarò con semplicità la dottoressa, sgomentando Sarah.
 
Quattro. Anni? E, in quattro anni, lei non si era mai accorta di nulla?
 
Possibile che Jerome le avesse tenuto nascosto un rapporto apparentemente così importante, e per tanto tempo?
 
Per una volta nella vita, potresti smetterla di essere un Freki, quando parli con noi?!
 
Sarah rammentò bene l’accusa del figlio, il suo sguardo ferito e, in quel momento, ne comprese i motivi.
 
Nel bene e nel male, un Freki sarà sempre guardingo nei confronti delle novità. E’ nella sua natura.
 
Dopo gli eventi legati a Lance, tutto era stato più difficile per lei. Si era sentita ancor più in dovere di prima, di badare a che le cose andassero per il verso giusto.
 
Dopotutto, Freki non era solo il sicario del branco, ma controllava anche le sentinelle, essendo egli il miglior cacciatore del clan.
 
Compito suo era tenere d’occhio i confini del territorio e, assieme a Geri, cacciare gli invasori – o i traditori – per ordine di Fenrir. A maggior ragione, aveva sempre tentato di tenere il dolore e il pericolo lontani dai suoi figli.
 
Ma aveva tenuto lontano anche, e soprattutto, le sue stesse creature?
 
A quanto pareva, sì.
 
Lappandosi le labbra con espressione ferita, Sarah domandò ancora: “In che… in che occasione vi siete conosciuti?”
 
Cynthia lanciò uno sguardo cieco in direzione di Jerome – seduto al fianco della madre – quasi sapesse a menadito dove si trovasse in ogni momento.
 
E forse era davvero così.
 
“Jerome è finito nel laghetto qui dietro, nel tentativo di recuperare una delle nostre giovani pazienti” le spiegò la dottoressa, sorridendo con dolcezza.
 
Tossicchiando imbarazzato, lui aggiunse: “Stavo facendo una corsetta nei boschi dei dintorni, quando ho udito delle grida e sono accorso qui. C’era una gran frenesia, ma ho capito subito dove fosse sorto il problema. Uno dei pazienti era uscito di nascosto e aveva finito col perdersi, avvicinandosi troppo al laghetto.”
 
“L’ha riportata a galla e riconsegnata nelle mani delle infermiere, dopodiché si è voluto assicurare personalmente che stesse bene. Ha passato ore, qui” ricordò Cynthia, sorridendo con amorevole affetto.
 
“Non farla più grande di quel che è, Cyn. Non ho mica volato sulla luna e ritorno, sai?” borbottò imbarazzato Jerome, pur sorridendole.
 
Lei accentuò il suo sorriso e, rivolta a Sarah, dichiarò: “Suo figlio è molto modesto, sa?”
 
“E anche molto bravo a mantenere i segreti. Non l’avrei mai pensato” mormorò la donna, lanciando uno sguardo al figlio, tutt’ora accigliato.
 
“Che cosa avrei dovuto fare? Se anche vi avessi detto che Cynthia è una Percepente, sareste stati tutti quanti sul piede di guerra, perché è umana” brontolò Jerome, sulle sue.
 
“Una …Percepente?” ripeté sorpresa Sarah, comprendendo il perché dei movimenti così sicuri della donna. Avvertiva le loro auree!
 
“Esatto” borbottò Jerome, sempre ombroso in volto.
 
“Anche Gordon e Mary Beth giunsero nel branco da umani” sottolineò la madre, tentando di chetarlo.
 
“Erano circostanze eccezionali, e loro avevano il sostegno di Brianna che, di fatto, conta un tantinello più di me, o della mia parola” sbroccò l’uomo, sbuffando sonoramente.
 
“Non pensarlo neppure!” ringhiò Sarah, prima di contenere la rabbia con la sola forza di volontà. “La tua parola vale quanto quella di chiunque altro.”
 
“Oooh, andiamo, ma’! Pensi davvero che non sappia che tutti mi considerate uno scapestrato Casanova, e basta?” la rabberciò lui, senza alcun riguardo.
 
Cynthia sorrise divertita, e motteggiò: “Un Casanova molto affascinante, oserei dire.”
 
“Cyn, dai… cerco di essere serio. Non remarmi contro” brontolò lui, arrossendo un poco.
 
“Anch’io, Jer, e sentirti parlare così ferisce tua madre, temo. Non penso proprio che tu venga giudicato solo e unicamente come un perdigiorno. Io non lo penserei mai, per lo meno” sottolineò Cynthia, tornando seria.
 
“L’hai detto a Brianna. E lei è Prima Lupa e wicca. Ti avrebbe dato lei il salvacondotto per Cynthia, così da presentarla al branco, a tutti noi. A me” gli rammentò Freki, sentendosi sconfitta per vari motivi.
 
Quanto aveva ferito il figlio, con la sua rigidità? Davvero la temeva così tanto da non fidarsi di lei, neppure avendo alle spalle il consenso della loro wicca?
 
Incurante dello sguardo furioso di Jerome, Cynthia si levò dalla poltroncina e, dopo aver oltrepassato la scrivania, allungò una mano in cerca di Sarah.
 
Quando quest’ultima si lasciò trovare, sorrise e disse: “Il suo è un potere diverso da quello di Jer, più affilato e… freddo. Ma non in senso negativo. Come di qualcuno abituato a soppesare sempre pro e contro. Deve essere una cacciatrice incredibile.”
 
Jerome sbuffò irriverente ma, prima ancora di Sarah, fu Cynthia a richiamarlo all’ordine.
 
“Oooh, piantala, Jer! Se la metà delle cose che mi hai raccontato sono vere, vorrei ben vedere che tua madre non fosse così! E non fosse giustamente preoccupata per te!”
 
“Che c’è? La difendi anche, adesso? Se l’avessi lasciata fare, ti avrebbe sbranata senza avere neanche l’accortezza di chiedermi come sei!” brontolò Jerome, ormai fuori dai gangheri.
 
Sarah tentò con tutta se stessa di non rispondere alle accuse, ma fallì miseramente.
 
“Cosa te lo fa pensare, sentiamo? Proprio tu che sei Sköll, dovresti sapere che io agisco solo su ordine di Fenrir. Non avrei mai preso decisioni personali e, soprattutto, dettate da mie paure irrazionali. Inoltre, ti ricordo per la terza volta che Brianna era dalla tua parte!”
 
“Ammetti, allora, che le tue sono solo paure!” le ritorse contro il figlio, poggiando le mani sui braccioli della poltrona.
 
“Sei mio figlio!” sibilò Sarah, ai limiti del pianto.
 
Jerome ammutolì, a quella vista e Sarah, approfittando del suo silenzio, mormorò con maggiore contegno: “Sarò sempre preoccupata per te ed Erika. Finché avrò fiato nei polmoni. Siete carne della mia carne, perciò scusami se questa cosa mi ha scioccata a morte!”
 
Cynthia squadrò Jerome senza vederlo, come a dire: ‘E bravo, l’hai fatta piangere…’
 
Grattandosi la nuca con fare nervoso, Jerome, allora, borbottò: “Okay, dai, ma’. Non piangere. L’ho gestita male, va bene? Ma tu parti sempre in quarta, e pensavo che… che, insomma, anche se Brie sapeva tutto, non ti saresti accontentata. Dovevi essere tu, a essere avvertita per prima. Non il branco. Non Duncan. Solo, non sapevo come fare.”
 
Sospirando, Sarah sollevò la mano libera per chetarlo e, con un mesto sorriso, asserì: “Come dice tuo padre, io sono Freki, sempre e comunque, e il mio istinto parla prima del mio cervello. Ma vorrei scusarmi per non averti lasciato altra scelta che mentirmi.”
 
Cynthia allungò una mano e strinse nella sua quella di Jerome e, nel volgere lo sguardo verso Sarah, sorrise.
 
A Sarah parve che brillasse di pura gioia.
 
“L’appartamento lo ha preso per stare con te?” domandò poi Freki, senza alcun sottofondo accusatorio nella voce.
 
Cynthia annuì, mormorando: “Diciamo che è diventato necessario.”
 
A quel punto, Sarah sgranò gli occhi, si volse a guardare il figlio e, finalmente, comprese.
 
L’aura scombussolata, lo sguardo perso e preoccupato, la testa tra le nuvole.
 
“Jerome, voi…”
 
Lui la interruppe e, sospirando, scrollò le spalle nel dire: “Devo parlare anche con Duncan, a questo punto. Non posso più procrastinare.”
 
“Sì, sarà il caso. Penso che dovresti davvero presentargliela” assentì Sarah, ancora parecchio scombussolata da quell’ultima bomba.
 
***
 
Dopo aver poggiato sul tavolo del salotto un vassoio con del tè e dei biscotti al cioccolato, Brianna andò ad accomodarsi accanto al marito, che teneva in braccio Nat.
 
Jerome li scrutò senza dire nulla, indeciso se dire altro o meno, così fu Duncan a parlare.
 
Fenrir scrutò il volto pacifico di Cynthia, seduta su una delle poltrone accanto al camino spento, e disse: “Di sicuro, hai imparato davvero bene a mantenere i segreti. E’ un passo avanti enorme, per te. E, a quanto pare, anche tu hai migliorato molto.”
 
Jerome ghignò e Brianna, nel dare un bacetto a Duncan, asserì: “Era una situazione eccezionale. Diversamente, ti avrei detto tutto.”
 
Nel passare Nathan a Brianna, Duncan le sorrise e si alzò per servire il tè ai presenti.
 
Rimase in silenzio per tutta la durata delle operazioni e, quando infine consegnò la tazza a Cynthia, le domandò: “Ma sei sicura di poter davvero sopportare mio cugino?”
 
Lei rise sommessamente, e annuì.
 
Scrollando le spalle, allora Duncan tornò a sedersi e, intrecciate le gambe, chiosò: “Per me non ci sono problemi. E, visto che Brie ha steso su di te la sua benedizione, sono doppiamente tranquillo.”
 
Sentendosi chiamata in causa, la giovane si limitò a dire: “Posso solo dire che Cynthia mi piace. Ha un’aura positiva e luminosa, e i sentimenti che prova per J sono sinceri. Li avvertii chiaramente fin dalla prima volta in cui la vidi.”
 
Jerome storce un po’ il naso, a quei commenti, e borbottò: “Ragazzi, non per fare il pignolo, ma non stiamo passando un esame.”
 
“E invece sì, mio caro Sköll, per quanto mi dia noia il solo pensarci” sospirò Duncan, fissandolo spiacente. “Sai benissimo che Cynthia dovrà essere presentata al Vigrond, e il branco dovrà accettare la sua presenza nel clan.”
 
“Sì, ma…” iniziò col dire, subito bloccato da Cynthia.
 
“Dovrò passare un esame di qualche tipo?”
 
“No, Cynthia. Solo la Prima Lupa può essere sfidata a un’Ordalia” le spiegò Duncan, sorridendo un attimo a Brie, che ghignò. “Ma rimane il fatto che tu sei umana e, come è successo per il fratello e la matrigna di Brie, dovrai a tua volta essere presentata al branco perché ti accettino in seno alla comunità.”
 
“Si impunteranno perché nessuno la conosce” brontolò Jerome, facendosi ombroso.
 
Brianna, allora, si levò in piedi per raggiungere Cynthia e, dopo averle sfiorato un braccio, le chiese: “Puoi tenere Nathan in braccio per un attimo?”
 
“Volentieri” assentì con naturalezza la dottoressa, che allargò le braccia per accogliere il bambino.
 
Questi gorgogliò di gioia e afferrò la camicetta di Cynthia, facendola ridere.
 
Il bambino giocherellò con le dita della donna, ne succhiò una per un po’, dopodiché si esercitò coi denti, mordicchiando le nocche e le unghie.
 
Dopo un paio di minuti, Brianna si accomodò nuovamente accanto al marito e dichiarò: “Bene. Nathan la conosce, io la conosco e Duncan la conosce. Direi che sarà difficile che qualcuno possa dire qualcosa, quando la Prima Lupa, Fenrir e il Primo Cucciolo dichiareranno che Cynthia è persona gradita. Oddio, Nat dichiarerà poco, ma si capirà comunque.”
 
A quest’ultimo commento, tutti sorrisero e Jerome, passandosi una mano sul viso con espressione vagamente più rasserenata, esalò: “Pensi che basterà?”
 
Duncan, allora, si levò in piedi, raggiunse il cugino, si accoccolò vicino alla sua poltrona e mormorò: “Mio lupo, mio Sköll, pensi davvero che uno solo di noi non sarebbe d’accordo nell’accettare Cynthia nel branco?”
 
“Io, beh… lei è umana e…” tentennò lui, subito azzittito dal gesto del cugino.
 
Duncan gli carezzò una guancia con fare tenero, aggiungendo: “Dovrei essere insensibile per non vedere quanto la ami, e quanto lei ama te.”
 
“O cieco totale” aggiunse con ironia Cynthia, sorridendo in direzione di Duncan, che rise sommessamente.
 
“O cieco totale, per l’appunto” riprese Fenrir, annuendo. “Lo capiranno anche gli altri e, se un domani Cynthia vorrà, potrà diventare licantropa. Ma sarà solo una sua decisione. Nessuno la obbligherà, esattamente come è avvenuto per Gordon e Mary Beth.”
 
A quel punto, Jerome assentì con gli occhi lucidi di pianto e, scrutando Brianna, le domandò: “Pensi che, se diventasse licantropa, potrebbe…?”
 
Non terminò il quesito, ma la giovane comprese subito quale fosse il suo pensiero.
 
La cecità di Cynthia.
 
Rivolgendosi alla donna, perciò, Brie le chiese: “E’ un disturbo congenito, o il risultato di una malattia?”
 
“Una malattia degenerativa” le spiegò allora Cynthia, con tono perfettamente calmo.
 
Brianna, allora, si rivolse a qualcuno di più alto in grado.
 
“Fenrir, tu che dici?”
 
Tutto può essere, mia cara. Forse, potrebbe recuperare parte della vista, forse nulla o, forse, potrebbe recuperarla del tutto. Essendosi trattato di una malattia, le casistiche sono migliaia. Sono passati anni da quando è in questa condizione, perciò non ho davvero risposte degne di tale nome. Curare la tua leggera miopia è stato un po’ diverso.
 
Brianna rammentava bene come, dopo essere divenuta licantropa, aveva potuto rinunciare alle lenti a contatto. Il suo, però, era stato un difetto di poco conto. Cynthia partiva quasi completamente cieca.
 
Sospirando, riemerse da quel confronto interno e mormorò: “Fenrir non è sicuro che possa recuperare la vista, ma non è da escludersi.”
 
Jerome, allora, sospirò, ma Cynthia ci tenne a dire: “Jer, a me va bene anche così. E’ una vita che procedo nel mondo senza vedere. Non mi angustierò se anche non succedesse niente, quando avrò la mia livrea per la prima volta.”
 
“Vuoi… diventerai come me, allora?” esalò lui, sorridendole nel darle un bacio sulla guancia.
 
“Sono abituata a usare i sensi che mi sono rimasti. Ho idea che, come lupo, sarà molto più semplice” ironizzò lei, ammiccando.
 
Jerome rise, assentendo a quel commento, e dichiarò: “Ti insegnerò tutti i segreti del bosco, Cyn… poco ma sicuro!”
 
Duncan prese una mano della dottoressa e, nel carezzarle il dorso, le promise: “Sei e sarai parte della famiglia, Cynthia, perciò non temere. L’approccio con questo mondo sarà semplice. Non dovrai preoccuparti di nulla.”
 
“Non sono preoccupata. Sono con i miei angeli custodi” sorrise tranquilla la donna, e Jerome sorrise fiducioso.
 
Avrebbe tanto voluto ringraziare Nelson Withlock, per averle dato questa fiducia incondizionata nella loro razza, ma era ormai morto da tempo.
 
Una cosa, però, poteva farla, e in quello si sarebbe impegnato per tutta la vita.
 
L’avrebbe amata e protetta e, insieme, avrebbero cresciuto la loro creatura.
 
Sì, era un buon piano e, stavolta, lo avrebbe sbandierato ai quattro venti.
 
Poteva finalmente lasciarsi alle spalle tutti quei segreti.
 
 
 
 
 
 
 
Note: la resa dei conti tra Jerome e sua madre è infine arrivata e, come temeva il giovane, la bomba è esplosa con forza sulle loro teste. Sarah non ha potuto fare a meno di lasciare esternare la sua natura di Freki ma, soprattutto, di madre devota, e questo ha irritato in prima battuta Jerome, pur se lo ha lasciato con l'amaro in bocca alla fine, spiacente di aver ferito suo malgrado la madre col proprio silenzio.
Come andrà a finire tra i due? E la cerimonia al Vigrond metterà a tacere tutti?

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Capitolo 9
*** Jerome's Secrets - Parte 6 (Ottobre 2019) ***


 
Jerome’s Secrets – Parte 6
(Ottobre 2019)
 
 
 
 
Procedere sulla schiena imponente di Jerome era un lusso che, solo di recente, aveva accettato pienamente come parte integrante della sua vita.
 
Quando se l’era ritrovato davanti per la prima volta, aveva stentato a credere che, la creatura che stava toccando con le sue mani, fosse reale.
 
Quell’aura gigantesca, però, l’avrebbe riconosciuta tra mille e, quando lo aveva abbracciato, affondando nella gorgiera morbida, aveva sussurrato il suo nome con amore.
 
Clive e Mildred Graham procedevano poco dietro di loro, camminando speditamente sul terreno sconnesso del sottobosco.
 
Era passato più di un anno, da quando Cynthia era stata formalmente accettata in seno al branco, e lo stesso era avvenuto per i suoi genitori.
 
Presentare alla coppia la reale identità di Jerome non era stato difficile. Avendo parlato loro in passato del particolare dono del dottor Wilson, Cynthia aveva spiegato ai genitori di aver trovato un’altra persona ugualmente dotata.
 
Da lì alla piena accettazione del segreto della licantropia di Jerome, il passo era stato breve.
 
L’amore per la figlia, e l’amore che i coniugi avevano letto negli occhi del giovane licantropo per Cynthia, aveva fatto il resto.
 
L’incredulità e lo stupore erano stati marginali, niente più che un battito di ciglia, per due persone come loro.
 
Come la figlia, infatti, anche i coniugi Graham erano in grado di vedere al di là della vista pura e semplice. E, se per Cynthia ciò si traduceva nel dono della Percezione, per Clive e Mildred voleva solo dire amare ciò che la figlia amava.
 
Duncan si era dichiarato disponibile a mutarli personalmente, e Brianna era stata loro accanto durante tutta la fase di Mutamento.
 
Fungendo da tramite tra la Madre e la Luna, che aveva richiamato a sé i nuovi figli con un gran ringhio e stridore di fauci, Brianna li aveva accolti in seno al branco con un sorriso e un abbraccio.
 
Pur rassicurata da tutti riguardo alle mutazioni in età più avanzata, maggiormente sopportabili che in età fertile, Cynthia non se l’era sentita di cantare vittoria tanto presto. Solo quando Brianna l’aveva chiamata al telefono, gaudente e serena, si era permessa di lasciarsi andare a un pianto liberatorio.
 
Jerome, naturalmente, si era subito preoccupato per lei – già al sesto mese di gravidanza – ma Cynthia lo aveva chetato subito, rincuorandolo.
 
Vedere – col cuore e la percezione delle auree – poi i genitori nelle loro nuove vesti, l’aveva tranquillizzata del tutto.
 
Non che avesse avuto dei dubbi sulla loro decisione di mutare, ma avvertire la loro soddisfazione tramite le loro nuove auree fiammanti, era stato un sollievo.
 
Dopotutto, per Mildred e Clive non era stato difficile scegliere. Il mondo del loro futuro genero era quello in cui sarebbe cresciuto il loro nipotino, e a tale mondo loro si sarebbero uniti.
 
Semplice. Del tutto lineare.
 
Perché, per i coniugi Graham, contava innanzitutto che lui l’amasse, e che Cynthia amasse Jerome.
 
Licantropi, magia e quant’altro erano un fattore secondario. Un’avventura inaspettata che, alla loro età, sarebbe stata più che ben accetta.
 
Ora, dopo sei mesi dal parto, e con Nelson addormentato tra le braccia, Cynthia avrebbe partecipato alla cerimonia di Iniziazione del bambino.
 
Tutto si era svolto come in un sogno, in quei lunghi mesi passati dalla sua prima presentazione al Vigrond. Il tutto era avvenuto in un giorno di plenilunio, alla presenza degli alfa più potenti del branco e, a loro, lei aveva aperto il proprio cuore e la propria anima.
 
Brianna aveva parlato in suo favore, e così pure lo aveva fatto Duncan, sancendo per sempre la sua entrata nel branco. Alla stessa maniera, la Prima Coppia aveva parlato a favore dei suoi genitori, che Brianna e Duncan avevano conosciuto alcune settimane prima dell’evento.
 
Il branco li aveva accettati con gran favore di tutti e, da quel momento, lei era divenuta per ogni membro del clan la compagna di Sköll.
 
E ora questo.
 
Quando avvertì Jerome fermarsi e piegare le zampe sotto di lei, seppe di essere infine giunta al Vigrond.
 
Tenendo saldamente Nelson tra le braccia, Cynthia avvertì la presenza di Brianna al suo fianco – in forma umana – e, con voce insicura, esalò: “Che succederà, ora? So che me l’hai già detto, però…”
 
“Però è strano per tutti, anche per chi ci è già passato, credimi” la rincuorò la wicca, battendole una mano sul braccio. “Lo depositeremo su un letto di foglie, e i lupi si strusceranno contro di lui, lasciandogli il loro odore. Così, verrà riconosciuto a tutti gli effetti come membro del branco.”
 
“Anche se rimarrà umano?”
 
“Soprattutto se rimarrà umano. Rammenta una cosa, Cynthia. Siete preziosi, sempre e comunque” mormorò Brianna, accompagnandola nel mezzo della radura del Vigrond.
 
Tutt’attorno a loro, la quercia stava emanando potenti onde d’energia e Cynthia, nell’avvertirle, sussurrò: “Com’è poter parlare con Lei?”
 
“Qualcosa di unico. Le piaci, sai?” le disse Brianna, prendendo dalle mani della donna il piccolo frugoletto dai capelli biondi.
 
Cynthia sorrise e, in quel mentre, Jerome le si avvicinò in forma umana.
 
“Brianna lo sta sollevando sopra la testa” le sussurrò all’orecchio, avvolgendole la vita con un braccio.
 
Lei assentì e Brianna, stentorea, esclamò: “Siamo oggi riuniti per accoglierti in seno al branco, Figlio della Luna! Benvenuto tra noi, Nelson Leon Rowley!”
 
Jerome sorrise nell’udire il nome di suo figlio in quel luogo sacro e Brie, con le lacrime agli occhi, mormorò nella sua mente: “Grazie per il bel gesto. Ma non avresti dovuto.”
 
“Leon sacrificò la vita per noi, anche se non ne fu consapevole. Volle aiutare la nostra wicca, la nostra Prima Lupa, e per questo sarà onorato finché avremo memoria. Dargli il suo nome mi è parso il minimo.”
 
“Ugualmente ti ringrazio, mio lupo” mormorò ancora Brianna, allontanandosi dalla sua mente per riprendere la cerimonia.
 
Deponendo con delicatezza il bambino su un letto di foglie fresche, la wicca parlò con tono più quieto e, alla luce diafana della luna, asserì: “Io ti accolgo in seno alla mia famiglia, figlio di Cynthia e di Jerome. Sii figlio mio, ora e fino al tuo ultimo respiro, come io sarò madre tua. Il mio artiglio, la mia tana e il mio sangue ti proteggeranno. Benarrivato, Figlio della Luna.”
 
Ciò detto, depose sulla fronte liscia del bebè un bacio tenero e, in un fruscio di pelle e ossa, mutò.
 
Duncan fu il primo ad avvicinarsi al bambino e, dopo essersi accucciato accanto al piccolo, strusciò il muso contro di lui.
 
Nelson rise gaio, e Cynthia tremò tra le braccia di Jerome che, con occhi offuscati dal pianto, osservò la scena senza essere in grado di aprire bocca.
 
Uno dopo l’altro, Brianna, Lance, Mary B, Gordon, tutti quanti si accostarono al loro bambino per deporre la loro traccia odorosa su di lui.
 
“Jer, che succede?” gli domandò Cynthia, riscuotendolo dal dolce torpore in cui era caduto.
 
“Lo stanno carezzando tutti. Alla maniera dei lupi, ovviamente. E’… è bellissimo” mormorò roco, affondando il viso nei capelli lisci della compagna.
 
Cynthia sorrise e, stringendo le mani di Jerome – deposte sul suo ventre piatto – mormorò: “C’è tua madre?”
 
“Sì” disse soltanto Jerome, scrutando la figura di Freki in tutta la sua grandezza.
 
Dal lucido pelo argenteo e nero, Sarah si avvicinò al piccolo e, con una delicatezza infinita, strofinò il naso contro la guancia del bimbo, che scoppiò a ridere per il solletico.
 
Non contento, Nelson le afferrò la gorgiera con le mani, e lei non si mosse.
 
“Anche tu lo facesti, con il padre di Anthony. Gli strappasti anche qualche pelo, a ben ricordare” intervenne sua madre, nella mente di Jerome, sorprendendolo.
 
Dopo la lite furiosa avvenuta nell’ufficio di Cynthia, le cose erano andate via via migliorando, ma Jerome non si era ancora del tutto abituato alla realtà dei fatti.
 
Per lo meno, non a quella che riguardava sua madre.
 
Non aveva voluto ammetterlo neppure con Cynthia, ma quella lite lo aveva ferito. Si era sentito malissimo all’idea di averla contro.
 
Così come si era sentito un mostro al pensiero di averla fatta piangere.
 
“Ti fa male? Vengo a liberarti?” le domandò a quel punto Jerome.
 
“Nelson non potrà mai farmi del male. Così come tu non potrai mai farmi del male, J. Ho sbagliato, con te e con Cynthia, e mille scuse non basteranno a rimediare i miei torti, ma dimmi soltanto che un giorno potrai perdonarmi.”
 
“Solo se tu perdonerai me per averti fatta piangere.”
 
“Non ricordo di averlo mai fatto” replicò Sarah, con tono divertito.
 
Jerome sorrise a quelle parole e, quando Nelson finalmente la lasciò andare, seppe che tutto sarebbe andato a posto, anche con sua madre.
 
Perché sarebbe stato inconcepibile vivere finalmente una vita assieme alla donna che amava, ma perdere l’affetto di sua madre.
 
***
 
Dio! Era davvero stravolto!
 
Che notte d’inferno aveva passato! E dire che ci era già passato con Sean, diversi anni addietro, e con altri lupi dopo di lui. Persino la mutazione di Gordon non era stata esente da autentici momenti di panico, eppure…
 
Beh, questa volta c’era andata di mezzo la sua adorata, per cui, era stata davvero tutt’altra storia.
 
Però, avrebbe preferito non svegliarsi con tutte le ossa rotte e un mal di testa da capogiro.
 
Passandosi una mano tra i capelli ispidi, Jerome non fece in tempo a sbadigliare che un urlo improvviso lo fece rizzare in piedi come una molla.
 
Portandolo a sbattere la testa contro la scrivania.
 
Scrivania?!
 
Come ci era finito sotto la scrivania?!
 
Massaggiandosi il capo dolorante – come se non ne avesse già avuto a sufficienza degli altri dolori che aveva – Jerome si guardò intorno, frenetico e spaventato.
 
Chi aveva urlato? E perché?
 
Fu l’arrivo di Cynthia a farlo svegliare del tutto.
 
Appariva spiritata, con gli occhi verdi sgranati e bellissimi, i capelli per aria e le mani tremanti a livelli quasi preoccupanti.
 
Rialzandosi a fatica, Jerome le andò incontro, poggiando le mani sulle sue spalle e, solo in quel momento, lei lo guardò.
 
Sì, lo guardò.
 
La bocca iniziò a tremare, formando un sorriso stentato quanto incredulo e, mentre le mani correvano su quel volto tanto amato, Cynthia esalò: “Jerome… oh, Jerome…”
 
Non osando mettere a voce le sue speranze, lui la abbracciò con forza e Cynthia, restituendo un abbraccio di eguale intensità, sussurrò roca: “Il mio Jerome… sei così bello… hai gli occhi grigi come le ali di una colomba…”
 
Scoppiando a piangere, il licantropo assentì contro la sua spalla e, con voce resa insicura dall’emozione, assentì al suo dire.
 
“Sì. S-sono grigi. Sono grigi. Grigi… anche… anche la mamma li ha così…”
 
Cynthia si scostò da Jerome, fissandolo con i suoi nuovi occhi, verdi come le colline irlandesi, e mormorò: “Anche Nelson li ha così?”
 
“Sì. Crediamo che ormai li manterrà così” assentì ancora Jerome, baciandola sul naso e la fronte. “Dio, Cyn… tu ci vedi… ci vedi…”
 
Lei rise, scuotendo la mano come una barchetta in mezzo al mare e Jerome, dubbioso, borbottò: “Perché fai così?”
 
La donna allora ammise: “Vedo meglio di prima ma, per dire di riuscire a vedere per prendere la patente, ce ne corre. Però, posso scorgere i colori, le sagome sono più nitide. E’ un miglioramento.”
 
Jerome sospirò, ma Cynthia lo abbracciò con forza, aggiungendo: “Come lupo ci vedo benissimo, Jer. Quella parte della nostra vita sarà un’autentica novità e, quando sarò in forma umana, potrò continuare comunque a lavorare alla clinica. Non è fantastico?”
 
Si scostò per fare una mezza piroetta e, battendo le mani come una bambina, esclamò: “Jer, io ero cieca fino all’altro giorno. E lavoro in una clinica dove tutti sanno che sono cieca! Così non perderò il mio lavoro e, al tempo stesso, vedrò. Potrò fare entrambe le cose, vivere in entrambi i mondi senza alcun problema.”
 
Jerome, allora, si ritrovò a sorridere con lei e, nel carezzarle il viso, le domandò: “Non ti scoccia dover continuare a chiedere aiuto, per certe cose?”
 
“Ci sono abituata da una vita e, con quel po’ di vista in più che ho acquisito in forma umana, potrò evitare dei guai e, al tempo stesso, essere più brava con i miei pazienti” replicò Cynthia, sorridendo lieta. “Della patente farò a meno.”
 
Nell’afferrare le mani del compagno, la donna lo attirò con sé finché non raggiunse insieme a lui la stanza del figlio e, parlando piano per non svegliarlo, mormorò: “Direi che i rumori forti non lo spaventano. Pensavo di avere schiantato qualche vetro, quando ho urlato.”
 
Pur trovando divertente la sua ironia – non andata persa nella mutazione –, lui le domandò: “A proposito… perché hai urlato?”
 
“Ho visto come ho ridotto la stanza da letto e, quando ho capito di aver visto, ho dato di matto per alcuni attimi. Temo dovremo chiedere a Lance di rifare qualche mobile” mugugnò Cynthia, facendo la lingua.
 
Lui però rise, incurante degli eventuali danni alla stanza da letto, e replicò: “La ricomprerò tutta, la casa, se necessario. Non mi interessa nulla.”
 
Carezzando la zazzera bionda del figlio, Cynthia mormorò: “Credo che ti somigli.”
 
“Somiglia anche a te. La bocca è tua al cento percento” ribatté Jerome, stringendola a sé in un abbraccio orgoglioso. “Mi spiace che tu non abbia recuperato tutta la vista, ma è vero. Così, non dovrai rinunciare al tuo lavoro, che ami tanto.”
 
“C’è sempre la mia controparte mannara e, con quegli occhi, vedo benissimo. Non mi sfuggirai, Jer, credimi” ironizzò lei, mordicchiandogli il mento.
 
Lui ridacchiò e, nell’attirarla fuori dalla stanza di Nelson, mormorò: “Dove pensi potrei andare, senza di te?”
 
“Non correrò il rischio di scoprirlo” sottolineò lei, avvolgendogli la vita con le braccia.
 
Nel chiudersi la porta alle spalle, Jerome annuì e, schiacciandola contro il muro, aggiunse: “Io ho te, tu hai me e, insieme, abbiamo avuto Nelson. Non potevamo cominciare meglio la nostra vita assieme. Non abbandonerò mai questa serenità. Posso giurartelo.”
 
“Siamo stati bravi, nessun dubbio, su questo” assentì lei, carezzandogli una guancia.
 
Assottigliando le iridi di perla, Jerome le morse delicatamente il mento e mormorò: “Cosa sta pensando la tua mente perversa? Non voglio curiosare, però sono molto interessato a saperlo.”
 
Sfregando i denti contro il collo di Jerome, Cynthia replicò: “Che ne dici se te lo faccio vedere su quel che rimane del nostro letto?”
 
“Con vero piacere” sussurrò lui, prendendola in braccio con un movimento repentino delle braccia.
 
Cynthia rise, e Jerome con lei.
 
Al resto, avrebbero pensato più tardi. Ora voleva conoscere Cynthia in quelle nuove vesti, in quella nuova pelle.
 
Per il mondo, c’era tempo.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: E con questo ho terminato la mini serie dedicata a Jerome che, spero, avrà soddisfatto le vostre curiosità su questo personaggio tanto amato.
Da qui in poi mi occuperò degli altri e, tanto perché lo sappiate, ho già pronte delle OS su William (Hati di Bredford), Jessie (sentinella di Matlock) e Branson (Geri di Matlock).
Nelle prossime settimane, posterò man mano le loro storie e, nel frattempo, penserò a come impostarne una su Brianna, Duncan e Nathan.
Per ora, grazie per essere tornate con me nel mondo dei miei lupi, e alla prossima!
 
 

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Capitolo 10
*** Quando meno te lo aspetti (Jessie) - Gennaio 2019 ***


 
Quando meno te l’aspetti (gennaio 2019)
 
Sai che sei innamorato, quando non riesci a dormire
perché finalmente la realtà è migliore dei tuoi sogni.  (Dr. Seuss)
 
 
 
 
Amanda era stanca morta, non ne poteva davvero più, e non credeva di avere più un solo muscolo funzionante in tutto il suo corpo indolenzito.
 
L’influenza sembrava essersi risvegliata di colpo, in Gran Bretagna, al pari di un gigante zoppo nel bel mezzo di una cristalleria.
 
Lei e Brie avevano dovuto lavorare su così tanti vetrini, quel giorno, in laboratorio, da far invidia a una catena di montaggio. E tanti saluti alla loro ricerca, per quel dì.
 
I loro studi sul genoma dello Stafilococco Aureo Meticillino Resistente erano andati a farsi benedire e, a giudicare dalla mole di lavoro non ancora smaltita, il giorno seguente non sarebbe stato differente.
 
Sbadigliando sonoramente dopo aver salutato le infermiere alla reception dell’entrata, Amanda si diresse caracollante verso la sua auto, una Toyota Prius nera, e fece bippare il telecomando di apertura delle portiere.
 
Senza badare alla classe, scaricò la sua borsa sul sedile posteriore con un lancio degno di un ubriaco e, nel passarsi una mano nella confusa chioma di capelli rossicci, borbottò: “Dove cavolo ho messo la mia sacca con il pranzo?”
 
Non era possibile che l’avesse dimenticata negli spogliatoi. Tutte le volte che si portava il pranzo da casa, lo…
 
“Porco schifo!” sbottò, battendosi una mano sulla fronte e tornando indietro a passo di carica senza chiudere l’auto.
 
Passando di corsa di fronte alla reception – e scatenando l’ilarità dei presenti – prese l’ascensore, fece qualche altro saluto veloce, imprecò nel vedere le sue scatole di plastica sul tavolo del salottino e infine le afferrò.
 
Doveva avere il cervello pressofuso, per non essersi ricordate di rimetterle nella sua sacca refrigerata.
 
Nel ripercorrere il tragitto al contrario si diede dell’idiota mille volte e, quando finalmente si ritrovò nuovamente nel parcheggio, boccheggiò, nuovamente colta di sorpresa.
 
Stavolta, però, non per una sua dimenticanza.
 
Poggiato svogliatamente contro la portiera della sua auto, Amanda scorse una figura maschile piuttosto imponente, con il cappuccio della felpa calato sul viso. I lampioni asfittici, inoltre, non aiutavano per nulla a cogliere i lineamenti nascosti dall’abbigliamento dell’uomo.
 
Ora, che doveva fare, di preciso?
 
Poteva tornare dentro e chiamare la sicurezza ma, quasi sicuramente, il tizio l’avrebbe raggiunta prima che lei avesse fatto mezzo passo verso l’ospedale. Se già non si era sentita stanca in precedenza, quell’ultima corsa le aveva fatto diventare le gambe di piombo, perciò non avrebbe mai potuto contare su una scatto bruciante.
 
Poteva urlare, certo. Ci sapeva fare, con gli strilli, ma Mister Cappuccio avrebbe potuto essere armato, costringendola al silenzio ben prima della fine della sua esibizione da soprano.
 
Poteva… già, che poteva fare?
 
La figura maschile all’improvviso rise, sorprendendola non poco e, nel calare finalmente il cappuccio per rendersi riconoscibile, esordì dicendo: “Mandy, non dovresti ricordarti di chiudere l’auto, prima di scappar via a gambe levate?”
 
“Jessie?” esalò Amanda, prendendo un gran respiro di sollievo.
 
L’attimo dopo, caricò come un toro la sentinella mannara del branco di Matlock e, piantandogli un pugno su una spalla – che lui ovviamente non sentì – esclamò piccata: “Mi hai fatto venire un infarto, idiota!”
 
Lui rise nuovamente, passandosi una mano tra la massa di capelli neri e stretta in un codino sopra la nuca.
 
“Ehi, ehi, calmati! Sono qui su mandato ufficiale, e stavo anche per rendermi visibile ma, quando ho fatto l’atto di avvicinarmi, ti ho vista galoppare via dal parcheggio, e così sono rimasto a guardia dell’auto.”
 
“E come facevi a sapere che non l’avevo chiusa?” brontolò lei, buttando le scatole sul sedile posteriore, a fianco della sua sacca.
 
Jessie indicò i fari dell’auto, motteggiando: “Non si sono illuminati.”
 
Mandy sbuffò per l’ovvietà di quella risposta – tutte le auto con chiusura elettronica vengono sgamate dal brillio delle frecce – e, con un sospiro fiacco, borbottò: “Cosa vuole il branco da me?”
 
“Ci sono un paio di lupi che vorrebbero parlare di noi ad altrettante persone, ma non sono sicuri che queste ultime possano essere pronte, o adatte, ad accettare la verità. Dovresti andare con loro per … tastare il polso della situazione, per così dire” le spiegò Jessie, scrollando le spalle.
 
“Fammi capire… dovrei reggere il moccio perché due lupi hanno fifa di aprire bocca?” borbottò Mandy, passandosi le mani sul viso come a schiarirsi le idee.
 
“Qualcosa del genere” ammise Jessie, ghignando.
 
“Per Mac Duncan farei un sacco di cose, ma comportarmi da idiota in mezzo a due coppiette, non è tra queste” sottolineò la donna, storcendo il naso. “Perché è lui che te l’ha chiesto, vero? Brie non me ne ha parlato.”
 
“Colpito e affondato” ammise in fretta Jessie.
 
“Perciò, Mac ha puntato tutto sulla tua bella faccia per indorarmi la pillola” sottolineò Amanda, fissandolo bieca.
 
Jessie ebbe la buona creanza di tacere.
 
Scoppiando a ridere per non dover sprecare tempo ad arrabbiarsi – non ne aveva molta voglia –, la donna esalò: “Ah, come sono prevedibili, i maschi! Anche quelli dotati di pelliccia!”
 
Jessie sorrise senza aggiungere nulla al suo dire, e si limitò a fare spallucce.
 
Fin da quando aveva conosciuto Amanda per la prima volta, l’aveva trovata una ragazza spigliata e simpatica, dalla battuta pronta. Non faceva specie che andasse così d’accordo con Brianna, la loro Prima Lupa.
 
Avevano caratteri molto simili, e le battutacce che erano in grado di far rimbalzare dall’una all’altra quelle due, erano epiche.
 
Il giorno in cui era stata presentata al Vigrond, Amanda non aveva battuto ciglio di fronte ad alcuni tra gli alfa più potenti del branco. Tra loro, tre lupi si erano trasformati davanti a lei con tanto di spogliarello, ma Mandy si era solo divertita ad ammirare con piacere, commentando per diretta conseguenza le esibizioni del trio.
 
Quello che ne era venuto fuori, aveva fatto ridere più di un serioso anziano membro del clan. Forse, a memoria di lupo, era stata la Cerimonia di Accoglienza più spassosa di sempre.
 
Anche Cecily, Fenrir di Falmouth, durante una sua visita a Matlock, si era dichiarata lieta di averla conosciuta e, con Amanda e Brianna, avevano davvero fatto furore, quanto a battute di spirito.
 
Sì, con loro non ci si poteva davvero annoiare. E non era del tutto vero che Duncan gli avesse chiesto di far intervenire Amanda, affinché giudicasse le potenziali affiliazioni umane al branco.
 
Era stato lui a proporla, così da avere una scusa valida per incontrarla.
 
Il fatto di vederla spesso in giro, o al negozio di Jerome – dove lui lavorava – non gli bastava più, ormai. Sentirsi un idiota al pensiero di invitarla fuori, però, non aiutava la causa.
 
Se qualcosa non avesse funzionato per il verso giusto, sarebbero stati guai. Lui era amico di Brianna e Duncan, ma anche Amanda lo era, e questo avrebbe creato tensioni che non voleva affatto nascessero, all’interno del suo branco.
 
Sarebbe stato oltremodo imbarazzante, se le cose tra loro avessero preso una piega spiacevole.
 
A volte, dopotutto, conoscersi troppo bene non era una cosa positiva.
 
***
 
Forse, avrebbe dovuto dire a Mandy di non prendere tanto sul serio quella missione e, sempre forse, avrebbe dovuto sottolineare con lei di non vestirsi in modo sexy o provocante.
 
A ogni buon conto, quando la vide uscire dal suo appartamento in centro, in equilibrio perfetto su un paio di scarpe dal tacco esorbitante, Jessie deglutì a fatica, incapace di riprendere fiato.
 
Passandosi un dito all’interno del colletto della camicia botton-down che indossava su un paio di jeans schiariti, si chiese preoccupato se sarebbe sopravvissuto fino alla fine della serata.
 
Il tubino rosso fuoco che indossava non nascondeva nulla alla fantasia e, se c’era una cosa che poteva vantare Amanda, era un corpo davvero eccezionale. Non era infatti la classica modella taglia 38, con forme poco evidenziate, ma una morbida, gradevole donna dalle linee mediterranee.
 
Era stato un tremendo errore non dirle di vestirsi in modo casual. Avrebbe dovuto ricordarsi che l’amica amava vestirsi a quel modo, ma la sola idea di uscire con lei – anche se in via ufficiosa – lo aveva confuso al punto da fargli perdere di vista un particolare così importante.
 
Salutando Jessie con un cenno della mano, inconsapevole delle paranoie del licantropo, Mandy salì sulla sua Nissan GT R nera ed esordì dicendo: “Immagino che quest’auto fili che è una bellezza.”
 
“E’ brava, nel suo genere” assentì lui, sorridendole nell’avviare il motore, che vibrò caldo sotto di loro.
 
Amanda socchiuse gli occhi e, dopo aver mugolato per il piacere, mormorò: “Oooh, questo sì che è piacevole.”
 
Calmati, Jessie, le piace l’auto… L’AUTO, pensò tra sé l’uomo, avviandosi per raggiungere il locale dove avrebbero incontrato gli altri.
 
Sarebbe stata una serata davvero difficile, ora ne aveva la certezza.
 
***
 
Come Jessie aveva previsto, Mandy si trovò subito a suo agio con la compagnia di quella sera, pur non conoscendo affatto le due giovani ‘esaminande’, e ben poco i due lupi che avevano chiesto aiuto.
 
Jessie non ne fu affatto sorpreso. Amanda era la tipica persona che sapeva illuminare una stanza, con la sua sola presenza. Era spigliata, affabile, divertente e solare e, anche se era solo un’umana, poteva sprigionare così tanta energia da inebriare anche un lupo navigato come lui.
 
Non aveva l’aura di un licantropo, ma la sua verve bastava e avanzava a compensare quel gap.
 
Jessie la guardò per tutto il tempo, ridendo delle sue battute e alternandosi agli altri due lupi nel ribattere con altrettanta spensieratezza al suo dire.
 
Le due ragazze non furono da meno e, quando infine l’orologio batté le tre del mattino, Mandy dichiarò di doversi ritirare per dormire; i pazienti, purtroppo, non aspettavano i suoi comodi.
 
Nel salutare il gruppetto, che si diresse verso le rispettive auto, Mandy si attaccò al braccio di Jessie – essendo un po’ alticcia – e mormorò: “Quelle due sono in gamba, credimi. Penso che potreste dire loro che è in atto un’apocalisse aliena, e vi chiederebbero dove sono i bazooka per contrattaccare. Hanno scelto bene… davvero.”
 
“Ottimo… sarebbe stato un peccato dire loro che, secondo te, non erano all’altezza. Roy e Percy sembrano davvero presi, e tengono molto alla tua opinione” dichiarò Jessie, sorridendole nell’aprirle la portiera.
 
“Neanche il mio fosse un giudizio insindacabile” ridacchiò per contro lei, lasciandosi scivolare sul morbido sedile in pelle. “Potrei dormire qui, sai?”
 
“Vedrò di riaccompagnarti a casa. Starai sicuramente più comoda nel tuo letto” replicò Jessie, avviandosi con calma per tornare in centro a Matlock.
 
Volgendo il capo a scrutare il suo profilo, Mandy mormorò: “Sai cosa c’è, Jessie? Che le donne sarebbero disposte a tutto, per amore, perciò uno deve solo capire se la persona che ami ti riama appieno. Poi, le stranezze passano in secondo piano.”
 
“Dici?” replicò lui, stando sul chi vive. “Tu, però, hai accettato tutto senza essere innamorata di nessuno.”
 
“Veeero!” esclamò lei, ridacchiando. “Ma perché mi fidavo di Brie. La nostra è un’amicizia salda. Anche in questo caso, vale la regola di prima. Amicizia vera, e amore.”
 
Jessie preferì non proseguire con l’argomento, trovandolo quanto mai subdolo e possibilmente foriero di guai e, quando si fermò di fronte al condominio di Mandy, la aiutò a scendere senza più dire nulla sulla serata appena trascorsa.
 
“Sei sicura di riuscire ad andare a lavorare? Sembri piuttosto sbattuta” le fece notare Jessie, sorreggendola fino a raggiungere la portone d’ingresso.
 
Da lì, la condusse all’interno e, dopo aver preso l’ascensore, scese con lei all’ultimo piano, portandola fino alla porta dell’appartamento.
 
“Noi dottori siamo abituati a ritmi folli. Tre ore di sonno, e sarò pimpante come prima” dichiarò Amanda, infilando la chiave nella toppa al terzo tentativo.
 
“Grazie per stasera, allora. A parte tutto, ma mi sono anche divertito” le disse infine lui, sfiorandole una spalla con la mano.
 
“Grazie a te. Mi sono divertita anch’io” replicò lei, levandosi in punta di piedi per stampargli un amichevole bacio sulle labbra.
 
Jessie lo accettò con lo sconcerto stampato in faccia e, prima ancora di riuscire a dire qualcosa, si ritrovò a fissare la porta chiusa.
 
Un attimo dopo, le luci di cortesia nel corridoio, si spensero.
 
Sbattendo le palpebre, lui esalò: “Ma che è successo?”
 
Nel contempo, all’interno dell’appartamento, appoggiata alla porta e con gli occhi sgranati, Mandy borbottava: “Ma che ho fatto?”
 
***
 
“Hai fatto le ore piccole, Mandy? Sei più sbattuta di una frittata…” esordì Brianna, sostituendo un vetrino al suo microscopio.
 
“Non prendermi in giro, tu! Dopotutto, è colpa del tuo uomo, se io sono ridotta così” brontolò Amanda, rifacendosi la coda di cavallo per la millesima volta.
 
Dopo quel bacio che, in teoria, aveva voluto essere amichevole, Mandy aveva riaperto la porta, aveva attirato dentro Jessie e, da quel che ricordava, il suo era diventato un fine serata davvero spettacolare.
 
Avevano fatto sesso d’eccezione e, quando lei si era appisolata per mezz’ora contro la sua spalla, si era addormentata subito. Subito.
 
Neanche lui l’avesse anestetizzata. E dopo il sesso migliore degli ultimi anni.
 
Essere lasciata dal suo fidanzato italiano al terzo anno di università, e tramite sms, era stato assai traumatico per lei e, da quel momento, non aveva più avuto relazioni.
 
Sì, qualche appuntamento qua e là, ma niente di serio.
 
Di punto in bianco, però, si era gettata tra le braccia di quell’aitante licantropo che, prima di tutto, era suo amico, e aveva fatto un’ottima ginnastica orizzontale con lui.
 
Peccato che adesso non sapesse come affrontare la cosa.
 
“Il mio uomo? Spiegati meglio, perché sono parecchio confusa” replicò Brianna sinceramente sorpresa, riportandola al presente.
 
“Ma come? Mac Duncan non ti ha detto di avermi chiesto di supervisionare l’incontro amoroso di un paio dei suoi lupetti?” borbottò la donna, afferrando un vetrino con entrambe le mani.
 
Non si fidava molto dei suoi istinti primari, quella mattina, equilibrio in testa.
 
Brianna sbatté le palpebre, confusa, ed esalò: “Che avrebbe fatto, scusa? Anche quanto, te l’avrei chiesto io. Sono io che mi occupo di queste cose.”
 
“Oh, ma, Jessie mi ha detto…” iniziò col dire lei, prima di rammentare un paio di cosette. “Sì, in effetti è vero. Me l’avevi detto che, di cose simili, si preoccupa la Prima Lupa. Ma allora…”
 
“Jessie, hai detto?” ironizzò Brie, ghignando maliziosa al suo indirizzo.
 
“Pensi che lui…” ansò Mandy, bloccandosi subito dopo e murandosi la bocca.
 
Forse, dopotutto, quella notte di sesso…
 
“Ci sono finita a letto insieme, sai?” buttò lì Amanda, sbattendo le palpebre con aria confusa e dubbiosa.
 
“COSA?!” gracchiò la licantropa, rischiando di far cadere uno dei suoi vetrini. “Con la mia sentinella? Il mio Jessie?”
 
“Piano con i pronomi possessivi, lupetta” ironizzò Mandy, sorridendo. “Di tuo, hai già Duncan, no?”
 
“A voler essere precisi, tutti i lupi sono miei, nel senso più ampio del termine, perché io sono la loro madre spirituale, oltre che la loro guida” sottolineò distrattamente Brianna prima di esalare: “Ma… davvero avete fatto sesso? E come diavolo è successo?”
 
“Nel modo classico. Lui sopra, io sotto. O almeno credo. Forse, abbiamo anche variato un po’, non ho le idee molto chiare in merito… ero un po’ brilla” dichiarò Mandy facendo strabuzzare gli occhi all’amica.
 
“Hai fatto sesso con uno dei miei lupi… da ubriaca?!” sbottò Brie, passandosi le mani tra i capelli. “Mandy, per l’amor di Dio, siamo un clan, e l’armonia è la prima cosa che conta! Cose del genere potrebbero destabilizzare gli equilibri di…”
 
Interrompendola con un gesto secco della mano, Amanda replicò: “Pensi che non lo sappia? Jessie è anche amico mio, oltre a essere amico tuo. Mi sento un’idiota, se proprio lo vuoi sapere.”
 
Sospirando per darsi una calmata, Brianna le domandò: “Ma tu che ne pensi, di Jessie?”
 
“Che è un bell’uomo, è simpatico e… per la miseria, Brie, fa sesso in maniera eccezionale e, come se non bastasse, mi sono appisolata contro di lui come un cucciolo bisognoso d’affetto. E lui è stato lì tutto il tempo, tenendomi tra le braccia perché riposassi bene!” sbottò Mandy, impallidendo. “Sai che vuol dire?”
 
Indulgente, Brie mormorò: “Che non è stato solo sesso… per nessuno dei due. Non ti saresti mai sentita così a tuo agio, se avessi fatto solo sesso con Jessie l’amico.”
 
“Merda!” bofonchiò Amanda, dandosi una manata sulla fronte.
 
L’amica invece scoppiò a ridere, le diede una pacca sulla spalla con fare confortante e, serafica, asserì: “Auguri, cara.”
 
“Piantala. Pensi che mi piaccia essermi ficcata in questo ginepraio? Sai che non ho bisogno di uomini, in questo momento. Dopo Antonio, pensavo di aver chiuso, con il club degli XY. E invece, ora mi capita questo!”
 
Fissandola con aria scettica, Brie replicò: “Tu… che chiudi con gli XY? Non ci crederò nemmeno se ti vedrò a sbaciucchiare una donna.”
 
Sbuffando, Mandy la mandò a quel paese, ma ammise: “Sì, non riuscirei mai a essere come Paul e James, o come Sandy e Clarisse. Loro se la spassano gioiosamente, e si vede che sono affiatati. Io, semplicemente, non mi ci vedo.”
 
“Antonio è stato uno stronzo, punto. Non si può mollare una ragazza via sms, quando questa si trova a Londra, e lui a Modena. Che sistema è?” brontolò Brianna, scribacchiando velocemente su una cartella prima di afferrare l’ennesimo vetrino.
 
“Quasi quasi, accettavo l’offerta di Mac Duncan di fargli dare una lezione da un branco locale, …ma no, sarebbe stato sciocco, ora lo so” sospirò Amanda, scuotendo il capo.
 
Bloccandosi, Brie le domandò: “Seriamente, adesso, …cosa ne pensi di Jessie?”
 
“Che mi piace, ma devo capire se come amico, come amante, o come qualcosa di più.”
 
“Penso non succederà nulla, se ti inerpichi lungo uno di questi sentieri” le fece notare Brie.
 
“Ma abbiamo troppi legami interconnessi, e siamo entrambi amici tuoi, o di Mac. Che facciamo, se ci scanniamo metaforicamente l’un l’altra?” ironizzò Amanda, ficcando le mani nelle tasche del camice.
 
Nervosa com’era, avrebbe fatto un disastro coi vetrini. Meglio bloccarsi, per il momento.
 
Brianna preferì non rispondere.
 
Era vero. Erano talmente legati, e in mille modi diversi che, un’eventuale loro lite, avrebbe lasciato più di una cicatrice in giro.
 
***
 
Nevicava, faceva un freddo cane e lei era stanca morta, desiderosa di mettersi il suo pigiama di flanella e guardare le repliche, delle repliche, delle repliche di Grey’s Anatomy.
 
Ne era così drogata da sapere le battute di tutti gli attori a memoria, ma non ce la faceva a smettere, era più forte di lei.
 
Inforcando la via del parcheggio, Amanda si bloccò a metà di un passo quando scorse una sottospecie di pupazzo di neve nei pressi della sua auto.
 
In realtà, sapeva bene chi era, ma era coperto da così tanta neve da sembrare in tutto e per tutto la riproduzione sexy di Jack Frost.
 
“Non li fanno più, gli ombrelli?” esordì Amanda, facendo bippare l’allarme dell’auto.
 
“Quando sono arrivato, non nevicava” replicò Jessie, scrollandosi di dosso i dieci centimetri buoni di neve che aveva addosso. Era zuppo.
 
“E dire che avete un naso sopraffino, voi pelosi. Non ti eri accorto del cambio del tempo?” ironizzò lei, poggiando le mani sui fianchi per guardarlo piena di ironia.
 
I neri capelli gocciolavano come grondaie sulle sue ampie spalle, peggiorando una situazione già di per sé drammatica. Avvoltolata nel suo piumino, Amanda si sentiva quasi in colpa a guardare quel giovane uomo in felpa e jeans interamente bagnati che la attendeva da ore sotto quella bellissima nevicata.
 
Quasi in colpa, però. Non gliel’aveva chiesto lei di ridursi così.
 
“Stavolta, a chi devo salvare il culo?” ironizzò Amanda, non sapendo che altro dire.
 
Come approcci un argomento spinoso come il sesso, con un tuo amico… con cui hai fatto sesso?
 
“A me, credo” sorrise contrito lui, scrollando le spalle.
 
Mandy fece tanto d’occhi, si insospettì un attimo dopo e, aprendo la portiera dell’auto, bofonchiò: “Sali, prima di buscarti un raffreddore… se già non l’hai preso.”
 
“Grazie” sussurrò Jessie, circumnavigando l’auto con passo lesto.
 
Una volta che ebbe messo in moto, Amanda mise il riscaldamento al massimo e, nell’avviarsi fuori dal parcheggio, mormorò: “Ebbene? Hai un’innamorata che devo studiare?”
 
“Per la verità, no. Direi che, più che altro, le devo delle scuse” ammise lui, lo sguardo fisso fuori dal finestrino e l’aria molto, ma molto insicura.
 
Mandy lo sbirciò per un secondo, riflesso sul vetro scuro della portiera, prima di dichiarare: “Ho dormito pochissimo, ho lavorato moltissimo e sono stanca morta. Sii chiaro, perché il mio cervello è sì e no al trenta percento di attività effettiva.”
 
“Esattamente quello che non voglio, perché ciò che devo dirti deve essere chiaro, e con te che vai a tre cilindri, per così dire, non è il momento giusto” ironizzò a quel punto Jessie, sapendo che Amanda avrebbe capito.
 
Lei infatti rise, rise sguaiata e senza darsi la pena di apparire fine o elegante e Jessie, suo malgrado, si ritrovò a desiderarla ancor più di prima.
 
Mandy non aveva mai fatto mistero di essere un’amante di auto sportive, di saper sistemare un motore come – e meglio – di tanti uomini, e di apprezzare la velocità. Sapeva che questo poteva intimidire molti rappresentanti del sesso opposto, ma il suo interesse per la cosa era pari a zero.
 
Poteva essere sia donna al cento percento, che un maschiaccio matricolato, e questo faceva andare Jessie su di giri più ancora dell’abito della sera prima.
 
O della notte di sesso che avevano condiviso.
 
Quando Amanda fermò la Prius nel suo posto auto, di fronte al piccolo condominio dove abitava, Jessie ne approfittò per afferrarla gentilmente a un braccio.
 
Senza darle il tempo di protestare, la volse verso di sé e la baciò, affondando nella sua bocca con bramosia, possesso e tanta, tanta paura.
 
Quando infine si staccò da lei, gli occhi di Mandy erano spalancati e sì, molto molto svegli, ora.
 
“Adesso a che livello è il cervello?”
 
“Ha fatto il pieno di NOS1” gracchiò lei, tirandogli un pugno sulla spalla l’attimo seguente. “Ma che cavolo ti è saltato in testa?! Non potevi darmi un preavviso?!”
 
Jessie sorrise sbarazzino e Mandy, nel ritirare la mano con un ‘ahia’ a fare da corollario, mormorò: “L’effetto sorpresa serviva a svegliarti. E sai che è inutile che picchi un licantropo… ti farai sempre e solo male.”
 
“Me lo scordo ogni volta” brontolò lei, facendogli la lingua.
 
“Ti scoccia se mi asciugo, mentre parliamo?” le domandò Jessie, tirandosi un lembo di felpa umidiccia.
 
“Non in auto. La ridurrai a una sauna” scosse il capo lei, scendendo per tutta risposta. “Vieni su.”
 
Jessie annuì, infilandosi le mani in tasca per non essere tentato di provare un altro assalto. Quelle chiome castano rossicce sparse sulle spalle di Mandy invogliavano a infilarci dentro le dita, ma doveva trattenersi.
 
Dovevano parlare, prima.
 
Quando infine ebbero raggiunto l’appartamento, e Mandy si fu liberata si scarpe e piumino, lei lo fissò torva e borbottò: “Dai, accendi il calorifero mentre io mi cambio.”
 
Annuendo, Jessie espanse la propria aura mentre Amanda spariva nella sua camera da letto. Ne tornò qualche minuto dopo indossando un comodo pigiama di flanella azzurro, babbucce ai piedi e una spazzola.
 
Spazzola che poi porse a Jessie, asserendo: “Almeno si incasinano anche a voi, i capelli, quando si asciugano.”
 
Jessie assentì, ridendo sommessamente e, passandosi la spazzola sui capelli, seguì Mandy al divano, dichiarando: “Stanotte non sarei dovuto restare. Ma l’ho fatto, e non mi pento di essere venuto a letto con te, …ma non doveva succedere così.”
 
“Perché? Ti piace il sesso alternativo? La lap dance? Il bondage?” ironizzò Amanda, tuffandosi sul divano e mettendosi a gambe intrecciate su di esso.
 
Jessie scosse il capo, non sapendo se apprezzare il suo tentativo di fare dell’ironia, o detestarla perché non lo prendeva sul serio.
 
Preferì comunque la prima opzione, e mormorò: “Niente di ciò che hai detto. Il sesso classico è sottovalutato ma, se lo si fa bene, è eccezionale.”
 
“Concordo. Infatti, non mi pare di essermi lamentata. Ti ho pure usato da comodo cuscino, quando sono crollata” gli fece notare, allungandogli un cestino ricolmo di patatine.
 
Lui ne sgranocchiò alcune, studiandone il profilo tranquillo. Forse, dopotutto, non aveva combinato un guaio colossale, e lei lo avrebbe perdonato per quello scivolone imprevisto.
 
Quando, però, Mandy lo squadrò con espressione combattuta, Jessie tremò.
 
Ecco che arrivava la batosta…
 
“Pensavo a una cosa…” iniziò col dire lei, mordicchiando una patatina. “… ma poi l’ho scartata subito, perché non sarebbe da me.”
 
“E cioè, cosa?” si informò Jessie, teso come una corda di violino.
 
“Lasciar perdere” scrollò le spalle lei. “Io non lascio perdere. Io studio le prove, le analizzo e cerco di capire cosa mi sta succedendo dinanzi al naso. Ergo, che succede? Perché io l’ho capita in un modo, ma non so se ci ho azzeccato.”
 
“Prova a dirmi cosa ne pensi” le propose a quel punto lui, accavallando le gambe.
 
Ormai, era del tutto asciutto.
 
Mandy lo squadrò curiosa, sollevò un sopracciglio con ironia e mormorò: “Meglio di una stufetta. Questo è culo, Jessie. Culo al quadrato. Sai che fortuna poter contare su un trucco simile?”
 
“Stai divagando” le fece notare lui, ghignando.
 
“Vero, vero” sbuffò, gesticolando con le mani prima di fissarlo torva e dire: “Ecco come la penso. Tu volevi venire a letto con me. A me è piaciuto, a te è piaciuto, e ora siamo di fronte a un bivio.”
 
“Messa così, sembra che io abbia approfittato di te” sottolineò Jessie, storcendo il naso.
 
Sbuffando sonoramente, Amanda si passò le mani tra i capelli ed esalò gracchiante: “Veeero! Sì, è verissimo! Scusa.”
 
“Mandy, stai iperventilando, e il tuo cuore è a mille. Calmati, e dimmi cosa pensi” la riscosse gentilmente Jessie, sorridendole tranquillo.
 
“Maledetti i vostri radar… vi odio, quando fate così. Uno non può neanche avere una crisi di nervi in santa pace” brontolò la giovane, dandogli uno schiaffetto su un ginocchio. “Comunque, la cosa si riduce a me che dormo contro di te.”
 
“Eh?” gracchiò Jessie, allibito.
 
“Okay, a questo punto dovrei fornirti il manuale di sopravvivenza all’interno del cervello di Amanda Goffredo, cosa che non ho, al momento. Li ho terminati” ghignò lei, notando con un certo compiacimento la confusione aumentare sul volto di Jessie.
 
“Ho bisogno dei sottotitoli, Mandy…” si lagnò lui, passandosi una mano sul viso, su cui capeggiava un immaginario punto di domanda.
 
“Jessie, secondo te, dormirei con la prima persona che incontro per strada? Sarei così tranquilla e rilassata? Io? Dimentichi che io e ansia siamo compagne di giochi dalla prima superiore, e che io e amore abbiamo litigato anni fa, senza più arrivare a patti?”
 
Lui sgranò leggermente gli occhi, a quelle ultime parole e Amanda, sospirando, gli afferrò una mano, giocherellando con le sue dita.
 
“E’ palese che c’è stato qualcosa di più, oltre a una notte di buon sesso, in quello che abbiamo combinato assieme. E’ amore? E chi lo sa? E’ semplice attrazione? Dovrei essere morta da almeno cinque anni, per non trovarti attraente e sexy, credimi…” mugugnò lei, facendolo sorridere.
 
“Ma hai paura di scoprire cosa c’è sotto perché, innanzitutto, siamo amici, vero? E abbiamo un sacco di amicizie in comune. Mi sbaglio?” terminò per lei Jessie, stringendo le loro mani intrecciate.
 
“Colpita e affondata” assentì Mandy. “Ipotesi al riguardo?”
 
“Ti chiedo scusa se sono venuto a letto con te, sapendo già che provavo per te qualcosa di più di semplice amicizia. Ho giocato sporco. Ma non mi scuserò per i sentimenti che provo” ci tenne a dire Jessie, stringendo maggiormente nella sua le dita della donna.
 
“Nemmeno te lo chiedo. Le scuse, ecco. Per entrambe le cose. Sì, insomma, chi è che si dovrebbe scusare, dopo avermi regalato una notte da favola?” sproloquiò Mandy, agitando la mano libera con frenesia.
 
Jessie le sorrise, depositandole un casto bacio sulla tempia, che la chetò immediatamente.
 
Fissandolo con occhi per la prima volta smarriti, lei mormorò roca: “Non sopporterei di essere ferita da un mio amico. Questo, davvero, non lo reggerei.”
 
“E io non sopporterei di ferirti, Mandy, ma mentire sarebbe assurdo, ormai. Ti pare?”
 
“Dici?”
 
“Esci con me. Vediamo come va poi gestiremo la cosa da adulti ma, soprattutto, da amici che vogliono rimanere tali. Perché, se salterà fuori che tu non vuoi stare con me, io ci rimarrò male, ma non rinuncerò mai a te come amica. Anche se ti ho vista nuda” ammiccò Jessie, cercando di stemperare un po’ l’ansia che provava.
 
Amanda sbuffò, assentì una volta sola e, senza dargli alcun preavviso, si mise a cavalcioni su di lui e lo baciò, afferrando il suo viso con entrambe le mani.
 
Fu un bacio esplorativo, quasi timido, visto da chi proveniva, ma mandò in fiamme Jessie. Le sue mani scivolarono sulla schiena di Mandy, ricoperta da quel pigiama di flanella così buffo e, suo malgrado, rise.
 
Si staccò da lei, la abbracciò e disse: “Solo tu puoi essere sexy e seducente con questo affare di flanella.”
 
“E questo dice tutto” sottolineò lei, rimanendo accoccolata sopra di lui, il capo posato sulla sua spalla e il respiro nuovamente regolare.
 
In pochi minuti si addormentò e Jessie, sistemandola meglio tra le sue braccia, lasciò che si riposasse, che si concedesse qualche ora in tutta tranquillità.
 
In fondo, era stata lei a dire che solo con una persona di cui si fidava ciecamente, avrebbe potuto addormentarsi a quel modo.
 
Per ora, poteva bastare.
 
Quando, una decina di minuti più tardi, Mandy riaprì gli occhi, il dubbio però tornò ad assalirlo.
 
Forse, non sarebbe bastato quel sonnellino, dopotutto.
 
Piegando il capo per baciarlo sulle labbra, lei accolse con gioia la sua piena risposta e, tra un bacio e l’altro, Amanda mormorò: “Sono stanca morta… ma tu di qui non te ne andrai, stanotte. Fosse anche solo per una sveltina, ma non te ne andrai.”
 
Jessie scoppiò a ridere, le diede un bacio con lo schiocco e, sollevandosi in piedi con lei, le disse: “Riposa, mentre io ti scaldo qualcosa per cena. Non possiamo affrontare questa cosa a stomaco vuoto, ti pare?”
 
“Sai anche cucinare?” esalò lei, gli occhi brillanti come stelle.
 
“Ebbene sì. Perché?” ammise Jessie, mettendo mano al frigorifero.
 
Quando lo aprì, restò di sasso, facendo scoppiare a ridere di gusto Mandy che, con un balzo, lo raggiunse e mormorò: “Sono emiliana. Ti pare che non avrei avuto il frigorifero pieno di leccornie di ogni genere?”
 
“Qui si esagera, però. Ce n’è per un reggimento” gracchiò lui, avvolgendola con un braccio per attirarsela vicino.
 
“Chissà… forse volevo qualcuno a cena con me” buttò lì Amanda, sorridendogli maliziosa.
 
“Saranno diverse cene, credimi, vista la quantità di cibo…” ironizzò lui, baciandola sui capelli.
 
“Meglio” asserì lei, afferrandolo per la felpa per un bacio più serio.
 
Jessie chiuse il frigorifero. Forse, ci avrebbe pensato dopo alla cena, in fin dei conti.
 
 
 
 
 
 
 
1 NOS: protossido di azoto. Serve a dare maggior potenza al motore, con rendimenti molto al di sopra degli standard.
 

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N.d.A.:Visto che in molte mi avevate chiesto lumi su Jessie, ho pensato di reintrodurre anche il personaggio di Amanda, comparso per la prima volta in 'Vendetta al Chiaro di Luna'. Spero di aver soddisfatto la vostra curiosità in merito alla sentinella più amata del branco di Matlock!

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Capitolo 11
*** Huginn e Muninn - giugno 2011 (Branson) ***


Huginn e Muninn (Branson) – Giugno 2011
 
 
 
 
 
 
D’accordo, quei due corvacci, il più delle volte, facevano avanti e indietro come meglio credevano.
 
D’accordo, lui non li teneva in gabbia come avrebbe fatto chiunque altro, così loro potevano avere libero accesso all’uscita della voliera come meglio credevano.
 
D’accordo, Huginn e Muninn erano in gamba e due uccellacci con i controfiocchi, però… erano otto giorni che non rientravano!
 
Se fosse successo loro qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato, poco ma sicuro.
 
Branson non era legato ai suoi corvi solo da un legame di tipo lavorativo – erano i suoi occhi e le sue orecchie, quando doveva agire come Geri – ma anche dall’affetto.
 
Fin da quando Madre li aveva legati a lui durante la cerimonia del Riconoscimento, aveva sentito per loro un coinvolgimento emotivo che andava ben oltre il rapporto tra il padrone e i propri animali d’affezione. Quei due corvi imperiali, con i loro caratteri così volitivi, gli entrati nel cuore e nel sangue, ed erano diventati molto più che semplici partner lavorativi.
 
Erano suoi amici.
 
Quei due maledetti uccellacci del malaugurio, con il loro insolito ritardo, quindi, lo stavano davvero facendo ammattire, facendogli pensare le peggio cose!
 
Se l’indomani mattina non fossero tornati, avrebbe chiesto a Duncan il permesso di portare con sé Jessie per una missione esplorativa lungo i confini del clan.
 
“Chef! Qui c’è bisogno di lei!”
 
La voce trillante di Samantha Smithson, la sua sous-chef, lo riportò al presente e alla cacofonia della sua cucina. Il suo regno, ciò per cui aveva lottato e che ora lui guidava con maestria e sapienza, oltre che una buona dose di orgoglio.
 
Lo Stones Restaurant era la sua reggia scintillante, la sua tana sicura… ma, in quel momento, neppure quel luogo sembrava tranquillizzarlo.
 
I coniugi Stone, padroni del locale e suoi amici di lunga data, erano dei geni della ristorazione, ed era stato un piacere essere assunto per guidare la loro cucina. Insieme, avevano puntato tutto sulla qualità dei prodotti offerti alla clientela, oltre che su un servizio d’eccellenza e, nel corso degli anni, i sacrifici erano stati ripagati.
 
Le liste d’attesa erano lunghissime e, per prenotare, era necessario davvero un colpo di fortuna.
 
In quel momento, però, avrebbe voluto gettare tutto al vento e uscire a gambe levate da quel luogo di perfezione caotica. Voleva sapere dov’erano i suoi corvi. Solo questo gli importava.
 
***
 
Duncan annuì serio, di fronte al cipiglio ombroso di Branson e, nel lanciare un’occhiata a Brianna, appollaiata su una delle poltrone del salotto, asserì: “Non dovevi neanche venire a chiedermelo, Branson. Certo che puoi prendere Jessie con te, per cercare Huginn e Muninn. Desidero anch’io che quelle due pesti incarnate tornino all’ovile.”
 
Branson sorrise di fronte al tentativo di Duncan di fare dell’ironia. Era chiaro quanto Duncan fosse angustiato dalla notizia della mancanza dei due corvi, ma non volesse fargli pesare anche le sue preoccupazioni.
 
“Il tuo regno è giovane, Duncan, e non voglio certo passare per quello che si approfitta della nostra amicizia, scavalcandoti. Sai che, nel branco, ci sono ancora alcuni lupi legati a Connor e Sheoban, e non vedono l’ora che tu o Brianna commettiate un errore” replicò serafico l’uomo, lanciando a entrambi occhiate cariche di rispetto. “Dovevo chiedertelo.”
 
Brie fu la prima ad annuire a quelle parole.
 
“Sì, ti capisco. Sebbene sia passato più di un anno dal crollo del Consiglio, certi lupi hanno difficoltà a cambiare registro. Ma non ce ne preoccupiamo, Bran. Siamo più forti di così” dichiarò la wicca con determinazione.
 
“Ugualmente, preferisco seguire le regole” si limitò a dire Geri, scrollando le ampie spalle.
 
“Con il lavoro, come sei messo?”
 
Sorridendo divertito, Branson a quel punto ammise: “Quando ho chiesto un permesso di tre giorni, Mrs Stone mi ha subito chiesto se fossi malato. Mi ha guardato come se fossi sul punto di morire, e lei fosse al mio capezzale, in lacrime e con le mani già strette al rosario.”
 
Duncan lo squadrò con aria divertita, esalando: “Non dai l’idea di essere ammalato.”
 
“Infatti. Ma lei era terrorizzata al pensiero che i ritmi lavorativi in cucina fossero esagerati e mi ha ordinato di prendermi una settimana, non tre giorni, così da riposarmi sul serio” scrollò le spalle Branson.
 
Brianna scoppiò a ridere e, nel dare una pacca sulla spalla all’amico, celiò: “Di sicuro, non vuole perdere il suo meraviglioso Chef stellato.”
 
“Vorrei vedere…” ghignò Branson, dichiarandosi d’accordo.
 
Duncan, allora, sorrise e disse: “Da quel che so, Jessie ha già terminato i suoi esami all’università, per quest’anno, e non ha altre lezioni. Potete partire domani stesso, se preferisci.”
 
“Grazie” assentì Geri.
 
“Io, nel frattempo, scandaglierò i boschi con il mio potere. Passando voce tra le piante, dovremmo riuscire a coprire una zona piuttosto vasta in breve tempo” aggiunse poi Brianna, sorridendo all’uomo.
 
“Grazie anche a te, Prima Lupa. Il tuo aiuto sarà senz’altro prezioso” mormorò Branson, commosso.
 
“Ehi, Bran… teniamo anche noi a quei due ammassi di piume, anche se con me sono più scorbutici di un temporale estivo” rise la ragazza, battendosi una mano sul ginocchio.
 
Branson non poté che ridere a sua volta.
 
Ricordava bene la prima volta in cui aveva presentato Brianna ai due corvi; loro avevano cominciato a starnazzare come matti, finché non si era allontanata. La presenza di Fenrir dentro di lei li aveva messi in agitazione, e niente era valso allo scopo di calmarli.
 
Alla fine, Brie era uscita dalla voliera e, ridendo divertita, si era scusata con lui per il gran fracasso che aveva provocato.
 
“Li troverete, Bran, stanne certo” lo rincuorò infine Duncan, sinceramente convinto della buona riuscita della loro ricerca.
 
Anche Branson ci sperava, perché gli sarebbe davvero spiaciuto dover essere costretto a trovarsi altri due corvi imperiali per sostituirli.
 
Anzi, sarebbe stato impossibile. Quelle due pesti erano insostituibili.
 
***
 
I capelli bruni legati dietro la nuca, e alcune ciocche ribelli a sfiorare il viso di affascinante ventitreenne, Jessie ghignò all’indirizzo di Branson e domandò: “E così, stavolta, quei due hanno pensato di allungare la loro solita vacanza in giro per i boschi?”
 
“Magari fosse così! Di solito, quando intendono prolungare i loro andirivieni, uno dei due torna indietro per avvisarmi, ma stavolta non è successo” brontolò Branson, aggirandosi per il boschetto del Vigrond con aria guardinga.
 
Massaggiandosi il pizzetto con fare pensoso, il naso impegnato a controllare gli odori di fondo, Jessie replicò: “Mi fa ancora senso, pensare a due corvi che ti parlano in testa, sai?”
 
Bran lo fissò stralunato, ribattendo con franchezza: “Perché, io cosa dovrei dire, quando voi sembrate inscenare Underworld tutte le volte che vi trasformate?”
 
La sentinella scoppiò a ridere di gusto, mimando di aggredirlo con le zanne spianate e gli artigli in vista e Geri, scuotendo il capo, si limitò a sorridere.
 
Certo, il procedimento tramite cui Huginn e Muninn parlavano con lui – e lui solo – era davvero mistico e misterioso, ma non meno della mutazione dei licantropi.
 
Come ogni Geri, suo era il compito di catturare e addestrare alla fedeltà assoluta una coppia di corvi perché divenissero le sentinelle nel cielo del branco. Quando l’addestramento era compiuto, la coppia di corvi veniva portata al Vigrond, dove la quercia sacra conferiva loro poteri unici e inalterabili.
 
Da quel momento, i due corvi diventavano Huginn e Muninn, il ‘Pensiero’ e la ‘Memoria’ di Geri, quando egli era impegnato nella predazione.
 
Il primo, consentiva a Geri di vedere ciò che il corvo aveva visto durante le sue perlustrazioni e, grazie al legame che li univa, Branson poteva trasmettere ordini a Huginn su dove andare, o cosa fare.
 
Muninn, la ‘Memoria’, era invece una vedetta, la spalla di Huginn, e trasmetteva i dati raccolti una volta di ritorno alla base.
 
Al secondo corvo era dato anche l’incarico di tenere, per l’appunto, una memoria a tempo indefinito di tutte le missioni di Branson, nel caso vi fosse stato bisogno di un raffronto.
 
Senza di loro, Branson si sentiva come privato di un arto.
 
Voleva davvero bene a quei due corvacci dispettosi, e pensare che potesse essere successo loro qualcosa di brutto, lo metteva in agitazione.
 
Quando, sul finire di quella giornata passata nel bosco, il loro peregrinare risultò infruttuoso, Jessie borbottò preoccupato: “Se non sono nella foresta del Vigrond, dove possono essersi cacciati?”
 
“E chi lo sa?” sospirò afflitto Branson, passandosi una mano tra i corti capelli tagliati a spazzola.
 
“Non ti hanno detto nulla, prima di sparire dalla voliera?” si informò Jessie, dandogli una pacca sulla spalla per calmarlo. In quel momento, Branson non si sarebbe accorto di avere davanti neppure Charlize Theron in bikini, tanto era agitato.
 
“Solo che… che…” tentennò l’uomo, cercando di non iperventilare.
 
Doveva darsi una cavolo di calmata, se voleva essere utile a Jessie nel ritrovare i corvi del branco, non mettersi a frignare come un bambino piccolo.
 
Preso un bel respiro, quindi, Bran chiuse per un istante gli occhi e cercò di rammentare gli ultimi fotogrammi di quella mattina di nove giorni prima. Huginn era stato il primo a involarsi, sparendo nel cielo turchino, agli albori dell’alba.
 
Muninn, invece, si era appollaiato come al solito sul suo braccio, si era strusciato per un attimo contro la sua guancia e…
 
Facendo tanto d’occhi, Branson esalò: “Ovest. Si sarebbero diretti verso il Galles.”
 
Strabuzzando gli occhi, Jessie esalò: “E perché mai, scusa?! Là ci sono solo rocce e pecore!”
 
“Girano voci sulla formazione di un nuovo branco nella zona. Pare che diversi lupi errabondi, che non vogliono sottostare alle attenzioni di nessuno dei Fenrir or ora esistenti, abbiano deciso di costituire un nuovo gruppo” spiegò Branson, continuando a pensare a ciò che Muninn gli aveva detto.
 
“E… e si può fare?” gracchiò Jessie, decisamente perplesso.
 
“Che io sappia, non esiste nessuna legge che lo vieti. Sarà un branco guidato da un Consiglio, non da un Fenrir, a meno che non ne nasca uno in seno al clan, prendendo de facto il potere nelle sue mani” espose Geri, muovendo distrattamente una mano.
 
Jessie, però, storse il naso e replicò: “Non mi piace l’idea. Suona… iconoclasta.”
 
Branson lo fissò con uno scuro sopracciglio sollevato, un’aria assai divertita stampata in viso e il lupo, storcendo la bocca, aggiunse: “Sì, dai, insomma… senza una Triade di Potere, mi suona stonato. Guarda che cosa è successo a noi, con il Consiglio?!”
 
“E tu mi sembri mio nonno, a parlare così” ironizzò Branson, guadagnandosi un ringhio in risposta. “Comunque, è parso strano anche a Muninn e Huginn, visto che sulla costa gallese già è presente il branco di Pascal Laroche che, di certo, non si può definire un Fenrir crudele o nevrastenico. E’ per questo che sono andati a curiosare, a loro dire. Visto che era una missione esplorativa e null’altro, non ho detto niente a Duncan ma, a questo punto, ho idea che sia successo qualcosa in Galles. Può essere per questo, che non rientrano.”
 
Assentendo grave, la sentinella afferrò il cellulare dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni mimetici e chiamò Duncan, comunicandogli la loro idea.
 
Quando mise giù, lanciò un’occhiata a Branson e disse: “Ci autorizza ad andare, e con noi verrà anche Jerome. Dice che, nel frattempo, sentirà Pascal per accertarsi che lui sappia qualcosa di questo neonato branco.”
 
Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Geri esalò: “Manderà con noi il secondo in comando? E ti ha spiegato perché?”
 
“Per due motivi; uno, ufficiale, per rendere nota la nostra disponibilità a una eventuale alleanza con il potenziale nuovo clan. L’altro, ufficioso, per curiosare con più occhi e più orecchie. Inoltre, Jerome si sta annoiando a morte, e vuole combinare qualcosa.”
 
Assentendo con un risolino, Branson allora dichiarò: “Vado a prendere la macchina.”
 
Ciò detto, corse via mentre Jessie, incamminandosi più lentamente, chiamava Jerome per mettersi d’accordo sulle tempistiche del loro viaggio.
 
Se i corvi erano veramente andati là e, per qualche motivo, non erano tornati indietro, ci si poteva aspettare di tutto, da quella missione esplorativa.
 
***
 
La cittadina di Talgarth – luogo ipotetico dell’insediamento del nuovo clan – era uguale a mille altre, con piccole case dai tetti spioventi e muri di sassi coperti di muschio.
 
Altre abitazioni, più recenti, erano stuccate con colori accesi e freschi, col chiaro intento di ravvivare in qualche modo l’asprezza del territorio e del clima.
 
Il Galles non era mai stato un luogo per pavidi o deboli di cuore e, di sicuro, era il luogo giusto per insediarvi un clan nuovo di zecca. Poca concentrazione umana – rispetto al Middle England – e luoghi più a misura d’uomo, così come di licantropo.
 
Lì, era tutto più tranquillo, meno frenetico rispetto a città come Manchester o Londra.
 
Un toccasana, per le controparti ferine dei licantropi, oltre che un luogo al di fuori del controllo di qualsiasi altro clan britannico.
 
Raggiunto che ebbero il loro albergo, l’Old Radnor Barn, Branson si avviò alla reception per il check-in, mentre Jessie e Jerome davano un’occhiata in giro.
 
Il locale era in stile classico, a un piano, in pietra grigia e dalle imposte lignee. Ben tenuto al pari dell’ampio giardino che lo circondava, era un locale discreto e dall’eleganza sobria e vecchio stile.
 
Prometteva rilassanti giornate all’aria aperta, poca confusione di mezzi e persone e tanta, tanta collina a perdita d’occhio.
 
Ritirata la chiave della loro stanza, Branson si premurò di chiedere informazioni circa i percorsi per escursionisti e le bellezze del luogo. Dovevano apparire in tutto e per tutto dei turisti, e domandare indicazioni era un buon sistema per dare quest’idea.
 
Fatto ciò, e ricevuto in risposta un lungo elenco di luoghi da visitare, Branson raggiunse infine la stanza d’albergo assieme ai suoi due compagni di viaggio, e lì controllò l’esterno dalla finestra rivolta verso il cortile.
 
Era un buon punto di osservazione e, da quella posizione, potevano tenere d’occhio la strada da cui si accedeva all’albergo.
 
Dopo aver sistemato le valige accanto all’ampio letto a una piazza e mezzo, Geri propose loro: “Direi di andare a fare un giretto in centro, così voi potrete fare le vostre cose da lupi, mentre io vi guarderò le spalle.”
 
“Andata” assentì Jerome, passandosi una mano sullo stomaco prima di battervi sopra un paio di volte. “Potremmo anche andare a mangiare, nel frattempo. Comincio a sentirne l’esigenza.”
 
Scoppiando a ridere, Jessie assentì al suo Skŏll. “Anche il mio stomaco brontola.”
 
“Metabolismi accelerati…” sospirò divertito Branson, allacciando sul torace le fondine ascellari prima di inserire le sue Beretta semiautomatiche.
 
Jerome lo fissò dubbioso mentre terminava di indossare il suo giubbotto di pelle ma Geri, per tutta risposta, disse: “Non si può mai sapere, Sköll. E io non amo scherzare, quando devo proteggere qualcuno.”
 
“Ho notato” assentì il licantropo, avviandosi con i due amici verso la porta e raggiungere così l’uscita dell’albergo.  
 
Da lì, imboccarono lo stradello che conduceva alla via principale della cittadina, High Street e, una volta raggiuntala, iniziarono a percorrerne il marciapiede con passo tranquillo e aria apparentemente pacifica.
 
Gli occhi di Geri percorsero attenti ogni centimetro visibile sulla strada, mentre i due licantropi dinanzi a lui mantenevano un atteggiamento spensierato e sereno. Non era il caso di attirare più attenzione del necessario, visto che avevano comunque stazze tali da far girare più una testa verso di loro.
 
Non occorse comunque molto, per raggiungere un localino adatto a riempire gli stomaci dei due licantropi, e permettere a Branson di rizzare le orecchie e ascoltare le chiacchiere di paese.
 
Una volta all’interno, Jerome ordinò per tutti e trovò un tavolino nei pressi dell’ampia vetrata d’ingresso. Da lì, avrebbero potuto continuare a tenere d’occhio la strada e, al tempo stesso, sarebbero stati in grado di sgattaiolare fuori dal locale in caso di bisogno.
 
Mentre fish and chips arrivavano in gran quantità, assieme a tre pinte di birra chiara, le dita di Branson volavano sulla tastiera del cellulare, prendendo nota di indirizzi, vie, parchi pubblici e quant’altro.
 
C’era la remota possibilità che i licantropi del posto non c’entrassero nulla, con la sparizione dei suoi corvi, e che loro non fossero neppure presenti a Talgarth. Il fatto di trovarsi lì era solo pura speculazione.
 
Non era affatto detto che quello sparuto gruppo di lupi solitari, di cui avevano ricevuto solo sparute notizie di seconda mano, si fosse stanziato proprio lì, ma da qualche parte avevano dovuto iniziare la loro ricerca.
 
Oppure, ma non voleva pensarci neppure un istante, Huginn e Muninn erano semplicemente morti a causa di qualche cacciatore di frodo, e loro non li avrebbero mai più trovati.
 
Chiuso infine il collegamento a Google proprio in concomitanza con l’arrivo di un paio di operai edili, che entrarono nel locale per il pranzo, Branson prese la sua birra e la sorseggiò pensieroso.
 
Il liquido ambrato e fresco scivolò piacevole lungo la gola e, mentre una patatina fritta seguiva la birra, Branson lanciò un’occhiata apparentemente distratta ai due nuovi arrivi, studiandoli con occhio di Geri.
 
Dando poi di gomito a Jessie, Branson gli fece un cenno in direzione degli operai che, proprio in quel mentre, volsero lo sguardo verso di loro.
 
Non vi fu bisogno di presentazioni.
 
Se Branson si era accigliato nel notare la loro possanza fisica, oltre a un’altra decina di particolari, che solo un occhio esperto poteva notare, Jerome e Jessie semplicemente si irrigidirono come due bastoni.
 
Geri era abituato da anni a riconosce gli infinitesimali particolari che contraddistinguevano i mannari, e si compiacque di non essersi sbagliato. Sperò, comunque, che quei due fossero dei buontemponi, o tenerli a bada sarebbe stato difficile, visto quanto erano grossi.
 
I due nuovi arrivati si scambiarono un’occhiata significativa, prima di deviare i loro passi verso il tavolo a cui si erano accomodati Geri e compagni.
 
Jerome fu il primo a parlare e, levata una mano in segno di saluto, si aprì in un sorriso gioviale e disse: “Ehi, ragazzi! Qual buon vento?”
 
Il più grosso tra i due annusò l’aria con fare discreto prima di afferrare una sedia, volgerla verso il tavolo di Jerome e sedervisi sopra, intrecciando poi le braccia sullo schienale ligneo.
 
L’altro, rimase in piedi a coprirgli le spalle.
 
Apparentemente, nessuno nella locanda diede adito di occuparsi di loro.
 
Le chiacchiere continuarono, la barista li degnò solo di mezza occhiata e la televisione sputò notizie su notizie, senza essere realmente ascoltata da nessuno.
 
“Ragazzi…” borbottò l’uomo, parlando con tono basso e roco. “… che ci fate qui? E’ ancora un po’ presto per fare i turisti in queste campagne. Vi si gelerà il culo, con il tempo che c’è fuori.”
 
Il trio guardò oltre la superficie linda della vetrata, scrutando il cielo rigonfio e che minacciava pioggia. In effetti, non c’era di che stare allegri.
 
Volgendosi in direzione della bionda al bancone del bar, poi, l’uomo esclamò: “Ehi, Bess! Porta altre tre birre a questi ragazzi, e mettile sul mio conto! Dobbiamo trattare bene i turisti che vengono qui, no?!”
 
La donna in questione lo mandò candidamente al diavolo, scatenando l’ilarità dell’uomo e quella di molti commensali.
 
Le birre, comunque, arrivarono e, mentre Jerome sorseggiava la sua, domandò mentalmente e con cortesia: “Un’accoglienza degna di nota. Spero davvero che la nostra presenza non arrechi disturbo al vostro gruppo. Siamo solo in cerca di un paio di amici che, a quanto pare, bazzicavano da queste parti, e non sono più tornati a casa.”
 
“Mi chiedevo, infatti, cosa ci facesse il membro di una Triade in giro per il Galles. I tuoi amici, chi sono? E l’umano, sa tutto?” replicò l’uomo, intrecciando le mani sul tavolo.
 
“L’umano è il nostro Geri. Io sono Sköll di Matlock, e il ragazzo al mio fianco è una delle nostre sentinelle.”
 
L’uomo fischiò, forse sorpreso dalla presenza del secondo in comando di un branco o, forse, dalla sua provenienza. Era possibile che la fama di Brianna fosse giunta fino a lì. Chi poteva dirlo?
 
“Bleidd, forse è il caso che parliamo con Cedrik. Lui ne sa un totale di questa zona, e potrà consigliare ai nostri amici che attrazioni vedere. Io finirei con il mandarli in un vicolo cieco, temo!” ghignò il licantropo seduto accanto a Jerome, scoppiando poi in una grassa risata.
 
Poi, come ripensandoci, si alzò in piedi e aggiunse: “Meglio ancora. Vi ci portiamo noi, da Cedrik. E’ la miglior guida del posto, oltre a essere il cognato di Bleidd.”
 
“Ottimo. Tanto noi, qui, avevamo finito” assentì Jerome, levandosi in piedi e allungando una mano verso l’uomo che, fino a quel momento, aveva parlato.
 
“Jerome Rowley, tanto piacere, e grazie in anticipo per l’aiuto.”
 
“Io sono Griff Dixon mentre il mio amico, qui, è Bleidd Sorensen. Ci pensiamo noi a farvi visitare la zona. La troverete… interessante.”
 
“Non vediamo l’ora” dichiarò Jessie, avvicinandosi di un passo a Griff, come per proteggere Jerome da eventuali colpi di testa.
 
Branson infilò distrattamente una mano sotto il giubbotto di pelle che indossava, mascherando la sua mossa con un evidente grattino al torace.
 
Bleidd lo fissò comunque con aria torva – forse non apprezzando l’implicita minaccia – ma non disse nulla, limitandosi ad annuire.
 
Il messaggio era arrivato, quindi.
 
Se nessuno avesse fatto scemenze, lui non avrebbe estratto le sue armi.
 
Dopo essersi presentati, il gruppo uscì di buona lena – assieme a due sacchetti di carta pieni di panini per i due operai – e si avviò sulla strada principale. A quell’ora, il traffico era un poco aumentato, ma nulla a confronto con il caos congestionato di Matlock, o di Manchester.
 
A quel punto, Griff si volse a mezzo e dichiarò: “Come mai il secondo in comando del branco di Matlock si trova qui? Non ci sono lupi stranieri, in zona. Diversamente, lo sapremmo.”
 
“Non stiamo cercando dei lupi, infatti. Si tratta dei nostri corvi” replicò Jerome, notando subito l’accigliarsi dell’uomo.
 
“Ci spiavate?” replicò Griff, ombroso.
 
“Non è nostra abitudine spiare nessuno. I corvi fanno quello che vogliono e, se lo ritengono giusto, danno un’occhiata in giro” intervenne Branson, pacifico, lanciando un’occhiata guardinga all’alto licantropo.
 
“So bene come ragionano Huginn e Muninn, umano, e non sono dei semplici corvacci neri” gli ringhiò contro Griff, alterandosi leggermente.
 
Bleidd, allora, diede una pacca sulla spalla all’amico e, a sorpresa, iniziò a gesticolare velocemente con le mani nella sua direzione.
 
Griff a quel punto sbuffò, ma assentì controvoglia, replicando: “Lo so, lo so… stai buono, Bleidd. Non voglio mangiarli, ma mi sta sulle palle che vengano qui a curiosare. Non stiamo facendo nulla di male!”
 
Bleidd sbuffò a sua volta, lanciandosi in un’altra serie di gesti e l’amico, levando le mani in segno di resa, esalò: “E va bene! Stai buono! Non staccherò la testa a nessuno. Promesso.”
 
Vagamente sconcertati, i tre membri del clan di Matlock fissarono dubbiosi Bleidd che, per tutta risposta, aprì la bocca, indicandosi la lingua mancante.
 
Al che, Griff ringhiò irritato: “Quel macellaio di Sebastian Sheperd. Ce ne andammo dal suo branco quasi due anni fa, quando il nostro Fenrir divenne così squilibrato da mettersi a fare il dittatore con tutti, persino con i neutri. A Bleidd, qui, tagliò la lingua perché aveva difeso la sorellina dalle sue angherie.”
 
Jerome aggrottò la fronte al pari degli altri, a quelle parole, e sentenziò: “Beh, vi farà piacere sapere che è morto e sepolto… e nel peggiore dei modi.”
 
“Eccome se mi fa piacere! Chi è stato a far fuori quello stronzo!? Vorrei stringergli la mano!” esclamò ghignante Griff, mentre Bleidd si esibiva in un gestaccio rivolto al cielo.
 
“Ehm… diciamo che sappiamo con certezza che ha sofferto parecchio ma, al momento, l’autore del misfatto non è reperibile” esalò Jerome, sperando bastasse loro quella semplicistica spiegazione.
 
Speranza vana, ovviamente.
 
Nel tempo che servì loro per raggiungere Cedrik, Jerome spiegò alla coppia di licantropi ciò che era avvenuto a Holm of Huip, e come si fosse rischiata la fine del mondo.
 
Quando, infine, si infilarono nel cortile di una proprietà privata, le facce di Bleidd e Griff erano pervase dallo sconcerto più puro.
 
E come dar loro torto, dopotutto? Chi poteva immaginare che potessero succedere eventi simili a quelli accaduti a Holm of Huip?
 
Jessie, impegnato nel suo ruolo di sentinella, bloccò Jerome a un braccio, torvo, osservò l’alta casa a tre piani che si innalzava dinanzi a loro.
 
“Sei presenze mannare. Con tutto il rispetto, ma non posso far entrare il mio Sköll in un luogo chiuso, e con così tanti licantropi” dichiarò subito dopo, lanciando poi un’occhiata dubbia all’indirizzo dei loro due ospiti.
 
Bleidd assentì prima ancora che Griff potesse replicare e, intimando all’amico di non fare cazzate, corse in casa senza aspettare altro tempo.
 
Curioso, Jerome dichiarò: “Sbaglio, o il tuo amico ha paura di qualche tuo colpo di testa?”
 
“Ho il prurito alle mani. Sempre” ghignò Griff, infilando le dirette interessate nelle tasche del bomber che indossava.
 
“Capisco” replicò Jerome, ghignando in risposta.
 
Per ogni evenienza, Branson infilò la mano destra nella sua giacca, in corrispondenza della Beretta che portava nella fondina da spalla.
 
Quando, però, a uscire fu una donna in evidente stato di gravidanza, e scortata da un attento Bleidd, tutti si calmarono subito.
 
Branson ritirò la mano per infilarla in tasca e Griff, indicando con un cenno del capo la donna, dichiarò: “La sorellina di Bleidd. Lei è Eirwyn.”
 
“So ancora parlare, sai, Griff? E ho idea che tu non abbia fatto fare una bella figura al nostro neonato branco, se il Geri dietro di te è così teso.”
 
Branson le sorrise, levando per un istante entrambe le mani a mostrare la mancanza di armi mentre Jessie, allontanandosi di un passo da Jerome, dichiarava senza bisogno di parole di non essere più in stato di allerta.
 
Jerome sorrise infine alla donna, biondissima quando chiara di pelle e, nel concederle un cenno ossequioso del capo, disse: “Le mie più sentite felicitazioni per la tua condizione, Eirwyn. La luna splende su di te con immane forza, non c’è che dire.”
 
“A me sembra di averla ingoiata, la luna” rise la donna per tutta risposta, scatenando l’ilarità dei presenti.
 
“Sempre la solita irrispettosa, cara” celiò un uomo, affacciandosi sulla porta, poco dietro fratello e sorella.
 
Eirwyn si volse a mezzo, sorridendogli con affetto, e replicò: “Ma è vero, caro! Sono enorme, ormai!”
 
“E rechi una speranza degna di nota, in te, perciò non farò nulla per contraddirti, anche se io penso che tu non sia enorme” convenne l’uomo, avvicinandosi a Jerome con la mano tesa verso di lui. “Sono Cedrik Riley, molto piacere. Per ora, sono il capo del Consiglio che guida questo neonato branco. E’ un piacere ricevere visite così importanti, e così presto.”
 
Levando un sopracciglio con evidente curiosità, Jerome strinse la sua mano protesa e replicò: “Prevedi di perdere lo scettro a breve?”
 
Cedrik, allora, lanciò uno sguardo al ventre della compagna e, sorridendo gaio, dichiarò: “Tra circa tre mesi anche se, per molti anni, guiderò assieme ai miei consiglieri per spianare la strada a lei.”
 
Sempre più sorpreso, Jerome esalò: “Sai… sai che sta per nascere Fenrir?”
 
“La mia Eirwyn non è solo una lupa eccezionale e bellissima… ma è anche una völva. Ha predetto la nascita dell’erede del branco. E del suo Hati.”
 
Il terzetto di Matlock, allora, fischiò in risposta, del tutto ammirato, e Jessie esclamò: “Gemelli? Ma è fantastico!”
 
“Già. Anche se pesano quando una chevy” rise Eirwyn, ricevendo in risposta una pacca sulla spalla dal fratello.
 
Sempre sorridendo, Cedrik aggiunse: “Bleidd mi ha accennato ai vostri corvi. Spero siano gli stessi che abbiamo in cura noi, altrimenti non oso immaginare che fine abbiano fatto.”
 
Nel sentirlo parlare a quel modo, Branson chiese subito: “In cura? Cos’è successo?”
 
Perdendo del tutto il sorriso, Eirwyn mormorò spiacente: “Li ho trovati nel bosco del nostro Vigrond. Uno dei due era rimasto intrappolato in una rete da uccellagione, purtroppo, e l’altro era disidratato e infiacchito. Ho idea che si sia sfiancato nel tentativo di liberarlo, a giudicare dai segni che ho trovato sulla rete.”
 
A Branson sfuggì un’imprecazione e Cedrik, trovandosi pienamente d’accordo, chiosò torvo: “Non ti biasimo per la tua rabbia, perché è giustificata. Purtroppo, non ho abbastanza uomini per perlustrare i boschi e, a volte, capitano ancora cose come queste.”
 
“Non è certo colpa tua, se ci sono degli idioti che braccano illegalmente” sospirò a quel punto Branson, passandosi una mano leggermente tremante tra i capelli.
 
“Andiamo dentro. E’ inutile parlare qui fuori. Così, potrete parlare con gli altri membri del Consiglio” dichiarò Eirwyn, prima di aggiungere ammiccante: “E, magari, darci qualche dritta.”
 
Jerome sorrise più rilassato e, preceduto da Jessie – mentre Branson chiudeva la fila – entrarono nella villetta isolata e circondata dal verde.
 
Oltrepassato un ampio ingresso in marmo, e su cui si aprivano due rampe di scale ad arco, raggiunsero un ampio salone dal mobilio elegante e dalle tinte chiare. Lì, vennero introdotti e presentati al neocostituito Consiglio del branco di Talgarth.
 
Per la maggiore, come poté notare Jerome, erano lupi giovani, intorno alla ventina d’anni ma, tra essi, spiccava anche un anziano dal volto sfregiato.
 
Il padre di Bleidd ed Eirwyn, vennero poi a sapere.
 
Accigliandosi leggermente, Jerome domandò: “Regalo di Sebastian anche quella cicatrice?”
 
L’uomo assentì, sbuffando, e replicò: “Non gli è bastato prendersi un pegno da Bleidd per aver difeso la nostra piccolina dalle sue mire… no, ha voluto segnare tutti noi, in famiglia.”
 
Questo fece impallidire i tre ospiti che, all’unisono, lanciarono occhiate ansiose alla giovane partoriente.
 
Lei, per tutta risposta, mormorò serafica: “Spero non vi offenderete, se non vi mostro le cicatrici sulla schiena. Sono piuttosto bruttine, e non sono il biglietto da visita migliore, a un primo incontro.”
 
A Jerome sfuggì un’imprecazione piuttosto colorita e, ancora una volta, fu lieto per la fine ignominiosa di Sebastian. Forse, sarebbe stato più soddisfatto solo se lo avesse ucciso di sua mano ma, già così, poteva andare bene.
 
“Quindi, provenite in massima parte dal branco dell’Isola di Man?” domandò Jessie, distendendo gli avambracci sulle cosce muscolose dopo essersi accomodato su una poltrona in stile chippendale.
 
“Solo in parte” spiegò Cedrik, accomodandosi a sua volta sul divano, al fianco della compagna. “Altri, sono lupi errabondi che hanno deciso di trasferirsi qui. Altri ancora, provengono da oltre Manica.”
 
“Lupi francesi?” esalò sorpreso Branson, guardandosi intorno pieno di curiosità.
 
Oui” disse uno dei due ragazzi dalla chioma biondo platino, dando di gomito al gemello al suo fianco. “Veniamo da Landerneau, in Bretagna. Siamo innamorati da anni del Galles, così abbiamo deciso di trasferirci qui, quando nostra sorella è diventata Fenrir del nostro vecchio branco.”
 
“Vi immaginate doverla servire e riverire ogni giorno, per tutta la vita?” ironizzò il secondo gemello, strizzando l’occhio al fratello che aveva appena parlato.
 
La battuta fece sorgere un sorriso spontaneo nei presenti.
 
Era indubbio il loro amore per la sorella, ma la voglia di libertà doveva essere stata superiore agli affetti familiari.
 
“Quindi, siete giunti qui e avete preferito evitare il branco di Pascal Laroche per aggregarvi a questa nuova realtà” dedusse Jerome.
 
“Esatto. Senza nulla togliere a Fenrir di Cardiff, che sembra davvero un brav’uomo, ma volevamo un’avventura diversa, per noi. Nel nostro viaggio itinerante, siamo venuti a sapere della presenza di altri lupi come noi e, parlandone con loro, abbiamo deciso di mettere insieme le rispettive abilità, formando così un Consiglio ad interim. Quando Eirwyn ci parlò dei gemelli, facemmo festa per una settimana, credo” ghignò il gemello più alto – Soren – sorridendo affettuosamente alla donna.
 
“E qui giungiamo noi… o meglio, i miei corvi” si intromise Branson. “Loro avevano sentito della notizia di un neonato branco grazie alle chiacchiere delle gazze, che sono notoriamente ciarliere e ficcanaso, così sono passati per dare un’occhiata, finendo nelle reti da uccellagione.”
 
Assentendo, Eirwyn fece un cenno a Bleidd, che sparì dalla stanza a grandi passi.
 
“Ci ha sorpresi scoprire che qualcuno fosse già interessato a noi, visto che siamo un branco insediatosi qui solo da pochi mesi…” spiegò loro la donna, massaggiandosi il ventre. “…ma ci ha anche rallegrati, perché speravamo davvero di poter prendere contatti con qualcuno. Sapevamo bene che non potevamo essere noi a fare il primo passo.”
 
Annuendo a più riprese, Jerome comprese bene il loro punto di vista. Nessun branco neonato poteva chiedere udienza ai Fenrir già insediati, ma doveva avvenire l’esatto contrario. Il fatto che Pascal non si fosse ancora presentato alla porta, essendo il branco a loro più vicino, poteva essere dipeso da molti fattori, non da ultimo le condizioni di salute del secondogenito di Fenrir.
 
Non aveva dubbi sul fatto che, sapendo il figlio pretrans in ospedale, Pascal avesse già fin troppi pensieri per i fatti suoi, senza dover pensare anche al neonato branco di Talgarth.
 
Nel loro caso, l’incontro con Eirwyn e gli altri membri del Consiglio era avvenuto per un caso fortuito, ma andava ugualmente bene per stendere i primi rapporti di amicizia.
 
In quel mentre, Bleidd tornò nella stanza, scatenando in Branson un sorriso spontaneo e un sospiro di sollievo.
 
Muninn, nel vederlo, balzò via dalla spalla del licantropo e si involò verso il padrone, scatenando la sorpresa dei presenti.
 
Huginn, invece, disteso su una cesta imbottita, levò il capo e gracchiò, ma non si involò verso Branson. L’ala visibile era pesantemente fasciata, ma il corvo sembrava stare tutto sommato bene.
 
Con Muninn appollaiato sul braccio, Branson mormorò alla mente del corvo: “Ehi, ma che diavolo vi è successo?!”
 
“Una stupida disattenzione, ecco cosa… Huginn stava cacciando un coniglio.”
 
Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, Branson lanciò un’occhiata all’altro suo corvo, che ebbe la decenza di nascondere il musetto nell’imbottitura della cesta, vergognandosi a morte per la sua sbadataggine.
 
Bleidd posò con delicatezza il tutto sul tavolino del salone e Branson, ironico, chiosò con voce udibile da tutti: “Un coniglio, Huginn?”
 
“Mi sento già abbastanza idiota così, Geri, …non infierire, ti prego.”
 
Liberandosi in un ghigno che sapeva sia di ironia che di sollievo, Branson replicò: “Hai pagato con gli interessi la tua disattenzione, quindi penso proprio che non infierirò oltre. Eirwyn e gli altri sono stati gentili con voi?”
 
“Quella è una santa donna, altroché! Ci ha trovati e condotti subito al riparo, e mi ha medicato nel migliore dei modi.” Poi, come rammentando una cosa all’ultimo momento, aggiunse: “Ah, fa uno stufato di cinghiale che è la fine del mondo.”
 
A quel punto, Branson scoppiò in una risata liberatoria e, a mo’ di spiegazione, disse loro ciò che Huginn gli aveva appena confessato.
 
Muninn, scuotendo il capo piumato, gracchiò un insulto al fratello, che però non diede adito di averlo ascoltato. Era risaputo che, tra i due corvi, Muninn fosse il più serioso.
 
Nel depositare Muninn sul bracciolo della poltrona, Branson si volse a sorridere a Eirwyn e, dopo un attimo, si inginocchiò, mormorando ossequioso: “C’è una vita tra noi due, Prima Lupa. Dimmi come posso sdebitarmi.”
 
Scoppiando a ridere di fronte a quel gesto così plateale, anche se in accordo con il corretto bon ton da tenersi di fronte a una Prima Lupa, la giovane replicò: “Oh, ma… non merito questo titolo! Cedrik non è Fenrir!”
 
“Reputo giusto conferirti questo onore, mia signora, perché te lo sei guadagnato per i tuoi meriti e, come unico membro femminile del vostro Consiglio, penso ti spetti” ribatté con gentilezza Branson, lanciando poi un’occhiata curiosa al resto dei lupi presenti.
 
“Io dico che quest’uomo ha ragione!” esclamò il gemello basso – Marvin – annuendo all’indirizzo di Cedrik.
 
Anche gli altri membri si dichiararono d’accordo e, quando fu il tempo del padre di Eirwyn di parlare, lui mormorò commosso: “La mia Bryony sarebbe felice di saperlo, se fosse ancora viva. Concordo con gli altri; Eirwyn dovrebbe essere la nostra Prima Lupa, in attesa che mia nipote diventi Fenrir e trovi il suo compagno per la vita.”
 
Jerome diede una pacca sulla spalla a Branson, annuendo compiaciuto e quest’ultimo, nel risollevarsi, disse: “Resta valida la mia offerta, Eirwyn. Parla, e io esaudirò un tuo desiderio.”
 
A quel punto, la donna parve dubbiosa e insicura e, nel lanciare occhiate alterne ai suoi compagni di branco, mormorò: “Non saprei davvero che dire… non mi aspettavo una ricompensa per aver curato quel dolce corvo.”
 
Branson lanciò un’occhiata incuriosita a Huginn che, indispettito, borbottò: “Ehi, andiamo! E’ carina, no? Ovvio che sono stato cortese! Mi stava curando!”
 
“Ruffiano…” replicò Branson, pur sorridendo.
 
Il corvo gli gracchiò contro per diretta conseguenza, ed Eirwyn sorrise divertita, prima di esclamare eccitata: “Ecco cosa potresti fare per me! Insegnarmi ad allevare i nostri Huginn e Muninn.”
 
“Dovrebbe essere un membro umano del branco, a farlo, però. Quando vengono trovati, i corvi non sono ancora abituati ai licantropi, e non resisterebbero a stare a stretto contatto con un mannaro, per quanto gentile esso sia” replicò spiacente Branson.
 
“Oh, già… è vero…” mormorò Eirwyn, abbattuta.
 
“Però…” intervenne Cedrik, dando una pacca sulla spalla alla moglie. “… potrebbe insegnare le basi a Bess.”
 
Rivoltosi poi a Branson, l’uomo si spiegò meglio.
 
“Bess MacGuff gestisce la locanda dove vi hanno trovato Bleidd e Griff. Sa di noi, anche se è umana, ed è da lei che noi teniamo le nostre riunioni, quando abbiamo bisogno di spazio.”
 
Annuendo compiaciuto, Branson allora lanciò un’occhiata a Jerome per avere l’autorizzazione e lui, sorridendo, dichiarò: “Beh, come Sköll posso autorizzarti a trovare i nuovi Huginn e Muninn per questo branco. Per lo meno, saranno pronti per quando verrà scoperto il primo Geri di questo clan. Nel frattempo, organizzerò un incontro con la nostra Prima Famiglia, così che il vostro Consiglio abbia un valido alleato e, alla prossima riunione tra Clan, potrete partecipare a pieno titolo. Chiamerà anche Pascal di Cardiff, che sarà sicuramente lieto di darvi manforte. Ultimamente ha dei problemi con il figlio minore, ma sono sicuro che troverà del tempo per conoscervi meglio.”
 
Cedrik allora allungò grato una mano a Jerome, asserendo: “Ci riempi di onore, Sköll di Matlock, non lo dimenticheremo.”
 
“Voi avete salvato il nostro Huginn. Non ci sono debiti d’onore, tra di noi” replicò Jerome, dando una pacca sulla mano di Cedrik, che ancora tratteneva nella sua.
 
“Avete già piantato la quercia sacra, o avete trovato solo il luogo per il Vigrond?” chiese a questo punto Jessie, sorprendendo un po’ tutti.
 
“Solo il Vigrond, in effetti.  E’ il piccolo boschetto alle spalle di questa villa, ed è di proprietà, così abbiamo potuto recintarlo. Non avendo un Fenrir che possa comunicare con la quercia, ci siamo limitati a trovare solo un nostro luogo di potere adatto alle celebrazioni ufficiali” gli spiegò Cedrik, scrollando le spalle.
 
Sorridendo sornione, Jessie allora disse: “Penso che Brianna potrebbe farlo per voi. Secondo me le piacerebbe. La nostra quercia ha diverse figlie piccole, e una di loro potrebbe essere trapiantata qui. Che ne dici, Jerome?”
 
Skŏll assentì, ghignando: “Gongolerà, quando glielo dirai. Sai che ama questo genere di celebrazioni.”
 
“La… la guardiana di Fenrir farebbe questo… per noi?” esalò Eirwyn, ammirata e commossa.
 
“Quando la conoscerete, saprete perché ne siamo tutti innamorati” sorrise orgoglioso Jerome, afferrando il telefono per chiamare subito il cugino.
 
Soddisfatto, Branson disse a Muninn: “Più tardi, mi farai un resoconto dettagliato di quanto hai visto prima del simpatico scherzo di tuo fratello. Ora, puoi dirmi perché non sei tornato a chiamarmi? Vi avrei raggiunti.”
 
“Eirwyn ci ha trovati quasi subito e, quando ho visto che stava curando con amorevole attenzione Huginn, ho pensato che non correvamo rischi, rimanendo qui. Non ho badato al passare dei giorni, però, scusami.”
 
Bran scosse il capo, liquidando le sue scuse, e replicò: “Naa. Lascia stare. Eri preoccupato per la salute di Huginn. Ci sta. E poi, alla fine, vi abbiamo trovati lo stesso, no?”
 
“Già. Comunque, ti aiuterò io a trovare due corvi adatti, Branson. E sono sicuro che Bess sarà una brava allieva. Ha provveduto anche lei a curare Huginn, e ha mani gentili.”
 
“Buono a sapersi, allora.”
 
Sì, anche se erano alle prime armi, senza un vero capo a guidarli, parevano una squadra affiatata. Avrebbero sicuramente fatto passi avanti, nel corso degli anni e, con già due membri della Triade di Potere in arrivo, trovare Sköll non sarebbe stato difficile.
 
Era implicito nella natura dei licantropi. Dove nasceva un Fenrir, presto o tardi sarebbe comparso anche il resto della squadra. Anche Freki e Geri avrebbero fatto la loro comparsa, e il branco sarebbe stato finalmente completo e degno di nota.
 
Lanciando un’occhiata a quei nuovi amici, Branson sorrise.
 
Il branco dell’Isola di Man era tutt’ora allo sbando, a causa delle gravi colpe di Sebastian. Sarebbe occorso ancora del tempo, prima che a quel clan fosse concessa nuovamente fiducia.
 
La presenza di Brianna, che era la voce di Fenrir in terra, Thor, che rappresentava i berserkir, e Tempest, che aveva in sé l’amina di Tyr, dava a tutti loro nuove speranze per un futuro più sereno.
 
Un branco in più, e guidato da persone generose e altruiste, sarebbe stato un’ottima conquista, per i clan britannici.
 
Dopotutto, i licantropi non si sarebbero estinti. Stavano piuttosto andando incontro a una nuova e più fiorente generazione di mannari, Branson ne era più che sicuro.
 
Pur se lui era solo umano, era lieto di far parte di uno dei clan più forti della Gran Bretagna.
 
Accarezzando Muninn sulla schiena, annuì tra sé, soddisfatto di come stessero andando le cose.
 
“Potrai non essere un mannaro, ma pensi come tale… e la Madre vede sempre queste cose” disse nella sua mente il corvo, orgoglioso.
 
“Hai fiducia in loro? In queste persone?”
 
“Sono valide e capaci, e si sono forgiate nelle avversità. Saranno un branco forte, quando la Triade sarà completa.”
 
“Bene… bene” assentì tra sé Branson, levando lo sguardo per poi sorridere a Eirwyn.
 
Quella donna portava in sé la speranza, una speranza pagata con il sangue. Sì, sarebbero stati un ottimo branco. E ottimi amici.
 
 
 
 
 
 
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Note: Ho pensato fosse giusto chiarire come, un semplice umano, possa essere anche un valido cacciatore di licatropi, perciò ho inserito i personaggi di Huginn e Muninn per sopperire alle 'mancanze' che può avere una persona normale, se confrontata con un mannaro.
Al tempo stesso, ho inserito nuovi personaggi, un nuovo branco, e spiegato come fosse - una volta di più - il caro, buon, vecchio Sebastian. Jerome ha ragione nel dire che ha ricevuto una fine degna dei suoi peccati. ^_^
Faccio anche riferimento a Brianna, Thor e Tempest per un semplice motivo. Brianna è custode di Fenrir, mentre Tempest di Tyr. Due dèi su territorio britannico non sono pochi. Inoltre, Thor è uno Stregone di sommo potere, oltre che un potente berserk perciò, assieme, possono garantire ai vari branchi più certezze nel futuro di quanto non ve ne fossero prima.
Se avete domande, comunque, sono qui. (Visto che anche Jessie aveva i suoi dubbi, circa un branco senza Fenrir, immagino siano venuti dubbi anche a voi. Il Consiglio sopperisce temporaneamente a questa mancanza, in attesa che si palesi un Fenrir senza branco)
Grazie a chi ha letto e/o commentato! Alla prossima!

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Capitolo 12
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 1 ***


Note: ho pensato che tornare indietro nel passato e dare voce ai personaggi che diedero inizio a tutto fosse interessante, perciò ho dato la possibilità a coloro che diedero il via alla stirpe, di presentarvi il loro primo incontro, il modo in cui Fenrir - e la sua belva - vennero ammansiti da una semplice (per modo di dire) mortale. Buona lettura!
 
 
 
Dove tutto ebbe inizio -1- (3500 a.C.)
 
 
 
 
Il suo passo era leggero quanto elegante e la foresta si inchinava a lui, che era un dio su quel pianeta, profeta di sventure e signore dell’assoluta distruzione.
 
Nessuno poteva dirgli cosa fare, come comportarsi, a che leggi sottostare. Neppure il grande Odino, che tanto lo temeva e odiava, poteva nulla contro di lui. Perché il Signore del Crepuscolo degli Dèi non poteva essere canzonato, deriso, o irritato.
 
Nessuno poteva ordinare a Fenrir cosa fare della sua vita, né suo padre Loki, che tanto agognava a veder scorrere fiumi di dolore e morte a causa sua, né gli dèi tutti, che parimenti lo detestavano.
 
Naturalmente, non avrebbe soddisfatto i desideri del padre, poiché lui si divertiva troppo per distruggere ogni cosa, ma non avrebbe neppure dato alcuna soddisfazione agli dèi, perché essi non la meritavano.
 
Era divertente vagare per i mondi, incutendo timore e rispetto nelle genti e negli altri dèi, sentire sulla punta della lingua il sapore della loro paura e del loro sospetto.
 
Più di tutti, gli umani di Midghard gli piacevano perché erano un popolo ancora giovane, che stava crescendo per potere e numero, e sapevano bene a chi inchinarsi e a chi no.
 
Avevano un che di crudele e perverso, in loro, e ammirava il modo in cui si combattevano, uccidendosi gli uni con gli altri. Nessuno veniva risparmiato, di fronte alla loro sete di dominio o vendetta.
 
Neppure i fratelli o le sorelle che paradossalmente, a volte, venivano usati come scudi umani, o come merce di scambio.
 
Pensare a sua sorella Hell lo fece sorridere, e le sue zanne brillarono candide sotto il sole del meriggio.
 
Lei, sicuramente, non avrebbe esitato a barattarlo per i suoi beceri scopi, se solo avesse avuto un qualche interesse da soddisfare.
 
Non che lui gliel’avrebbe permesso, s’intende. L’avrebbe divorata, piuttosto.
 
Quanto a Jor… beh, di lui non aveva mai capito un accidente di nulla, perciò non aveva davvero idea di come si sarebbe comportato in una situazione simile.
 
Un refolo di vento si incuneò nell’oscura foresta distraendo i suoi pensieri e subito, il suo naso sopraffino, colse un aroma diverso dal solito.
 
Fattosi attento, levò il muso enorme per meglio saggiare quell’aroma nell’aere umido e ricco di profumi boschivi.
 
La curiosità giunse a solleticarlo, quando infine riconobbe in quell’aroma un odore che non sentiva da tempo. Quello di una donna umana.
 
Più volte aveva giaciuto con quelle creature mortali, godendo delle loro carni calde e morbide, mentre prendeva da loro tutto ciò che potevano dargli.
 
In seguito, aveva cancellato loro la memoria e le aveva rispedite ai loro villaggi, così che non potessero raccontare di aver copulato con un dio. Non voleva che si spargesse la voce che Fenrir poteva anche essere piacevole, sotto certi aspetti.
 
Lui doveva soltanto essere temuto, non bramato.
 
Lesto, perciò, mutò forma per non farsi cogliere nell’atto di avvicinarsi alla creatura umana e, raggiunto che ebbe il limitare di una radura, osservò incantato e curioso.
 
Là, nel bel mezzo di un verde prato ricco di fiori, Fenrir scorse una giovane fanciulla di piccola statura, dalla corporatura minuta e morbida. Non poteva avere più di quindici, sedici anni, a suo avviso.
 
Indossava abiti ingombranti, di tessuto grezzo e, sicuramente, dovevano essere stati risistemati molte volte, viste le evidenti pezze in svariati punti e il tessuto pressoché sgualcito in ogni sua parte.
 
Una contadina, forse, o comunque non la figlia di un capoclan della zona, in ogni caso. Nessuna di loro avrebbe indossato abiti così dimessi, o sarebbe uscita senza scorta.
 
Sogghignando, se ne compiacque.
 
Non amava le figlie dei nobili. Erano così noiose e petulanti!
 
Silenzioso, continuò perciò ad ammirarla nel suo lento divagare per la radura.
 
I lunghi capelli rossi erano legati sommariamente in una crocchia sulla nuca, ma alcune ciocche sfuggivano selvagge al fermaglio di corno.
 
Fenrir desiderò infilarvi le mani e stringerle tra le dita per saggiarne la morbidezza. Immaginò fossero simili alla seta più fine e, dentro di sé, rabbrividì di aspettativa.
 
La vide piegarsi diverse volte per raccogliere delle erbe, studiarne con attenzione la tipologia per poi poggiarle in un ampio cesto che portava sul braccio.
 
Una guaritrice, forse, o un’apprendista di quell’arte.
 
A sorpresa, sul lato opposto della radura, un timido daino si approssimò proprio in quel momento e la giovane, bloccando i suoi passi, lo osservò quieta.
 
Fenrir annullò la propria aura per non farlo fuggire, incuriosito dalla reazione che avrebbe avuto la ragazza di fronte a quella creatura.
 
Come sperava, lo sorprese ancora.
 
Non solo si accucciò a terra per apparire meno pericolosa, ma iniziò a intonare una calda nenia con la sua voce di contralto.
 
L’animale fece vibrare le orecchie, forse stupito da quel suono imprevisto e per lui assai strano.
 
Per Fenrir, invece, fu come ascoltare le ancestrali voci degli elfi chiari di Alfheimr, o le musicanti con cui era solito intrattenersi Odino alla sua corte.
 
Lui non era mai stato gradito ospite, in quei lidi, e non aveva mai potuto godere di simile bellezza e candore, ma sapeva apprezzarne la bellezza, e quella voce non aveva nulla da invidiare alle artiste con cui si intratteneva Padre Tutto.
 
Non che volesse davvero crogiolarsi su un divano e piluccare acini d’uva come quel vecchio barbuto, però… però, era piacevole ascoltare una simile melodia, per una volta, senza che alcuno lo disturbasse con qualche commento aspro.
 
Era difficile essere il detentore di un potere distruttivo come quello che stringeva tra le mani, ma non aveva scelto lui di essere così. La Madre aveva decretato il suo futuro quando era venuto al mondo.
 
Naturalmente, per suo padre era stato un immenso piacere saperlo così potente e oscuro, mentre sua madre si era scagliata contro Loki, reo di averla ingannata sulla sua reale identità.
 
Sdegnata, aveva lanciato maledizioni all’indirizzo del dio che l’aveva ingravidata mentendo sulla sua reale identità e, lasciatasi alle spalle i figli, non aveva più voluto vederli.
 
Avere per madre una titanessa voleva dire non aspettarsi torte di more per il proprio compleanno, o il bacio della buonanotte durante le notti di tempesta. A maggior ragione se ella era stata ingannata su chi avrebbe messo al mondo.
 
Tornando a concentrarsi sulla giovane umana, tralasciando le sue memorie di cucciolo, sorrise quando vide il daino avvicinarla e prendere dalla sua mano alcuni steli d’erba.
 
Oh, sì, quella giovane era l’incarnazione stessa del candore virginale e della bontà. Nessun’altra mortale avrebbe potuto fare ciò che ella stava facendo!
 
Doveva essere sua a qualsiasi costo! Quelle carni sarebbero state deliziose, ne era sicuro!
 
Fu così che rese nota la sua presenza, facendo invariabilmente fuggire il daino e mettere in allerta la giovane.
 
Ma a lui non interessava. Non avrebbe potuto fuggire, o rifiutarlo.
 
Nessuna l’aveva mai fatto.
 
Questa umana sarebbe stata solo l’ultima di una lunga serie, finché non si fosse stancato di lei, rispedendola al suo villaggio per mettersi in cerca di un’altra preda.
 
Lei, nel frattempo, lo fissava guardinga, il cesto ancora sottobraccio e la mano libera infilata tra le falde dell’abito consunto. Sicuramente, stretta a uno stiletto o un pugnale. Fenrir dubitava che fosse uscita senza un’arma, pur se inefficace, su di lui.
 
Le sorrise, levando lentamente le mani per farle capire che era disarmato – almeno all’apparenza – e, con voce carezzevole, esordì dicendo: “Scusami… non volevo spaventare né te, né il daino, ma la tua voce mi ha attirato qui.”
 
La giovane ancora non parlò, accigliandosi e fissandolo con chiari occhi color verde foglia. In quel momento, avevano la stessa durezza delle giade screziate.
 
Fenrir ne fu suo malgrado ammaliato. No, non c’era solo dolcezza, in lei, ma anche forza e determinazione.
 
Un connubio ancor più interessante, a questo punto.
 
“Mi chiamo Wulff, e tu?” le domandò, restando a qualche passo di distanza da lei.
 
Dubitava che potesse avvertire la sua aura divina ma, con alcune donne, era capitato, e preferiva non metterla in allarme prima di averla avvinta a sé con il suo fascino.
 
La ragazza, inspiegabilmente, estrasse l’arma che teneva nascosta tra le falde dell’abito e, puntatala verso di lui, sibilò minacciosa: “Ti sventrerò come un maiale, giovane errabondo, se proverai ad avvicinarti di un altro passo.”
 
“Non è mia intenzione farti del male. Davvero. Volevo solo conoscere la ragazza che ha saputo ammansire un daino con la sua semplice voce” sorrise Fenrir, mettendo miele nella sua voce.
 
La giovane, però, non abboccò affatto e, a sorpresa, sferrò un attacco contro Fenrir, ferendolo di striscio a un braccio.
 
Sibilando per la sorpresa, lui si scostò velocemente per non essere ulteriormente colpito ma la giovane sorrise vittoriosa, come avendo avuto risposta a un suo dubbio personale.
 
Dalla ferita non uscì una sola stilla di sangue, pur se la lama era affondata a sufficienza per lasciare un segno su quella carne ambrata e perfetta.
 
Gli occhi neri di Fenrir scintillarono di rabbia a stento repressa – essere smascherato a quel modo, lo fece irritare – e, passandosi una mano nervosa tra i capelli corvini, lui ringhiò: “Che ti è saltato in mente?! Sei pazza, forse?!”
 
“Affatto, ma le bugie mi irritano” replicò a sorpresa lei, rimettendo a posto il coltello. “E ora che abbiamo stabilito che sei un essere immortale di qualche genere, posso sapere la verità?”
 
Sbalordito dalla sua assoluta mancanza di paura, Fenrir la fissò in quegli occhi sicuri e decisi, pronto a trovarvi il seme della follia più pura. A sorpresa, non trovò affatto questo, ma una sicurezza che le veniva dal passato, da molte vite passate, a dir la verità.
 
La sua anima era antica e saccente, e le conferiva una fiducia profonda in se stessa.
 
Non l’anima di un qualche dio decaduto, che di sicuro sarebbe stato in grado di riconoscerlo come dio della distruzione, ma di una sacerdotessa di qualche culto, forse di un culto così antico che neppure lui conosceva.
 
Ghignando, Fenrir allora rilassò la propria postura e, poggiata una mano sul fianco, asserì divertito: “Sei antica di spirito, pur essendo di carne giovane e mortale. Ne eri a conoscenza, fanciulla?”
 
Annuendo, ella replicò serafica: “Me lo disse il nostro druido, quando fui proposta per i riti di Beltane, l’anno passato. Mi fu vietato di essere tra le Vergini Consacrate perché io dovevo rimanere intonsa e pura; ero destinata a qualcosa di più grande.”
 
Fenrir rise, deliziato da quella sciocchezza. I druidi, a volte, erano così stolti!
 
Lei, però, non rise affatto e, sbuffando, borbottò: “Non trovo affatto divertente il fatto che tu ti sia burlando di me, essere immortale.”
 
“E io trovo esilarante che tu possa essere in mia presenza, senza minimamente provare paura o timore per la tua vita” replicò lui, ironico.
 
“Sono una suddita fedele degli dèi, perciò non ho nulla da temere da loro.”
 
“Neppure da me?”
 
Così dicendo, riprese le sue sembianze animali, portandola finalmente a gridare spaventata.
 
La ragazza crollò a terra, sgomentata da quell’improvvisa malia e, senza parole, osservò l’enorme lupo candido che la sovrastava con cupa fierezza.
 
Era splendido, e il suo manto niveo brillava dei colori dell’arcobaleno, alla luce del sole. Nessuna bestia avrebbe mai potuto essere al pari suo, né sulle terre emerse, né nei cieli.
 
Quale forza e quale baldanza, erano trattenute a stento da quella forma incredibile!
 
“Ebbene? Sei ancora così tranquilla?” la prese in giro Fenrir, parlando con tono strascicato.
 
Odiava dialogare nella sua forma di lupo, perché le sue zanne e la forma allungata del muso glielo rendevano difficoltoso. Aveva però desiderato con tutto se stesso sgomentarla, e la sua forma animale era temuta da tutti.
 
Lei, comunque, non sembrava terrorizzata, anzi, tutt’altro.
 
Dopo l’iniziale sgomento, ora lo stava osservando come mai alcuno aveva fatto con lui. Come se non avesse mai visto creatura più bella, e ne fosse ammaliata, rapita, non terrorizzata.
 
“Quale… qual è il tuo nome?” mormorò con un filo di voce.
 
“Sono il distruttore dei mondi, colui che darà inizio alla fine di tutte le cose…” iniziò col dire pomposamente Fenrir, sortendo solo l’effetto di farla sbuffare.
 
Indispettito, sbottò subito dopo: “Sono Fenrir, sciocca mortale! Devi temermi, non sbuffare infastidita!”
 
“E perché mai dovrei temerti?” replicò lei, sorprendendolo non poco.
 
“Perché potrei fare di te ciò che voglio, e tu non potresti impedirmelo!” ringhiò il lupo, puntandole addosso i suoi occhi bicolori.
 
“Ebbene?” gli rinfacciò per contro lei, intrecciando le braccia sotto i seni.
 
“Ebbene, cosa?” sbuffò Fenrir. Era mai possibile che non si spaventasse? Che non lo temesse?
 
“Cosa cambia, rispetto a qualsiasi altro pericolo incombente che potrebbe abbattersi su di me?” lo rimbeccò lei, sedendosi meglio sull’erba per poi incrociare le braccia sulle ginocchia.
 
Fenrir riprese forma umana e, fissandola dall’alto al basso, ringhiò: “Non capisco cosa vuoi dire.”
 
“E’ semplice; sono una donna, perciò non ho la forza di battere un uomo, né le capacità tecniche per farlo. Non mi hanno insegnato a difendermi, pur se posso tentare di affettare qualcuno come ho fatto con te, prima.”
 
Nel dirlo, fece spallucce e proseguì.
 
“Le malattie, spesso e volentieri, ci strappano ai nostri cari quando meno ce l’aspettiamo. E, come hai giustamente fatto notare tu, sono mortale, perciò un giorno perirò in ogni caso, anche se io non lo vorrò. Perciò perché dovrei ritenere più terrificante la tua minaccia, rispetto alle altre che ti ho citato?”
 
Fenrir rimase ammutolito da quella dichiarazione inaspettata.
 
Come poteva darle torto?
 
La ragazza accennò un sorriso triste, terminando di dire: “Se tu decidessi di prendermi e usarmi, cosa potrei mai fare, io? Perciò, che senso ha farmi divorare dalla paura? Avrei paura se potessi avere il controllo della situazione, e non mi impegnassi a sufficienza per trovare una soluzione. Ma così? Sarebbe un inutile spreco di energie.”
 
Basito di fronte a tanta saggezza, Fenrir si inginocchiò a terra, fissandola nei suoi occhi color delle foglie e, con un mormorio sommesso, asserì: “Sei una strana mescolanza di innocenza e saggezza ancestrale. E non deriva dalla tua anima antica. Sono pensieri tuoi, del tutto coscienti.”
 
“Riesci a leggere la mia anima?” si incuriosì la ragazza.
 
Fenrir ghignò. Lo stava prendendo in giro, forse? Lui, che poteva smuovere stelle e cielo per distruggerli con un solo colpo di fauci?
 
Ma no, non v’era derisione, nel suo sguardo, solo sincero interesse.
 
“Sì, posso leggerla. Non è un’anima cosciente come potrebbe essere quella di un dio o di uno spirito guerriero assurto a vita immortale, che quindi potrebbe parlarti e guidarti. Lei è silente, solo un soffio di vita nel tuo corpo di carne. Ma ti ha donato i suoi poteri mistici, oltre a concederti la possibilità di camminare su Midghard” le spiegò Fenrir, allungando una mano a sfiorare uno dei suoi riccioli ribelli.
 
Lei ristette immobile, ma il dio avvertì il suo respiro farsi più veloce, il battito del cuore più affrettato. No, forse non era paura, la sua, ma non era neppure così calma o indifferente come voleva fargli credere.
 
Sorrise nonostante tutto e, dopo aver saggiato la sericea consistenza dei suoi capelli, ritirò la mano. Come aveva immaginato, erano seta pura.
 
“Un dio può incarnarsi in un corpo umano? E che giovamento ne trarrebbe?” domandò lei, sbattendo le palpebre con aria confusa.
 
Fenrir rise. “Non un dio che può usare il proprio corpo per muoversi, ma uno che ha perso corporeità, che non può più respirare con i propri polmoni.”
 
“Divengono… spiriti?” sbottò confusa la giovane, fissandolo scettica.
 
“La Madre li richiama a sé come qualsiasi altra anima abbia perso il proprio involucro di carne e sangue. Solo, l’anima degli dèi è cosciente di sé e può chiedere di tornare. Ogni patto con la Madre è diverso, e ogni dio ha una diversa occasione di sfruttare questa nuova opportunità di camminare nei Nove Regni” dichiarò Fenrir, reclinando su un fianco per poi poggiare un gomito tra l’erba.
 
Da quella posa rilassata, la osservò rimuginare, un dito a picchiettare pensosa il mento mentre gli occhi, accigliati, sembravano rifulgere di intelligenza.
 
“Cosa trasforma una creatura potente come un dio in uno spirito? Non potete bloccare il processo?” gli domandò ancora, suo malgrado affascinata dalle sue argomentazioni.
 
“Mi stai chiedendo il più grande dei segreti, mortale, perciò scantonerò la tua domanda” replicò Fenrir, sdraiandosi sull’erba per poi incrociare le braccia dietro la nuca.
 
Vagamente indispettita, la ragazza si arrischiò a tirargli la manica della tunica di pelle che indossava e, burbera, asserì: “Non puoi uscirtene con un ‘non ti dirò nulla’ e poi fare finta che non esisto.”
 
“E perché mai non potrei farlo, fanciulla? Chi sei, tu, per darmi ordini?” la prese in giro lui, chiudendo gli occhi per assaporare meglio il tepore del sole sulla pelle.
 
Midghardr era sempre stato un pianeta splendido, quasi al pari Elfheimr, e le piacevolezze della Natura che lo circondavano alleviavano per un breve periodo le sue costanti arrabbiature.
 
“Sono Avya, figlia di Thorn, non quel tuo pomposo fanciulla!” sbottò allora la giovane, alzandosi in piedi con aria bellicosa.
 
“Lieto di conoscerti, Avya, figlia di Thorn. Comunque, non mi scalderei poi così tanto, sai? Solo perché stiamo colloquiando amabilmente, non vuol dire che tu possa permetterti di irritarmi” le ricordò Fenrir, aprendo un solo occhio per fulminarla con lo sguardo. “Chiedi altro e, forse, risponderò. Ma non pensare mai, mai, di potermi trattare come un qualsiasi umano di tua conoscenza.”
 
Forse?” ripeté sdegnata la ragazza, ignorando del tutto il resto del suo discorso.
 
Fenrir rise ancora. Era così focosa, così piena di vita e di energia! Emanava quella forza inaspettata come un profumo speziato attraverso i pori della pelle, inebriandolo.
 
Non aveva davvero paura di lui, di indispettirlo, di far affiorare la belva che era sedata nel suo corpo divino. Anzi, forse lo sperava, in fondo in fondo.
 
“Forse” sottolineò Fenrir, levandosi sui gomiti prima di aggiungere: “Siedi con me, giovane Avya, e parla con me. Sarò io stesso a riaccompagnarti sana e salva al tuo villaggio. Parola di divinità.”
 
“Le divinità posso offrire promesse senza aver l’obbligo di mantenerle. Avete i mezzi e il potere per smentire voi stessi” brontolò Avya, pur tornando a sedersi.
 
“Di questa promessa puoi fidarti, mia indisponente e ciarliera fanciulla. Mi incuriosisci, perciò sei al sicuro, con me” replicò il dio, facendo spallucce.
 
“Come posso incuriosire una divinità? Voi sapete già tutto, no?” scrollò le spalle Avya, ancora scettica.
 
Ghignando, Fenrir replicò: “Odino non avrebbe sacrificato un suo occhio da donare a Mimir, se noi dèi avessimo tutta la conoscenza nelle nostre mani. Solo Madre sa ogni cosa, e vede ogni cosa.”
 
Avya ammutolì a quella notizia e Fenrir, allungandosi verso la cesta di lei, afferrò uno dei fiori che aveva raccolto e aggiunse: “Tu cogli questo fiore perché ha effetti sul dolore osseo, ma non sai che può anche servire per far abortire una donna che non desideri il proprio cucciolo. Se dosata con attenzione, può servire anche a questo.”
 
Lei guardò il fiore, fissò il viso ambrato di Fenrir, i suoi neri capelli rilasciati sulle spalle e, sorridendo appena, mormorò: “Mi insegneresti altro, se ti chiedessi di farlo?”
 
Sollevandosi a sedere, le braccia intrecciate sulle ginocchia, Fenrir la squadrò curioso, sorrise malizioso e infine le propose: “Concediti a me, e io ti insegnerò tutto quello che conosco su piante e fiori.”
 
Avya allora si adombrò, gli scaricò in testa il suo cesto di fiori e, piccata, si alzò per andarsene.
 
Sbigottito da quel gesto davvero irrispettoso, Fenrir balzò in piedi con un ringhio ferale, la afferrò al braccio e, con forza, la schiacciò contro di sé.
 
I suoi occhi scuri brillarono di rabbia, mutando poi colorazione per tornare alle loro tinte originali; l’azzurro e il verde.
 
“Non mi si tratta come uno sciocco mortale, ragazza! Te l’ho già detto una volta!” le sibilò sulla faccia, furibondo e ormai fuori controllo.
 
Avya, però, non tremò. Né diede adito di essere spaventata da lui. Non le stava facendo male. Sì, la tratteneva, avrebbe potuto fare di lei quel che voleva… ma non stava usando la sua forza.
 
Avya, perciò, fece la cosa più insensata e folle che la sua mente poté partorire e, levatasi in punta di piedi, lo baciò.
 
Fu solo un bacetto sulla punta del naso, neanche si fosse trovata con i suoi fratelli più piccoli, ma questo gesto inaspettato sgomentò Fenrir, che la lasciò andare immediatamente.
 
Subito dopo, caracollò all’indietro di un paio di passi, fissandola come se fosse stata pazza e, senza sapere bene come esprimere il proprio stato confusionale, esalò: “Che significa?!”
 
“Mi sono scusata. Per averti tirato i fiori in testa. Mi scuso così, quando faccio i dispetti ai miei cuginetti più piccoli” si limitò a dire Avya, scrollando le spalle.
 
Fenrir rabbrividì al pensiero che lei lo vedesse come un bambino e, adombrandosi in viso, borbottò: “Tu sei folle, umana.”
 
“E tu sei suscettibile come un porcospino. Ebbene?”
 
“Un… porcospino?!” sbraitò Fenrir, avvampando d’ira.
 
Avya, però, rise nel vederlo così furioso e, nell’asciugarsi una lacrima d’ilarità, esalò: “Devi ridere un po’ più di te stesso, o finirai con l’esplodere per la troppa boria e, se ho ben capito chi sei, non te lo puoi permettere.”
 
“Boria? Ragazza, tu sfidi la sorte con un dio della distruzione, te ne rendi conto?!” le ringhiò contro, indeciso se prenderla a schiaffi o ridere a sua volta.
 
“Sai già di poter fare tutto ciò che vuoi. Che senso ha tentare di mettermi paura, o volermi irretire con le tue fatue promesse per avere il mio corpo? Non sarebbe meglio se tu fossi semplicemente te stesso?”
 
Me stesso? Avya, hai visto prima cos’è, per me, essere me stesso” le rinfacciò acido. “Questa forma che vedi è un corpo secondario, che io scelgo per camminare tra voi… ma io sono un lupo!”
 
“Oh” ammutolì Avya, sinceramente sorpresa. “Pensavo volessi solo impressionarmi. Colpirmi con i tuoi poteri, ecco.”
 
Fenrir rise aspramente, replicando: “Tu sei pazza, ragazza, lo sai? Solo una pazza oserebbe sfidarmi così tante volte.”
 
“E perché, di grazia? Hai detto che tu sei destinato al Crepuscolo degli dèi, ma hai altre funzioni, oltre a questa tua caratteristica piuttosto… definitiva, all’interno della cerchia di divinità?”
 
“No, è ovvio. Nessuno si fiderebbe di me per farmi compiere altro. Io sono temuto da tutti!” esclamò con orgoglio Fenrir.
 
A quel punto, Avya sospirò e disse: “Mi dispiace.”
 
“Cosa?!” ringhiò lui, più che mai sorpreso e irritato.
 
“Un simile potere rende soli, non è vero?” gli fece notare lei, stringendo le mani dinanzi a sé.
 
“Non sai di quel che parli” le rinfacciò Fenrir, pur sapendo che aveva dannatamente ragione.
 
Suo padre lo cercava solo per farlo irritare, sua madre lo ignorava, gli dèi lo disprezzavano e l’unico che parlava con lui era Tyr. Di certo, non doveva sforzarsi molto per contare coloro che avevano un rapporto disinteressato con lui.
 
Avya, a sorpresa, levò la sua manina a sfiorare il viso di Fenrir che, irrigidendosi, sibilò: “Cosa stai facendo?”
 
“Si chiama carezza, Fenrir, e si fa per essere comprensivi e compassionevoli. La si concede per dare pace. Sembra che tu ne abbia un estremo bisogno, in questo momento.”
 
“Io non agogno la pace. Sono un dio di guerra!”
 
“Ma vieni qui per giacere con le donne umane, vero?” gli fece notare a sorpresa la giovane.
 
Lui ristette zitto, sul chi vive, ma non Avya, che proseguì nel suo dire.
 
“Trovi pace tra le loro braccia, giusto? Perché, forse, le dee non sono così… disponibili a donare calore e serenità.”
 
Fenrir si accigliò, fissandola torvo, ma Avya non demorse.
 
“Cercavi pace, quando ti sei avvicinato? Volevi giacere con me?”
 
“Cambierebbe qualcosa, se dicessi di sì?” borbottò contrariato il dio.
 
“Se ti concedessi la mia compagnia, ma non il mio corpo, ti andrebbe bene lo stesso?”
 
“Come?” esalò lui, non comprendendo appieno le sue parole.
 
“Se fossi tua amica, ti basterebbe?” si spiegò meglio lei, arrischiandosi ad afferrare entrambe le mani del dio per sollevarle in mezzo a loro.
 
Fenrir abbassò lo sguardo a scrutarle, così rosea e pallida la pelle di lei, mentre lui era ambrato come un guerriero abituato a stare all’aperto, ad affrontare il mondo a muso duro.
 
Le sue mani erano così minute ed esili, eppure lo trattenevano senza sforzo. Era come se lo tenessero avvinto, imbrigliato.
 
Pur se non stava che tenendo sollevate le loro mani. Non stringeva affatto. Le sosteneva.
 
Come avrebbe fatto un amico in difficoltà. Avrebbe sostenuto l’altro.
 
Perdendo parte del suo livore, Fenrir sollevò una delle sue mani, ne sfiorò il palmo con lo sguardo, notandone le callosità e i piccoli tagli, e infine mormorò: “Sei donna, sei umana, sei mortale… ma queste mani sono forti come quelle di un guerriero immortale, vero?”
 
“Non so.”
 
“Sostengono le mie senza prevaricare. Perciò sì, sono forti.”
 
“Non volevo prevaricarti, infatti. Potevi rifuggire il mio tocco in qualsiasi momento, con o senza poteri divini” annuì lei con semplicità.
 
“Anche tu, se vuoi, potrai rifuggire il mio tocco” mormorò lui, chinandosi verso il suo volto. “Allontanati, o ti darò un bacio per scusarmi.”
 
Lei non lo fece e, quando Fenrir le sfiorò le labbra, seppe di essere perduto.
 
Quella, sarebbe stata la sua ultima donna. Quella sarebbe stata la sua compagna. Che lei lo volesse o no.

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Capitolo 13
*** Dove tutto ebbe inizio (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 2 ***


 
 
Dove tutto ebbe inizio - 2 -

 
Circa 4 mesi dopo il loro primo incontro
  
 
Era decisamente la prima volta che cavalcava. A casa non c’erano né cavalli, né muli, adatti a farlo e, comunque, i suoi fratelli glielo avrebbero impedito per paura che si facesse male.
 
Di sicuro, comunque, nessuno al mondo aveva mai cavalcato un lupo bianco, alto tre metri e mezzo al garrese e, cosa ancor più sicura, nessuno aveva mai cavalcato un lupo che era anche un dio.
 
Fenrir, però, si era presentato in forma di lupo, quel giorno, ordinandole di salirgli in groppa.
 
Avya aveva lasciato perdere l’ordine implicito nelle sue parole – non aveva avuto il desiderio di rimbeccarlo per questo – e, piena di curiosità e gioia assieme, si era arrampicata sulle sue zampe per salire.
 
Ora, si trovava all’altezza delle chiome degli alberi che, come tante ancelle di fronte al loro re, si inchinavano al suo passaggio per poi riprendere la forma originale.
 
Niente veniva distrutto, al suo passaggio, neppure gli steli d’erba esili e deboli. Tutto tornava al suo posto, una volta che il suo corpo imponente era passato oltre.
 
Che dipendesse dalla sua magia?
 
Incuriosita, Avya si piegò verso l’orecchio del lupo, domandandogli: “Com’è che nulla si spezza e tutto torna al suo posto?”
 
“Se lasciassi tracce di me, non avrei mai requie dai curiosoni” ironizzò il lupo, lasciando trapelare le zanne da sotto le labbra in una sorta di ghigno lupesco.
 
Le lunghe zanne baluginarono sotto i raggi deboli della luna e Avya, storcendo il naso, si domandò se Fenrir si stesse riferendo anche alla sua curiosità.
 
Fin da quando si erano incontrati nella radura nei pressi del suo villaggio, e lei gli aveva offerto la sua amicizia, Avya aveva sempre posto un’infinità di domande al dio.
 
All’inizio, il suo continuo cianciare – spesso a vanvera – aveva sorpreso e vagamente indispettito il dio della distruzione che, più volte, si era dileguato nel bel mezzo di una discussione.
 
Svaporando in una nuvoletta di fumo, l’aveva lasciata sola e irritata, per poi riapparire pochi minuti dopo, armato di tappi per le orecchie o pesanti tomi scritti in lingue arcaiche.
 
Questo aveva rinfocolato il carattere riottoso della ragazza che, spesso e volentieri, lo aveva insultato o, la maggior parte delle volte, ignorato col suo silenzio.
 
Nel secondo caso, però, ciò non era durato più di due minuti.
 
Perché, che Avya lo volesse ammettere o meno, le piaceva stare in compagnia di Fenrir, anche se sapeva che lui era una divinità immortale e lei una semplice umana.
 
Anche se sapeva che sarebbe bastata una parola sbagliata, perché lui la uccidesse o la abbandonasse per sempre a se stessa e ai suoi mille dubbi.
 
Anche se sapeva che, presto o tardi, lui si sarebbe stancato di lei e se ne sarebbe andato per trovare una donna più compiacente, più servizievole.
 
Fino a quando fosse durato quello strano rapporto, però, lei ne avrebbe goduto a piene mani. In fondo, non aveva che lui, come lui non aveva che lei, almeno stando alle parole stesse di Fenrir.
 
Con la sola eccezione di Tyr, figlio di Odino, nessuno si rivolgeva con toni amichevoli, al dio-lupo e lei, d’altronde, non poteva vantare rapporti più idilliaci.
 
Nessuno, al villaggio, sembrava essere in grado di capire le sue domande, i suoi continui interrogativi sulla vita, le sue estenuanti ricerche su ciò che era sconosciuto.
 
Persino il druido che l’aveva esentata da Beltane le aveva ingiunto, stizzito, di non insistere oltre nella sua ricerca delle verità più nascoste, di non porre domande che nessuna donna avrebbe dovuto fare.
 
Lei non era che una piccola ragazzina senza cultura, e non poteva aspirare a comprendere le leggi dell’Universo e degli dèi.
 
Passare del tempo con Fenrir, invece, le aveva aperto un mondo nuovo, l’aveva fatta avvicinare al genere di sapienza che bramava, alle risposte che cercava.
 
Certo, v’erano ancora un sacco di cose da imparare, ma non si sarebbe mai data per vinta, ora che sapeva di poter comprendere, di essere in grado di scindere la verità dal falso e dalla menzogna.
 
Fenrir le aveva anche insegnato a leggere, facendole imparare su un vecchio tomo dalle pagine ingiallite, dove le rune erano intervallate a immagini miniate.
 
Il soffio del vento le schiaffeggiò il viso, riportandola al presente e, sorpresa da ciò che le si presentò innanzi, esalò incredula: “Ma cosa…?”
 
La foresta, che già da qualche miglio si era diradata, scomparve del tutto, lasciando il posto a miglia e miglia di terreno erboso e spazzato da raffiche violente.
 
Più in là, nero come pece e illuminato dalla diafana luna, uno specchio d’acqua immenso, apparentemente senza fine, attirò inesorabilmente lo sguardo pieno di meraviglia di Avya.
 
Avanzarono in silenzio, mentre il vento si faceva sempre più forte, sempre più intenso intorno a loro. Era umido, profumato di salsedine e di altri aromi che Avya non riconobbe.
 
In quel momento, non conoscere appieno ciò che stava vedendo e sentendo non le importò. Era troppo presa dalla visione che aveva innanzi per pensare agli aromi sconosciuti che avvertiva, o al nome di ciò che stava osservando.
 
“Il mare” mormorò a un certo punto Fenrir, fermandosi per farla scendere dalla sua groppa.
 
Avya ne discese e fece per avviarsi verso il limitare della terra innanzi a lei, ma Fenrir la bloccò subito, ponendole il muso dinanzi per farle scudo.
 
Un attimo dopo, mutò forma e, tenendole le mani sulle spalle, mormorò: “E’ pericoloso avvicinarsi allo strapiombo. Il terreno è cedevole, e potresti cadere.”
 
“Sei un dio. Potresti afferrarmi, se succedesse, no?” lo irrise lei, scostandolo per avventurarsi verso le scogliere.
 
“Testarda ragazzina” brontolò, seguendola a qualche passo di distanza.
 
Avya passò oltre alcune formazioni rocciose e, ammaliata, raggiunse infine il limitare della scogliera, venendo investita da una violenta raffica di vento.
 
Dabbasso, scorse le onde possenti infrangersi bianche e rigonfie, forse tentando di infrangere il muro di roccia su cui ella si trovava.
 
Gli schianti risuonarono come colpi di tamburo, alle sue orecchie, o come lo sciabolate di una sferza, il tutto moltiplicato mille e mille volte.
 
Niente riusciva a reggere il confronto con quello che conosceva o che, con tutta probabilità, avrebbe mai conosciuto in vita sua.
 
Si volse perciò eccitata a scrutare la figura oscura e imponente di Fenrir, ma che lei non temeva affatto, ed esclamò: “E’ bellissimo! Grazie per avermici portata!”
 
“Stai attenta, maledizione! Sei troppo vicina al bordo!” sbottò per contro lui, affrettando il passo per raggiungerla.
 
Lei lo irrise nuovamente, sporgendo un piede nell’abisso e, divertita, replicò: “Sei davvero fifone, per essere un…”
 
Non terminò mai la frase.
 
Il terriccio sotto il suo piede di appoggio franò e, nel giro di un attimo, si ritrovò ad avvertire il vuoto sotto di sé, del tutto impossibilitata a impedirselo.
 
L’attimo seguente, però, due braccia forti la afferrarono, portandola al sicuro e tenendola premuta contro un torace possente quanto ansimante.
 
Gli occhi sgranati per la paura e l’orecchio premuto contro il cuore impazzito di Fenrir, Avya esalò sgomenta: “S-scusa…n-non pensavo che…”
 
“Non pensavi cosa, stupida mortale che non sei altro?!” le gridò contro Fenrir, scostandola da sé e fulminandola con i suoi occhi bicolori.
 
Gli succedeva sempre, quando perdeva la pazienza. Da neri che erano in forma umana, divenivano azzurri e verdi come nella sua forma animale.
 
Doveva davvero averlo scioccato a morte.
 
Le lacrime di Avya sorsero spontanee, un po’ per la paura, un po’ per il pericolo mortale appena scampato ma, soprattutto, perché aveva fatto infuriare Fenrir.
 
Ora, l’avrebbe lasciata da sola, non sarebbe più tornato da lei, e la sua vita sarebbe tornata a essere vuota e inutile.
 
Terrorizzata e spiacente, lo osservò camminare avanti e indietro con espressione feroce, le mani che gesticolavano mentre le parole si susseguivano furiose.
 
Fu una manfrina in piena regola, con tanto di occhiate raggelanti e minacce neanche tanto velate. Questo, però, lo aiutò a recuperare un certo contegno, consentendogli di far tornare neri i suoi occhi.
 
Quando ciò avvenne, Avya ne approfittò per gettarsi tra le sue braccia, stringerlo con tutta la forza che aveva per poi sussurrare con foga: “Scusami davvero! Non lo farò mai più! Ma tu non lasciarmi!”
 
Fenrir si irrigidì a quelle parole, che finirono con l’esaurire del tutto la sua paura e il suo furore cieco.
 
Si era spaventato a morte nel vederla reclinare all’indietro verso il dirupo, e le sue mani si erano mosse ancor prima del suo cervello.
 
L’aveva stretta a sé, timoroso che il mondo stesso volesse strappargliela, pur sapendo quanto fosse stupido un simile pensiero.
 
E ora, lei lo pregava di non abbandonarla.
 
Era forse pazza? Perché mai pensava una cosa simile?
 
Scostandola da sé, le asciugò le lacrime con movimenti bruschi dei pollici, che portarono Avya a lagnarsi dei suoi modi scortesi.
 
Con un gesto inaspettato, e che lasciò Avya temporaneamente senza parole, Fenrir si morse un dito a sangue, borbottando: “Poco ma sicuro, non ti lascerò più in balia di te stessa, pazza furiosa che non sei altro. Saprò sempre cosa fai, e dove sei. Bevi, ora!”
 
Allungò il dito ferito verso la ragazza che, sgomenta, riacquistò la favella e gracchiò: “Cosa dovrei fare, scusa?!”
 
“Bevi, e sii parte di me!” sbottò lui, accigliandosi.
 
“Io non bevo cose di cui non conosco gli effetti. Il tuo è sangue misto e di origine divina. Chissà cosa potrebbe accadermi, se lo bevessi?!” lo rimbeccò lei, allontanandosi di un passo.
 
Sempre più irritato, Fenrir la afferrò a un polso per riavvicinarla e, poggiando il dito sporco di sangue sulle sue labbra, asserì rigido: “Il mio sangue mi dirà dove sei, cosa fai, se hai bisogno di me e, in più, ti darà libero accesso ai poteri della Natura. Potrai parlare con alberi e animali, a tuo piacimento, e la luna sarà lo strumento che userai per parlare con me a distanza. Solo la notte, mai di giorno, ricordalo.”
 
Ciò detto, le infilò il dito tra le labbra e Avya succhiò.
 
Le prime gocce sulla sua lingua bruciarono come un liquore troppo forte ma, al secondo tentativo, quel liquore aromatizzato la stregò. Senza rendersene conto, trattenne la mano di Fenrir con la propria e succhiò ancora, facendolo ansimare di piacere per diretta conseguenza.
 
Fin troppo presto, però, egli ritirò il dito e, stretto il suo viso tra le mani, le sussurrò sulle labbra: “Lasciami bere, così che io sia parte di te.”
 
Avya non si tirò indietro e Fenrir si impadronì della sua bocca, mordendole leggermente il labbro fino a farlo sanguinare.
 
Lei lo lasciò fare, e il sapore combinato del sangue di Fenrir e di Avya esplose nella bocca di entrambi, facendoli ansare di desiderio.
 
Il vento turbinò attorno a loro e Avya iniziò a percepire cose che mai, prima di allora, aveva potuto. Voci si addensarono nella brezza marina, assieme al canto di creature a lei sconosciute.
 
Percepì diversamente l’erba sotto di lei, le creature che animavano la foresta a poca distanza e, scostandosi da Fenrir, osservò il cielo con occhi nuovi.
 
Fissò la luna come se non l’avesse mai vista e Fenrir, nella sua mente, mormorò: “Questo è essere wicca…”
 
Lei tornò a guardarlo, strabiliata e vagamente spaventata.
 
Fenrir, allora, la fece sedere su un vicino masso e, tenendo le sue mani nelle proprie, aggiunse: “Sei una Saggia, Avya, ora. Una sacerdotessa della Terra e della Luna. Nessuno sarà più potente di te, tra i mortali, e nessuna mano mortale potrà ferirti.”
 
“Fenrir…” mormorò lei, non sapendo che altro dire.
 
Lui allora rise sommessamente e replicò: “Ho trovato finalmente il modo di farti stare zitta?”
 
“Idiota” brontolò Avya. “Hai rovinato un momento bellissimo.”
 
“Io non sono per i bei momenti, Avya. Sono un dio della distruzione, e qualsiasi cosa tu farai o dirai, qualsiasi desiderio io esaudirò per te, niente cambierà questa realtà. Distruggerò tutto, prima o poi” mormorò lui, reclinando il viso per non incontrare le sue iridi color dell’erba.
 
Avya, però, non si lasciò abbattere.
 
Risollevò quel viso con una mano e, scrutandolo in quelle profondità oscure e senza fondo, asserì: “Ciò non avverrà né oggi, né domani e, di sicuro, non per un tuo capriccio.”
 
“E come lo sai?” la irrise lui, pur desiderando che lei avesse ragione.
 
“Perché sei tutto tranne che un dio folle e sanguinario come vorresti farmi credere. Se non ti importasse della vita, non risaneresti sempre la foresta dopo il tuo passaggio. Non lo fai per non essere seguito dai curiosi, ma perché hai a cuore il Creato” lo rimbeccò, vedendolo adombrarsi.
 
“Non sai quel che dici.”
 
“Allora, perché mi hai salvata? Domani, troverai qualche altra mortale. Ti stancherai di me e passerai a qualcun'altra.”
 
Rammentando la sua preghiera di non andarsene, di non lasciarla sola, Fenrir sgranò gli occhi ed esalò: “Pensi… che voglia lasciarti?”
 
“Non ti do nulla di quello che realmente vuoi, Fenrir. Credi che non lo sappia? Stai con me, forse, solo perché ti faccio pena, o perché ti diverto. Neppure io lo so” sospirò lei, prendendo ora per sé il ruolo di colei che voleva commiserarsi.
 
Fenrir allora sbuffò, lasciandola andare e, rialzatosi che fu, la fissò irritato e ringhiò: “Sei una sciocca ragazzina. Pensi che un dio mio pari starebbe in tua compagnia… per pietà?!”
 
“Allora, mi usi da giullare.”
 
Fenrir rise aspramente, replicando: “Voglio strangolarti per la metà del tempo che passiamo assieme, Avya. Sai essere irritante quanto un prurito nelle parti intime, sappilo.”
 
“E allora vattene, se sono così fastidiosa!” sbottò la giovane, fissandolo arcigna. “Se ti sto così antipatica, perché ti sei scomodato a fare quanto hai fatto prima?!”
 
Fenrir tornò a inginocchiarsi dinanzi a lei, le afferrò una mano e la pose palmo contro palmo alla sua.
 
Bianca e piccola una, ambrata e grande l’altra.
 
Sorridendo con sincerità forse per la prima volta, lui allora le confessò: “Resto per l’altra metà del tempo che passiamo assieme. Tu mi vedi, vedi me. Non il mio nome.”
 
“Come?” esalò confusa.
 
“Non hai mai avuto paura di ciò che sono, fin dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Mi hai trattato come un essere umano, pur se sapevi che non lo ero. Pur se sapevi che, se mi avessi fatto irritare, avrei potuto divorarti.”
 
“Speravo sempre non lo facessi.”
 
Lui sorrise maggiormente. “Eri… sei curiosa, e stai attenta a ciò che ti dico, sei bramosa delle mie parole, e ascolti davvero. Non temi io possa mentirti, o portarti sulla via dell’oscurità.”
 
“Sei bravo, come insegnante” si limitò a dire Avya.
 
Fenrir allora rise di sincero piacere e, nel rialzarsi, la attirò a sé terminando di dire: “Resto perché, pregi o difetti, tu mi fai sentire vivo. Mi dai qualcosa che l’immortalità non mi ha mai dato, o il potere che detengo tra le mani mi ha mai fatto percepire. E ti ho fatto dono dei poteri che ora detieni perché li meriti ma, soprattutto, perché voglio essere un tutt’uno con te, almeno dal punto di vista mistico. Toccare la tua mente e il tuo spirito, se non il tuo corpo.”
 
Avya sospirò di pura sorpresa e, scrutandolo nei suoi occhi foschi, lesse solo verità, non menzogna. La percepiva sulla pelle come un caldo abbraccio. La verità lo avvolgeva come un’onda di luce dorata.
 
No, non la stava prendendo in giro. Ogni parola conteneva il suo cuore, il suo spirito, la sua anima più vera.
 
Strinse perciò le mani sul volto per condurlo al suo livello e, delicata come una farfalla, lo baciò.
 
Fenrir rispose subito, ma non fece altro, così Avya portò le mani alla sua tunica e, con forza, la aprì.
 
Subito, lui si scostò, fissandola dubbioso e sì, ansioso la ragazza, con una decisione nello sguardo che riscaldò il dio, dichiarò: “Voglio anche il corpo… se me lo concederai.”
 
Lui annuì una volta sola e, con un ampio gesto delle braccia, trasportò entrambi in un altro luogo, in un luogo di pace e tranquillità.
 
Sgomenta, Avya si aggrappò a lui, non riconoscendo nulla di ciò che li circondava ma Fenrir, sereno, le avvolse le spalle con un braccio e mormorò: “Alfheimr è il mondo più bello che io conosca, dopo Midghard ma, sul tuo pianeta, ci sono troppi occhi e troppe orecchie indiscrete. Gli dèi amano curiosare ciò che fanno gli umani, e io non volevo che vedessero noi. Qui, gli elfi non ci daranno noia.”
 
“Elfi?” esalò lei, stringendosi ancor di più a lui.
 
Fenrir le sorrise per tranquillizzarla e, dopo averle dato un bacio sul capo, mormorò: “Stai tranquilla, Avya. Non ti accadrà nulla di male.”
 
Ciò detto, entrò con lei in una piccola casa a colonnati nei pressi del lago dove si erano trasmutati e lì, dopo aver congedato alcune ancelle dall’aria delicata, mormorò: “Il mio piccolo angolo di pace. Oberon il Sommo mi concede di soggiornare qui e, in cambio, io tengo le sue foreste libere dai cinghiali, che rovinano le sue passeggiate amorose.”
 
Avya lo fissò senza parole e Fenrir rise ancora. “Non ti curare di ciò che dico, mia Avya. Dimmi soltanto; questo posto ti piace?”
 
“Sarebbe andata bene anche la scogliera” replicò lei, pur apprezzando la raffinatezza dei luoghi e la pregiata manifattura degli oggetti.
 
Tutto era splendido, di elevato valore e, quando sfiorò le lenzuola del letto, sospirò di sorpresa e piacere.
 
Al suo orecchio, Fenrir mormorò: “Seta di ragno. Potrei regalartene quanta ne vuoi.”
 
Lei allora si volse, terminò di slacciare la tunica di Fenrir e, ammirando il suo ampio torace, disse solo: “Voglio te.”
 
“E mi avrai, per tutto il tempo che vuoi. Qui, il tempo scorre diversamente, mia Avya. Potremmo rimanere per una notte e, su Midghard, sarebbero passati giorni.”
 
“Allora, basterà qualche ora. Non voglio che i miei fratelli si preoccupino” gli sorrise lei.
 
“Di questo riparleremo più tardi… molto più tardi” sussurrò lui, passando una mano dinanzi al corpo di Avya.
 
In un baluginare d’oro, gli abiti scomparvero al pari dei propri e la ragazza, ansando imbarazzata, esalò: “Fenrir, insomma!”
 
Lui rise, la abbracciò stretta e, sotto la spinta del suo stesso corpo, crollarono sul soffice e morbido letto.
 
Con lenti baci sul viso e sul collo, Fenrir chetò i suoi tremori e, quando anche le mani di Avya iniziarono timide la loro esplorazione, lui ansò: “Dopotutto, il tuo druido aveva ragione. Eri destinata a qualcosa di più grande.”
 
Lei rise in risposta e Fenrir la penetrò. Ristette immobile finché Avya non si fu abituata al suo corpo, a quell’invasione e, quando la udì mormorare il suo nome, la amò.
 
Non fece sesso con lei. Comprese subito la differenza sostanziale tra lei e le donne che l’avevano preceduta.
 
Sì, c’era il piacere, ma era infinitamente più grande, più profondo.
 
Non era coinvolto solo il suo corpo, ma il suo spirito, la sua mente e, grazie al legame che li univa, Fenrir percepì le emozioni di Avya, come lei le sue.
 
Fu solo quando raggiunse il punto di non ritorno, che lui cercò di sfuggire dal suo corpo, ma lei glielo impedì.
 
Lo cinse delicatamente alla nuca con una mano e, guardandolo con occhi lucenti, sussurrò: “Resta dentro di me. Donami tutto, di te.”
 
“Rimarrai incinta, Avya” la mise in guardia lui, non potendo ormai più resistere.
 
“Lo so” disse soltanto, cingendo i fianchi di Fenrir con le gambe perché non potesse scappare.
 
E Fenrir non lo fece. Non fuggì. Diede ad Avya, al suo amore, tutto ciò che ella gli chiese.
 
Stremato, affondò infine il viso nell’incavo del suo collo e lei, carezzandogli la chioma nera e ribelle, mormorò soddisfatta: “Resta con me per sempre.”
 
“Sì” disse soltanto Fenrir, pur rabbrividendo dentro di sé.
 
Quanto avrebbe pagato, per quel singolo momento di gioia pura? Quanto avrebbe voluto, Madre, per quell’infrazione alle regole? Quanto gli sarebbe costato, amare ed essere riamato?
 
L’amore non mi ha mai angustiata, figlio, ma non controllo ogni cosa, neppure io…
 
La voce di Madre riverberò nella mente di Fenrir, pesante come un macigno, ma il tocco di Avya lo distrasse.
 
Sorridendole, la baciò, cercando di scacciare le sue paure.
 
Lui era un dio, dopotutto. L’avrebbe tenuta al sicuro. Da tutto e da tutti.
 
E lei sarebbe stata sua, come lui suo, per l’eternità e oltre.
 
 
 
 
 
 
 
Note: Fenrir si è dimostrato insolitamente paziente, con Avya, pur se i due non hanno perso occasioni per beccarsi come galli. La pura di Avya, infatti, sta diventando solo una: Fenrir rimarrà con lei, o si stancherà, abbandonandola?
Questa paura - infondata - si trasforma in desiderio, quando capisce di volere molto di più da Fenrir e, grazie anche alla Cerimonia del Sangue (ricordate quella che si scambiarono Duncan e Brie, nel primo libro?), percepisce molto meglio anche i desideri e le sensazioni dell'uomo che ha imparato ad amare.
Le paure di Fenrir, nell'unirsi ad Avya, sono reali (come noi sappiamo), e neppure Madre può essergli d'aiuto, in questo.
Ma l'amore che prova per Avya è troppo grande, e ormai non può più trattenerlo. La bestia è stata domata e questo, per entrambi, avrà ripercussioni enormi.
Spero che questo percorrere il passato (già noto ma non ancora esplorato) vi stia piacendo.
Alla prossima!

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Capitolo 14
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 3 ***



Dove tutto ebbe inizio - 3 -
 
 

 
Ripiegata sul suo pagliericcio, Avya bruciava per la febbre alta, e il corpo era percorso da brividi di freddo e vampate di calore insopportabili.
 
Erano giorni che si sentiva così, ma non sapeva dare una spiegazione certa al suo stato di malessere.
 
Era pieno inverno e quindi, forse, si era presa una brutta infreddatura, eppure non le sembrava che la colpa potesse essere addebitata a questo.
 
Fu solo in un momento di lucidità, di tregua dagli spasimi e dal dolore, che rammentò un evento in particolare, accaduto poco tempo prima, e che portò a farla tremare di paura e sgomento.
 
Era mai possibile che…
 
Il pesante telo di lana che costituiva la porta della sua stanzetta venne scostato e lì, sulla soglia, scorse suo fratello Fryc, assieme al guaritore del loro villaggio.
 
Imponente e fiero come qualsiasi altro guerriero degno di tale nome, Fryc le sorrise benevolo e sicuro di sé e, una volta di più, Avya si sentì in colpa nei suoi confronti.
 
Quante volte gli aveva mentito, in quei mesi, solo per vedere Fenrir? Quanto si era spinta oltre, mentendo all’unica famiglia che le era rimasta?  Quanto era grande il suo peccato?
 
“Eccola, Syondr. Sono giorni che è febbricitante. Puoi curarla?” mormorò preoccupato Fryc, avvicinandosi alla sorella con espressione ansiosa per poi poggiarle una mano sulla fronte bollente.
 
“No, Fryc… non … avvicinarti…” ansò Avya, raggomitolandosi su se stessa.
 
Se era infettiva, non voleva che nessun altro si ammalasse ma, se per caso era stata fecondata da Fenrir, allora…
 
Che gli dèi li proteggessero tutti! Nessuno avrebbe dovuto toccarla, perché non aveva davvero idea di quello che avrebbe potuto succedere, se Fenrir avesse percepito un pericolo a lei incombente!
 
“Sei la nostra unica sorella ancora in vita, perciò spetta a noi prenderci cura di te” le replicò il fratello, accomodandosi su un treppiede di legno. “Sia io che gli altri fratelli siamo preoccupati per te e ci prenderemo cura della tua salute come avrebbe fatto nostra madre.”
 
Era davvero anacronistico, lì assiso in precario equilibrio, lui così grande e dolcemente goffo, nel suo tentativo di essere cordiale e premuroso. Il sorriso che le lanciò fu speranzoso, pur se i suoi occhi verde acqua espressero parte dell’ansia che Avya sapeva stava trattenendo a forza.
 
Avya si sentì morire dentro, al pensiero di ferirlo, ma nulla di quanto aveva ormai fatto poteva essere mutato.
 
Gentilmente, il guaritore la fece distendere sul pagliericcio, tastandola sul collo e scrutandola negli occhi arrossati e stanchi.
 
Aveva scelto, ogni decisione era stata presa in piena coscienza, eppure le piangeva il cuore al pensiero di quello che avrebbero pensato Fryc e i suoi fratelli, una volta saputa la verità.
 
L’avrebbero perdonata, o l’avrebbero scacciata in malo modo? Davvero non lo sapeva.
 
Lui l’aveva sempre amata e protetta, e così pure i loro fratellini, ma la comprensione del mondo degli uomini del villaggio era limitata alla spada che portavano in battaglia.
 
Essi onoravano gli dèi, ma non si erano mai presi la briga di comprenderli o, meno ancora, di cercarli per conoscerli.
 
Lei, invece, era sempre stata interessata al misticismo, a tutto ciò che non poteva essere visto né toccato… e aveva finito con il vedere – e toccare – fin troppo.
 
Accigliandosi leggermente quando vide Avya irrigidirsi e portare le mani al ventre, il guaritore mormorò preoccupato: “Hai dolori all’addome, fanciulla?”
 
“No, io…” tentennò lei, subito bloccata dalle parole del fratello.
 
“Non essere timorosa, sorella. Syondr non farà nulla che possa metterti in imbarazzo. E’ qui solo per curarti” la rassicurò lui, accennando un altro dei suoi goffi sorrisi. “Se preferisci, io uscirò per consentirti di essere più libera di parlare con lui.”
 
Assentendo alle parole di Fryc, il guaritore le sorrise gentile e dichiarò: “Ho due figlie della tua età, cara, e so quanto possiate sentirvi in imbarazzo, di fronte alla vostra intimità, ma non temere, non farò nulla che tu non vorrai.”
 
“Sono sicura che è un’infreddatura, e che…”
 
Un crampo improvviso le strappò un ansito strozzato, facendola ripiegare su se stessa e il guaritore, bloccandola alle spalle per non farla cadere, esalò: “Fanciulla, questa non è affatto un’infreddatura.”
 
Scusandosi quindi con lo sguardo, l’uomo le scostò le vesti mentre Fryc volgeva lesto il capo e, dopo averle pudicamente coperto l’inguine con le coltri del pagliericcio, il guaritore le tenne scoperto solo il ventre.
 
Ventre che Syondr fissò con occhi aggrottati e pericolosamente vicini alla verità.
 
Fryc, in ansia non meno della sorella, che stava osservando a occhi sgranati il suo addome leggermente arrotondato, esalò sconcertato: “Cosa le succede, Syondr? Parlami, prima che io impazzisca!”
 
Lo sguardo del guaritore si fece cauto, quasi contrito e, dopo averle risistemato le vesti, tornò a guardare la giovane e mormorò gentile: “Bambina… qualcuno ti ha per caso… sei stata…”
 
Il fratello, a quel punto, fissò Avya senza riuscire neppure a parlare e, raggelato, si accasciò sul treppiede, portandosi le mani al viso con fare disperato.
 
“Fryc, ti prego…”
 
“Non ti ho protetta… non ti ho protetta abbastanza…” mormorò angosciato l’uomo, scuotendo il capo con aria affranta.
 
“Fratello, non dire questo” sussurrò Avya, angosciata all’idea che Fryc si prendesse colpe che non aveva.
 
Lei aveva deciso di accettare il seme di Fenrir, lei aveva scelto di divenire la madre dei suoi figli.
 
Ora, però, ne pagava le conseguenze con la disperazione del fratello e l’ansia del guaritore.
 
“Fanciulla cara, sai che posso somministrarti delle erbe per…”
 
Nel sentirlo accennare anche solo velatamente a un aborto, Avya si rattrappì nel letto, coprendo con le mani in ventre prima di esalare: “No! Non lo farò!”
 
“Ascoltalo, sorella… non devi crescere per forza il frutto di una violenza…” la pregò Fryc, tornando a guardarla con aria speranzosa e angosciata assieme.
 
“E’ lodevole che tu non voglia interrompere una vita, bambina, ma nessuno ti biasimerà, se lo farai. Capiranno, …te lo posso giurare” insistette Syondr.
 
Avya, però, scosse il capo con violenza, si sedette sul letto stringendo le ginocchia al petto per proteggere il ventre e mormorò con tono irrevocabile: “Voi non toccherete mio figlio.”
 
A quel punto, Fryc si accigliò e, dopo aver lanciando un’occhiata al guaritore – che defilò silenzioso nella stanza adiacente – fissò la sorella e mormorò roco: “Hai fatto la sciocca in giro, Avya, e questo è il risultato? Ti sei data a degli sconosciuti, e non sai nemmeno chi è il padre del tuo bastardo? Era questo che facevi, quando dicevi di uscire per raccogliere erbe e medicamenti? La mia fiducia in te è stata dunque così mal riposta?”
 
Sgranando gli occhi di fronte a quell’accusa sputata fuori con cieca rabbia, la giovane fissò il fratello con altrettanto livore e protestò.
 
Si era aspettata rabbia, riprovazione… ma non disgusto. Non quell’aperta accusa di essere una ragazza di facili costumi!
 
“Pensi davvero questo, di me, fratello? Pensi che io sia una donnaccia?”
 
“Spiegami del bambino, allora!” sbraitò alfine lui, facendola sobbalzare. “Spiegami perché ti sei unita a un uomo, al di fuori del vincolo del matrimonio, come una volgare sgualdrina!”
 
“Tu lo fai!” lo rimbeccò Avya, vedendolo fremere d’ira a stento repressa. “Pensi che non lo sappia? Quando uscite con le armi spianate per assaltare qualche villaggio, pensi che non sappia cosa fate dopo, con gli sconfitti?!”
 
“Taci, donna…” la minacciò lui, livido in viso.
 
Ma Avya non tacque, ormai pronta a mettere a parole ciò che pensava.
 
“Non lo farò! Hai dato del bastardo al figlio che porto in grembo, ma io so chi è il padre, e lo amo!” esclamò con fervore, ammettendolo ad alta voce anche con se stessa.
 
Sì, amava Fenrir. Non si era unita a lui solo per puro desiderio fisico, per sapere cosa si provasse nell’avere un amante.
 
Voleva tutto di lui, anche il figlio che stava crescendo dentro di lei, e lo avrebbe amato con tutta se stessa, fino all’ultimo suo respiro.
 
Fryc si fece nero in volto e, sguainando il pugnale che portava alla cintola, lo puntò contro la sorella, sibilando: “Il suo nome, così che io possa squartarlo come merita, se non lo riterrò degno di prenderti in moglie! Perché credimi, Avya, quel bambino non nascerà mai, al di fuori di un matrimonio onesto.”
 
“Non te lo dirò mai!” sbottò Avya, facendo l’atto di alzarsi da letto. “Non lo accetteresti mai!”
 
Il fratello la fermò o, per lo meno, tentò di farlo.
 
Nel momento stesso in cui cercò di mettere le mani addosso alla sorella, col chiaro intento di gettarla sul pagliericcio, fu bloccato da una forza invisibile quanto potente.
 
Questa, lo sospinse via con ferocia, facendolo barcollare all’indietro di tre passi.
 
Sgomenta, Avya rammentò le parole di Fenrir, i suoi doni di wicca e, nell’osservare il volto livido del fratello, capì di non avere più un posto, lì al villaggio.
 
I suoi poteri le avevano appena chiuso in faccia l’unica porta che lei conosceva, e ora era sola. Isolata.
 
“Sei maledetta…” ringhiò Fryc, guardandola come se non la riconoscesse più.
 
Una lacrima le rotolò sulla gota mentre, con un sospiro appena accennato, chiamava il suo amore perché conoscesse ciò che era avvenuto.
 
La notte lo avrebbe condotto da lei e, forse, non vi sarebbe stato spargimento di sangue, a causa del suo comportamento egoista.
 
Sperò solo che Fenrir fosse abbastanza in sé da non distruggere tutto per il puro istinto di protezione che provava verso di lei.
 
Quasi a confermare le sue paure, un boato si udì all’esterno dell’abitato, alle quali si unirono grida terrorizzate, lamenti e imprecazioni.
 
Sgomenta, Avya si diresse verso l’esterno, seguita a ruota da Fryc, che ancora non aveva ritirato il pugnale.
 
Quando misero piede fuori, Avya comprese.
 
Fenrir era giunto immediatamente, forse preoccupato dal suo tono ansioso e, feroce come sapeva essere, era piombato nel villaggio nelle sue forme di lupo. Forme che, ovviamente, avevano scatenato il panico tra le genti e l’orrore dei più.
 
“Fenrir!” gridò Avya, richiamando la sua attenzione.
 
Subito, il lupo si volse verso di lei e, in uno scintillio dorato, egli prese forme umane, le corse incontro e la strinse forte a sé.
 
Fryc osservò il tutto con espressione turbata e feroce assieme, mettendo finalmente insieme tutti i pezzi del mistero legato alla sorella.
 
Mentre tutto il villaggio si assiepava attorno alla coppia, chi con un forcone in mano, chi con spade già spianate, Fryc ringhiò feroce: “Ti sei accoppiata con un demone, sciocca sorella? Ti sei lasciata tentare dal male?!”
 
“Lui non è un demone!” esclamò Avya, ancora stretta a Fenrir, che stava osservando Fryc con sguardo omicida.
 
“Ti ha marchiata! Ti ha maledetta, e ora porti il suo sangue impuro dentro di te!” la insultò il fratello, e le grida delle altre persone presenti si unirono alla sua.
 
“Fryc, ti prego, non dire altro! Non c’è niente di impuro, in me, e neppure in lui! Ti ho mentito, è vero, e per questo incolpa solo me… ma Fenrir è buono! Non è affatto un dio crudele o un demonio!” singhiozzò Avya, terrorizzata all’idea di quello che avrebbe potuto fare Fenrir, di fronte a tali e tanti accuse.
 
Era pur sempre un dio, un dio orgoglioso che, punto sul vivo, avrebbe potuto reagire in malo modo… anche uccidendo tutti.
 
Ma Fenrir non parlò a nessuno dei presenti, si limitò a tenerla stretta, protetta dal cerchio delle sue braccia e, sempre fissando Fryc e il suo pugnale, mormorò solo per lei: “E’ successo, vero?”
 
“Sì” sussurrò, poggiando il capo contro il suo torace.
 
Fenrir allora la sollevò tra le braccia, già pronto ad andarsene, ma Fryc puntò l’arma contro di lui, sibilando: “Lasciala qui. Non ti permetteremo di dare vita all’abominio che le cresce dentro. Brucerete tutti e due, così che i demoni vengano spazzati via da queste terre!”
 
Avya ansò spaventata, ma ancora Fenrir non si mosse, né parlò.
 
Ringalluzzito dalla sua immobilità, Fryc si avvicinò ancora, forse pronto a sfregiarlo col pugnale, ma il dio a quel punto rise.
 
Sulle prime, rise sommessamente ma, con il passare dei secondi, la sua risata divenne più potente e forte, mettendo in agitazione l’intero villaggio.
 
Essa divenne aspra come fiele, al pari dello sguardo raggelante con cui fissò Fryc e, quando infine questa si spense, Fenrir dichiarò: “Sfidi un dio, umano, non un demone qualunque, sorto dalle viscere di Midghard come un verme strisciante.”
 
Ciò detto, la sua pelle baluginò dello stesso chiarore della luna ma, al tempo stesso, sembrò divorare ogni spettro di colore, portando oscurità nel villaggio.
 
“Sono dio di oscurità e morte, umano, e tu hai offeso l’unica donna che io porto in palmo di mano, perciò non stupirti se vorrò divorarti, un giorno. Ma non oggi, e neppure domani. Non infierirò su chi, fino a poche ore fa, si è preso cura della mia amata. Consideralo un regalo da parte mia.”
 
“Lei non è più mia sorella” sentenziò rabbioso Fryc, raggelando Avya con quelle semplici parole.
 
Fenrir allora ghignò, replicando faceto: “Allora, posso divorarti fin da ora.”
 
Ciò detto, mosse un passo verso di lui, ma Avya lo bloccò, mormorando: “Andiamocene, ti prego.”
 
“Sia come vuoi” assentì a quel punto Fenrir, lanciando un’ultima occhiata ferale a Fryc.
 
Come era giunto, così il dio svanì, lasciando dietro di sé solo lo sfrigolio del suo potere e le sue minacce.
 
Rinfoderando il pugnale, Fryc fissò la sua gente, la loro giusta rabbia, e sentenziò: “Li troveremo e, per volere degli dèi stessi, li distruggeremo. Loro e la loro progenie, finché non ne rimanga più memoria!”
 
Alle parole di Fryc seguì un coro di feroce soddisfazione.
 
La faida era stata aperta. Forse, per sempre.
 
***
 
Depositata Avya su una roccia al limitare del bosco che li aveva visti conoscersi e amarsi, Fenrir la fissò ansioso, borbottando: “Perché non mi hai chiamata alle prime avvisaglie? Ti avrei portata al sicuro molto tempo prima.”
 
“Non… non sapevo che…” tentennò la giovane, non sapendo se piangere o urlare di rabbia.
 
Suo fratello l’aveva ripudiata, il ragazzo che l’aveva cresciuta, protetta, amata fino al giorno prima, ora l’aveva abbandonata a sé stessa. Rifiutata perché non compresa. Come sempre, dopotutto.
 
Nessuno dei suoi fratellini si era elevato a sua difesa. Al pari di Fryc, del villaggio tutto, nessuno aveva speso una parola di comprensione per lei. Tutti l’avevano tacciata di essere un mostro, e come tale l’avevano trattata.
 
“Avya…” mormorò Fenrir, attirando la sua attenzione.
 
“Cosa?”
 
“Mi dispiace. Non avrei mai dovuto avvicinarmi a te, quel giorno” sussurrò, prendendole le mani per baciargliele.
 
“Mi avresti lasciata in un luogo in cui non sarei mai stata felice” replicò lei, sorridendogli nonostante tutto. “E con te, io sono felice.”
 
“Cosa che non avrei mai pensato di poter udire in tutta la mia vita, pur se cammino tra i mondi da millenni” esordì una voce dietro di loro, facendo irrigidire Avya.
 
Fenrir, però, non badò molto al nuovo venuto e, rialzatosi, sbottò: “Esci allo scoperto e non spaventare la mia compagna, Tyr. Non è proprio nelle condizioni di poterselo permettere.”
 
Apparendo come un’evanescente manifestazione ultraterrena, un guerriero alto e dai biondi capelli prese forma corporea e sorrise ad Avya, inchinandosi leggermente.
 
Armato fino ai denti e coperto da una pesante armatura, il possente dio mostrava un volto ruvido e duro, pur se addolcito da un sorriso e da occhi che esprimevano intelligenza e fierezza, ma anche bontà.
 
“I miei ossequi, gentile fanciulla. Finalmente scopro chi è la donna che ha ammansito il lupo” dichiarò Tyr, ghignando all’indirizzo dell’altro dio.
 
“Non sfidare la sorte, cucciolo di Odino, o potrei mozzarti quella mano che tanto leziosamente usi per sistemarti quei capelli da donna” lo minacciò scherzosamente Fenrir, facendo ridere il possente dio della guerra.
 
“Capisci con chi ho a che fare, giovane mortale? Un villano fatto e finito” le strizzò l’occhio Tyr, accomodandosi accanto a lei e sovrastandola con il suo corpo enorme.
 
“La spaventi” sbuffò ancora Fenrir.
 
Avya, però, sorrise a entrambi gli dèi, e domandò: “Sei amico di Fenrir?”
 
“Per compiacere la mia vena masochistica, sì, dolce virgulto. Tyr è il mio nome, di Odino il figlio prediletto” si presentò il dio, con un cenno grazioso del capo.
 
Fenrir allora rise, e replicò: “Tuo fratello Thor avrebbe qualcosa da ridire…”
 
“Anche Balder, se è per questo, ma non sono qui a ficcanasare, perciò…” scrollò le spalle Tyr, ghignando con fare burlone.
 
Tornando serio a quell’accenno, Fenrir replicò sarcastico: “Non sarebbero mai venuti, visto che non mi sopportano.”
 
“Ammettilo, quando eri un cucciolo hai divorato tanti di quei calzari da far arrabbiare più di un dio, e molti appartenevano ai miei fratelli” lo prese in giro Tyr, sperando così di calmarlo.
 
Avya allora lo fissò confusa e Fenrir, sbuffando, borbottò: “Nei miei primi anni di vita, soggiornai al palazzo di Odino. Gli dèi non si fidavano di Loki, perciò gli strapparono i figli non appena mia madre ci ebbe svezzati; io, Hel e Jörmungandr. Hel, che non fu mai bambina ma nacque con fattezze di adulta, venne mandata a guidare il regno delle nebbie, Helfheimr, che nessuno voleva governare. Io venni condotto a palazzo perché crescessi sotto il controllo di Odino e, beh, Jör…”
 
Tyr spezzò un ramo di un cespuglio vicino, mormorò un’imprecazione e infine gettò il rametto con rabbia, borbottando: “E’ confinato nei mari di Midghard, per sempre ingabbiato nella sua prigione acquatica.”
 
“Oh, dèi…” esalò sgomenta Avya, sconcertata.
 
“Ho idea che Jör abbia collezionato un carattere persino peggio del tuo, amico, … sai che noia, parlare con pesci e papere tutto il giorno?” cercò di ironizzare Tyr, pur non riuscendo a convincere neppure se stesso.
 
“Ma… perché questo destino?” domandò Avya, fissando sgomenta il dio biondo.
 
Fu però Fenrir a rispondere.
 
“Perché, su di noi, gravava l’infausto dono del Destino. Come io sono il dio della distruzione, Jör stritolerà nelle sue spire sia Midghard che gli altri mondi, riducendo tutto in briciole, e Hel danzerà lieta sui corpi dei morti, godendo del massacro che perpetreremo. Questo dissero di noi le Norne, alla nostra nascita, e a Odino non piacque affatto.”
 
“Urŏr fu così carina da predire loro questo eccelso Fato, e mio padre non la prese benissimo” borbottò Tyr, scalciando un sassolino con lo stivale.
 
“E… e vostro padre… vostra madre… non fecero nulla?” esalò Avya, sempre più preoccupata all’idea di conoscere la verità fino in fondo.
 
Fenrir rise debolmente, lanciando un’occhiata sinistra alla luna.
 
“Loki fu assai felice di conoscere il nostro destino, ne va tutt’ora molto fiero, e non perde occasione per spingermi a perdere la pazienza.” Poi, guardando l’amico, aggiunse: “E tuo padre ci mette del suo, per aiutarlo.”
 
“Ehi, mai detto di avere una famiglia perfetta” ironizzò Tyr.
 
“Hel è felice del suo ruolo di regina delle ombre. E’ nel suo ambiente ideale, se vogliamo…” scrollò poi le spalle Fenrir. “… e, quanto a Jör, chi può dirlo? Nemmeno io l’ho mai capito tanto. Chi capisce un serpente, quando parla?”
 
I due dèi risero, ma Avya comprese subito che il loro era solo un goffo tentativo di rasserenare un po’ l’ambiente.
 
I fatti, però, erano evidenti. Fenrir era stato bistrattato fin da quando era nato, e questo aveva contribuito a renderlo il dio reietto e disadattato che era ora.
 
Non fosse stato per lei e, prima, per Tyr, sarebbe stato completamente, desolatamente solo. E folle di rabbia.
 
Un ottimo modo per far perdere le staffe – e il senno – a un dio destinato a distruggere tutto.
 
Padre Tutto non aveva davvero operato con coscienza, se le sue azioni erano nate dal desiderio di salvare ogni cosa. Tutt’altro.
 
Era forse vero, dunque, che dal destino non ci si poteva salvare? Che, pur con le migliori intenzioni, il Fato seguiva comunque la sua strada?
 
O erano le Norne a guidare gli eventi, in modo tale che le parole di Urŏr giungessero laddove dovevano arrivare, in un modo o nell’altro?
 
Avya non lo sapeva, ma il timore per suo figlio, a quel punto, crebbe a dismisura.
 
Poggiandosi le mani sul ventre, mormorò: “Che ne sarà di lui?”
 
“Lo proteggerò da tutto e da tutti, Avya. Non temere” la rassicurò subito Fenrir, prima di notare lo sguardo torvo di Tyr. “Non la porterò da tuo padre… scordatelo.”
 
“Neppure te lo volevo consigliare. Tutt’altro. Temo potrebbe fare del male alla fanciulla e al tuo figliolo. No, volevo proporti un altro luogo, ma non so se ti piacerà.”
 
Sbuffò, come se gli desse fastidio persino pensarci ma, alla fine, il dio biondo espresse il suo parere.
 
“Lo Járnviŏr è il luogo più adatto in cui nascondersi. Nessuno vi cercherà lì, visto che non è esattamente il posto più amato dagli dèi, qui su Midghard.”
 
Un attimo dopo avergli proposto quel luogo, Fenrir si inalberò e, preso il dio della guerra per il bavero della tunica, ringhiò furente: “Non la porterò tra le braccia di mia madre!”
 
“E’ la più sana del gruppo, ammettilo, Fenrir! Almeno, lei non ha tentato di sobillare la tua rabbia, o di screditarti agli occhi degli altri dèi!” si difese l’amico, pur senza tentare di liberarsi dalla sua stretta.
 
“Già… mi ha soltanto abbandonato, al pari degli altri suoi figli, quando si è resa conto che non facevamo parte della stirpe dei giganti” sbottò Fenrir, lasciandolo andare.
 
“Oh, andiamo, Fenrir… quali altre possibilità hai? Nessun luogo, su Midghard, è sicuro per lei. Odino scruta ovunque per vedere le tue mosse, e si scatenerà di certo quando scoprirà che hai messo incinta un’umana. La Foresta di Ferro è l’unico luogo in cui non riesce a scorgere nulla.”
 
“La porterò su Alfheimr” protestò burbero il dio della distruzione.
 
“Per farla morire?” lo rimbeccò Tyr. “E’ incinta, amico. Neppure Oberon vorrà su di sé un simile pericolo incombente. Pensi davvero che quell’arrivista di un elfo vi proteggerà da Odino? Vi consegnerà su un piatto d’argento per ottenere favori e pulzelle, ecco cosa… e Titania lo massacrerà di botte, per questo…”
 
Fenrir non riuscì a trattenere un sorrisino, nonostante tutto e Tyr, aprendosi in una risata liberatoria, esalò: “Quasi quasi, però, ne varrebbe la pena solo per vedere Titania che fa a pezzi Oberon. Quante volte è già successo? Tre, quattro?”
 
“Quattro” assentì Fenrir, afferrando dolcemente una mano della sua confusa compagna. “Scusami, cara. Parliamo di cose che ti riguardano, ma senza interpellarti. Tu cosa proponi?”
 
“Se ho ben capito, a tua madre non interesserà affatto che noi ci troviamo a… casa sua o meno, giusto?”
 
“Esatto. Potrà essere al massimo curiosa di vederti, ma non mi aspetterei abbracci e baci di benvenuto” sospirò Fenrir, scrollando spiacente le spalle.
 
“Allora, andremo lì. Saremo sempre su Midghard, con tempi di gestazione sotto controllo e non falsati dai ritmi anomali di Alfheimr e, al tempo stesso, saremo al sicuro dall’occhio di Odino.”
 
Tyr sorrise, battendole una mano sul braccio, esclamando: “Mi piaci, fanciulla. Hai la tempra giusta per sopportare questo lupo da strapazzo.”
 
“La mano, Tyr… la mia minaccia è ancora valida” ringhiò per contro Fenrir.
 
“Come ti dicevo, fanciulla… un vero rompiscatole” ghignò Tyr.
 
“Avya. Mi chiamo Avya” gli sorrise lei, levandosi in piedi. “Andiamo, allora?”
 
“Avrei voluto evitarti tutto questo” si spiacque Fenrir, abbracciandola.
 
“Sapevo a cosa andavo incontro, volendo te” replicò lei, poggiando il capo contro il suo torace.
 
“Io andrò a distrarre chi di dovere, ma voi fate in fretta a entrare nello Járnviŏr.”
 
Ciò detto, Tyr svanì in un bagliore dorato e Fenrir, dopo aver annuito ad Avya, portò entrambi dinanzi alle porte della foresta di ferro.
 
Járnviŏr era cinto da mura elevate, brune e senza vezzi di alcun tipo.
 
Al suo interno, sorgevano alte montagne scure, sormontate da nevai perenni e, ai suoi piedi, un’interminabile foresta cupa e apparentemente senza vita, si estendeva fin dove occhio poteva giungere.
 
Due troll si fecero avanti minacciosi, non appena li videro ma, quando riconobbero Fenrir, calarono le armi.
 
“Fenrir. Sei in visita?” domandò uno dei due, parlando con voce cavernosa, appena comprensibile.
 
Stretta all’amato, Avya non seppe se gridare di paura o darsela a gambe, ma preferì non fare nessuna delle due cose.
 
Ormai, aveva deciso e, anche se quel luogo la terrorizzava, non poteva farci più nulla.
 
Nessun altro luogo sarebbe stato sicuro, per loro e, da reietti quali erano, dovevano affidarsi alle poche certezze che avevano.
 
Quel luogo, pur così spiacevole, forse le avrebbe garantito tempo e possibilità per allevare suo figlio.
 
Forse, pur se ne dubitava fortemente, avrebbe anche potuto arrivare ad apprezzarlo.
 
Non quel giorno, però. Era di larghe vedute, ma non così tanto.
 
“L’umana con te?” domandò ancora il troll.
 
“E’ la mia sposa, Ryff, perciò comunica ai tuoi sottoposti che, se le verrà torto un solo capello, nessuno di voi rimarrà in vita” ringhiò Fenrir, facendo irrigidire il gendarme.
 
“Non mangiamo gli umani, Fenrir, e lo sai. La loro carne è troppo dura. Ma avvertirò i miei compagni” dichiarò stizzito il troll, prima di guardare Avya e dire: “Chiedi di me, umana, se vorrai visitare Járnviŏr. Pur se nessuno ti farà del male, non è un luogo da visitare in solitudine.”
 
“Lo farò. G-grazie” balbettò Avya, accennando un rapido sorriso prima di nascondere il viso contro il petto di Fenrir.
 
In silenzio, le porte vennero aperte per loro e, quando ebbero varcato il confine, il dio mormorò: “Benvenuta nella foresta di Ferro, mia amata.”
 
Tutto era nei toni del nero e del grigio, persino le foglie degli alberi che, pur apparendo morti, sembravano forti.
 
Avya ne tastò uno, e Fenrir disse: “E’ vivo, pur se non sembra. Puoi percepire la vita in esso, vero?”
 
“Sì, e la cosa mi ha sconcertata. Ma perché è tutto monocromatico?” domandò confusa Avya, guardandosi intorno con espressione sempre più perplessa.
 
Facendo spallucce, Fenrir borbottò: “Ai giganti non piacciono i colori. Li trovano uno speco di energie.”
 
“Spreco… di energie?” esalò Avya, sgranando gli occhi.
 
“Tutto è energia, anche la luce. Non ti spiegherò come vengono assorbiti i colori, perché temo sia un argomento tedioso e complesso. Lo capisco a malapena anch’io, ma tant’è. I colori vengono assorbiti per divorarne l’energia, e così emerge solo il nero, che li ingloba tutti in sé, e molte sfumature di grigio. Viene impedito ai colori di fuggire.”
 
Deglutendo a fatica, Avya si tastò la sua chioma ramata, ma Fenrir rise delle sue paure.
 
“Non diventerai in bianco e nero, tesoro. I colori vengono immagazzinati nella Natura circostante. Se hai notato, la pelle dei troll è marrone, non nera.”
 
“Oh… in effetti, sì” assentì ancora strabiliata lei, continuando a guardarsi intorno con espressione stupefatta.
 
“E quella di tua madre è blu” dichiarò una voce profonda e roca, poco distante da loro.
 
Fenrir si bloccò, tenendo stretta a sé Avya e, dal folto della foresta, fece la sua comparsa una gigantessa dall’aspetto truce.
 
Una cicatrice le solcava il labbro, mentre i capelli, trattenuti in una treccia, si nascondevano in parte sotto un elmo di pelle e metallo bulinato che indossava.
 
“Angrboŏa…” mormorò Fenrir, con un cenno leggero del capo.
 
“Fenrir… la bambina umana con te è incinta, vero? Il suo odore è ben distinguibile” dichiarò la gigantessa, fissando dubbiosa Avya.
 
“Sì, madre. E, come immaginerai, non possiamo rimanere al di là del muro, con Odino a seguire sempre i miei passi su Midghard” le spiegò lui.
 
Per quanto fosse stato convinto delle parole di Tyr, e delle proprie, Fenrir non era ancora del tutto sicuro che sarebbero stati accolti.
 
Angrboŏa rise sprezzante, facendo tintinnare le catenelle che pencolavano dalla sua cintura di cuoio.
 
“Odino non oserà venire qui, e neppure Loki, poiché sa che strapperò le sue sacre palle per macellarle, se solo ci prova…”
 
Avya sgranò gli occhi, di fronte a quel modo di esprimersi così crudo, ma Fenrir non si sorprese affatto.
 
Sapeva bene quanto odio vi fosse, tra i due. Loki non era stato esattamente onesto, con lei, presentandosi sotto le mentite spoglie di un gigante, al solo scopo di ingravidarla.
 
Forse, anche per questo sua madre non era stata molto sensibile, nei loro confronti. Dopotutto, le ricordavano lo scorno subito da Loki.
 
“Andrete da Iárnividia. E’ anziana, ma non così tanto da non potersi prendere cura di una bambina gravida. Il luogo è tranquillo, lontano dai troll più scalmanati, che potrebbero farle male anche solo per errore” spiegò loro Angrboŏa. “Ma, alla nascita del pargolo, dovrete andarvene. Questo non è un luogo adatto per crescere un neonato, visto il sangue del padre.”
 
Fenrir assentì torvo, non avendo nulla da eccepire al suo discorso.
 
Se già avevano su di sé il peso del suo nome, e del suo destino, farli crescere in un luogo così oscuro, avrebbe portato a conseguenze catastrofiche.
 
“Spero solo che, darvi una scadenza, basti a chetare Urŏr. La sua mente, a volte, partorisce orribili nefandezze” sospirò la gigantessa, volgendosi per fare loro strada.
 
Presa per mano Avya, Fenrir le sorrise e, pur se sapeva che nulla sarebbe stato semplice, per loro, mormorò: “Ce la faremo.”
 
“Siamo insieme” assentì lei, incamminandosi al fianco del suo compagno.
 
 
 
 
 
 
 
___________________________________
Urŏr: è una delle Norne ed è preposta alla tessitura del destino delle persone.

Járnviŏr: (Foresta di Ferro) luogo di nascita di Fenrir, Hati e Sköll, secondo il mito.

Angrboŏa: gigantessa, madre di Fenrir.

Note: Sempre secondo il mito, Tyr era l’unico, tra gli dèi, ad avere il coraggio di avvicinare Fenrir e, all’occorrenza, dagli da mangiare, quando era un cucciolo, perciò ho scelto lui per essere l’unico amico del dio-lupo.

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Capitolo 15
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 4 ***


Dove tutto ebbe inizio (parte 4)
 
 

 
Si era ormai abituata a quelle tinte monocromatiche, al vento che spirava incessante, al fruscio dei rami e delle foglie, al profumo leggero di legna bruciata e di spezie.

L’incensiere che Iárnividia teneva nella sua capanna era costantemente acceso, e profumava quasi sempre di tarassaco.

Ultimamente, però, la titanessa era solita mettere anche salvia, nel composto di fiori usato per produrre la pastella da bruciare nella ciotola di terracotta che teneva sul davanzale.

Avya immaginava che fosse per lei, per chetare in qualche modo i dolori che il parto ormai prossimo le dava.

La gravidanza si era svolta senza tanti problemi fino al sesto mese, quando era parso evidente a entrambi i genitori che qualcosa non andava.

Iárnividia aveva confermato le loro paure, affermando che, all’interno del ventre di Avya, stavano crescendo due bambini, non uno.

Questo, avrebbe complicato di sicuro il parto, e reso molto più difficile salvare sia i bambini che la madre.

Se, come temeva la titanessa, i due bambini non fossero stati del tutto umani, ma avessero avuto connotazioni animali, per Avya non vi sarebbe stato scampo.

Con tutta probabilità, avrebbero tentato di uscire dalla madre a morsi.

L’ansia di Fenrir, se possibile, era aumentata a dismisura, fino al punto in cui la vecchia titanessa lo aveva scacciato dalla sua capanna.

Fenrir se n’era andato furente, mutando in lupo e gettandosi nella foresta come uno spirito in pena.

Avya l’aveva scrutato dalla finestra, rimpiangendo di non aver avuto parole da dedicargli che potessero chetare il suo animo.

Da quel giorno erano passati più di due mesi e, a parte sporadiche visite di qualche minuto ogni giorno, Fenrir era sempre rimasto nella foresta, a girovagare senza meta.

Era sempre stato a portata d’orecchio, ma non aveva più messo piede nella capanna della titanessa.

In questo, la donna era stata chiara e lapidaria: non avrebbe più potuto vedere la compagna, finché la sua furia non fosse scemata.

La negatività di Fenrir non avrebbe potuto che nuocere alla crescita dei bambini, e questo Iárnividia aveva voluto evitarlo a tutti i costi.

Avya non era stata d’accordo, ma non aveva detto nulla, non volendo scontentare la donna che si era così presa cura di lei in quei mesi.

Se l’impatto iniziale l’aveva scioccata – la titanessa non era di certo bella in viso, o aggraziata come la madre di Fenrir – Avya si era però ben presto abituata a lei.

I suoi modi rozzi si erano ben presto ammorbiditi e, ora che il parto era ormai prossimo, Iárnividia era arrivata a considerare Avya parte della sua famiglia.

“Non devi pensare che io voglia punire Fenrir o te, tenendolo lontano da qui” intervenne a un certo punto la titanessa, gettando alcune foglie secche nel pentolone dell’acqua calda. “Sto solo pensando alla sua sanità mentale, così come alla tua.”

Avya sorrise appena, annuendo e, con lo sguardo, tornò alla finestra, da cui si poteva vedere la vallata ricolma di piante, ora piegate da un vento inclemente.

Entro sera, sarebbe piovuto. Le nubi purulente che viaggiavano nel cielo, erano pronte a lanciare a terra strali e pioggia a volontà.

“Non ha bisogno di vederti soffrire, così come tu non hai bisogno di veder soffrire lui” aggiunse la titanessa, tornando da lei con una tisana bollente e profumata. “Il dio della distruzione non dovrebbe essere presente, mentre la donna che ama rischia la vita. Farebbe esplodere il mondo per la paura di perderti. Stare lontano lo aiuterà a concentrarsi, a contenere ciò che gli dèi lo hanno obbligato a trattenere dentro di sé.”

“Pensi che ne sarà in grado?” le domandò Avya, sorseggiando la bevanda. Era dolce, vagamente untuosa sulla lingua, ma non sgradevole.

Annuendo, Iárnividia si fece ombrosa in volto e dichiarò: “Quel ragazzo ne ha passate così tante, che neppure Odino stesso potrebbe distruggerlo. Ma tu puoi… puoi abbatterlo con il solo respiro che emetti dalle labbra, ragazza. Per questo, non deve vederti mentre partorirai i suoi figli.”

“E… e se dovessi morire?” tentennò Avya, sapendo che era una possibilità reale.

Uno dei bambini scalciò, quasi pregandola di non pensarlo neppure, e la giovane si massaggiò il punto in cui il figlio l’aveva redarguita.

Sorridendo appena, si chinò un poco verso il ventre e disse: “Ho capito, non devo pensarci. Ma voi due siete grossi, e io non sono esattamente un gigante, no?”

La titanessa rise sommessamente, diede una carezza piuttosto ruvida sul capo della ragazza e si allontanò per seguire la preparazione dello stufato.

Avya allora la seguì con lo sguardo e, nonostante si trovasse lontana da casa, in un luogo disperso e apparentemente inospitale, fu lieta di essere con lei.

Sua madre era morta quando era troppo piccola perché ne avesse potuto sentire la mancanza, e suo padre e i suoi fratelli maggiori non l’avevano mai realmente considerata.

Sì, le avevano voluto bene, ma non l’avevano mai veramente capita, in quanto donna.

Fryc era stato l’unico che, per tutta la vita, si era prodigato per lei. E, alla fine, Avya lo aveva tradito.

Certo, lei non lo aveva fatto con l’intento di ferirlo, ma la sostanza non cambiava.

Accettare – e volere – l’amore di Fenrir, l’aveva allontanata da Fryc, che l’aveva odiata per questo, scacciata per sempre dalla sua casa e dal suo cuore.

Per Fenrir, però, aveva preso su di sé anche l’odio del fratello, conscia che era la cosa giusta da fare.

Il loro amore era più importante di qualsiasi altra cosa e sperava, con il tempo, di farlo capire anche a Fryc.

Una volta che avesse visto e conosciuto i suoi nipoti, Avya era certa che avrebbe cambiato idea su di loro.

Su tutto.

Sempre che, ovviamente, fosse sopravvissuta.

Un altro calcio le ricordò che anche i suoi pensieri erano tenuti attentamente d’occhio dai due nascituri così, con un sorriso, si limitò ad appisolarsi.

Non era il caso di mettersi a discutere con quei due.
 
***

Appollaiato sulla cima di una rupe, il muso rivolto verso il cielo plumbeo, Fenrir ululò, straziato da un dolore così cocente da non poter essere trattenuto oltre.

La Foresta di Ferro era lontana, ora, ne era uscito alcune ore prima per non dover costringere Avya a udire i suoi ululati dolenti.

Non voleva turbarla in alcun modo. Iárnividia aveva avuto ragione a scacciarlo, visto che non era in grado di sopportare la vista di Avya in quello stato.

Era unicamente colpa sua, se stava male.

Non avrebbe mai dovuto avvicinarla, amarla, come invece il suo sciocco cuore si era concesso per la prima volta nella sua esistenza.

Lui non era una creatura destinata a essere felice, Urŏr glielo aveva fatto capire più che bene fin da quando era venuto al mondo.

Portatore di morte, fame e distruzione. Ecco cos’era. Lui non dispensava vita e, di sicuro, sarebbe stato la causa della fine della sua amata.

“Hai un’espressione davvero derelitta, amico” osservò una voce, a poca distanza da lui.

Fenrir levò il muso a fissare Tyr che, risalendo l’erta della rupe, appariva forte e possente come al solito, pur se un po’ in ansia.

Non era in armi, quel giorno, e indossava una comoda tunica di lana intrecciata e alti schinieri di pelle che sfioravano le ginocchia.

I capelli, rilasciati sulle ampie spalle, svolazzavano leggeri a causa del vento inclemente.

Quando Tyr lo raggiunse, gli diede una pacca sulla zampa e aggiunse: “Avya come sta?”

“E’ con Iárnividia. Cerco di non stare loro tra i piedi perché… beh…”

“Non riesci a vederla soffrire?” buttò lì il dio biondo, ghignando.

Fenrir annuì, accucciandosi a terra e poggiando il muso sulle zampe anteriori, allungate sul terreno roccioso.

Tyr lo imitò, sedendosi a terra a gambe e braccia conserte.

“Odino ti sta tenendo d’occhio, ultimamente. Si è incuriosito, vedendo che entri e esci così spesso dalla Foresta di Ferro, e ha mandato me a chiedertene i motivi, visto che sa che sono l’unico che sopporti.”

“Ecco, appunto… sopporto. Non tirare troppo la corda, amico” sbuffò il lupo, fissandolo in cagnesco.

“Lascia quello sguardo arcigno per qualcun altro, bestiaccia che non sei altro” borbottò Tyr, dandogli uno spintone alla spalla. “E non parlare di corde, visto che Balder aveva proposto di legarti, così da mettere fine al tuo andirivieni senza senso.”

“E perché gli è venuta in mente questa idea balzana?”

“Semplice. Perché Odino passa tutto il suo tempo a curiosare nelle ciotole della Vista, e Balder non ne può più di vederlo piegato su di esse. Vuole allenarsi con Padre Tutto, ma lui nicchia, così ha deciso che, visto che sei tu la causa della curiosità di Odino, se ti lega, lui è a posto.”

“Puoi dire a tuo fratello di mettersi la sua stupida corda dove non batte il sole. Non mi farò mai legare perché lui possa giocare ai soldatini col paparino” ringhiò Fenrir, levando fiero il muso. “E Odino può farsi gli affari suoi, tanto per cambiare. Non c’è bisogno che segua le mie mosse ogni santo giorno della mia vita.”

“Sai com’è fatto” scrollò le spalle Tyr. “E’ paranoico. E il tuo trottare avanti e indietro non lo aiuta. Che ci inventiamo, quindi?”

“Digli soltanto che sono qui per riallacciare i rapporti con mia madre, visto che mio padre non è esattamente il tipo con cui scambiare due parole in santa pace” brontolò Fenrir, ringhiando.

“E pensi di essere credibile?” lo irrise Tyr, fissandolo scettico.

“Se ti viene in mente qualcosa di meglio, fai pure, dio dei miei stivali” sibilò il lupo, alzandosi sulle possenti zampe con una spinta furiosa.

“Ehi, ehi, calma! Cerco solo di aiutarti, sai?!” si indispettì Tyr, levandosi in piedi a sua volta per fissarlo torvo. “Sono l’unico che hai dalla tua parte, ricordalo.”

“Non te l’ho mai chiesto! Non ho mai chiesto niente a nessuno! Maledizione, è così difficile credere che io voglio solo essere lasciato in pace!?” sbottò a quel punto Fenrir, ringhiandogli in faccia. “Voi dèi di Asghard mi avete tenuto il fiato sul collo fin da quando sono nato! Mi avete sempre odiato!”

“Io non l’ho mai fatto!” replicò furioso Tyr.

“Sei come tutti gli altri… prima o poi ti rivolterai contro di me per via di ciò che sono!”

“Dovrei davvero usare la corda di Balder… ma per imbavagliarti! Dici solo idiozie!” gli rinfacciò il dio biondo, ferito suo malgrado dal suo dire. “Ti perdono solo perché so che sei preoccupato per Avya, ma ricorda… non puoi pensare che io sopporterò in eterno il tuo caratteraccio. Prima o poi, me ne andrò anch’io, se continuerai a sputare addosso alla nostra amicizia.”

“Beh, puoi anche andartene ora, se pensi che…”

Il suono di un corno interruppe l’arringa di Fenrir che, volgendo il muso in direzione della foresta, esalò sconvolto: “Avya… è iniziato.”

“Vai, allora. Corri” sospirò Tyr. “Dirò a Padre Tutto che ti diverti a stuzzicare tua madre. A questo crederà.”

Ciò detto, svanì in una nuvoletta dorata e Fenrir, con un leggero sospiro, iniziò a correre giù dall’erta scoscesa, deciso a rientrare quanto prima nella Foresta di Ferro.

Sorpassò i cancelli in un baleno, con Ryff il troll a scrutarlo ansioso.

Non sarebbe stato l’unico, questo era certo.

Tutti i troll della foresta si erano ormai affezionati ad Avya e, il pensiero che potesse succederle qualcosa, atterriva ognuno di loro.

Fu a quasi un miglio di distanza dalla casa di Iárnividia, che iniziò a udire le urla della sua amata.

La paura mise le ali alla sua corsa, ma questo non bastò.

Il primo vagito lo udì poco prima di riprendere forma umana e, quando finalmente si apprestò ad aprire la porta della capanna, un secondo vagito spezzò l’aria.

Sgomento e preoccupato, avanzò a grandi passi nella casetta di legno e pietra scura e là, sdraiata sul letto ricolmo di coperte, vide Avya.

Appariva pallida e stanca, ma era anche nel pieno del suo vigore e sorrideva.

Sorrideva dannatamente soddisfatta, quasi istericamente mentre la titanessa metteva tra le sue braccia i pargoli urlanti appena nati.

Pargoli, per l’appunto.

Non creature strane, o dotate di zanne in grado di uccidere la madre.

No, erano due bambini bellissimi, uno dai capelli corvini, l’altro bruno rossiccio, ed entrambi avevano gli occhi nerissimi, come il padre.

Quando infine le due donne si accorsero di lui, vi fu un momento di tensione, che però Fenrir stemperò con un sorriso.

Ringraziò la titanessa per il suo aiuto dopodiché, nel sedersi sul bordo del letto, fissò la compagna e i figli e mormorò roco: “Ce l’hai fatta… e senza di me a darti il tormento.”

“Era necessario… ma non ho mai voluto tenerti lontano da me.”

Annuendo nel baciarle la fronte imperlata di sudore, Fenrir asserì: “Come hai detto tu, era necessario. Il mondo sarebbe esploso, se fossi stato presente. Ma ora, non ti lascerò più. Cresceremo insieme le nostre due meraviglie.”

“Mi chiedo come farai, Fenrir…” intervenne una voce profonda e ancestrale, sorprendendoli tutti.

Persino Iárnividia si accigliò, a quel tono, e si pose innanzi al letto per difendere la puerpera e i pargoli.

Fenrir, però, non mosse dito e, limitandosi ad aggrottare la fronte, dichiarò: “Mi domandavo quando ti saresti fatta viva, Urŏr.”

Una risata argentina solleticò l’aria, che parve vibrare innanzi a loro prima di prendere consistenza e mutare nel corpo di una donna.

Avya ansò spaventata, stringendosi al petto i figli mentre la titanessa, fissandola bieca, ringhiò: “Nessun dio di Asghard può mettere piede qui, se non invitato.”

“Ma io non vengo da Asghard, vecchia, e posso andare ovunque io voglia” replicò la norna, fissandola divertita coi suoi occhi bianchi, privi di pupilla. “Io sono colei che definisce il Fato di ogni creatura vivente, perciò ho accesso ovunque… anche qui.”

“Sei davvero così priva di umanità, da non poter attendere neppure un giorno, prima di decretarne il destino, e rovinare così la gioia di questo momento a questa bambina?” replicò la titanessa, rabbiosa.

Urŏr, allora, perse del tutto ogni voglia di scherzare e replicò: “Pensate che non sia io stessa preda del Fato che tengo tra le mani? Neppure io posso fermare il fluire del tempo attraverso i secoli, perciò non posso fermare neppure ciò che ho visto… o preferireste attendere l’arrivo in queste terre di Odino, e la conseguente scoperta di questi due neonati indifesi?”

“Cosa?” ringhiò Fenrir, furioso. “Che intendi dire?”

“Che Tyr sarà la causa prima del tuo destino, Fenrir. Così come di quello dei tuoi figli, e della donna che li ha generati” decretò la norna, lanciando uno sguardo duro in direzione di Avya.

“Spiegati, donna, o giuro che ti ucciderò ora, e con sommo diletto!” sibilò il dio-lupo, levandosi in piedi per avvicinarla.

Urŏr, però, levò una mano a bloccarlo e replicò: “Non mi è consentito dire tutto, o potreste tentare di cambiare il vostro destino, compiendo un sacrilegio tale da far implodere l’Universo intero. Sappi però questo, lupo. I tuoi figli rimarranno con te e correranno con te come uomini e come animali, e la tua compagna crescerà entrambi loro, e amerà te. Ciò, comunque, non muterà il tuo compito ultimo, che compirai assieme a Hati e Sköll, i cuccioli che hai appena avuto. Loro saranno al tuo fianco, quando tutto finirà.”

Avya fissò sgomenta il volto pallido di Fenrir che, praticamente senza forze, crollò a sedere sul letto, senza parole.

“Perché ciò avvenga, però, Odino deve star loro a distanza, poiché ora sono vulnerabili, e lui tenterà di ucciderli, se potrà, cancellando così le mie parole” sentenziò Urŏr. “Quel che Odino si ostina a non capire è che, tentare di farlo, gli si ritorcerà contro.”

“Che dobbiamo fare, dunque?” mormorò Avya, fissando ancora sgomenta quella donna alta e abbigliata di nero, dai lunghi e fluenti capelli bianchi.

“Vagate tra i mondi, ingannate l’occhio di Odino. Fate crescere i vostri figli in luoghi in cui lui non guarderebbe mai. Ma non pensate di sfuggire in eterno a lui. Non succederà, ma non deve avvenire ora” li mise in guardia Urŏr, prima di svanire.

Fenrir si volse verso Avya, scrutò i suoi due figli e, dopo aver preso in braccio quello dai capelli neri, mormorò: “Hati, eh? Sarà questo, dunque, il tuo nome?”

“E lui sarà Sköll” sorrise appena Avya, baciando la testolina bruno rossiccia del bimbo che teneva lei.

Iárnividia sospirò e, nello scrutarli spiacente, asserì: “Questo vuol dire una cosa sola, Fenrir.”

“Lo so, anche se mi ripugna ammetterlo” annuì l’uomo, levandosi in piedi e tenendo Hati contro di sé.

“Cosa volete dire?” si informò Avya, a quel punto, preoccupandosi non poco.

Fenrir la fissò dolente, ma disse: “C’è un posto dove, di solito, Odino non guarda mai. La terra delle nebbie, la dimora di mia sorella Hell. Lei fu confinata lì perché ne fosse la regina, ed ella prospera nel suo regno, glorificandosi e terrorizzando tutti con i suoi pensieri folli ma, alla fine dell’opera, è del tutto innocua, per Odino. Siamo soprattutto io e Jor a preoccuparlo maggiormente, in sostanza. Tenendo confinata Hel sul suo regno, le impedisce di nuocere ai mortali, così può occuparsi solo di noi. O di me, nello specifico, visto che Jor è confinato in mare.”

“E pensi che lei accetterebbe di ospitarci? Da quello che avevo capito, non mi sembravate andare d’amore e d’accordo” protestò Avya, vagamente piccata.

“Se saprà che sono lì per ingannare Odino, ci accoglierà senza problemi. Ne fa un vanto personale, quello di prendere per i fondelli Padre Tutto. L’idea che non dovrà neanche sforzarsi per inventarsi un piano, per farlo, la farà gongolare per anni, credimi” sospirò Fenrir, scuotendo il capo.

“Non mi sembri convinto, però” sottolineò la sua amata, carezzando distrattamente la schiena di Sköll.

“Il vero problema è mio padre…lui le fa visita, ogni tanto, per cui potrebbe vederci. E questo non sarebbe un grande affare, per noi. Comunque, al momento, non mi viene in mente niente di meglio. Il mio unico rimpianto è per te. Ancora una volta, sarai costretta a scappare.”

Avya reclinò il capo a scrutare il figlio, i pensieri vorticanti nella sua mente e il timore di aver commesso un errore immane a premerle sul cuore.

Sì, Fenrir aveva ragione. Fin da quando l’aveva conosciuto, era scappata.

Era scappata dalla realtà, mentendo al fratello fino alle sue tragiche conseguenze.

Era scappata di fronte a se stessa, mantenendo il silenzio sulla verità finché tutto era andato a rotoli.

Era scappata per difenderei suoi figli, e ora si ritrovava senza più una casa o un luogo sicuro in cui crescerli.

Quando, però, tornò a guardare il volto del suo amato e scorse l’amore che provava per lei nei suoi occhi di pece, sorrise e allungò una mano verso di lui.

“Ti amo, come amo i nostri due figli e se, per crescerli, dovrò vivere in un luogo diverso ogni giorno, così sia. Non vi abbandonerò mai.”

Fenrir prese la sua mano, gliela baciò e annuì. Non v’era altro da dire.
 
***

Bifröst era aperto e Hell se ne stava a braccia conserte dinanzi a loro, lo sguardo beffardo e gli occhi golosi, che stavano fissando i neonati con bramosia.

Fenrir si fece avanti per primo, salutandola con un cenno del capo e la sorella, sogghignando, asserì: “Sono davvero carini. Forse, è la prima volta che su Niflheimr mette piede qualcuno di vivo, a parte me. E papà, ovviamente, ma lui è un caso a sé stante.”

Il dio-lupo scrutò quegli occhi neri come pece, la maschera in ceramica scura che ricopriva la metà devastata del volto della sorella e, con un leggero sospiro, dichiarò: “Siamo d’accordo, o devo pensare che hai cambiato idea?”

Lei allora rise, una risata suo malgrado celestiale e, scuotendo il capo, Hel mormorò maliziosa: “Il mio palazzo qui su Niflheimr potrà essere la vostra casa, finché i pargoli non saranno in grado di difendersi da soli. La sola idea che Odino si infurierà a morte, quando scoprirà di avere altri due nemici, mi è così gradita che potrei persino baciarti!”

Fenrir fece un passo indietro, disgustato, e Hel rise ancora di più. Ora, però, il riso risuonò sgradevole, marcescente.

Avya non disse nulla, si limitò a pensare al bene dei propri figli, ma Hel intervenne per dissipare – almeno in parte – le sue certezze.

“Non temere che io non capisca quanto mi disprezzi, cara. Non fingere mai, con me, perché non serve a nulla. Odiami anche, se preferisci. Anzi, potremmo anche andare d’accordo, se lo facessi.”

“Hel, per favore…” la redarguì il fratello, richiamandola all’ordine.

Avya, però, non si fece mettere i piedi in testa e, levato il capo a fissare la dea, per metà stupenda, e per metà coperta da una maschera inquietante, dichiarò: “Non ti odio, ma ho paura. Ho paura che tradirai Fenrir, come ora tradisci Odino.”

Hel, allora, la fissò con strano rispetto e, annuendo, dichiarò più seriamente: “Ci sono solo due cose che rispetto nella mia vita, umana, e sono queste: primo, me stessa, secondo, l’odio che covo nei confronti di Odino. Sì, mi compiace essere la regina di questi luoghi, e gliel’ho pure fatto presente, ma ciò non toglie che lui mi consideri una reietta, e questo non glielo perdonerò mai!”

“Quindi, non dirai neppure a tuo padre che noi siamo qui, vero?” volle sapere Avya.

“Non lo saprà dalla mia bocca. Se ciò che Urŏr ha detto è vero, e lei non sbaglia mai, di solito, Hati e Sköll devono essere adulti, per poter seguire Fenrir nel Ragnarök. Se Loki sapesse di loro, non esiterebbe a dirlo a Odino per fomentare odio e zizzania, e sarebbe davvero troppo presto. Io voglio il Ragnarök esattamente come mio padre, ma a tempo debito, coi suoi tempi, non con i tempi di Loki, e Fenrir non è ancora pronto a dire la parola fine. No, per una volta non sarò parte dei piani di mio padre per mettere fretta a nostro fratello. Tutto deve essere perfetto e, per esserlo, i tuoi figli devono essere adulti, Avya.”

Pur se il discorso comprendeva morte e distruzione, fu stranamente consolante, per Avya, che assentì.

“Allora, potrai anche considerarmi tua amica, se vorrai. O nemica. Non so quale delle due espressioni sia meglio, per te” dichiarò la giovane, fissando la dea dai due volti.

Quest’ultima scoppiò a ridere di gusto e, mentre Fenrir fissava la sorella con aria arcigna, lei esalò: “La tua compagna mi piace. Spera solo che Loki non la veda mai, o saranno davvero guai. Potrebbe rubartela.”

“Lo ucciderò, se solo ci proverà.”

“Auguri, allora, fratello… e benvenuti nel mio palazzo. Contrariamente all’esterno, dove tutto è brullo e desolato, qui non è così male” dichiarò Hel, chiudendo Bifröst dietro di loro.

Sulla porta d’entrata dell’enorme palazzo, Avya scorse un cane enorme e rabbioso che però, nello scorgere Fenrir, si accucciò guaendo e nascose il muso sotto la zampa.

“Sei davvero un fifone, Garmr… dovrei davvero sostituirti” gli sibilò contro Hel, facendo un cenno con la mano perché le porte del palazzo si aprissero.

Come predetto dalla dea, Avya lasciò alle sue spalle le nebbie perenni dell’esterno per ritrovarsi in un ambiente raffinato, in cui tutto era tracotante, esagerato.

Gli stili erano così svariati e diversi da non avere un senso logico, e i colori erano talmente disparati da creare una cacofonia di toni assurda.

Nonostante tutto, però, il luogo era caldo e accogliente e, di questo, Avya si stupì.

Fu Hel a spiegargliene i motivi.

“Questo palazzo rispecchia quello che ho su Helfheimr, dove giungono i morti privi di onore, bambina. E’ giusto che sappiano cosa si lasciano alle spalle, cosa stanno perdendo, oltrepassando il mio dominio. Qui, non faccio altro che ricordarlo ai miei cari sottoposti. Se non faranno le cose per bene, sarà questa, l’ultima cosa che vedranno.”

Avya preferì non chiedere altro. Aveva il sospetto che Hel godesse nel veder patire le anime dei defunti, perciò era meglio non immischiarsi di cose simili.

Hel, comunque, la osservò divertita e vagamente maliziosa, come se avesse compreso al volo i suoi pensieri.

Fenrir, a quel punto, si interpose tra di loro e, duro, dichiarò: “Non osare pensare di fare del male a lei o ai bambini, o sarai tu la prima vittima del Ragnarök, sorella.”

La dea rise, annuì e lasciò che a loro pensasse la sua servitù, composta da longilinei ed evanescenti giganti di nebbia.

Avviandosi assieme a loro, Avya si strinse un poco al petto Hati, ora addormentato, e mormorò: “Possiamo fidarci di lei?”

“Fin quando lo riterrà opportuno, e fin quando le piacerà, sì. Dopodiché, dovremo fuggire come se avessimo i demoni alle calcagna” le spiegò Fenrir, sorridendo a mezzo.

“E tu sarai in grado di capire quando?”

Lui allora ghignò, tornando per un istante il dio sprezzante come lo aveva conosciuto quel giorno, nella foresta, e Avya sorrise.

No, Fenrir poteva essersi ammorbidito con lei, ma rimaneva ancora un dio capace di intimorire chiunque.

Neppure la sorella l’avrebbe messo nel sacco. Ora più che, visto che doveva difendere i propri figli.

Osservandolo mentre baciava il capo spruzzato di capelli bruno rossastri di Sköll, Avya si convinse che niente al mondo avrebbe potuto separarli.

Non fin quando Fenrir sarebbe rimasto al suo fianco.

 





Note: I bimbi sono nati, ma i guai sono ben lungi dall'essere terminati e Fenrir, suo malgrado, deve chiedere a Hel di dargli una mano per nascondersi da Odino. So che sembra paradossale, ma Hel non è cattiva a prescindere, fa solo i propri interessi e, nel caso specifico, questo le interessa. Non a caso, dice ad Avya che due sole cose rispetta: se stessa e l'odio verso Odino.
Capite bene quanto sia egoista, perciò non fa necessariamente sempre del male, ma neanche fa del bene per altruismo, solo perché ne può trarre vantaggio in qualche modo.
Ben presto scopriremo anche cosa abbia voluto dire Uror, dicendo che proprio Tyr sarà colui che tradirà Fenrir, smascherando ogni cosa.
E così ci avvicineremo al termine di questa breve serie su Fenrir e Avya che, come già sapete, non avrà un Happy Ending.
Spero comunque abbiate apprezzato fino a qui la loro storia.
A presto, e grazie!

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Capitolo 16
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 5 ***


Dove tutto ebbe inizio (Parte 5)
 
 


Era sempre parso loro strano correre in mezzo alle nebbie, su quel terreno roccioso che appariva al tempo stesso solido e spugnoso.

Non che il resto della loro giovane vita fosse stata l’emblema della normalità, comunque.

Fin da quando avevano avuto cognizione di loro stessi e di ciò che li circondava – come semidei, avevano imparato davvero presto – Hati e Sköll si erano resi conto che, la loro, era una condizione davvero unica.

Cresciuti nel Regno delle Nebbie, che confinava con il più inquietante Regno dei Morti, i due ragazzi avevano conosciuto solo poche creature viventi, oltre ai loro genitori.

Se si escludevano i hrímþursar, i giganti di nebbia servi della dea Hel, Hati e Sköll avevano fatto la conoscenza solo con la gigantessa Móðguðr.

La guerriera presiedeva il Gjiallarbrú, il Ponte d’Oro che conduceva direttamente a Helheimr, dimora dei morti e regno incontrastato di Hel, l’unica parente che avessero fin lì conosciuto.

Non che Hel fosse stata affettiva, con loro, o anche solo interessata a conoscerli, ben inteso.

Si era limitata a guardarli da lontano, curiosa e attenta e, le poche volte che Loki – loro nonno – si era presentato a palazzo, si era raccomandata che loro non fossero presenti.

I genitori, in compenso, erano stati più che generosi con loro, quanto a dimostrazioni di affetto e presenza nella loro giovane vita.

Se dalla loro madre Avya avevano imparato le arti, la scrittura e l’amore per le letture, dal loro padre Fenrir avevano appreso l’arte guerriera e l’uso dei loro enormi poteri.

Grazie a lui, avevano compreso come mutare da umano a lupo e viceversa, e avevano preso coscienza di quanto potenti fossero le loro menti.

Ma, più di tutto, si erano impegnati nel diventare abilissimi nell’arte della dissimulazione di loro stessi.

Come entrambi i genitori avevano fatto capire ai gemelli, Odino non avrebbe mai accettato la loro presenza nei Nove Regni, perciò era vitale che loro imparassero a mimetizzarsi.

E come poteva, un semidio, mimetizzare se stesso?

Grazie al sangue di Avya.

In quanto umana – pur se beneficiata di grandi poteri, grazie al sangue donatole da Fenrir – il suo sangue scorreva in loro, ed era in grado di aiutarli in quel processo.

Mantenendo azzerata la loro aura divina, avrebbero potuto ingannare anche gli occhi di un dio.

Il processo mediante il quale questa operazione poteva essere messa in atto, però, non era stata facile da mettere in pratica, né da imparare.

Fenrir stesso si era dichiarato impotente, di fronte ai loro molteplici fallimenti poiché, in quanto dio, non avrebbe mai potuto compiere un simile mascheramento.

Il maggior aiuto era dunque giunto da Avya, che aveva spiegato loro ciò che ella vedeva, guardandoli.

A quel modo, poco alla volta, i due gemelli si erano esercitati nell’ascoltare loro stessi, il loro Io interiore, finendo con il padroneggiare l’aura che veniva emanata dai loro corpi.

Questi allenamenti prolungati, così come gli studi, non avevano però loro impedito di curiosare in giro per Niflheimr, l’unica casa che conoscevano.

Per quanto i giganti di brina li ignorassero, quelle terre non erano certo esenti da pericoli – crepacci nascosti, burroni senza fondo, improvvisi blizzard – ma, di fronte alla loro curiosità, tutto si faceva secondario.

Era stato durante una delle loro interminabili escursioni all’esterno del palazzo, che erano venuti a scoprire dell’esistenza del Ponte d’Oro, e della sua misteriosa guardiana.

Móðguðr era imponente, di molto superiore ai due metri e mezzo di altezza, e portava sempre al suo fianco un’enorme bipenne dalle lame nere e lucide.

Ricoperta di una corazza di maglie, oltre che di una pesante cappa di pelle per contrastare il freddo di quei luoghi, appariva feroce quanto il mastino che le stava al fianco.

Garmr era solito stare con lei, quando Hel non si trovava al palazzo di Niflheimr, e abbaiava rabbioso tutte le volte che loro si avvicinavano al ponte.

Non fece differenza neppure quella mattina, quando loro misero piede nei pressi del fiume Gjöll, che li divideva da Helheimr.

Riprese le sembianze umane, i due giovani si avvicinarono alla guerriera con aria spavalda ma lei, impugnata subito la bipenne, intimò loro di fermarsi.

“Non ho voglia di giocare, oggi, gemellini. E Garmr è più indisponente del solito, per cui ne ho a sufficienza di sopportare lui. Filate via” brontolò la gigantessa, fissandoli arcigna attraverso le grate del suo elmo.

“Scommetti che riusciamo a calmare Garmr?” le propose Sköll, dei due gemelli sicuramente il più esuberante.

“Dovrei strapparti quei riccioli dalla testa e farteli mangiare, ecco cosa. Garmr non sarà mai calmo, giovane uomo-lupo. Non è nella sua natura, così come non è nella mia essere un docile agnellino” ringhiò la guerriera, pur sogghignando.

Hati allora rise, si fece malizioso e replicò: “Dillo che ti diverti, quando veniamo a romperti le scatole. Almeno, fai due chiacchiere con qualcuno che non siano quei musi lunghi degli altri giganti.”

La gigantessa piantò a terra il manico della bipenne, poggiandovi poi sopra una mano e, con fare esasperato, esalò: “Non potete rompere le scatole a vostra madre, o a vostro padre? Allenatevi con Fenrir, piuttosto che guastarmi la giornata.”

“Fai la difficile, eh? Ma so che, in fondo in fondo, ti piacciamo” replicò Sköll, avvicinandosi di un passo all’alta guerriera.

Garmr non fu affatto d’accordo e cercò di morderlo, ma il giovane fu lesto a portarsi lontano dalla sua dentatura più che ragguardevole.

Con un balzo all’indietro mutò subito forma, ringhiò all’indirizzo del cane e sibilò: “Non azzardarti a riprovarci, cagnaccio, o giuro che ti stacco le zampe a morsi!”

L’animale guaì, rattrappendosi su se stesso e Sköll, ritenendosi soddisfatto, si sedette sulle zampe posteriori, sogghignando tronfio.

Hati gli diede una pacca su una zampa anteriore, sorridendo complice al gemello e, rivolto alla gigantessa, dichiarò: “Ti serviremmo meglio noi, poco ma sicuro.”

“Sareste così logorroici che finirei con il volermi annegare nel fiume, pur di liberarmi di voi” replicò la donna, lanciando un’occhiata alle acque tumultuose e nebbiose e del Gjöll.

I due ragazzi risero all’unisono, ma Móðguðr non rispose alla loro risata, ponendosi in posizione di allerta.

Nel notarlo, i due giovani si azzittirono immediatamente e, come per la gigantessa, anche i loro sensi si accesero di ansia.

Volgendo il muso in direzione del palazzo, che distava diverse ore dal ponte, Sköll mormorò torvo: “E’ nostro padre. Ci chiama.”

“Allora correte, sciocchi. Non si fa aspettare Fenrir” li incoraggiò la gigantessa, gesticolando nervosa.

Cosa aveva udito, di così preoccupante, da mettere ansia nella sua voce?

I due gemelli non persero altro tempo e, quando anche Hati fu mutato in lupo, corsero verso il palazzo per conoscere i motivi di quel richiamo improvviso.

Era raro che Fenrir li richiamasse all’ordine, ed erano sicuramente più le volte in cui era Avya a redarguirli per la loro insana curiosità, che loro padre.

Sospettavano, addirittura, che Fenrir fosse fiero del loro spirito indomito ma che, per non scontentare la compagna, non dicesse mai loro nulla, se non dichiararsi d’accordo con Avya.

“Mamma…” mormorò Hati, accelerando il passo.

Possibile che fosse la loro mamma, il problema?

Certo, loro che erano semidei non avevano alcun problema a vivere lì, come in qualsiasi altro Regno.

Ma Avya?

Lei era umana, e non si poteva certo dire che quel luogo fosse salubre, o adatto alla vita.

Inoltre, Niflheimr era anomalo anche per un altro motivo. Il tempo, lì, scorreva in modo diverso.

Se, per i gemelli, trovarsi lì non aveva fatto granché differenza, per Avya era stato destabilizzante in più di un senso.

Nei vent’anni passati a Niflheimr, non era invecchiata di un giorno.

Il suo corpo si era come cristallizzato nel tempo e nello spazio, galleggiando nel momento eterno in cui avevano messo piede in quel Regno.

Forse, questa condizione si era protratta troppo a lungo, per lei, o erano incorsi dei problemi che loro non avevano saputo cogliere.

Quando, infine, giunsero alle porte del palazzo, ripresero forma umana – Hel detestava vedere i segni di unghiate sul pavimento – e si diressero verso i loro appartamenti.

Essi si trovavano nella parte alta del maniero, oltre le nubi perenni che avvolgevano il terreno di Niflheimr.

Da lì, era possibile godere della luce della stella che brillava per quel pianeta così strano.

Azzurra e diafana, quella lucentezza perenne – Niflheimr non aveva una rivoluzione attorno al suo asse – era a loro familiare, ma sapevano che non era come il sole di Midghard.

Nel mettere piede nelle stanze dei genitori, trovarono Fenrir impegnato nel preparare alcune sacche da viaggio, mentre Avya era sdraiata a letto.

Avevano notato come, ultimamente, il suo viso fosse apparso emaciato e stanco ma, nella loro esuberanza di giovani ventenni, vi avevano fatto ben poco caso.

Che avessero dato poco peso a una cosa, invece, di importanza vitale?

Accucciatisi subito accanto al letto, i due gemelli sfiorarono ansiosi il corpo della madre che, aperti gli occhi per loro, sorrise e disse: “Oh, ecco le mie due pesti. Siete rientrati presto.”

“Papà ci ha chiamati, e allora…” tentennò Hati, scrutandola ansioso.

Sorpresa, Avya si levò su un gomito per fissare il compagno, impegnato nella preparazione di diversi bagagli, e borbottò: “Ma che stai facendo?”

Fenrir neppure la ascoltò così la compagna, accigliandosi, fece l’atto di scendere da letto per discutere a quattr’occhi con lui.

Non mise mai piede a terra.

Veloce come il vento, il dio la bloccò prima che potesse muoversi e, fissandola ombroso, ringhiò: “Ce ne andiamo. Non resteremo qui un minuto di più.”

“E perché, scusa? I nostri bambini sono ancora troppo giovani per…”

“Ehi, dico! Bambini?!” sbottarono all’unisono i due ragazzi, mentre Fenrir sbottava in un’imprecazione.

“Solo perché tu sei rimasta giovane, non vuol dire che loro siano ancora i neonati che portammo qui vent’anni fa. Sono cresciuti, Avya, e tu no, perciò è ora che torniamo a Midghard, dove c’è il sole giusto, e il tempo giusto. Tesoro, a conti fatti, sei più giovane di loro!”

Il tono lapidario di Fenrir le fece storcere la bocca ma, nel notare l’ansia dipinta sui volti dei figli, mormorò: “Dici che saranno pronti?”

“Devono esserlo, visto che si dovranno prendere cura di te per un po’, mentre io sarò in giro a depistare Odino.”

“Che cosa?!” esalarono i due ragazzi, impallidendo di colpo.

Fenrir si fermò nel suo incessante andirivieni, posò le mani sulle spalle dei figli e, sorridendo loro, disse: “So che posso fidarmi di voi, come so che sarete all’altezza del compito. Vostra madre, ormai, non può più stare qui, per quanto stia tentando di fare la finta tonta da ormai troppo tempo.”

“Grazie, eh, per la finta tonta?” borbottò Avya, mettendosi seduta. Il solo gesto la portò a sospirare per la stanchezza.

Il compagno le sorrise teneramente, prima di tornare a guardare i figli.

“Lei è forte, più forte di qualsiasi altra donna mi è mai capitato di conoscere e, grazie al quel poco sangue che ho potuto farle bere da me, è in grado di sopportare in qualche modo i rigori di Niflheimr. Ma non a tempo indeterminato. La sua struttura endocrina è ancora umana, e questo posto non può più sostentarla come dovrebbe. E’ giunto il tempo di tornare.”

“E… e tu?” mormorò Hati, preoccupato.

“Tornerò da voi solo la notte, e mai per lunghi periodi. Odino, la notte, è troppo impegnato con Frigga, per badare a me, ma non voglio rischiare di commettere l’errore di essere troppo sicuro di me stesso. Meglio diffidare sempre un po’” spiegò loro Fenrir, abbozzando un risolino.

I due gemelli si guardarono vicendevolmente, turbati all’idea di dover prendere in mano di colpo le redini della loro famiglia.

Nello scrutare la loro madre, però, annuirono all’unisono a Fenrir e dissero: “Ci penseremo noi a mamma.”

“E la mia opinione, ovviamente, non conta, vero?” borbottò Avya, accigliandosi.

“Stavolta no, mia cara. Per il tuo bene, sono pronto a tornare lo scorbutico dio che incontrasti nella foresta, tanti anni fa” le sorrise Fenrir, dandole un buffetto sulla guancia.

Lei sorrise nonostante tutto, e replicò: “Non così scorbutico, se ben ricordo.”

“Avevo pessime intenzioni, però” ironizzò lui, notando solo in quel momento i volti vagamente schifati dei loro figli.

Scoppiando a ridere, diede loro una pacca sulla spalla ciascuno e, con ironia, celiò: “Quando vi innamorerete, non troverete più così sciocchi i nostri battibecchi.”

“Ne riparleremo quando succederà” sentenziò con aria strafottente Sköll, facendo sorgere un risolino divertito alla madre.
 
***

Il limitare del bosco non guastava la visuale delle stupende montagne a cui erano prossimi, e sotto cui avrebbero abitato di lì in avanti.

La brughiera, in quel momento battuta dal vento, portava i profumi intensi dell’erica e del muschio fresco.

Nubi tempestose viaggiavano veloci nel cielo, all’orizzonte, tingendo di colori foschi le cime delle montagne.

Tutto era così nuovo e strano, per Hati e Sköll che, senza parole, ammirarono per ore intere ciò che li circondava.

I colori, i profumi intensi, la densità della terra sotto i loro piedi, il sentore del vento sulla pelle.

Ogni cosa appariva ai loro occhi magnifica e interessante, così come spaventosa e pericolosa.

Fenrir e Avya, scrutandoli dalla porta della piccola abitazione che il dio aveva trovato per l’amata, sorrisero indulgenti, lasciando che fossero i figli stessi a scoprire quel nuovo mondo.

“Credo che, nei prossimi giorni, si allontaneranno ben poco da te” mormorò Fenrir, sorridendo ad Avya.

“Cosa te lo fa pensare?” replicò con ironia lei, stringendosi all’amato.

“Sono un po’ in ansia, e l’idea di lasciarti sola in un luogo che non conoscono li terrorizza” le spiegò, dandole un bacetto sui capelli. “Tu stai meglio, ora?”

“Rivedere la mia terra, è stato sicuramente d’aiuto… spero solo che tu abbia ragione su di loro. Non vorrei che, l’ansia e l’emozione di trovarsi qui, li spingessero a commettere degli errori.”

“Guardali. Le loro auree sono del tutto assenti. Sono solo due ragazzi che sti stanno guardando intorno con aria un po’ inebetita” le sorrise fiducioso, tentando di cancellare le sue paure.

“Tu cosa farai, ora?”

“Mi limiterò a fare quel che ho fatto in questi anni. Balzerò da un mondo a un altro, tanto per dare un po’ fastidio a Odino e, la notte, tornerò da te e dai nostri figli” mormorò, rientrando in casa con lei.

Scrutando la travatura della casetta di sassi e legno, ghignò e disse: “Conoscere i nani è servito a qualcosa, se non altro.”

Avya assentì, scrutando il complesso intrico di fili metallici che si inframmezzavano alle travi di legno.

“Questa rete conterrà la mia aura, quando sono qui, rendendomi invisibile a Odino. Per lo meno, quando sarò in visita, potrò farlo in tutta sicurezza.”

“Come si chiama questo metallo? Non lo avevo mai visto” gli domandò Avya, curiosa.

Compiaciuto che l’antico spirito dell’amata stesse risorgendo, lui le diede un bacetto sulla tempia e disse: “Non è un solo metallo, è un intreccio di essi, e il suo nome è Lœðingr. Significa ‘che lega con astuzia’. Tyr mi ha consigliato di rivolgermi a loro, quando ho notato che iniziavi a non sentirti più tanto bene. Ho spiegato ai nani cosa mi servisse, e loro hanno capito subito cosa prepararmi.”

“E ti puoi fidare di loro?” mormorò turbata Avya, in ansia all’idea che qualcosa potesse trattenere, anche a scopo benefico, la potenza dell’amato.

Fenrir ghignò, assentì e disse: “Ti preoccupi troppo, mia cara. Vedi nemici anche ove non sono.”

“Forse” annuì, pur scrutando con attenzione quella trama fitta in metallo.

Sperò davvero con tutto il cuore che fosse stata realmente creata a fin di bene, e non per scopi più subdoli.
 
***

Camminando nervosamente avanti e indietro, la lunga chioma corvina scintillante alla luce altalenante delle candele, Loki si fermò il tempo necessario per fissare rabbioso la figlia, e urlò: “Avresti dovuto dirmelo! Avrei usato queste informazioni per i miei scopi!”

Imperturbabile, Hel lanciò un osso a Garmr e replicò pacifica: “E’ proprio per questo che non ti ho detto nulla, e ho schermato la loro presenza qui, ai tuoi occhi. Dovevano poter crescere.”

“Se avessi detto a Odino di loro, lui si sarebbe infuriato, cercando di ucciderli, e questo avrebbe scatenato la furia di Fenrir. Ora, invece, quei ragazzi saranno forti quanto il padre, e non potranno più essere delle vittime ignare e indifese” sbottò Loki, continuando a passeggiare su e giù per l’ampio salone del palazzo di Niflheimr.

Sogghignando perfida, Hel si levò dal suo scranno, raggiunse il padre e, nello sfiorargli un braccio con la mano sana, replicò: “Ma Fenrir, ora, ha dentro di sé un amore sconfinato per i propri figli, oltre che per la donna che li ha generati. La sua rabbia sarà triplicata, se succederà loro qualcosa, o se verranno minacciati in tal senso. Questo non sarebbe avvenuto, anni addietro.”

“In che senso?”

“Fenrir ha potuto sviluppare un legame così profondo e duraturo che, se solo qualcuno tenterà di infliggere loro del male, Fenrir esploderà in tutta la sua furia distruttrice, regalandoci il Ragnarök” gli fece notare lei, trionfante. “Lui non ha mai provato nulla del genere, prima d’ora, perciò è più vulnerabile che mai.”

Anche Loki ghignò, comprendendo il piano della figlia e, annuendo, disse: “Ora che sono tornati su Midghard, Odino li vedrà e…”

“Pazienta, padre, pazienta” lo redarguì la figlia. “Odino non lo vedrà subito, grazie ai nostri amici nani. Ho seguito Fenrir su Svartallfheimr, quando si è fatto costruire Lœðingr per essere invisibile agli occhi di Padre Tutto. Senza volerlo, Tyr mi è stato di grande aiuto, quando ha consigliato a mio fratello di rivolgersi a loro.”

“E tu gliel’hai permesso?” brontolò il padre.

“Certo. E’ vitale che lui possa illudersi di poter vivere con loro, così che il contraccolpo sia più duro, più feroce. L’illusione della felicità è un’arma a doppio taglio e, su mio fratello, avrà conseguenze tragiche. Quando sarà il tempo, la rete lo imprigionerà, e tu potrai rapire con comodo Avya e i loro figli per portarli da Odino, in modo tale che possa giustiziarli.”

“Me lo assicuri?”

“I nani ne sono convinti” assentì Hel.

“Sarà bene che lo siano, o la colpa di un eventuale insuccesso, ricadrà su di loro” decretò Loki, allontanandosi a grandi passi dal palazzo.

Hel lo lasciò andare e, quando fu certa di essere sola, si avviò verso le proprie stanze.

Lì, aprì uno dei suoi bauli e, con un sorriso, estrasse una rete dalla trama sottile e lucente, che tastò con grazia con la mano sana.

L’altra, scarna e imbruttita dal suo continuo processo di degradazione, la reggeva con la solita malagrazia.

Era ingiusto che proprio a lei fosse toccata in sorte una simile disgrazia. Fenrir era stato il più fortunato, tra di loro.

Beneficiato non solo del dono di poter mutare in lupo, ma anche di un corpo tonico… e integro, con cui unirsi a chiunque lui volesse.

Le uniche persone a cui lei aveva potuto unirsi erano i morti che giungevano a lei, nella Camera del Giudizio.

Una ben misera consolazione.

Ma avrebbe avuto la sua vendetta, senza alcun dubbio.

Se la prima maglia metallica avesse fallito, sarebbe intervenuta con Drómi e sarebbe stata lei, non il padre, a ricevere onore e gloria agli occhi di Odino.

Così, forse, non avrebbe ottenuto solo un regno di morti, ma anche qualcos’altro… o qualcun altro, con cui passare il resto della sua esistenza.







Note: Se pensavate che Hel fosse stata generosa con il fratello, temo di dovervi smentire. Fin dall'inizio, faceva tutto parte di un piano a lungo termine, cui neppure il padre Loki era stato messo al corrente.
Il desiderio di rivalsa è grande, in Hel, e questo le permette di andare avanti nonostante la sua miserevole esistenza immortale. 
Ora, resterà da capire come si evolverà questa minaccia, e quando Tyr 'tradirà' l'amico.
Nulla verrà lasciato in sospeso. Tutto verrà spiegato.
Per ora vi saluto, e vi ringrazio per essere passate e/o aver commentato.
Buon week-end!

 

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Capitolo 17
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 6 ***


 

 
Dove tutto ebbe inizio - Parte 6





Sorseggiando del sidro di mele da una coppa lignea, Avya sospirò leggermente prima di scrutare il viso ombroso del compagno.

Non si stupiva che il suo volto fosse irato e teso, perché lei stessa si sentiva a quel modo.

Ciò che aveva udito nel piccolo villaggio di Storix non lasciava adito a dubbi ma, al tempo stesso, lei sperava di sbagliarsi, di doversi ricredere.

Fryc.

Cacciatori scelti a caccia di prede.

Di prede che non avevano nulla a che fare con i cervi, o altro.

No, ciò che cercavano aveva un altro nome.

Lui aveva definito Fenrir ‘demone’ e la sua genia, nata dal ventre di Avya, ‘stirpe del demonio’.

In quei vent’anni passati lontano da Midghard, lui non aveva mai smesso di cercarli e, pian piano, aveva instillato la paura nelle genti del nord, nella bellissima isola di Albion1.

I villici avevano appreso dai guerrieri di Fryc cosa potesse annidarsi tra loro e di volta in volta, nel corso del tempo, erano stati messi al rogo coloro che la gente aveva reputato strana.

Coloro che avevano posseduto connotazioni uniche, o troppo rare, erano stati visti come figli del demone-lupo, e messi a morte per sentenza dei capi-villaggio, o di Fryc stesso.

Occhi di lupo, avevano cercato tra le genti, o segni evocatori del sangue demoniaco che poteva scorrere in loro.

E, per tutto il tempo, non avevano fatto altro che uccidere persone innocenti, convinti di essere sulla strada giusta per eliminarli per sempre.

Se solo Fryc avesse saputo!

“E così, tuo fratello non ha mai smesso di cercarci… quel folle…” borbottò Fenrir, terminando di bere il suo sidro.

Avya assentì, spiacente, e mormorò in risposta: “Forse, se riuscissi a parlarci, potrei cambiare le cose.”

“E come, mia cara? Sei identica a come lo lasciasti vent’anni addietro. Come potrebbe non crederti un demone, o una strega?” la irrise con dolcezza Fenrir, carezzandole il viso delicato.

Lei annuì di fronte a quella verità inoppugnabile e, nel lanciare un’occhiata ai loro figli, distesi nei loro letti nella stanza accanto, mormorò: “Come può anche solo pensare di ucciderli? Sono i suoi nipoti.”

“Sono abomini, per lui, mia cara. Poco importa che abbiano anche il tuo sangue, nelle vene” sussurrò spiacente Fenrir, levandosi in piedi.

Allungata una mano in direzione della compagna, le domandò: “Esci con me per scrutare l’alba?”

Avya si accoccolò accanto a lui e, assieme, raggiunsero la porta della casupola al limitare del bosco, lasciando che i loro sguardi indugiassero sull’orizzonte.

Ciò che videro, però, li portò a irrigidirsi e, d’istinto, Fenrir nascose dietro di sé la figura di Avya, già pronto a dar battaglia.

Loki si avvicinò spavaldo a loro, avvolto dalla prima luce del mattino e apparendo oscuro e tenebroso, pur se avvolto dal calore del sole.

La sua risatina querula infastidì non poco il figlio che, rabbioso, domandò: “Cosa ci fai, qui? E come sei giunto fino a noi?”

“Figlio mio… non mi presenti alla tua consorte? Dopotutto, sono anni che non stiamo un po’ assieme, e vedo che nel tempo passato lontani, la tua vita è molto cambiata” ciangottò il dio degli inganni, allargando un poco le braccia, come a voler dimostrare che non portava armi con sé.

Peccato che le armi di Loki non fossero forgiate nel metallo, ma piuttosto nella sua mente ingegnosa e perversa.

“Chi ti ha mandato, qui? Hel, forse?” ringhiò Fenrir, sempre sul chi vive.

“Oh, per tutti gli dèi! Lascia fuori tua sorella, per una volta… ha già ricevuto la sua degna punizione, per avermi mentito. No, mio caro. Chi ti ha tradito, è colui che hai sempre considerato tuo amico. Tyr è un inguaribile pettegolo, quando alza un po’ troppo il gomito” ironizzò Loki, facendo spallucce.

Fenrir sobbalzò, quasi colpito fisicamente da quelle parole e, scettico, replicò: “Non ti credo. Diresti qualsiasi cosa, per tagliare fuori dalla mia vita le poche persone che mi apprezzano. Inoltre, Tyr non berrebbe mai una birra assieme a te. Ti detesta.”

“Dimentichi che le uniche persone che ti hanno realmente aiutato, da quel che so, non corrispondono al nome di Tyr,… o sbaglio?” gli fece notare Loki, bloccandosi a pochi metri da loro. “E, se posso permettermi, chi ti ha consigliato di usare una rete dei nani, per proteggere la tua aura dall’occhio di Odino?”

Accigliandosi maggiormente, Fenrir borbottò: “Tu come lo sai?”

Il padre si limitò a sogghignare e, al dio-lupo, non rimase altro che dire: “Tyr. E’ un’idea che è venuta a Tyr.”

“E sai anche cosa sa fare, oltre a contenere la tua aura?” gli domandò a quel punto il dio degli inganni, aprendosi in un ghigno ferale.

Avya strinse un braccio all’amato, mormorando: “Non ascoltarlo, Fenrir. Tyr non avrebbe mai potuto mentirti. E’ tuo amico.”

“Mi spiace deludere le tue aspettative, fanciulla, ma Tyr è figlio di suo padre e, in quanto tale, la sua fedeltà va prima di tutto a Odino, non certo a un dio reietto come mio figlio” le fece notare Loki, affabile e affascinante.

Indietreggiando dentro casa – Hati e Sköll si erano svegliati, nel frattempo – Fenrir borbottò all’amata: “Scappa con i nostri figli. Io saprò come trovarti, lo sai.”

“Ma… ma Fenrir, tu…”

Non appena si trovarono entrambi all’interno della casupola, Loki sorrise vittorioso e, con un gesto negligente, lanciò una semplice runa oltre la linea della porta.

Sgomento, Fenrir la guardò al pari di Avya e, mentre i figli li raggiungevano per chiedere spiegazioni, la rete sopra le loro teste si illuminò.

La lega polimetallica creata dai nani divenne incandescente e, come una rete da pescatore, cadde addosso a loro, … oltrepassandoli.

Non colpì Avya, non colpì i gemelli. Nessuno di loro venne interessato da quella trappola.

Il suo obiettivo era uno, e uno solo. Fenrir.

Si strinse addosso a lui come una seconda pelle, stringendo e stringendo ancora, sotto gli occhi sgomenti dei figli e di Avya, che presero a tirare con forza le maglie.

Loki, imperturbabile, osservò la scena pieno di delizia, già pregustando l’inizio del Caos tanto bramato… ma qualcosa andò storto.

Non solo la rete si spezzò sotto il peso del potere dirompente di Fenrir, ma lui non apparve per nulla piegato dalla fatica, né dal dolore.

Ansando di rabbia a stento trattenuta, gridò ai figli di andarsene assieme alla madre dopodiché, puntato il padre con lo sguardo, ringhiò: “Prima, mi vendicherò su di te, poi penserò a Tyr. Una volta per tutte!”

Hati prese in braccio la madre, mentre Sköll apriva loro la strada, correndo più veloce del vento.

Alle loro spalle, nel frattempo, il padre prese sembianze di lupo e attaccò Loki che, dopo un attimo di smarrimento dovuto al fallimento del piano, scomparve in una nuvola di fumo, esclamando: “Ti fidi delle persone sbagliate, figlio! Sempre!”

Un attimo dopo, Fenrir si ritrovò a fissare la brughiera in completa solitudine, pieno di rabbia e di furore a stento represso.

Lanciò perciò un ululato stizzito e, preso che ebbe a correre, si inoltrò nella foresta per sfogare in qualche modo il suo risentimento.

Tyr lo aveva tradito, lo aveva smascherato proprio con Loki, l’ultimo, dopo Odino, a dover sapere dei suoi figli, di Avya!

Ma perché l’aveva fatto?

Tyr si dimostrerà colui che per primo tradirà la tua fiducia, Fenrir…

Le parole di Urŏr gli risuonarono nella mente, foriere di un futuro che lui non aveva voluto accettare, ma non di meno dimostratosi vero, reale.

La rabbia crebbe, crebbe a dismisura e, quando infine scorse una luce oltre la foresta, vi si gettò.

Lì, scorse la vallata sottostante, un piccolo villaggio in lontananza e, a sorpresa, una battaglia in atto.

Mutando forma, tornò uomo e, lasciando che il vento portasse a lui suoni e voci, inorridì quando scoprì cosa stessero facendo.

Senza attendere oltre, corse giù per l’erta erbosa, ben deciso a mettere fine a quello scempio.

Nessun altro sarebbe morto a causa sua, pur se non era stato lui a causare quel disastro.
 
***

Bevendo una birra in compagnia di Balder, Tyr sogghignò al suo indirizzo e disse: “Posso giurarti su quanto ho di più caro che non mento, fratello. Potrei batterti da bendato, e con una mano legata dietro la schiena. Mettimi alla prova, e vedrai. Mi sono allenato con un partner d’eccezione, per diventare così bravo, perciò ormai non ho rivali.”

Il fratello lo fissò burbero, replicando: “Ti alleni ancora con Fenrir, per caso?”

Accigliandosi un poco, Tyr borbottò: “E se anche fosse? Lo tengo lontano dai guai, così Odino non deve infuriarsi con lui, no? Non è quello che ha sempre voluto nostro padre, e in cui ha sempre maldestramente fallito?”

Balder gli sorrise irriverente, ribattendo: “Sei così sicuro che, il tuo allenarti sempre con lui, non sia servito, al contrario, a istigare la sua violenza, fratello? Quella bestia è nata per fare del male, e tu solletichi il suo istinto. Sei folle, al solo pensare che sia una creatura recuperabile, o meno che matta da legare.”

“E tu sei un idiota. Non conosci Fenrir come lo conosco io” sbottò Tyr, sbattendo il boccale di birra sul tavolo della taverna dove si trovava, in Asghard.

“Pensi di conoscerlo, ma non sei sempre con lui, vero? Non vedi ogni volta ciò che lui fa” gli ritorse contro Balder, sibillino. “Come puoi dire di sapere esattamente come la pensa? O quali siano i suoi più torbidi desideri?”

“Che intendi dire?” ringhiò il fratello minore, accigliandosi.

Balder terminò con calma il suo boccale, sogghignò all’indirizzo del fratello e, lapidario, dichiarò: “Non si conosce mai abbastanza una persona, mio caro. Io andrei a curiosare ciò che sta facendo adesso, poi potremo anche riparlarne.”

Tyr lo fissò malissimo ma non disse nulla e, in uno scintillio dorato, svanì dalla taverna, dirigendosi verso Midghard attraverso il passaggio di Bifröst.

A quel punto, Balder pagò il conto, uscì con calma e, una volta fuori, riprese le sue vere sembianze, tornando a essere Loki.

Soddisfatto con se stesso per quel tiro mancino, il dio degli inganni si avviò verso Bifröst a sua volta, ben deciso a scambiare due paroline con la figlia.

Non si tentava di farla in barba proprio a lui. Neppure Hel poteva permetterselo.

Per lo meno, aveva pezzato la sua ingenuità in qualche modo.

Mettere zizzania tra Tyr e Fenrir era un ottimo sistema per far perdere la testa al figlio.
 
***

Il vero Balder, nel frattempo, era impegnato in tutt’altra conversazione, così come in tutt’altro luogo.

Non che gli facesse piacere visitare un regno come Niflheimr, ma il messaggio ricevuto da parte di Hel era stato troppo allettante, perché lui vi rinunciasse.

Fidarsi di quella dea era rischioso ma, pur di farsi bello agli occhi del padre, avrebbe tentato il tutto e per tutto.

La benevolenza con cui Odino trattava Thor era quasi insopportabile, ed era giunto il momento di porre un freno all’egemonia del fratello e del suo martello magico.

Trovava irrispettoso che solo a lui fosse stato dato uno strumento della potenza di Mjiollnir ma, ormai, su questo non avrebbe più potuto porre rimedio.

Ciò che, invece, gli aveva proposto Hel, l’avrebbe portato sicuramente al centro dell’attenzione, rendendolo ben visto agli occhi del padre.

Quando infine mise piede a palazzo, Hel lo accolse con un sorriso e un invito a entrare.

Per l’occasione, la dea aveva indossato la sua consueta maschera, che le copriva la metà del volto distrutta dalla cancrena.

Balder ne studiò la metà sana, trovandola bellissima. Peccato fosse deformata in tutta la metà del suo corpo, perché sarebbe stata una donna degna di poter aver al fianco.

Potente, spietata e bellissima. Un vero scorno, da parte delle Norne, imporle quella maledizione.

Quando raggiunsero la sala del trono, i loro passi a rimbombare nel palazzo vuoto, Balder fissò incuriosito la rete traslucida stesa sullo scranno di Hel e lei, sorridendo, disse: “Vedo che l’hai notata.”

“Cos’è?”

“Ciò che ti renderà eccelso agli occhi di Odino” gli promise con un sorriso, afferrandola per mostrargliela. “Questa è Drómi, una rete creata appositamente dai nani per catturare e tenere imprigionato Fenrir.”

Accigliandosi, Balder replicò: “Per quanto mi stia antipatico tuo fratello, non ho motivo di attaccarlo. Non mi ha fatto nulla… a parte mangiarmi i calzari quand’era un cucciolo, ma mi sembra un’esagerazione prendersela ora, per una cosa di millenni fa.”

Hel lo lasciò dire, squadrandolo con il suo occhio sano, pregustando già il suo pagamento per quella concessione.

Sorridendo appena, ribatté: “Oh, lo so. Quegli eventi furono solo sfortunati, ma non certo passibili di una simile vendetta. No, io parlo di un abominio che si è perpetrato all’oscuro di Padre Tutto, e che non può più essere sopportato.”

“Cosa intendi dire?” si interessò a quel punto Balder, prendendo dalle mani della dea la rete metallica, studiandola con attenzione.

Era leggerissima ma, strattonandola con forza, si accorse anche di quanto fosse robusta. Forse, davvero sufficiente a trattenere quel lupo che era Fenrir.

“Mio fratello ha fatto bere il suo sangue a un’umana, elevandola a un ruolo che non merita, l’ha ingravidata e ha avuto due gemelli dal sangue misto. Capisci bene di quanti crimini si sia macchiato, lui che Odino aveva confinato alla solitudine a vita!” gli spiegò con enfasi.

Balder apparì degnamente scioccato da quelle sue parole, e Hel seppe di avere il dio in pugno.

“Perché non lo catturi di persona, visto che sei a conoscenza di questo segreto?” le domandò allora il dio biondo, insospettendosi un poco.

Quanto sanno essere sciocchi, i figli di Odino, pensò tra sé la dea, fingendosi contrita.

“Perché ammetto di averli nascosti io, per molto tempo. Volevo in qualche modo recuperare un rapporto almeno con mio fratello Fenrir, se non con Jor, ma lui aveva occhi solo per la sua amata, e ha sfruttato la mia gentilezza per i suoi soli fini. Perciò, merita di essere punito degnamente.”

“Mai ferire una donna, eh?” ironizzò Balder, ghignando.

“Esatto” assentì Hel. “Ovviamente, però, tutto ciò ha un prezzo.”

“Non avevo alcun dubbio. Non per niente, sei figlia di tuo padre” sorrise divertito il dio, facendo spallucce. “Cosa mi proponi, dunque?”

Sorridendo maliziosa, Hel aprì il suo lungo abito di velluto scuro, mostrando un corpo tonico e asciutto… e completamente nudo.

Balder si scompose solo in minima parte, essendo abituato da tempo ad assaggiare le carni più tenere del Creato.

Di sicuro, si sorprese però nel vedere il corpo magnificente di Hel integro e sano.

“Come diamine…”

“Dyggvi
2 è un re, uno sposo di nobile stirpe finché si vuole… ma è morto. E i morti non danno molto piacere. Per una notte, voglio assaporare le carni di uno dio, di un uomo vivo. Questo sarà il tuo pegno a me.”

Balder la scrutò con malcelato interesse, ne sfiorò le carni con dita lievi, saggiò la consistenza di un seno, facendola fremere e, roco, mormorò: “Che ne è della maledizione?”

“Conosco qualche trucchetto anch’io… la magia non appartiene solo mio padre. Ti prometto che non rimarrai scontento, ma pretendo da te il massimo, in cambio di Drómi.”

Balder, allora, ghignò, lasciò andare a terra la rete metallica e, dopo averla avvolta con un braccio, la attirò a sé.

Con la mano libera le strappò dal viso la maschera, scoprendo un viso interamente perfetto e bellissimo.

Il suo sorriso si allargò e, sulle sue labbra, mormorò: “Non ho mai scontentato una donna in vita mia. Con una dea, farò faville.”

“Non desidero altro” replicò Hel, poggiando una mano sul suo sesso, già pronto per lei.

“Come vedi… o meglio, senti, non perdo tempo” rise roco Balder, prendendola in braccio con un gesto repentino.

Hel rise e, nell’indicargli dove dirigersi, lanciò una sola occhiata alla rete stesa a terra, prima di pensare unicamente al suo amante.

Sapeva che non sarebbe durato per molto, ma quell’incantesimo le avrebbe donato ben più di un godibile amplesso.
 
***

Le mani macchiate di sangue al pari degli abiti, Fenrir fissò ciò che restava degli uomini che avevano cercato di uccidere delle incolpevoli donne.

Queste ultime, però, furono ben lungi dall’essergli grate e, fissandolo terrorizzate, fuggirono via in preda al panico, lasciandolo solo in mezzo a quella carneficina.

“Umane… nessuna ha il coraggio della mia Avya” brontolò Fenrir, passandosi le mani insanguinate sulla tunica.

Già pronto ad andarsene, si irrigidì non appena percepì una presenza divina nei paraggi e, accigliandosi, osservò una nube dorata comparire dinanzi a lui.

Sapeva benissimo chi sarebbe apparso. Lo riconobbe dall’odore.

Sul punto di discutere aspramente con colui che aveva sempre reputato essere suo amico, Fenrir scrutò il viso ombroso di Tyr prendere corporeità ma, quando ne colse l’ira, si bloccò.

Perché Tyr doveva essere infuriato con lui? Non ne aveva alcun motivo!

“Quindi, Balder aveva ragione. Sei il folle che non ho mai voluto credere tu fossi.”

“Che vai dicendo?! Io, folle? Tu, piuttosto, che hai tradito la mia fiducia, inducendomi a credere che la maglia creata dai nani fosse solo uno strumento per proteggermi.”

Ora fu il turno di Tyr di apparire confuso e, guardandosi intorno sgomento, la carneficina evidente dinanzi a lui, esalò: “Non so davvero di che parli… so solo che vedo quanto io sia stato sciocco a credere che tu fossi sano di mente. Mi sbagliavo di grosso, evidentemente.”

“Non sai di che parlo?! Vile e bugiardo! E non pensare che io mi sia mosso per diletto, contro questi uomini. Loro stavano cercando di…” iniziò con il protestare Fenrir, bloccato però da un gesto dell’amico.

“Non accampare scuse che non reggerebbero dinanzi a nessun tribunale divino. Questi uomini sono morti… morti per colpa tua! Non c’è giustificazione alcuna, per le tue azioni” sibilò Tyr, gli occhi invasi di odio e dolore al tempo stesso.

Fenrir si inalberò immediatamente, a quelle parole livide, e sbottò.

“Credi pure alle parole di tuo fratello, se vuoi. A quanto pare, neppure io avrei dovuto fare affidamento su di te.”
“Odino aveva ragione nel volerti tenere d’occhio” sospirò Tyr, scuotendo il capo. “Vattene, perché io possa dare loro degna sepoltura. Non meriti neppure di stare vicino a questi uomini.”

Sprezzante quanto ferito, Fenrir replicò: “Se non vedi al di là del tuo naso, non è affar mio. Pensa ciò che vuoi, di me. Se basta l’opinione di quell’ubriacone di Balder per farti cambiare idea così alla svelta, allora vuol dire che non mi conosci affatto.”

“No! Non ti conosco affatto!” ringhiò Tyr, indicando con rabbia i morti.

“Se fossi stato presente, avresti capito!” si difese Fenrir. “Ma che parlo a fare… tu che mi hai tradito per primo.”

“Oltre che bugiardo, sei anche un vanesio” lo rabberciò il dio biondo. “Non dirò dei tuoi figli per rispetto verso Avya, ma non cercarmi mai più. La nostra amicizia termina qui.”

“Con somma gioia, non posso che dichiararmi d’accordo” sentenziò Fenrir, svanendo in una nuvola dorata.

Tyr, allora, fissò sgomento quel mare di morti e, serrando gli occhi, trattenne le lacrime che mai avrebbe versato per colui che aveva considerato un amico.

Lo stesso fece Fenrir che, rientrando a casa col cuore spezzato, fu sul punto di sfogarsi con Avya per quanto appena accaduto.

Le parole, però, gli morirono in gola quando, a sorpresa, scorse due fanciulle nel bel mezzo della stanza principale, scarmigliate e coperte di fuliggine.

In un angolo, Hati stava curando una ferita profonda sul braccio del gemello, che pareva essere preda di un forte stato di stress.

La sua entrata in scena bloccò tutti e, quando anche Avya si presentò nella stanza – tornando apparentemente dalla stanza che divideva con il compagno – quest’ultima esalò: “Oh, cielo… Fenrir!”

Lui li squadrò tutti, notò l’aria spaventata delle due ragazze, ma non la ritenne diretta verso se stesso quanto, piuttosto, verso qualcosa che le aveva terrorizzate in precedenza.

“Posso… posso sapere che sta succedendo?” chiese alla fine, non sapendo bene chi guardare, o a chi rivolgersi.

La ragazza bruna scoppiò in lacrime, e quella dai capelli biondi cercò subito di chetarne l’ansia.

Avya, allora, si affrettò a poggiare una mano sulla spalla della ragazza piangente, e mormorò: “Fryc…i suoi uomini stavano per ucciderle sul rogo, quando…”

Hati prese la parola con coraggio, e aggiunse: “Le abbiamo salvate. Non potevamo lasciarle là a bruciare vive, ma…”

Sköll sbuffò e, guardandosi il braccio fasciato, terminò di dire: “… ma abbiamo esagerato. Ci dispiace, papà. Ci hanno visto. Nell’altro modo.

Fenrir non se la sentì di avercela con loro. Tutta la loro vita era stata strana, costellata di pericoli, concessioni, ricatti.

Non un solo giorno era stato passato nella tranquillità assoluta, se non quando si erano trovati a Niflheimr.

Ma quella era stata solo una parentesi, perché mai avrebbero potuto abitare lì per sempre.

Sospirando, Fenrir si rivolse alle due fanciulle e, con un tono il più possibile pacato, domandò loro: “Anche voi avete visto?”

La bionda annuì, si lappò le labbra screpolate e infine disse: “Hanno lo spirito del lupo, dentro di loro, e quello spirito ci ha protette e salvate.”

Fenrir sorrise appena nel notare con quanto coraggio lo stesse guardando, ignorando di proposito il sangue che lo ricopriva.

“Prosegui pure nel prenderti cura di loro, Avya. Io mi cambierò, nel frattempo. Non hanno bisogno di essere ulteriormente turbate dal mio stato attuale.”

Ciò detto, fece per allontanarsi ma la compagna, afferratolo a un braccio, mormorò: “Cos’è successo?”

“La stessa cosa che è successa a voi, ma io non ho avuto la fortuna di trovare donne e fanciulli altrettanto coraggiosi da accettare per buona la mia presenza” sospirò Fenrir, sconsolato. “Inoltre, Tyr si è presentato al villaggio a giochi ormai conclusi, accusandomi di essere un mostro. Non mi ha lasciato il tempo di parlare e, oltretutto, ha negato ogni addebito riguardo alla rete. Si è dimostrato degno di suo padre.”

Avya lo fissò spiacente e, nel dargli un bacio sulla guancia, asserì: “Io so che no sei un mostro.”

“E’ questo che mi consente di vivere… tu, e i nostri figli” replicò lui, sorridendo un momento ai gemelli prima di sparire nella sua stanza.
 
***

Scrutando gli occhi ambrati delle due fanciulle, Fenrir domandò loro: “E’ solo per il colore dei vostri occhi, che hanno tentato di darvi fuoco?”

Scuotendo il capo, la bruna – di nome Lyka – asserì: “Io sono un’erborista, mio signore. Ritenevano che, per questo, potessi essere anche una strega.”

Fenrir sorrise divertito ad Avya, prima di dichiarare: “Anche qualcun’altra fu accusata di simili maldicenze, pur se non arrivarono mai al punto di volerla morta. Ma immagino che Fryc abbia instillato sufficiente paura a tutti, per mettere voce agli incubi più inconfessati.”

La bionda – Sylvi – annuì con vigore, sibilando sprezzante: “E’ stato mio padre a consegnarci al capo villaggio e, quest’ultimo, ha chiamato le orde di Fryc perché venissimo giudicate.”

Si lasciò andare a un’espressione stizzita, prima di aggiungere: “Giudicate! Come se legarci a due tronchi e darci fuoco fosse un giudizio!”

Il dio assentì, solidale con le due giovani, e dichiarò: “Potrete rimanere finché vorrete. La nostra casa sarà la vostra … e i miei figli si comporteranno onorevolmente, con voi.”

Ciò detto, lanciò un’occhiata d’intesa con i due interessati, che borbottarono delle proteste sentite, come se loro non si fossero sempre comportati a modo.

Le due ragazze sorrisero divertite e Avya, nell’alzarsi, le accompagnò in quella che, da quel momento in poi, sarebbe stata la loro stanza.

Rimasto solo coi figli, Fenrir tornò serio e disse: “Aspettatevi che Odino venga presto a bussare alla nostra porta, figli miei. Non è più il tempo dei segreti, e io cercherò di ottenere per voi un salvacondotto, indipendentemente dal prezzo che dovrò pagare per averlo.”

“Papà…” mormorò turbato Hati, fissandolo in ansia.

“Figli miei, voi avete riempito un vuoto nel mio cuore, e la Madre sola sa quanto questo mi sia stato di conforto. Voi e Avya mi avete cambiato, avete fatto di me un dio migliore, un uomo migliore, ma Odino non cambierà mai idea su di me. Mi riterrà sempre un portatore di sventura, perciò so già che dovrò pagare un fio, per avervi avuto nella mia vita.”

“Lo pagheremo noi, per te!” sbottò Sköll, già pronto a dar battaglia.

Fenrir scosse il capo corvino, replicando: “Non è compito che spetti a voi. Il vostro, sarà prendervi cura di mamma, e di tutte le persone che Fryc tenterà di colpire. Non si fermerà mai, ormai è assodato, e molti seguiranno il suo esempio. Voi dovrete essere l’estrema risorsa per coloro che finiranno nella sua rete.”

Hati e Sköll annuirono, pur se di malavoglia e il padre, nel sorridere loro, aggiunse: “Nessun padre potrebbe essere più orgoglioso di me.”

I due gemelli si limitarono a esibirsi in un mezzo sorriso imbarazzato e, quando Avya tornò, ripresero a sistemare in casa, preferendo non farle notare il loro disagio.

Fenrir, allora, la prese accanto a sé, la baciò sulla tempia e, dentro di sé, si ripromise di tenerla al sicuro a qualsiasi costo.

Anche a costo di morire, se necessario.





1 Albion: come veniva chiamata un tempo la Gran Bretagna.
2 Dyggvi: re scandinavo (morto) che venne offerto in sposo a Hel, quando giunse alle porte di Niflheimr per entrare nel regno dei morti. Ne divenne il marito.
 


Note: Uror non ha mai specificato se, il tradimento di Tyr, fosse cosciente o meno, quindi, ecco perché Fenrir lo ritiene un traditore, e Tyr lo pensa un folle, come mai aveva voluto credere. Nel bene e nel male, il loro legame li ha traditi, perché sono rimasti entrambi vittime del loro stesso affetto, usato sapientemente dalla rete di inganni messa in piedi da Loki.
Loki che però, a sua volta, è stato tradito dalla subdola figlia, che ora vuole utilizzare Balder per ottenere i suoi scopi. Sarà solo punire il fratello, o ci sarà dell'altro?
Di sicuro, ormai siamo giunti al dunque, poiché manca poco alla resa dei conti.

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Capitolo 18
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 7 ***


 
Dove tutto ebbe inizio – Parte 7
 
 
 


Sorseggiando una birra, l’aria ombrosa e stanca, Tyr lanciò un’occhiata amara al fratello Balder, quando lo vide comparire nella locanda.

Il profumo dello stufato appena servito, così come l’aroma delle donne che, con grazia e studiato disinteresse, si muovevano per il locale, non contribuirono a migliorargli l’umore.

Era abbattuto, infuriato, disgustato ma, più di tutto, amareggiato per essersi sbagliato così tanto su una persona che, in tutta onestà, aveva creduto migliore di quanto in effetti non si era rivelata.

Eppure, il suo amore sincero per Avya – più che ricambiato, tra l’altro – e l’affetto sincero che gli aveva visto negli occhi alla notizia della prossima paternità, lo aveva rincuorato.

Fenrir gli era parso davvero cambiato, rispetto agli anni in cui aveva vagato per i mondi come un’anima senza uno scopo, odiando tutti e facendosi odiare da tutti.

Sbattendo il corno sul bancone per farsi servire un’altra birra, salutò l’avvento del fratello con un ghigno, e mormorò: “Alla tua, Balder… avevi ragione, e io torto.”

Poggiando la sua sacca a terra, il biondo e dinoccolato dio si accomodò accanto a Tyr e, vagamente dubbioso, replicò: “So di essere geniale, ma illuminami. Su cosa avrei avuto ragione, fratello?”

“Su Fenrir, è ovvio” ribadì Tyr, accigliandosi leggermente. Voleva forse prenderlo in giro?

“Curioso che tu lo nomini” ghignò il dio, lanciando un’occhiata saputa alla sua sacca. “Ma ancora non capisco. Saranno secoli che non dibattiamo circa le sue dubbie virtù.”

“Come… secoli?!” sbottò Tyr, fissandolo ora vagamente irritato. “Se eravamo qui giusto l’altro giorno, e tu mi dicesti quanto meschino e brutale fosse!”

A quel punto fu Balder a mostrarsi confuso e sì, vagamente indispettito. Sistemandosi la tunica per tenere a freno la rabbia, gli rinfacciò: “Chiariamo un punto, fratello… io e te non ci vediamo da giorni, per non dire settimane e, di sicuro, non ci siamo incontrati qui, visto che io ero da tutt’altra parte!”

Tyr sobbalzò di fronte a quelle parole e, soprattutto, di fronte allo sguardo limpido e sincero del fratello. Possibile che…

Percorso da un dubbio orribile, ripensò alla lite con Fenrir, al suo orgoglio ferito e alla strenua difesa delle proprie azioni.

Quello sguardo… era identico a quello di Balder, ora.

Ma perché, quindi, credeva che il fratello non mentisse, mentre aveva dato del bugiardo a Fenrir?

Sospirando nel reclinare colpevole il capo, Tyr si rese conto di avergli fatto un grave torto.

Aveva dato per scontate le parole di Balder – o di colui che si era presentato come lui, a questo punto – perché, in fin dei conti, non si era mai fidato del tutto di Fenrir.

La sua nomea, l’odio millenario covato da Odino, il continuo ostracismo che lo aveva seguito avevano condizionato anche lui, che si era sempre professato suo amico.

Era bastata una mezza parola dubbiosa e un evento violento, e lui gli aveva voltato le spalle, lasciandolo solo e con il livore nello sguardo.

Era stato un ben misero amico, per Fenrir.

“Che c’è? Non mi dirai che avete litigato?” lo prese in giro Balder, sghignazzando.

Tyr, allora, si volse a guardarlo e gli domandò con enfasi: “Giuramelo su quanto hai di più caro, fratello. Prima non mi hai mentito, vero?”

Levando un sopracciglio con espressione assai confusa, Balder assentì, replicando: “Non so perché ti serva questa rassicurazione, ma sì, non mentivo. Sono settimane che non metto piede qui.”

Sibilando un’imprecazione tra i denti, Tyr si portò una mano tra i capelli, inveendo mentalmente contro se stesso e contro la sua idiozia.

Si era fatto irretire come uno sciocco, e aveva finito per lasciare sguarnito il fianco all’amico, che ora si ritrovava solo contro tutti, e nel peggior momento possibile.

Levandosi in fretta in piedi, Tyr lanciò un’occhiata al fratello, alla sua sacca e, infine, gli domandò: “Tu, invece, perché eri interessato a Fenrir? Hai detto che era curioso che io l’avessi tirato in ballo.”

“Segreto professionale, mio caro. Non spiffererò con te i miei segreti, visto che hai la mente bacata come un formaggio stagionato” rise il fratello, scolandosi in un sol sorso la sua birra.

Per nulla tranquillizzato da quelle parole, Tyr lasciò perdere e si allontanò a grandi passi dalla locanda per raggiungere Bifröst.

Molto probabilmente, Fenrir lo avrebbe preso a calci nel didietro, ma era giusto che sapesse che lui non era colpevole del loro disguido.
 
***

Impegnata a stendere le lenzuola sulla corda tesa tra due pali, Sylvi si volse immediatamente quando avvertì uno sfrigolare sinistro alle sue spalle.

Lyka, al suo fianco, afferrò alla svelta un bastone e, pur tremando come una foglia, fissò ombrosa la nuvola dorata che stava prendendo forma a pochi passi da loro.

“Avya…” esclamò Sylvi, ponendosi protettiva dinanzi a Lyka.

La donna uscì immediatamente, nel sentirsi chiamare e, accigliandosi quando la nube dorata prese forma, borbottò contrariata: “Malvenuto, signore della guerra. Cosa ti porta al nostro cospetto?”

Tyr si inchinò ad Avya non appena prese forma umana – non stupendosi affatto che la donna lo avesse riconosciuto prima ancora di apparire del tutto – e, mortificato, mormorò: “Giungo a chiedere perdono, mia diletta. Sono stato vittima di un orribile scorno, e ho infierito ingiustamente sul tuo compagno. Vorrei perciò redimermi, se mi è possibile.”

Stringendo le braccia sotto i seni, il volto percorso dal dubbio e dalla speranza, la donna replicò più dolcemente: “Fenrir ha sofferto molto per le tue parole. Parla, dunque, e chiarisci perché vi è stato fraintendimento. Ma ti avverto. Uomo o dio, io so come respingerti, perciò non pensare di essere innanzi a una donna inerme e indifesa.”

Tyr nonostante tutto le sorrise e, nel lanciare un’occhiata alle due ragazze che affiancavano Avya, domandò: “Loro sono tue pupille?”

“Sono state salvate dalla follia di mio fratello per mano dei miei figli, esattamente come Fenrir ha salvato le donne nel villaggio ove tu lo trovasti l’altro ieri” gli fece notare Avya, vagamente piccata.

“E ora, i suoi figli si chiedono perché tu sia qui, figlio di Odino” borbottò alle loro spalle Hati, comparendo a sorpresa dietro Tyr.

Il dio si volse a mezzo, studiò l’alta figura del giovane semidio, i suoi occhi di pece, così come le onde corvine che gli scivolavano intorno al viso.

Sì, era davvero figlio di suo padre, ma assomigliava molto anche ad Avya. Nei suoi occhi brillava la stessa luce di giustizia.

Reclinando il capo in un cenno di saluto, Tyr asserì: “Cercavo tuo padre per scusarmi, e dirgli che nulla di quanto lui pensa è corretto. L’ho accusato ingiustamente, così come lui ha fatto con me, ma posso giurare dinanzi a ciò che voi vorrete, che non ho mai inteso fargli del male.”

Hati si accigliò maggiormente, a quelle parole, e replicò: “Perché, dunque, lo hai incolpato, se ora ti dichiari pentito? Cosa ti ha spinto a rivoltarti contro di lui?”

“L’inganno, ragazzo. L’inganno di un dio scaltro, per quel che mi è dato sapere” sospirò amaramente la divinità della guerra. “Non trovo altre spiegazioni per ciò che mi è successo.”

Il giovane semidio, allora, fissò ansioso la madre che, annuendo, dichiarò: “Loki si presentò da noi quella stessa mattina, cercando di irretire Fenrir con la lega polimetallica costruita dai nani su tuo consiglio.”

Tyr ne rimase così scioccato da dare l’ultima conferma necessaria ad Avya per scagionare il dio da ogni accusa.

Il suo potere le faceva comprendere chi mentisse, e chi no, ma era pur vero che, quando si aveva a che fare con gli dèi, tutto era possibile.

Con Loki, per esempio, non era stata in grado di percepire nulla, se non l’oscurità più totale, e quella non era stata di alcun aiuto.

Gli occhi di Tyr, però, così come la sua voce, o la sua espressione sconvolta, le avevano dato le risposte che cercava.

Non mentiva, sulla rete che aveva cercato di incatenare Fenrir.

“Loki… avrei dovuto immaginare che ci fosse il suo zampino…” borbottò contrariato Tyr, prima di irrigidirsi quando percepì una presenza a lui ben nota.

Volgendosi completamente verso Hati, che a sua volta levò il capo verso l’alto, vide comparire una nube dorata che, in uno scintillio, prese le forme di Fenrir.

Prima ancora di poter parlare, di potersi spiegare, Tyr venne aggredito dal dio-lupo, che lo fece crollare a terra sotto le sue zampe enormi.

Prese in mano le redini della situazione, Hati si affrettò a raggiungere la madre e le ragazze, spingendole in fretta in casa poi, con un fischio modulato, richiamò il fratello perché tornasse.

In quel mentre, Tyr scalciò con violenza contro lo stomaco del lupo, urlando: “Non sono qui per combattere, Fenrir, ma per scusarmi! Loki ci ha ingannati entrambi!”

Fenrir gli ringhiò contro, pur trattenendosi dal combattere e il dio biondo, nel rialzarsi da terra – sporco di erba e con la tunica squarciata – esalò: “Ci ha messi l’uno contro l’altro. Mi ha mentito perché mi mettessi contro di te, così come ha mentito a te sulla rete. Io non ho mai detto ai nani di farla in maniera che fosse una gabbia!”

“Perché lo avrebbe fatto?!” gli sputò contro con livore, le zanne ben evidenti sotto il sole.

“Per i motivi di sempre. Lasciarti solo, perché il tuo odio si coltivasse fino a esplodere. Sai cosa vuole da te!” gli rammentò Tyr, sbracciandosi per dare forza al suo dire.

“Avresti dovuto credermi, non urlarmi addosso quegli insulti gratuiti” sbottò il lupo, fissandolo ancora guardingo, ma non più in assetto da battaglia.

Dubbioso, Hati continuava a stare di guardia alla porta di casa, non sapendo bene se intervenire o lasciare che il padre se la sbrigasse da solo.

Nel mentre, Sköll sopraggiunse in forma di lupo e, nel vedere uno sconosciuto e il padre in forma animale, snudò le zanne e ringhiò: “Cosa vuoi dalla nostra famiglia?!”

Fenrir lo redarguì con il semplice sguardo, tranquillizzando solo in parte il figlio che, mettendosi al suo fianco, borbottò: “Chi è, padre?”

“Padre? E così, la bestiaccia ha avuto dei figli?”

I quattro uomini si volsero verso il limitare del bosco e lì, bello come il sole e ghignante come un beffardo messo divino, fece la sua comparsa Balder.

Accigliandosi, Tyr gli domandò: “Che ci fai tu qui?”

“Giungo a ringraziarti per avermi condotto dove io volevo… e con una sorpresina in più da portare a nostro padre, a quanto pare. Sarà lieto della felice novella…” sghignazzò Balder, fissandoli tutti con espressione tronfia.

Fenrir si volse a fissare rabbioso e deluso Tyr, che replicò: “Non l’ho condotto qui di mia volontà, devi…”

“Smetti di parlare, Tyr. Hai già fatto abbastanza danni, per quel che mi interessa.”

Rivolgendosi al fratello, il dio della guerra esclamò: “Tu non dirai nulla di quanto hai visto! E’ chiaro?! Non sta facendo nulla di male!”

“E da quando in qua a un dio della distruzione è permesso avere figli, Tyr? Sei forse impazzito!? Già la sua cara sorellina porta pestilenze e morte, tutte le volte che è di cattivo umore… pensa a cosa potrebbero fare questi due cuccioli del demonio, se si mettessero a dare man forte al padre…” lo irrise rabbioso Balder, fissando Fenrir e i figli con livore.

Sköll ringhiò indispettito al suo indirizzo, ma Fenrir gli si pose innanzi, protettivo.

Balder, allora, lo fissò vagamente sorpreso, e disse: “Oh… quindi puoi anche provare amore per le tue creature? Sorprendente.”

“Balder, smettila. Vattene da qui e lasciali in pace. Nostro padre non ha bisogno di sapere di loro” intervenne ancora Tyr, poggiando una mano sulla spalla del fratello.

Quest’ultimo lo scansò irritato, e replicò: “Lasciami in pace, fratellino. Questo è un tradimento bello e buono,… da parte tua come da parte sua. Perciò, lo condurrò al cospetto di Padre Tutto perché venga giudicato equamente.”

A quel punto, Fenrir scoppiò in un’aspra risata e ringhiò: “Equamente? E da quando mi trattate in modo equo, figlio di Odino? Mi avete sempre odiato, e non avete mai fatto nulla per nasconderlo! E ora tu giungi qui, con quella rete che, immagino, sia per contenere il mio potere, e dici che sarò giudicato equamente? Mi porterai in catene da tuo padre, ed è ben diverso che essere condotto a lui per parlare da pari a pari.”

“Questa serve solo per dimostrare a tutti che giungi in pace, lupo, non certo per denigrare il tuo spirito o il tuo lignaggio divino” replicò Balder, sollevando con ironia l’angolo della bocca.

“Posso farlo comunque, e camminando sulle mie gambe di uomo, così come sulle mie zampe di lupo” ribatté furioso Fenrir.

“Mi scuserai, se non mi fido di te!” esclamò allora il dio, lanciandogli contro Drómi senza attendere oltre.

Fenrir scansò Sköll con una spallata perché non ne rimanesse vittima e, mentre la rete traslucida cadeva su di lui, Tyr abbatté il fratello buttandoglisi contro a muso duro.

Tra i due dèi scattò immediata una colluttazione.

Fenrir, però, non prestò loro alcuna attenzione e, mentre Sköll mordeva le corde di Drómi per spezzarle, e Hati le tirava con tutta la sua forza, lui gridò: “Fatevi da parte, figli miei!”

Ciò detto, incanalò parte della sua aura sulle maglie metalliche che, letteralmente, presero fuoco, incenerendosi.

Con un ultimo pugno al volto, Tyr finalmente atterrò il fratello e, già sul punto di gioire nel vedere l’amico in libertà, si azzittì nello scorgere il lume dell’odio nei suoi occhi.

“Andatevene da qui, se non volete che io vi divori… o peggio.  Non meritate che odio, da parte mia, solo e unicamente odio! Che la vostra stirpe sia dannata, visto che voi dannaste noi, a suo tempo!” li minacciò a zanne snudate, enorme e ammantato di un’energia turbinante davvero ineguagliabile.

Balder indietreggiò carponi, terrorizzato da quella visione mentre Tyr, combattuto tra il desiderio di spiegarsi e quello di lasciar sbollire Fenrir, afferrò suo fratello e mormorò: “Ce ne andiamo… ma tu trattieni la collera, amico mio…”

In un baluginio dorato, i due dèi si ritrovarono nei pressi del più vicino passaggio per Bifröst e, dopo aver attraversato le sue onde multicolori, si ritrovarono su Asghard.

A sorpresa, Balder si rivoltò furioso contro il fratello, ricambiando il pugno che aveva ricevuto in volto e, livido, gli ringhiò contro: “Perché l’hai difeso?! Era mio!”

“Non era affatto tuo, visto che anche il tuo tentativo di irretirlo è fallito” gli rinfacciò Tyr, rabbioso al pari suo. “E poi, dove diavolo hai trovato quella roba?”

Borbottando un’imprecazione nel passarsi il dorso della mano in corrispondenza del labbro spaccato, Balder ringhiò: “Quella puttana me la pagherà cara… mi aveva assicurato che avrebbe funzionato!”

Accigliandosi, Tyr lo afferrò a una spalla prima che si allontanasse senza avergli fornito adeguate spiegazioni.

“Parla! Chi te l’ha data!?” sibilò Tyr, sbattendolo contro una parete nelle vicinanze.

Balder imprecò per il dolore, lo insultò a più riprese ma, alla fine, ammise: “Me l’ha data quella puttana di Hel. Ecco chi.”

Sorpreso oltre ogni ragionevole dubbio, Tyr sobbalzò ed esalò: “Ma come… e perché mai avrebbe dovuto dartela? Non è certo una nostra sostenitrice, mi pare.”

A quel punto, Balder ebbe la decenza di arrossire, e Tyr preferì non sapere altro.

Quel che sapeva, era già sufficiente.

Ora che anche Balder era a conoscenza del segreto di Fenrir, non sarebbe stato zitto, e avrebbe raccontato ogni cosa a Odino.

Se solo fosse stato più accorto, e avesse coperto meglio le sue tracce, Balder non sarebbe mai stato in grado di vederlo su Midghard.

Invece, era stato così sciocco da non pensare che al suo orgoglio leso, e alla sua volontà di riparare un torto.

Così facendo, ne aveva creato un ben più grande, e senza volerlo.

Come avrebbe fatto a farsi perdonare da Fenrir, a quel punto?
 
***

Avanzando a grandi passi nella sala centrale del palazzo di Hel, Loki la trovò seduta sul suo trono, mentre accarezzava placida la pelliccia irsuta di Garmr.

Il cane della dea, nel vederlo sopraggiungere, uggiolò spaventato e, subito, Hel si rizzò elegante sul suo seggio, fissando il padre con espressione guardinga.

Lui, però, si presentò sorridente e soddisfatto, e fu questo a mettere in allarme la figlia.

Levandosi in piedi, si sistemò nervosa una ciocca dei neri capelli e, in un mormorio sommesso, domandò: “Cosa ti porta qui, padre?”

“Quali altri giochetti hai in serbo per me, figliola cara?” le chiese per contro, carezzandole la maschera sotto cui si trovava la parte in decomposizione del suo viso.

La magia, alla fine, era durata poco meno di un giorno. Sufficiente, comunque, per permetterle di ottenere tutto il seme di cui poteva aver bisogno per rimanere incinta.

Avrebbe ottenuto anche lei ciò che desiderava e, anche se Balder non fosse stato mai al suo fianco per crescere il loro figlio, poco le importava.

Non teneva affatto a lui, ma era stato piacevole averlo nel letto per un po’.

Il ghigno di Loki andò a sfiorare i suoi occhi d’ossidiana, mente mormorava mellifluo: “Ti è piaciuto farti sbattere dal quel fatuo damerino di Balder?”

Hel accusò il colpo e, indietreggiando di un passo, esalò sconvolta: “Come… cosa vuoi dire?”

Accarezzando l’aria con una mano con fare disinvolto, Loki le girò attorno al pari di una fiera con la preda e disse: “Dopo il tuo ultimo scherzetto, ho pensato di tenerti d’occhio, ma non pensavo che avresti dato la rete proprio a quel villano di Balder. E per cosa, poi? Per un dono che non potrai sfruttare?”

“Che intendi?” gli rinfacciò lei, adombrandosi.

Tornando serio, il padre dichiarò lapidario: “Non ti servirà a nulla esserti fatta montare da quel dio, figliola. Il tuo corpo potrà essergli apparso integro con la magia… ma non lo è, né mai lo sarà. Non potrai mai avere dei figli… o essere come tuo fratello.”

Hel gli urlò contro, aggredendolo con le mani chiuse ad artiglio per ferirlo, ma Loki si svicolò alla svelta dal suo attacco, ridendole in faccia.

Con un balzo, si allontanò da lei per starle a distanza di sicurezza e, nell’allontanarsi dalla figlia, le disse: “Siete patetici. Tuo fratello Fenrir vorrebbe essere un uomo qualunque, e sta fallendo miseramente nei suoi intenti. Tu vorresti essere una donna integra e piacevole, ma sai già che non potrai mai esserlo. Penso proprio che andrò a trovare Jörmungandr. Almeno, lui non si fa di questi problemi. Si accetta per quello che è.”

E, mentre le urla e gli insulti di Hel lo seguivano fino all’uscita del suo palazzo, Loki sogghignò soddisfatto e, in uno scintillio di tenebra, raggiunse Bifröst.

Ma non per andare dal figlio serpente, su Midghard, bensì per raggiungere Svartalfheimr e i nani.

Ora che aveva visto le due reti essere messe alla prova – per poi fallire – , aveva finalmente capito come fare per bloccare una volta per tutte Fenrir.

E, stavolta, si sarebbe rivolto al fratello.

Odino sarebbe stato ben felice di vederlo, per una volta.








Note: Pur con tutta la buona volontà di Tyr, la situazione è ulteriormente peggiorata e ora, non solo Balder è al corrente della verità su Fenrir, ma porta con sè anche le sue invettive più che oscure, cosa di cui Odino non sarà per niente felice.
Come purtroppo sappiamo già, la cosa non porterà a nulla di buono. Ormai siamo giunti alla fine di questa avventura, e scopriremo cosa è avvenuto a Fenrir, in quei tragici momenti.
A presto, e grazie per avermi seguita fin qui!

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Capitolo 19
*** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 8 ***


 
 
Dove tutto ebbe inizio – Parte 8
 
 
 
 
Carezzando le piume morbide e scure di Muninn, Loki levò il capo non appena udì i passi cadenzati e potenti del fratello, Odino.

Frigga procedeva a pochi passi da lui, elegante come sempre e come sempre bellissima e imperiosa.

Nessuna dea avrebbe potuto essere degna del titolo di Signora degli dèi, se non lei, Loki di questo era più che consapevole.

La salutò perciò con garbo e, allontanandosi dal trono del fratello e dai suoi corvi, che erano appollaiati su un paio di trespoli in oro, dichiarò: “Giungo a te con una lieta novella e con un cruccio, fratello.”

“Né dell’una, né dell’altro voglio preoccuparmi ora, Loki” replicò ombroso Odino Occhiosolo, accomodandosi sul suo trono con fare naturale. “Debbo incontrarmi con mio figlio Balder, e non ho affatto bisogno che tu rimanga qui a origliare i nostri affari.”

Frigga rimase in silenzio di fronte a quell’aperto insulto e, con grazia, si accomodò sul basso scranno a latro del trono, sistemando delicatamente le eleganti vesti dorate.

Loki le lanciò uno sguardo dubbio, ma alla fine preferì parlare. Dopotutto, avere dalla propria parte una donna preoccupata, poteva essere utile.

“Ho il dubbio che la venuta di Balder coincida con la mia, fratello perciò, se me lo consentirai, chiederò a tuo figlio l’argomento di cui deve trattare con te e, se non sarà il medesimo, mi ritirerò in buon ordine. Diversamente, te ne parlerò con lui presente.”

Odino borbottò un assenso e, quando vide comparire l’alto e impetuoso figlio dai lunghi e biondi capelli, dichiarò a gran voce: “Ebbene, eccoti! Perché mi hai voluto convocare così di fretta?”

Balder lanciò un’occhiata tesa in direzione di Loki che però, mellifluo, disse: “Io e mio fratello siamo d’accordo, giovane nipote. Sei qui per Fenrir, vero?”

Assentendo senza però aprire bocca, il dio biondo squadrò supplichevole il padre, ma questi non gli permise di ottenere ciò che voleva, limitandosi a dire: “Parlerai dinanzi a lui, poiché voglio conoscere le opinioni di voi due al riguardo. Cos’ha combinato quel lupo irrispettoso?”

Ancora uno sguardo a Loki, poi Balder parlò.

“Fenrir si è accoppiato con una mortale, Padre, e ha avuto due figli. Da quel che ho potuto constatare su Midghard, esiste una cerchia di guerrieri sempre più nutrita che sparge odio e morte per le genti, con il chiaro intento di stanare la bestia e la sua progenie, oltre che la madre dei figli del dio-lupo. Vogliono ucciderli tutti, credendoli demoni” lo mise al corrente Balder, reclinando ossequioso il capo.

Aggrottando la fronte, Odino borbottò contrariato: “Non gli era permesso unirsi carnalmente per generare una prole! E questi disordini non mi piacciono affatto. Midghard è un luogo ancora giovane e fragile. Non ha bisogno di simili contenziosi.”

“Sono pienamente d’accordo con te, Padre, e quando mi sono recato da Fenrir per farlo ragionare – in barba al tentativo di Tyr di nascondermi questa verità scomoda – lui ha urlato contro di me e contro gli dèi tutti, ingiuriandoci a male parole ed esternando anche pesanti minacce.”

Ancora Loki rimase in silenzio e Balder, imbaldanzito da questa sua silente approvazione, proseguì nel racconto.

“I figli di Fenrir sono pericolosi come lui, combattivi per carattere e labili di autocontrollo. Uno di loro ha tentato di azzannarmi, quando ho tentato di far ragionare Fenrir e…”

“… e forse avresti dovuto aggiungere che, in precedenza, hai tentato di catturare suo padre con una rete costruita dai nani, che però si è rivelata inadatta” intervenne dal fondo del salone un’altra voce, che rimbalzò tra le pareti affrescate del palazzo.

Balder si volse rabbioso in direzione del fratello Tyr e, indicandolo con fare irato, esclamò: “Tu ci hai tenuto nascosto la verità sulla sua prole! Non hai diritto alcuno di parlare!”

“Fenrir non è né folle, né pericoloso come lo dipingi. Stava difendendo casa sua e la sua prole, quindi non ci vedo niente di strano” ribatté il fratello, raggiungendo infine il gruppo ai piedi del trono. “Padre, lasciami spiegare…”

Odino, però, levò una mano per azzittirlo e, furente, dichiarò: “Tu sapevi, e me l’hai taciuto. Mi hai fatto credere che i suoi movimenti erratici in giro per i mondi fossero solo una sua risposta alla noia, quando invece stava solo cercando di sviare la mia attenzione dalla sua famiglia!”

Tyr non poté ribattere a questo, essendo la pura verità.

Balder sogghignò, decidendo di rincarare la dose. “Li ha aiutati a nascondersi, e per questo dovreste punirlo, padre. Vi ha mentito su fatti gravissimi.”

Padre Tutto fulminò con lo sguardo Balder, replicando: “Tieni la tua gelosia fuori da questa discussione, figlio, o potrei decidere di punire te, perché stai cercando di incastrare tuo fratello.”

Rimessolo al suo posto, Odino poi si rivolve a Loki, chiedendogli: “Tu ne sapevi nulla?”

“Ne sono giunto a conoscenza anch’io pochi giorni addietro e, proprio per questo, mi sono recato dai nani per capire come fossero state create le reti che hanno usato per tentare di frenarne la pazzia.”

Tyr si infuriò immediatamente, di fronte a quelle parole cariche di spregio, ma Odino lo azzittì nuovamente con un gesto della mano.

Al fratello, quindi, chiese: “Che intendi dire con… reti? Ne è stata utilizzata più di una?”

“Ebbene sì, fratello. Mia figlia ha cercato di contenerne l’irritabilità, quando ha scoperto che Fenrir era irrimediabilmente impazzito” mormorò contrito Loki, reclinando penitente il capo. “Si è lasciata tradire dalla gravidanza della compagna di Fenrir… come donna, non se l’è sentita di abbandonarla, così li ha accolti presso la sua reggia per tutti questi anni, permettendo ai cuccioli di crescere ma, quando si è resa conto del vero carattere del fratello, ha tentato di fermarlo.”

Odino aggrottò la fronte, accigliato quanto dubbioso, e replicò: “Hel non è mai stata famosa per il suo altruismo, lo sai…”

“Sì, ma di fronte a una gravidanza, ha ceduto anche lei.” Poi, rivoltosi a Balder, sogghignò e aggiunse: “Tu sai bene perché ti ha donato Drómi per catturare Fenrir, vero?”

“Che cosa?!” sbottò Odino, rivolgendosi al figlio. “Ti sei appoggiato a Hel, per ottenere un’arma contro Fenrir?”

“E’ stata lei a cercarmi, chiedendomi di portare giustizia in nome suo! Come ha detto Loki, è stata tradita da suo fratello… avrei dovuto voltarmi, non intervenire? E’ pur sempre una donna, no?” protestò Balder, lanciando un’occhiata significativa alla madre.

Odino preferì non indagare oltre sull’argomento, essendo presente la moglie e, nel rivolgersi nuovamente a Loki, domandò: “Quindi, tuo figlio ha fatto terra bruciata attorno a sé?”

“A quanto pare, non del tutto, visto che tuo figlio Tyr è ancora dell’idea di difenderlo, nonostante sia evidente che Fenrir stia impazzendo.”

Tyr ringhiò irritato, replicando furioso: “Non sta affatto impazzendo! Vuole solo proteggere la sua famiglia e, quanto a Balder e alle sue affermazioni, bisognerebbe sottolineare perché Hel gli abbia dato quella maledetta rete! C’era ben altro, dietro al bisogno di proteggere una donna.”

Balder lo fissò malissimo, ma Odino soprassedette e disse soltanto: “Non mi interessa conoscere il motivo per cui Hel gli abbia donato quella rete. Se tuo fratello dice di essere stato aggredito, a me tanto basta. Questo, unito alle ingiurie contro noi tutti, è sufficiente per spingermi a richiamarlo qui per decidere di lui e della sua famiglia… che mai avrebbe dovuto avere.

“Padre, vi prego! E’ follia trattarlo come un reietto, quando non ha fatto nulla di male! Lasciate che vi parli apertamente a quattr’occhi, e vedrete da solo quanto sia cambiato” protestò con veemenza Tyr. “Siete saggio a sufficienza per sapere che, ciò che viene riportato da occhi altrui, non sempre corrisponde a verità, poiché l’occhio e la mente di chi guarda, sono condizionati dai pregiudizi.”

Ciò detto, guardò Balder e aggiunse: “Non metto in dubbio la buona fede di mio fratello, ma i suoi pregiudizi. Per questo, ti chiedo di poter condurre qui io stesso Fenrir, perché possa parlare liberamente con te, a cuor leggero.”

Prima ancora che Odino potesse parlare, Loki asserì: “Credo che Tyr abbia ragione, fratello. Io stesso, che sono suo padre, nutro sospetti verso di lui a prescindere, e può darsi che questa volta sbagli. Lasciamo che Tyr lo conduca qui, e ti parli direttamente, senza interposta persona.”

Balder fece per protestare, ma lo zio gli batté una mano sulla spalla, mormorando: “Se avrai ragione tu, lo incateneremo ma, se ha ragione Tyr, sarà stato meglio per tutti aver affrontato il problema senza pregiudizi.”

“E sia… chiama Fenrir e convocalo qui. Non toccherò la sua famiglia, né a lui verrà imposta alcuna catena, qui a palazzo” dichiarò Odino, congedando Tyr.

Quando questi se ne fu andato, Loki sorrise divertito e sottolineò: “Qui a palazzo? Come mai questo accenno così speciale?”

Odino sogghignò all’indirizzo del fratello, replicando: “Non solo tu sai usare il cervello, fratello.”
 
***

Appollaiato su una scogliera a picco sul mare, la stessa su cui aveva condotto Avya tanti anni addietro, Fenrir si volse a mezzo, quando percepì la presenza di Tyr.

Una nuvoletta dorata si ricompose dinanzi a lui, mostrandogli le sembianze del dio che, chiaramente stanco e con i segni di una lunga deprivazione da sonno, mormorò: “Eccoti, finalmente.”

“Cosa, di quanto ho detto la volta scorsa, non ti era chiaro? Non voglio più vedere nessuno di voi” borbottò Fenrir, tornando a scrutare il mare.

Quella mattina era uscito molto presto, senza svegliare Avya, e aveva corso per lungo tempo tra colline e prati, tentando invano di ritrovare la calma.

Il tradimento di Tyr lo aveva ferito più di quanto avesse immaginato in un primo momento, e il suo goffo tentativo di scusarsi aveva solo peggiorato le cose.

Come poteva, in tutta onestà, tornare a fidarsi di lui, dopo che aveva permesso a Balder di scoprire il loro segreto?
E ora giungeva lì, pieno di contrizione e speranza, desiderando cosa? Che tutto tornasse come prima? Che lui dimenticasse le sue parole di fiele?

Tutto ciò era impossibile, e glielo disse.

Tyr, però, scosse il capo e replicò: “Mio padre, così come molti altri, sono convinti che le tue parole ingiuriose siano più di semplici minacce a vuoto, e vogliono replicare al tuo dire con qualcosa di molto peggio di una semplice pacca sulle mani. Odino, però, è disposto ad ascoltarti di persona, poiché sa che le cose riportate, a volte, posso essere foriere di menzogna. Ti sta dando una possibilità, Fenrir. Usala!”

“E perché mai dovrei fidarmi? Già due volte si è tentato di ingannarmi. Salire fino al palazzo di Odino vorrebbe lasciare Midghard, raggiungere Asghard e stare lontano da Avya e dai miei figli, che potrebbero essere così attaccati in qualsiasi momento” gli rinfacciò Fenrir, levandosi in piedi per meglio affrontarlo.

“Non succederà niente di tutto questo. Me ne faccio personale carico” gli promise Tyr, allungandogli una mano. “Per favore. Fai capire a mio padre quanto ami Avya e i ragazzi. Capirà. Anche lui è padre, e non potrà negare l’evidenza dei fatti.”

Fenrir squadrò quella mano, che tante volte aveva stretto nel corso dei secoli, dopo i loro allenamenti estenuanti quanto gratificanti e, in un ultimo barlume di speranza, la strinse, mormorando: “Te la strapperò, se mi avrai detto una bugia.”

“E io lascerò che tu lo faccia… ma ugualmente proteggerò la tua famiglia” gli promise Tyr.

Fenrir si volse allora verso il bosco, indeciso se tornare o meno da Avya per metterla al corrente di quell’incontro ma, all’ultimo momento, lasciò perdere.

Avrebbe impiegato poco a parlare con Odino, dopodiché sarebbe tornato a casa da lei.

Avviatosi perciò con Tyr, si smaterializzò per raggiungere Bifröst e, da lì, raggiungere Asghard e il palazzo di Odino che, ormai, non rivedeva da millenni.
 
***

Avya si svegliò di soprassalto nel suo letto e, con la mano, cercò a tentoni la figura di Fenrir, non trovandola.

Preoccupandosi immediatamente, raccolse i suoi abiti per vestirsi e uscire per cercarlo ma, una volta raggiunta la stanza principale della casa, si fermò di botto.

Sul tavolo, si trovavano alcuni fiori di campo immersi in una ciotola di legno e, sotto di essa, un foglietto.

Avya lo prese per leggerlo e, sorridendo appena, mormorò: “Esco per un po’… ho bisogno di correre. Tornerò più tardi. Ti amo.”

La donna si strinse il biglietto al petto, accentuando il suo sorriso, ma il disagio che l’aveva svegliata non mutò, né scemò.

Qualcosa non andava.
 
***

Camminando a passo spedito lungo i corridoi di palazzo, le guardie ben distanti e nessuno a intralciare il loro passaggio, Fenrir lanciò un’occhiata a Tyr e borbottò: “A quanto pare, tuo padre ha mantenuto la parola.”

“Come ti avevo detto” assentì Tyr, indicandogli di prendere la via dei piani superiori.

Inerpicandosi lungo l’enorme e luminosa scalinata, interamente ricoperta d’oro e gemme preziose, Fenrir continuò comunque a guardarsi intorno, guardingo.

Nessun lupo si sarebbe mai lasciato andare al lassismo e, lo volesse o meno, lui era nato come lupo.

Il suo essere uomo era solo una seconda forma, non il suo Io più vero.

“Da questa parte” mormorò Tyr, avviandosi lungo un corridoio, dove si trovavano un paio di valchirie in armi.

Queste, però, li degnarono solo di una debole occhiata, rimanendo di guardia dinanzi alle rispettive porte, dietro cui si trovavano gli Archivi Reali.

Ancora, Fenrir le scrutò attento, prima di cancellarle dalla sua lista di potenziali pericoli.

Qualcosa non quadrava, ma non sapeva esattamente cosa. Eppure, Tyr sembrava così fiducioso e tranquillo…

Non appena misero piede nella sala del trono, però, gli istinti di Fenrir scattarono subito, non trovando nessuno, e anche Tyr parve piuttosto perplesso.

Quando, poi, videro comparire un valletto in livrea, la tensione crebbe.

Non che costui avrebbe potuto essere in qualche modo minaccioso, ma poteva portare più danno che utile, in una situazione simile.

Con un inchino formale, il giovane osservò la coppia con totale compostezza e disse: “Padre Tutto vi attende nella sala a fianco, che conduce ai suoi giardini privati. Ha pensato che fosse luogo più piacevole in cui colloquiare. Prego, seguitemi.”

“Giardini… privati?” esalò Fenrir, confuso e sorpreso.

Tyr, però, replicò: “Oltre quelle porte, c’è un passaggio di Bifröst che sua solo mio padre, e conduce su un’isola di Midghard che a lui piace molto. Ci sono stato un paio di volte e, effettivamente, merita. Il paesaggio è splendido.”

Accigliandosi leggermente, Fenrir borbottò contrariato: “Perché farci venire ad Asghard, quando poteva direttamente convocarci là?”

“Può averlo deciso sul momento, Fenrir. Non pensare vi sia necessariamente del marcio” cercò di tranquillizzarlo Tyr, dandogli una pacca sulla spalla.

“Temo gli asgardiani anche quando recano doni1” brontolò il dio-lupo, pur seguendolo.

Il paggio aprì per loro la sontuosa porta ad arco oltre la quale si nascondeva il passaggio di Bifröst e, dopo averli lasciati passare, la richiuse, dando la doppia mandata.

In un baluginio multicolore, i due dèi infine apparvero sull’isola Lyngvi, luogo in cui Odino era solito trastullarsi nei momenti di quiete e lì, poggiato contro una roccia adunca, videro Padre Tutto.

Fenrir si fece ancor più guardingo, ma avanzò verso il dio che, nello scorgerli, si allontanò dalla pietra – al cui fianco ne sorgeva una gemella – e dichiarò: “Ebbene, sei giunto, lupo. Pensavo di vederti nella tua forma primigenia, ma mi sbagliavo.”

“Amo camminare su due zampe, ogni tanto” replicò serafico Fenrir, sul chi vive.

“Mi sono giunte voci secondo cui avresti trasgredito le regole, e ti saresti accoppiato con una umana. E’ dunque vero?” gli domandò a bruciapelo il padre degli dèi, giocherellando con un corvino nastro di seta.

“Non mi sono accoppiato. La donna che amo non merita di essere scambiata per una comune femmina, cui voi ritenete debba servire a un solo e unico scopo” ribatté il dio-lupo, aggrottando la fronte.

Odino lo fissò vagamente sorpreso, ma proseguì nel suo dire.

“Ed è per cagion sua che, non solo hai attaccato mio figlio Balder, ma hai anche minacciato di morte noi tutti?”

“Ha cercato di separarmi da lei con l’inganno, ingiuriando poi a male parole i miei figli. Stavo difendendo semplicemente la mia famiglia” protestò Fenrir, accalorandosi.

Odino levò una mano a chetarlo, e replicò: “Famiglia che non avresti dovuto avere. Ma capisco. Il dovere di un padre è quello di difendere la prole.”

Tyr tirò un sospiro di sollievo che, però, si rivelò prematuro.

Padre Tutto, infatti, asserì lapidario: “Non posso però soprassedere alle minacce, poiché un dio della distruzione che ingiuria un’intera casta di dèi, è assai pericoloso. Sei dunque disposto a sottoporti a una prova di fiducia, per dimostrare che simili parole erano menzognere, e solo dettate dal bisogno di proteggere i tuoi cari?”

Fenrir lanciò un’occhiata torva all’amico, che però appariva del tutto sconcertato dalle parole del padre. Tyr, dunque, era all’oscuro di tutto.

Oppure, era diventato un attore di prim’ordine.

“E’ solo per dimostrare la tua buona fede. Una volta che avrai terminato la prova, sarai libero di andare dalla tua famiglia, e io non avrò più alcun motivo di dubitare di te” lo blandì Odino, sorridendo. “La tua donna e i tuoi figli, Fenrir… pensa a loro. Cosa vuoi che sia, cedere per un breve attimo, in cambio della loro salvezza?”

“Cosa vorresti che facessi, dunque?” dichiarò a quel punto Fenrir, cedendo suo malgrado.

“Muta in lupo, e lascia che io ti leghi. Sarai un bravo cagnolino nella mia mano, così come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio. Tu dimostrerai di essermi fedele, e io ti dimostrerò la mia lealtà, slegandoti e dandoti la possibilità di correre libero” gli propose Odino, mostrandogli il nastro di seta con cui lo avrebbe legato.

“Padre, per favore…” tentennò Tyr.

“Silenzio. E’ anche colpa tua, se siamo arrivati a questo punto. Se tu mi avessi detto di Fenrir e di questa donna che ha saputo domarlo, forse avremmo potuto evitare questa prova di fiducia e, anzi, sarei stato lieto di conoscerla di persona, per congratularmi con lei” brontolò Odino, azzittendolo.

“Ebbene, fallo, e che si chiuda per sempre questo affare” sbottò Fenrir, avvolgendosi un polso con il nastro di seta, prima di mutare in lupo.

Odino prese l’altra estremità e legò anche l’altra zampa anteriore poi, trascinando con sé il lupo, lo legò alle due pietre adunche da cui si era allontanato poco prima.

Tyr li seguì e, quando Fenrir fu legato strettamente, allungò una mano verso le sue fauci, dichiarando: “A te la scelta, padre. Se non lo lascerai, permetterò a Fenrir di tranciarmi una mano, a pegno del tuo tradimento. Cosa deciderai di fare?”

Odino lo guardò sconcertato, ma assentì e il dio della guerra, senza alcuna remora, infilò il braccio tra le zanne aperte dell’amico, che lo fissò sempre più ombroso.

Fu in quel momento che fecero la loro comparsa Loki e Balder, avanzando lungo la spiaggia con espressioni ugualmente soddisfatte.

Al fianco, Loki portava un’enorme spada.

Vedendoli, Fenrir iniziò a strattonare per liberarsi ma, a sorpresa, la sottile corda setosa non si spezzò.

Questo lo portò a provare ancora e ancora, mentre Tyr iniziava a comprendere la portata del tradimento del padre, oltre alla sua stoltezza, nata dall’amore verso Odino.

Quando Balder e Loki li raggiunsero, entrambi risero soddisfatti e Odino, irridendo con lo sguardo Fenrir, dichiarò: “Davvero pensavi che ti avremmo permesso di tornare dalla tua puttana e dai tuoi figli bastardi? Allora, sei più ingenuo di quanto pensassi. Già ora, gli uomini di Fryc li stanno raggiungendo per ucciderli tutti, così da eliminare una volta per tutta la tua stirpe dalla faccia di Midghard.”

A quell’accenno, Fenrir fissò Tyr, lanciò un ringhio poderoso e strappò con forza la sua mano, gridando poi con ferocia: “Sei un mostro, ben più di quanto lo sia mai stato io! Loro non hanno alcuna colpa! Punisci me e trattieni me per l’eternità, se vuoi, ma non uccidere loro, che hanno avuto la sola colpa di amare me!”

Trattenendosi al petto il braccio monco, Tyr fissò rabbioso il padre e sibilò: “Non meriti di essere chiamato Padre… nessun padre con una coscienza avrebbe permesso questo…”

Odino non lo ascoltò, né ebbe il coraggio di guardarlo e Loki, intervenendo per chiudere la partita, disse al figlio: “Avrei dovuto eliminarti alla nascita, così come mi fu consigliato, ma rimedierò ora, visto che hai ferito il figlio di Odino.  Soffrirai come sta soffrendo lui!”

Ciò detto, estrasse la spada e infilzò le fauci con un gran fendente, impedendogli di fatto di parlare.

Sangue nero scorse dalla ferita aperta, macchiando la spiaggia e il suo pelo niveo che, ben presto, iniziò a macchiarsi, prendendo tinte corvine.

Soddisfatto, Odino scoppiò in una risata tronfia, cui si unì anche Balder, mentre Tyr li fissava inorridito quanto disgustato.

Loki, invece, si piegò sul corpo prostrato del figlio e, all’orecchio, gli bisbigliò: “Avya morirà, i tuoi figli moriranno… vuoi davvero lasciare in vita un mondo ove loro non vivono più? Compi la scelta. Lasciati andare all’oscurità che hai dentro…”

“Hai agito così solo per questo?” gli domandò mentalmente Fenrir, stupito e angustiato.

“Per raggiungere i miei scopi, non conosco vie di mezzo e se, per farlo, devo uccidere coloro che ami, ben venga. E ora che l’ho fatto, tu non hai più niente per cui vivere…”

Fenrir crollò del tutto a terra, il corpo infiacchito dalla ferita e l’energia ormai pronta a esplodere in un fulgore di luce senza pari.

Questo, però, non sarebbe avvenuto. Se anche Loki era riuscito nel suo intento di ingannarlo, lui sapeva che Avya era viva.

Il suo stesso sangue glielo diceva, perciò doveva fare in modo che le cose non cambiassero.

Con lo sguardo cercò Tyr e, in un disperato appello alla loro antica amicizia, esalò: “Se ciò che dicesti prima è vero, proteggili. Salvali da tuo padre e dal mio!”

“Lo farò… e, se potrai mai farlo, perdonami. Credevo veramente che, portandoti qui, avremmo risolto ogni cosa.”

“Sei buono, Tyr. Una cosa che, nel mondo degli dèi, è una rarità. Così come la fiducia che riponi nel prossimo. Ti sei fidato di tuo padre, del legame che c’è tra voi, e lui ti ha tradito. Tu mi hai tradito senza saperlo e, per questo, io non posso avercela con te. Sei stato mosso dalle migliori intenzioni… ora, però, vattene, e salva Avya.”

“E tu? E… e il Ragnarök?”

“Se io morirò in piena coscienza, non si desterà. E io avrò vinto su mio padre.”

Ciò detto, si ritirò dalla sua mente e in un ultimo, disperato atto di coraggio, usò la sua stessa forza contro di esso.
Torcendo il muso, conficcò la spada del padre nel suo cuore, così da procurarsi una morte rapida e quasi priva di dolore.

In quel modo, il Ragnarök sarebbe stato scongiurato e la vita di Avya e dei suoi figli, preservata.

“Mia… amata…”
 
***

Brianna artigliò l’aria, sgranando di colpo gli occhi e urlando con quanto fiato avesse in gola.

Subito, Duncan la afferrò alle spalle, tentando di calmarla, ma quel contatto lo fece affondare nei ricordi condivisi dell’amata e di Fenrir, facendolo tremare da capo a piedi.

Brianna, svegliati!

L’urlo interiore di Fenrir contribuì a strappare Brianna da quel ricordo drammatico e, pur se in lacrime e spaventata a morte, riuscì a esalare: “Okay… okay… ci sono…”

Duncan la strinse forte a sé, baciandole una tempia e il collo per tentare di chetarne i brividi e la giovane, con un sospiro tremulo, esalò: “Questa è la madre di tutti gli incubi… Dio santo…”

Scusami. Ho perso completamente il controllo sul mio subconscio…

“O sono io ad averti sopraffatto. Sai che, in questo periodo, non sono molto in me…” replicò Brianna, sorridendo nell’oscurità a Duncan, prima di passarsi una mano sul ventre arrotondato.

Dici che è stato il bambino?

“Non tanto il bambino in sé, anche se dimostrerebbe soltanto di avere la stessa curiosità della madre, ma l’energia in più che mi da” sottolineò la giovane, tornando a distendersi, ma contro l’ampio torace del marito.

“Tutto bene, lì dentro? Si è spaventata anche Avya” mormorò Duncan, carezzandole gentilmente il ventre.

“Lo immagino… ha visto?” borbottò Brianna, suo malgrado contrariata all’idea che l’anima di Duncan avesse visto la fine del compagno.

Annuendo, Duncan asserì: “Fino all’ultimo fotogramma, temo…”

Non essere angustiata per me, Brianna. Sapevo che la sua fine era stata tremenda e, pur se ne avevo solo sentito parlare per interposta persona da Tyr, non mi ero immaginata niente di meno drammatico, intervenne Avya per chetare i timori della giovane wicca.

“A ogni modo, scusate se vi ho svegliato” brontolò Brianna, chiudendo un momento gli occhi.

Chissà perché la sua mente era finita proprio lì?

Perché hai la tendenza a diventare paranoica, quando si tratta di tuo figlio. Quando sarà nato, cosa farai? Ridurrai in cenere il primo che alzerà un dito verso di lui?, ironizzò Fenrir, pur se non più di tanto.

“Molto spiritoso… devo ricordarti che è anche grazie a te, che ho il terrore di scoprire chi dimorerà dentro di lui?”

Madre ti ha già detto che non potrà rinascere Loki e, in tutta onestà, non penso proprio che Balder deciderà mai di mettere piede qui. Non ha mai amato gli umani, perciò…

“Giusto, giusto… ma hai una marea di nemici, vecchio mio, e il mio cuore fatica a stare tranquillo.”

Duncan intervenne dandole un bacio e, sorridendo nello stringerla maggiormente a sé, le disse: “Avya sa già chi è dentro di te, se vuoi saperlo… e non è nessuno di particolare. Un’anima tranquilla e per nulla divina.”

“E perché lei può già saperlo?!” esalò Brianna, sgranando gli occhi.

Perché io non ho chiesto favori a Madre, durante le mie rinascite, ma ne chiesi uno quando seppi del tuo bambino. E, visto che siamo in buoni rapporti…

Con occhi colmi di lacrime, Brianna baciò Duncan sulla bocca, mormorando commossa: “Da parte mia, Avya… grazie.”

Che succede?, intervenne a quel punto Fenrir, curioso.

“Avya mi ha fatto un regalo… ha pregato Madre di scegliere un’anima semplice, per il mio bambino. E Lei lo ha fatto.”

Fenrir rise sommessamente, a quell’accenno, e sussurrò: E’ sempre stata sensibile… anche se assai testarda.

“Mi ricorda qualcuno…” ironizzò Brianna.

Posso concordare sulla seconda, ma assai meno sulla prima.

“Solo un essere dotato di sensibilità e amore avrebbe potuto sacrificarsi come hai fatto tu per loro – e per noi – perciò, scusami se dissento.”

Sei incinta… puoi fare, e dire, ciò che vuoi.

“Troppo gentile” rise mentalmente Brianna, sospirando nel chiudere gli occhi.

“Riposiamo un po’? Mancano ancora diverse ore, all’alba” le propose Duncan.

“Ti sveglierai con una paresi, se mi terrai così tutta la notte” sottolineò Brianna, pur apprezzando la posizione.

“Non importa” scrollò le ampie spalle Duncan, baciandole il capo. “Terrò te e Nathan al sicuro dagli incubi, ora.”

Sorpresa, Brianna si volse a mezzo per scrutarlo e domandò: “Nathan?”

“Nathan McKalister. Ti va bene?”

“Benissimo” assentì Brianna. “Niente secondi e terzi nomi. Solo Nathan.”

“Andata” mormorò Duncan, intrecciando una mano in quella di Brianna prima di poggiarla sul ventre. “Buonanotte, Nathan… e non curiosare nella testa di mamma. Non è ancora il momento.”

“Veeerissimo” mugugnò la giovane, chiudendo gli occhi prima di lanciarsi in un prolungato sbadiglio.

La prossima volta avrebbe evitato di mangiare piccante per cena, se i risultati erano questi.







Note: Su consiglio di tina91, ho tramutato la storia di Fenrir e Avya in un sogno/visione da parte di Brianna che, alla fine, si risveglia nel momento della morte di Fenrir. Ci saranno altri momenti e altre storie, ove analizzeremo ciò che fece in seguito Tyr, come vissero Avya e i suoi figli e quando Fryc riuscì a ottenere la vendetta su sua sorella. Ma non è questo il giorno (Aragorn dixit)

1 Temo gli asgardiani anche quando recano doni:  L'originale è 'timeo danaos et donas ferentes' e significa 'temo i greci anche quando portano doni'. Mi era parso carino usare la citazione e trasformarla ad arte per l'occasione. ;-)

 

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Capitolo 20
*** Toc Toc. C'è nessuno? - (Brie/Duncan) - Luglio 2016 ***


Toc, toc? C’è nessuno? 

Un momento di gioia ci prende sempre di sorpresa. Non siamo noi ad afferrarlo, ma è lui ad afferrare noi.
(Ashley Montagu)
 
 
 
Cosa c’era di meglio, se non starsene spaparanzati al sole, un libro in mano e il profumo dei fiori a solleticare il naso?

Aveva terminato il suo praticantato a Londra, l’ospedale di Matlock aveva accettato di darle un posto in immunologia e sarebbe diventata borsista lì assieme a Mandy.

Duncan aveva deciso di passare tutto il mese di giugno assieme a loro, a Londra, aiutandole con i preparativi per il trasloco definitivo.

Lance e Jerome, nel frattempo, si erano occupati di trovare alla comune amica un appartamento in città, così che non vi fossero problemi a cose ultimate.

Niente era andato storto, i lupi avevano dato una mano con il trasloco di scatoloni e mobili e, per l’inizio di luglio, lei era potuta partire con Duncan per una breve vacanza.

Starsene lì a godersi il sole toscano, mentre Duncan era impegnato in un giro a cavallo per le colline, non aveva prezzo.

Brianna aveva preferito declinare l’invito, quella mattina.

Si era svegliata con lo stomaco sottosopra, così aveva deciso di starsene a lato della piscina dell’agriturismo dove soggiornavano, ma aveva pregato Duncan di uscire lo stesso.

Nel giro di qualche ora, quella costipazione sarebbe passata e, il giorno seguente, sarebbe uscita anche lei per un giro lungo i sentieri della Maremma.

Ammesso e non concesso che i cavalli l’accettassero. Essere un lupo, a volte, dava qualche problema di incomprensione tra razze.

Scostando un momento gli occhi dal libro che stava leggendo – l’ultima fatica di Dan Brown, Inferno – Brianna lanciò un’occhiata alle mura di sassi dell’agriturismo.

Quel luogo immerso nelle verdi colline del grossetano era parso loro un sogno, quando lo avevamo trovato su internet.

Senza attendere, avevano prenotato uno degli appartamenti e, quando era giunto il momento di partire, Brianna e Duncan si erano guardati divertiti.

Era forse la prima volta in assoluto che facevano un viaggio vero e proprio, e da soli.

Tra gli impegni all’università, prima, e durante il tirocinio, dopo, il tempo non era mai sembrato essere dalla loro parte.

Inoltre, gli impegni di Duncan come Fenrir non erano certo diminuiti, col tempo, pur se non si erano più presentate emergenze come in passato.

Jerome dava una mano come poteva – e, negli ultimi anni, era assai maturato – ma alcune cose toccavano solo e unicamente a Duncan.

Giungere in Toscana senza branco al seguito – dopo previa segnalazione al clan locale – era stata un’autentica novità, per la coppia.

E Brianna aveva intenzione di godersela tutta.

Sorridendo al mondo, a se stessa e a quella bellissima giornata, tornò perciò a leggere quando, di colpo, qualcosa le fece rizzare metaforicamente le orecchie.

Un attimo dopo, dovette mollare il libro sulla sdraio e catapultarsi di corsa verso la porta del loro appartamento.

Dopo averla quasi abbattuta per la fretta, si lanciò in bagno e lì, piegatasi in avanti sul water, diede di stomaco.

O, per lo meno, ci provò.

Tutto quello che riuscì a fare, fu farsi venire un gran male alla gola, a causa delle contrazioni addominali, ma poco altro.

Quando il dolore si fu placato, e il panico prese il posto del male, Brianna mormorò dentro di sé: “Fenrir? Ci sei?”

Dove vuoi che sia?

“Non è che per caso, tu, sai dirmi che succede?”

Ti sembro un medico?

“Voglio solo sapere se qualcosa, nella mia biologia assurda, è per caso andato in tilt” borbottò contrariata Brianna, intrecciando le gambe sul pavimento bianco del bagno.

Era seduta lì come una pazza, con i capelli in disordine e la pelle sicuramente pallida, e non sapeva che fare.

Prima di chiamare mentalmente Duncan, però, voleva essere sicura di non essersi spaventata per una cattiva digestione.

Non hai una biologia assurda, Brianna, anche se sei sia wicca che lupa. Sei un caso raro, ma non unico come pensi. Se chiedi alla quercia di Bryan, per esempio, ti dirà che nel 1458 d.C. successe anche nel loro clan.

“E tu sai questo, come?”

Quando sei nel ventre della Madre, hai un sacco di tempo per startene per i fatti tuoi, e alcuni luoghi di Helheimr sono più belli di altri, a dirla tutta. Non è solo un luogo triste e isolato.

“Sì, lo so, mi hai detto che è come avere davanti i Campi Elisi e l’Inferno. C’è una distinzione tra i morti buoni e quelli cattivi. Ma questo cosa c’entra con me?”

Con te, nulla. Con me, molto. Da diverse polle divinatorie, si possono visionare le vite dei viventi sui vari mondi. Così, ho scoperto anche molte cose sui miei figli… e i loro discendenti.

“Oh,… okay. Ci sta. Quindi, non sono unica, ma rara. E anche all’altra tipa del 1458 venivano attacchi di nausea come a me?” brontolò Brie, grattandosi dietro la nuca con fare nervoso.

Indulgente, Fenrir replicò: Non gliel’ho mai chiesto, onestamente ma, se vuoi, sbircerò a fondo dentro di te… con il tuo permesso.

“Sai che puoi farlo… coraggio, dai una sbirciata.”

Fenrir rise nell’allontanarsi da lei per quel consulto interno davvero più unico che raro e, non potendo far altro se non aspettare, Brianna si rialzò in piedi e si sedette meglio.

I minuti passarono silenti, senza che la sua anima divina le dicesse alcunché, e questo non portò certo la Prima Lupa a tranquillizzarsi.

Perché ci metteva tanto? Cosa aveva scoperto che non voleva dirle?

“Maledizione!” sbottò Brianna, agitando nervosamente le mani per farsi aria al volto.

Non voluto e non cercato, però, il suo potere degenerò in una piccola folata di vento, che mandò a terra il dispenser del sapone e il bicchiere con gli spazzolini da denti.

Bloccandosi immediatamente, la giovane fece tanto d’occhi di fronte a quel piccolo disastro e, dubbiosa, se ne chiese i motivi.

Era in una stanza, da sola, fuori c’era il sole ed erano nel periodo del novilunio.

Ergo, per fare un caos simile avrebbe dovuto concentrarsi parecchio, non semplicemente dare di matto perché Fenrir non le parlava.

“Che diavolo mi sta succedendo?” ansò Brianna, afferrandosi i capelli con fare sempre più nervoso.

Brianna…

La giovane si esibì in uno strillo ben poco edificante e, per diretta conseguenza, lo specchio in bagno esplose, mandandola ancor più nel panico.

Brianna, ascoltami!, le urlò Fenrir, cercando di elevarsi al di sopra del suo stato di shock.

“Eh? Oh? Cosa!? Dimmi?!” gracchiò, riuscendo finalmente a sentirlo.

Siediti e respira. Non c’è bisogno che abbatti l’agriturismo per una tua crisi di nervi, va bene?,  le mormorò comprensivo, cercando di chetarla.

“Cos’hai visto, di così brutto, che mi parli come parliamo noi ai pazienti quando dobbiamo dire loro che hanno pochi giorni di vita?” esalò Brianna, tornando ad agitarsi.

Questo fatto mi spiazza sempre… Brianna, continua a respirare e chiudi gli occhi. Concentrati solo sulla mia voce e ficcati in testa che non hai niente di grave.

“Ma qualcosa c’è” protestò, pur facendo come Fenrir le aveva detto.

Penso sia qualcosa di bello, visto per quanto tempo tu e Duncan ne avete parlato. Ho dovuto isolarmi più del solito, ultimamente, visti i filmini a luci rosse che mettevate in scena tutte le notti.

Il tono ironico e vagamente ghignante di Fenrir portò Brianna a riaprire gli occhi e, vagamente piccata, replicò: “Cosa dovrei dire di te che, quando prendo il raffreddore, ti lasci andare a tutta una serie di ricordi su te e Avya?”

Non è colpa mia… è la febbre che inibisce i miei centri del controllo.

“Lasciamo perdere… dimmi qual è il guaio, così posso risolverlo prima dell’arrivo di Duncan. Ho un’infiammazione di tipo… intimo?”

Fenrir scoppiò in una risata così allegra e vivace che, per un istante, Brianna desiderò ucciderlo. Come poteva prendersi gioco di lei a quel modo?

L’attimo dopo, però, rifletté su un altro particolare. Non poteva uccidere Fenrir dato che, di fatto, lui era uno spirito dentro di lei.

Uccidere lui – se mai fosse stato possibile uccidere uno spirito – avrebbe voluto dire uccidere lei. Cioè, niente affatto un bell’affare.

Cercando quindi di calmarsi, nonostante il perdurare della risata di Fenrir, Brianna borbottò: “Puoi rimanere serio per almeno un minuto?”

Avya non mi ha mai accusato di essere troppo faceto…

“Lo immagino, visti i tuoi trascorsi di burbero dio-lupo, ma ora un minimo di serietà mi farebbe comodo. Cos’hai visto, posso saperlo?”

Mettiti… no, sei già seduta, quindi non devo dirtelo. Andiamo diritti al punto, allora.

Sbracciandosi con aria esasperata, Brie esalò: “Alla buon’ora!”

Non essere scortese, Brianna… anche se immagino non dipenda interamente da te.

“Che intendi dire?” sbottò la giovane, stringendo le mani a pugno.

Se solo avesse potuto strangolarlo…

Sei incinta.

Brie strabuzzò gli occhi, nell’udire quelle due semplici parole e, aggrappandosi ai bordi del water per non cadere, gracchiò: “Cos’hai… detto?”

Sei sorda? E’ una prerogativa delle donne gravide? Non ne so molto, visto che Avya non era solita lamentarsi di nulla, durante la gravidanza, ma può essere che…

“Stai. Zitto!” gli urlò Brianna, tentando così di arginare quel fiume ininterrotto di parole.

Stava tremando. Di brutto, anche.

Stringendosi le braccia al petto, guardò verso il basso senza vedere nulla di strano, e sentendosi comunque più strana che mai.

Brianna…

“Cosa faccio?” tentennò, sentendo le lacrime ormai prossime.

Madre le aveva promesso che né Loki, né nessun dio loro ostile avrebbe potuto rinascere in uno dei licantropi, così come dei berserkir.

Ma poteva davvero fidarsi? Il Caos ci aveva messo le sue lunghe zampacce, forse?

Avrebbe finito con il crescere una serpe in seno?

Brianna, respira… stai andando in tachicardia.

Quel gergo medico la sorprese così tanto che Brie scoppiò in una grassa, sgangherata risata.

Le lacrime presero a correrle lungo le gote e, sorda ai richiami preoccupati di Fenrir, uscì dal bagno e si gettò sul letto per piangere.

Fu lì che la trovò Duncan, tornato in tutta fretta dal suo giro a cavallo dopo che, per quasi un’ora, era stato subissato dai più nefasti presagi di morte.

Vedere stesa sul letto la sua amata, in lacrime ma apparentemente senza nulla che andasse, lo mandò nel pallone.

Quando, poi, tentò di parlarle, ne ottenne solo dei mugugni, e nient’altro.

“Fenrir? Ci sei?”

Se non si calma, farà esplodere qualcosa. La sua aura è al limite della rottura.

Annuendo, Duncan si sedette sul letto e attirò a sé Brianna, cullandola dolcemente contro il suo petto.

Baciandole ogni tanto i capelli, la tenne così per qualche minuto, finché il pianto non scomparve del tutto.

A quel punto, vedendola apparentemente più calma, mormorò: “Posso sapere cos’è successo?”

“Perché sei già tornato?” gli chiese per contro lei, confusa.

“Mi hai riempito la testa di scene così terrificanti, che mi sono chiesto cosa stesse succedendo” le fece notare con un sorriso. “Neanche sapevo fossi in grado di raggiungermi a così grande distanza.”

“Beh… a quanto pare, ora posso” sospirò Brianna, reclinando il capo per affondarlo nel suo torace.

“In che senso?” si informò Duncan, dubbioso.

“Sono incinta” mormorò, e una singola lacrima scivolò lungo la gota.

Duncan fece per sorriderle gaio, lieto per quella notizia inaspettata ma, nel vederla così nervosa e tesa, comprese.

Senza bisogno di domandarglielo, capì subito cosa l’avesse tanto turbata.

Perciò, la strinse a sé e disse: “Madre ci ha detto che non avremo problemi. Nessun nemico nascerà in seno ai clan. Non temere.”

“E se… e se non succedesse? Se partorissi il male incarnato?” esalò Brianna, facendosi prendere nuovamente dal panico.

Duncan la azzittì con un bacio, le sorrise e replicò: “Non succederà niente di tutto questo. Mi fido di Madre, perciò fallo anche tu. Nostro figlio sarà perfetto, anima e corpo.”

Allargando ancor più il sorriso, le prese il viso tra le mani e aggiunse: “Brie, pensa solo a questo. Avremo un figlio. Non ne sei felice?”

Brie, allora, accennò un sorriso sghembo e borbottò: “Ho dato di matto per nulla, quindi?”

“Eri sorpresa e spaventata. Ci sta, visto chi siamo e cosa sappiamo” si limitò a dire Duncan, facendo spallucce. “Ora va meglio, però?”

“Un poco” assentì lei. “Fenrir?”

Dimmi.

“Scusa se ti ho urlato addosso, prima. Non dovevo farlo. Tu stavi solo cercando di aiutarmi.”

Brianna… quando ho saputo che Avya stava aspettando un figlio – che poi abbiamo scoperto essere due gemelli – ho quasi distrutto il suo villaggio e, se fossi stato più lungimirante, avrei staccato la testa a morsi a suo fratello. Non fui molto più controllato di te adesso, ti pare?

“Vero… ma volevo comunque scusarmi con te.”

Non ci sono problemi. Ora, però, vedi di scegliere letture più tranquille. Pensare a complotti internazionali, a virus patogeni e quant’altro, non va bene.

“Lavoro in un ospedale, Fenrir.”

E’ quando ti lasci andare alla fantasia, che mi spaventi, Brianna. Sul lavoro, hai i piedi per terra.

Sbuffando, Brianna borbottò: “Fenrir mi ha vietato libri thriller e simili.”

“Se non te l’avesse detto lui, l’avrei fatto io. Quando ti perdi in qualche lettura, mi…”

“… spaventi… l’ho già sentita, grazie” terminò per lui Brianna, fissandolo vagamente torva.

Poi, volendo approfondire un attimo la cosa, domandò: “Perché ti spavento, scusa?”

“Fai incubi terrificanti, dopo e, anche se poi tu non li ricordi, al mattino, li ricordo io. Perciò, ora che diventerai più potente a ogni giorno che passa, solo romanzi rosa o comici, così come per i film.”

Brianna sbuffò nuovamente e se ne uscì con un ben poco elegante ‘che palle!’, seguito dalla risata di Duncan e quella mentale di Fenrir.

Avya, a quel punto, intervenne e disse: Ti aiuterò io, Brianna. Non temere. Insieme, almeno una giusta la combineremo.

“Grazie, Avya.”

Non c’è di che, cara. Ora, però, fai una bella cosa. Torna a prendere un po’ di sole e rilassati. E niente letture!

“Come!? Anche tu?!” esalò Brie, sconcertata.

Ci sono anch’io, nella testa di Duncan, e quegli incubi mi terrorizzano davvero, le fece notare la wicca, con tono vagamente ironico.

Esasperata, Brianna si rimise in piedi e, allungata una mano in direzione di Duncan, decretò sardonica: “Siete tutti spietati, con me.”

“Ti amiamo. E’ ben diverso” le ricordò lui, baciandola nell’accompagnarla fuori.

“Avete un modo davvero strano, per dimostrarmelo” gli fece notare la moglie, ghignando.

Duncan preferì non ribattere e, quando infine raggiunsero la piscina, Brianna si risistemò sulla sdraio, mise via il libro – ahi, lei! – e si dedicò a prendere il sole.

Avrebbe guardato il finale su Wikipedia, se la curiosità avesse preso il sopravvento.

Dopotutto, le avevano vietato i libri e i film… non il computer.

Brianna…

“Impiccione.”

Sono nella tua testa, non sono un impiccione.

“Uffa…ma voglio sapere come finisce!”

Fallo leggere a Mary B e poi fattelo raccontare… edulcorato.

“Cosa vuoi mai che succeda? Dan Brown non lascia mica cadaveri squartati avanti e indietro!”

Stiamo nei primi danni, per favore.

“E va bene!” sbottò Brianna, lanciando poi un ghigno furbo a Duncan, che aveva seguito l’intera discussione. “Fai il bagno, coraggio. Almeno, mi distrarrò guardando te.”

“Mi usi da placebo?”

“Ti userò in tutti i modi possibili e immaginabili, signor McKalister, puoi giurarci” replicò Brianna, famelica.

Duncan non si lasciò pregare. Tornò in camera per mettersi il costume da bagno e, quando tornò, si tuffò in piscina sotto lo sguardo eccitato della moglie.

Ora, sarà meglio se sparisco. Sai essere molto volgare, quando vuoi, specialmente quando c’è di mezzo Duncan.

“Sono una donna incinta, ho gli ormoni a palla e desidero darmi alla pazza gioia con mio marito, visto che presto diventeremo genitori. Conosci combinazione più letale?” ironizzò Brie, concentrandosi sui movimenti sinuosi delle spalle di Duncan.

Ah… no. Perciò, ciao. Mi rintano nel mio angolino. Ci vediamo più tardi.

“A dopo” rise Brianna, lasciando che i suoi occhi – e la sua mente – studiassero solo e unicamente Duncan.

Dopotutto, poteva anche fare a meno del libro, se le veniva offerto questo in cambio.







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Note: Saranno altri i missing moment sulla gravidanza di Brie, e non vedremo solo lei nel panico, ma anche Duncan. Per ora, però, godiamoci il momento, in attesa che mi venga in mente altro su loro due.
Alla prossima, e grazie come sempre per la passione con cui continuate a seguire le storie dei miei personaggi.

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Capitolo 21
*** Una ne pensa... (William - Hati di Bradford) Giugno 2011 ***


I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie.
(Michel De Montaigne)


Una ne pensa... (William, Hati di Bradford) Giugno 2011
 
 

 
Due cose aveva sempre saputo, fin da quando aveva scoperto di essere l’Hati del branco di Bradford.

Primo, il suo scopo ultimo sarebbe sempre stato quello di proteggere Alec da qualsiasi nemico.

Secondo, niente e nessuno si sarebbe mai più permesso di fare del male al suo migliore amico.

Ricordava ancora molto bene quando, all’età di sedici anni, il suo mentore e maestro, il precedente Hati del branco, gli aveva posto le mani sulle spalle, mormorando: “Ora tocca a te. Fai meglio di quanto non abbia potuto – e saputo – fare io.”

Aveva capito subito - e benissimo - a cosa si fosse riferito.

In quanto terzo in comando, Oliver Fitzhugh non aveva mai potuto mettere in discussione le decisioni di Roland Dawson, suo Fenrir.

Né sulla direzione violenta e spietata del branco, né tanto meno sul comportamento tenuto negli anni nei confronti di Irina e dei figli. Legittimi o meno che fossero.

Era stato un inferno in terra, per i due sottoposti, esattamente come lo era stato per la maggioranza dei lupi di quel branco.

Alcuni, se n’erano andati per non subire ulteriormente le follie di Roland ma lui, in spregio alla vita stessa, li aveva fatti braccare da Freki, utilizzando la Voce del Comando.

Nessuno aveva più osato sfuggire al suo giogo e, quando finalmente Alec gli aveva dato il ben servito, ad alcuno era venuto in mente di piangere Roland e i suoi metodi.

Solo quattordicenne, Alec aveva giurato fedeltà al branco all’ombra della loro quercia, nel Vigrond e, pur con la sua giovane età, aveva chiarito a tutti la sua forza.

Nessuno avrebbe fatto del male a un membro più debole del branco, a meno di non voler subire punizioni severissime.

La legge sarebbe stata seguita alla lettera, e nessuno avrebbe dovuto infrangerla.

Con il senno di poi, forse, quelle decisioni così ferree e oltranziste erano state eccessive e, in più di un’occasione, avevano causato più danno che utile.

Ma come dar torto a un ragazzo vissuto per anni negli abusi?

Come pretendere che non cercasse la giustizia a tutti i costi, quando aveva visto la sua sorellastra morire per mano del padre?

Come accettare che qualcun altro, sotto il suo dominio, soffrisse per dei soprusi come aveva sofferto lui?

No, William aveva capito perfettamente le motivazioni che avevano spinto Alec a comportarsi a quel modo.

Ovviamente, nulla è esente da difetti e, con il passare del tempo, quello stato di polizia continuato e intransigente, aveva portato altri problemi.

Sia Alec, che lui stesso, o Spike, avevano finito con il godere in larga parte di una buona dose di reverenziale timore, da parte dei membri del branco.

E, fosse o meno piacevole da accettare, ci avevano anche fatto dentro, a un certo punto.

Era stato difficile essere adolescenti e avere il potere nelle proprie mani; avevano finito, almeno in parte, per farsi corrompere da esso.

Non si erano mai comportati da bulli, ma mettere giù musi duri e sguardi gelidi, era diventato uno sport, per loro.
Nel branco, si era passati dalla paura nei confronti di Roland, al timore reverenziale nei confronti di Alec.

Quello che era partito con tutte le migliori intenzioni del mondo, era diventato un programma fin troppo duro e rigido da seguire.

Anche per Alec stesso che, nel tentativo strenuo di difendere la sorella, aveva finito con l’allontanarla da sé.

Pretendere di darla in moglie a Duncan McKalister, così da diventare la compagna di un lupo forte e di potere, era stata un’idiozia con cui Alec aveva dovuto fare i conti per anni.

E quello, purtroppo, non era stato l’unico difetto sorto nel personale piano di Alec di rendere più pulito il suo clan.
Aveva espulso dei lupi per motivi, a volte, fin troppo assurdi, e solo perché, a detta sua, non rientravano nel suo personale concetto di ‘giustizia’.

Ma lui e Spike l’avevano lasciato fare, spalleggiandolo e, spesse volte, mostrando i denti per sottolineare le parole del loro Fenrir.

Anche quando aveva sbagliato.

Perché, per un amico, fai questo e altro.

Sospirando, William si passò una mano sporca di grasso sulla fronte, lasciando una distinta riga nera sopra le sopracciglia chiarissime.

Di discendenza norvegese – sua madre proveniva da Tromsø – William era il tipico scandinavo; alto, capelli chiarissimi e occhi glaciali.

Il taglio corto e militare dei capelli ne accentuava la serietà, così come la sua quasi totale mancanza di sorrisi a ingentilire un viso, di per sé, molto attraente.

“Ciao! Che fai?”

Quella voce trillante e curiosa lo sorprese, portando William a volgere lo sguardo dietro di sé.

Si era così perso nei propri pensieri da non avvertire l’arrivo di Penny. Davvero notevole, e manchevole, per un lupo come lui.

Storcendo la bella bocca, William borbottò: “Tuo padre mi scartavetrerà la schiena, ragazzina, se ti becca a gironzolarmi intorno mentre ho le mani ficcate dentro un motore. Potresti farti male, oltre a sporcarti di grasso e olio.”

Del tutto indifferente alle sue parole crude, così come al suo tono burrascoso, Penny aprì la portiera della jeep su cui stava lavorando William e replicò: “Papà è uscito con mamma, e saranno di ritorno solo questa sera, mentre la nonna è fuori con le sue amiche. Così, ho chiesto che mi portassero qui.”

Accigliandosi leggermente, William borbottò: “E Alec te l’ha permesso? Di solito, non vuole neanche che tu cammini da sola sul marciapiede.”

Penny rise di quel commento, sapendo bene quanto il patrigno fosse iperprotettivo, con lei.

Naturalmente, non arrivava a tanto, ma William si divertiva a prenderlo candidamente in giro per quel cambiamento di rotta in stile ‘mamma chioccia’.

Neppure Erin arrivava agli estremismi di Alec, quanto a difesa della sua pargoletta.

Come era ovvio immaginarsi, Alec rispondeva sempre con un grugnito o, alla peggio, con un pugno, ma a William non dava fastidio.

Gli piaceva vedere il suo Fenrir felice, e sapeva bene che era tutto merito delle due donne giunte dall’Irlanda.

“Quindi, Alec ed Erin sono fuori per un’uscita romantica, e Irina ti ha bellamente abbandonata per stare con le amiche…” mormorò William, ghignando. “… e a chi vorresti darla a bere, ranocchietta?”

Penny lo fissò con i suoi angelici occhi azzurri, ma Will non si fece fregare neppure per un istante.

Si passò le mani sullo straccio che teneva nella tasca posteriore dei jeans e, dopo aver chiuso il cofano della jeep, le si piantò innanzi e borbottò: “Cos’hai in mente, piccolo demonio? Non mi fido affatto di quello sguardo.”

“Perché dovrei tramare qualcosa?” replicò la bimba, facendo dondolare le gambe fuori dalla portiera aperta.

“Perché Alec non ti avrebbe mai lasciato qui, e così pure Irina, se tu non lo avessi espressamente chiesto. Perciò, voglio sapere cosa ti sta ribollendo in quella bella testolina. Vuoi fare un giro in moto, forse?”

Pur apprezzando la possibilità di bissare l’esperienza, Penny lasciò perdere per restare fedele al suo piano e, con tono causale, disse: “Per la verità, volevo fare una sorpresa a papà Aleksej e regalargli qualcosa, ma non so bene dove andare.”

“E così, hai pensato di rivolgerti a me? Perché non a Spike?” le domandò per contro William, non ancora del tutto convinto del suo dire.

Penny si limitò a sorridere speranzosa, prima di ammettere: “Spike è più scontroso di te e papà messi assieme,… quando avete la luna storta. So che mi proteggerebbe come lui, o te, ma mi fa un po’ paura, … scusa.”

Scoppiando a ridere, William ammise che la faccia arcigna di Spike non dava l’idea di un lupo propenso al riso, e anche il suo carattere non era migliore della sua espressione.

Se Alec era cresciuto con un carattere spigoloso per necessità, Spike ci era nato, con quel modo di fare da ‘schiaffi in faccia’.

Era uno Sköll ligio ai propri doveri, e aveva ‘spaccato culi’ non meno di lui o Alec, quando la necessità lo aveva imposto, ma Spike raramente sorrideva.

Non era quello che si soleva dire ‘un animale da festa’.

“D’accordo, ranocchietta. A cosa avevi pensato?” si lasciò convincere William, rinunciando del tutto all’idea di finire i lavori sulla jeep.

Dopotutto, era sabato pomeriggio, e l’officina era chiusa.

Alec non si sarebbe di certo incavolato, se avesse lasciato per lunedì mattina quel lavoro di pulitura del carburatore.

Non era un affare urgente, e qui si parlava di Penny, dopotutto.

Quando era giunta nel branco, e Alec aveva presentato al Vigrond sia lei che la notizia che, ben presto, sarebbe giunta una nuova lupa nel clan, tutti erano rimasti sorpresi.

Alcuni anziani alfa si erano addirittura arrischiati a fare gli scongiuri, e Alec non aveva potuto far altro che borbottare delle stentate scuse, prima di incavolarsi come suo solito.

A quel punto, Penny si era fatta portavoce del futuro papà e aveva ringraziato tutti per il loro bel benvenuto, conquistando il branco con il suo solo sorriso.

L’arrivo di Erin non era stato differente. Nessuna lupa aveva preteso l’Ordalia e, anzi, alcune l’avevano abbracciata, ringraziandola per il ‘miracolo avvenuto’.

Erin, a quel punto, aveva fissato con palese ironia il compagno, dichiarandosi soddisfatta di essere riuscita a domare una simile belva.

Da quel momento, Alec aveva guidato con pugno un po’ meno duro, e c’era chi giurava di averlo visto ridere per ben due volte in uno stesso giorno.

Un’autentica novità per tutti.

Naturalmente, vigeva ancora la regola ferrea che le leggi andavano rispettate con esemplare attenzione, ma ora si poteva respirare più agevolmente.

Anche lui, come Hati, poteva dirsi soddisfatto all’idea di non dover sempre e solo apparire come un burbero mannaro dall’arrabbiatura facile.

Non che non gli venisse bene, perché doveva ammettere che la mosca al naso gli veniva con poco, ma era bello poter essere anche qualcos’altro.

Tirandosi perciò dietro Penny, William chiuse il portone dell’officina di proprietà di Alec e si diresse verso il suo pick-up nero a cerchioni cromati.

Il suo GMC Sierra brillava come uno specchio e, quando sbloccò le portiere, Penny vi salì sopra con un sospiro estasiato.

Ghignando a quella vista, William si disse che, entro qualche anno, Erin avrebbe avuto i suoi seri problemi a tenerla fuori dai guai.

O dalle auto grosse e veloci.

Allacciatasi che ebbe la cintura, Penny mormorò eccitata: “Dopo mi porti in giro per i campi?”

Scoppiando a ridere, William assentì e le disse: “Ti farò fare una scampagnata con i controfiocchi, ranocchietta.”

Al suo ‘e vai!’ eccitato, Will mise in moto e si diresse verso il centro di Bradford, ben deciso a condurla nel negozio preferito di Alec.

Se c’era una cosa che entusiasmava quel mannaro dal carattere burbero e irascibile, e che nessuno si aspettava da lui, erano i dischi di Johnny Cash.

Era un estimatore sopraffino di quel cantautore americano, ed esistevano ben poche cose che lui non conoscesse riguardo all’artista.

William era quasi sicuro che, frugando nel magazzino del negozio di dischi dove si riforniva Alec, qualcosa avrebbero trovato.

E se la paghetta di Penny non fosse bastata, avrebbe aggiunto lui il resto.
 
***

Lo Stereophonic era affollato come al solito.

In sottofondo, le evoluzioni sonore dei Pink Floyd nel brano ‘Is there anyboby outhere?’ si confondevano con il cicaleggio sommesso della gente.

Persone di tutti i generi e tutte le età si affollavano attorno agli scaffali pieni di vinili, cd e oggettistica di pregio.

Nell’angolo dedicato agli strumenti, alcuni ragazzi dall’aspetto sdrucito stavano testando delle Fender con tocco da veri esperti.

E là, al bancone, impegnata nel registrare una vendita in cassa, William vide Lorainne.

Era una lupa da almeno sei anni – mutata in licantropo per amore, e poi tradita da colui per cui si era sacrificata – e gestiva quel negozio da quattro.

Alec aveva pensato personalmente a punire il lupo fedifrago, reo non solo di aver tradito la sua donna, ma di averla spinta alla mutazione per poi ingannarla.

Aveva inviato in caccia il loro vecchio Freki – ucciso poi da Brianna Smithson durante un contenzioso interno – finché non lo aveva scovato dopo la sua fuga precipitosa.

Lorainne aveva lasciato che, a decidere della sua sorte, pensasse Alec, e lui si era premurato di lasciare un segno indelebile sul corpo del traditore.

Per quanto ne sapeva William, a quest’ora Paul si trovava nel Galles come lupo errante, claudicante a vita a causa del tendine d’Achille reciso da Alec con le zanne.

Per un lupo, equivaleva a una condanna a vita a non correre più per i boschi.

Avrebbe potuto essere preda di un licantropo più forte, se questo avesse deciso di abbatterlo.

Alec aveva ritenuto sufficiente questo tipo di punizione, e a Lorainne era andata bene così.

E ora lavorava lì, nel negozio che un tempo era stato dei genitori, e che ora lei aveva riconvertito.

Da semplice rivendita di strumenti, ora quel luogo toccava ogni corda legata al mondo della musica.

Ed era davvero un bel locale, non ci si poteva sbagliare su questo.

William la salutò con un cenno del capo, nell’entrare, ma Penny fu di tutt’altro avviso, e corse verso il bancone tutta sorridente.

Non potendo fare altro – quando Penny era senza i genitori, chi la accompagnava doveva starle incollato come un francobollo – Will la seguì.

Quel giorno, Lorainne profumava di rosa.

William sapeva per certo non trattarsi di un profumo industriale – diversamente, avrebbe avvertito anche i sottoprodotti chimici di cui era composto.

Molte lupe, a causa dei sensi sopraffini, erano solite acquistare prodotti naturali con cui creare essenze prive di misture chimiche, che davano noia all’apparato olfattivo.

Questo, era particolarmente buono all’olfatto.

“Ciao, Lory! Siamo passati per prendere un regalo a papà!” esclamò Penny, poggiando le mani sul bancone di marmo verde.

“Ciao, Penny… oh, per Alec? Non devo neanche chiedertelo, vero?” esordì la donna, dandole un buffetto sul naso.
Penny scosse il capo e Lorainne, sorridendo timida a William, mormorò: “Oggi tocca a te farle da scorta?”

“Mi ha incastrato” scosse le spalle l’uomo, ghignando all’indirizzo della bambina, che sorrise angelica.

“Il reparto di Johnny Cash è da quella parte” indicò loro Lorainne, guardandosi intorno per sincerarsi che nessuno avesse bisogno di lei. “Se avete bisogno di me, sono qui.”

“Non puoi venire con noi ora?” si lagnò Penny, afferrandole una mano con aria affranta.

“Ranocchietta, Lorainne sta lavorando. Lasciala in pace” brontolò William, tirandole scherzoso un ciuffo di capelli.

Penny lo fissò arcigna, replicando: “Sei un guastafeste, zio Will.”

Il licantropo rise sommessamente, a quell’affermazione. Penny era solita chiamare ‘zio’ sia lui che Spike, anche se quest’ultimo storceva il naso tutte le volte.

Spike non sarebbe mai stato capace di rilassarsi, specialmente in compagnia di una bambina, ma nessuno – forse neppure Alec – avrebbe potuto difenderla meglio.

Se Spike ti prendeva sotto la sua ala, non c’erano santi o demoni che reggessero il confronto con lui.

“Un paio di minuti, poi torno al bancone, okay?” propose Lorainne, avvolgendo le spalle di Penny con un braccio.

“Non occorre, Lorainne. E’ già abbastanza viziata così… figurarsi se poi la accontentiamo su tutto” sospirò William, scuotendo il capo.

“Lo dirò a papà, che mi hai dato della bambina viziata” motteggiò Penny, sorridendo sarcastica.

William storse la bocca, e borbottò: “Traditrice. Non si fa la spia.”

Lorainne rise di quello scambio di battute e, quando infine raggiunsero il reparto, disse: “Bene, Penny, curiosa fin che vuoi e poi dimmi se qualche titolo è rimasto fuori dalla collezione di Alec.”

“Agli ordini!” esclamò la bimba, cominciando la sua ricerca dall’angolo più lontano del reparto.

Sollevando un sopracciglio con evidente ironia, William lanciò un’occhiata di straforo a Lorainne e pensò: “Che piccola streghetta!”

A che gioco stava giocando, Penny?

Lorainne rimase al fianco di William per un paio di minuti senza parlare, lo sguardo fisso su Penny e le braccia strette sotto i seni.

Se Will non fosse stato un licantropo, non si sarebbe accorto del nervosismo della donna, ma l’aura di un lupo era una gran brutta bestia…

“Cosa succede, Lorainne?” mormorò a un certo punto William, infilando le mani nelle tasche posteriori dei jeans.

Intorno a loro, le tonalità calde e profonde di Adele incendiavano l’aria.

Non era particolarmente amante del genere, ma sapeva riconoscere una bella voce, quando la sentiva.

E Will non faticava ad ammettere che Adele era una brava cantante, anche se gli faceva venire il latte alle ginocchia, con quelle canzoni sdolcinate e lacrimevoli.

Lorainne all’improvviso sorrise e, lanciando un’occhiata al color del fumo di Londra a William, mormorò: “Forse dovrei cambiare brano…ma nella trucklist c’è anche qualcosa per le tue corde, non temere.”

“Pensavo così forte?” esalò lui, ghignando.

Lei scosse il capo, e si massaggiò con casualità il braccio.

“Oh” mormorò allora William, comprendendo. Anche la sua, di aura, era una bestia che, spesso e volentieri, faceva quello che voleva.

“Credo lo faccia per me” asserì di punto in bianco Lorainne, sorprendendo William.

“Cosa intendi dire?” volle sapere l’uomo.

Indicando Penny con il capo, Lorainne mormorò: “Quella pettegola di Anne le ha raccontato la mia storia, così Penelope si è messa in testa che deve assolutamente trovarmi un lupo in grado di farmi felice, oltre che di proteggermi dai cattivi.”

“Cosa?” gracchiò William, accigliandosi.

Lorainne sorrise divertita, e fece spallucce.

William rimase perplesso per un minuto buono prima di collegare tutti i punti, metterli assieme alla dichiarazione di Lorainne e… arrossire.

Il sorriso della donna aumentò e l’Hati, borbottando un’imprecazione, esalò: “Mi ha portato qui per… per…”

“Penny lo sta facendo da mesi. Porta qui con l’inganno un sacco di lupi, nella speranza che scatti la scintilla. E’ adorabile, se vogliamo, ma può anche essere imbarazzante” gli spiegò Lorainne, tornando a guardare la bambina.

Era così meticolosa nello studiare i vinili, che ci si dimenticava alla svelta del suo scopo secondario.

Sarebbe diventata una manipolatrice di prim’ordine, da adulta, a tutto vantaggio del branco.

Forse, se il Fato lo avesse concesso, persino una Fenrir. Chi poteva saperlo?

Tossicchiando nel massaggiarsi nervoso la nuca, William borbottò: “E io cosa dovrei fare, a questo punto?”

“Nulla, direi. A meno che tu non voglia uscire con me, sabato sera” replicò Lorainne, trovando dannatamente divertente – e molto dolce – il fatto che William fosse tanto impacciato e imbarazzato da quella situazione.

Era grande e grosso, avrebbe potuto sfondare a pugni le pareti, aveva protetto Alec e il branco con ferocia e giustizia… eppure si imbarazzava a causa dei giochi di una bimba.

Sì, era adorabile.

William si irrigidì ancora di più, a quella proposta e, fissando arcigno Penny, ringhiò: “Ora la strangolo, quella ranocchietta perfida e manipolatrice. E al diavolo se poi Alec mi ammazza…”

Lorainne rise per diretta conseguenza e Penny, nell’udire quel suono, si volse con un disco in mano, sorrise elettrizzata e tornò di corsa, esclamando: “Eccolo! E’ questo!”
 
***

Fermo innanzi al cancello del cottage di Alec, dove si trovava già Irina – di ritorno dal suo incontro con le amiche – William fissò burbero Penny e mormorò: “Non devi impicciarti degli affari di cuore di Lorainne, anche se so che lo fai per il suo bene.”

“Oh… te l’ha detto, eh?” mugugnò lei, mettendo il broncio.

Ecco un’altra cosa che non sapeva come affrontare.

I bronci.

Lo mettevano a disagio, non sapeva cosa dire per farli svanire e, più ancora, gli mettevano addosso una gran voglia di correre via a gambe levate.

“Capisco che tu sia in ansia per lei, ma è una donna grande e vaccinata. Non ha bisogno di aiuto, se vuole trovarsi un uomo. O magari, ha cambiato idea e preferisce stare con un’altra donna. Ci hai mai pensato?” le spiegò William con tutta la gentilezza che gli riuscì di trovare.

Alec gliel’avrebbe pagata cara. Ma perché doveva essere lui a spiegare a Penny certe cose?!

“Oh… dici che, dopo quello che le ha fatto Paul, ora odia i maschi?” gli domandò con ingenuità Penny, fissandolo con gli enormi e candidi occhi azzurri.

Alec, preparati a fare a botte… non meriti altro, dopo questo, pensò tra sé William, imponendosi di stare calmo.

“Non posso saperlo, Penny, ma sono decisioni che Lorainne, o chiunque al suo posto, deve prendere in piena libertà. Imporle la compagnia altrui non è salutare, né molto carino.”

Penny si fece ancora più triste, a quelle parole e William, non avendo altri metodi per risolvere la cosa, aprì le braccia e disse: “Su, vieni qui, ranocchietta.”

Lei lo accontentò immediatamente e si rannicchiò contro di lui, sospirando affranta.

“Non volevo fare male a nessuno” mormorò dispiaciuta la bambina, mentre la mano grande e forte di William le carezzava i capelli.

“E nessuno lo pensa, credimi. Ma sono cose private. Lascia che sia Lorainne, eventualmente, a chiederti aiuto.”

“Pensi lo farebbe?”

“E’ una donna intelligente, come lo sei tu. Non ho alcun dubbio che, se avesse bisogno di te, te lo farebbe sapere.”

“Anche se sono una bambina?”

“Una bambina con molta iniziativa personale e grande inventiva, a quanto pare” sottolineò lui, facendola ridere.

“Ma a te piace Lorainne?”

William scoppiò a ridere e, nello scostarla da sé, l’uomo la fissò serioso, replicando: “Penny… ora basta.”

“Scusa” mormorò lei, facendo una pernacchia prima di scendere dal pick-up e correre verso casa con il regalo per il suo papà stretto tra le braccia.

William attese di vederla entrare nella casa illuminata prima di afferrare il cellulare, digitare un messaggino e infine ripartire.

 
Ok x sabato sera. Ci vediamo al Sir Titus Salt alle 7
 

Probabilmente, Penny lo avrebbe preso in giro a vita, dopo la reprimenda di prima, ma non poteva certo rifiutare l’invito di una bella donna, no?

Sarebbe stato da maleducati.

E da idioti, soprattutto.








Note: Un altro sguardo al clan di Alec ed Erin, e alla loro figlioletta Penny che, a quanto pare, è davvero l'idolo di tutti... e ne combina di tutti i colori!
Visto che in molte mi avevate chiesto di esplorare maggiormente i personaggi nuovi inseriti con queste OS, ho pensato di dare spazio a William, stavolta. 
Se qualcuna di voi ha da offrirmi suggerimenti o idee, sono tutta orecchie!
A presto, e grazie!

 

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Capitolo 22
*** Una sola via da percorrere, mille decisioni da prendere (Gordon/Erika) Settembre 2015 ***


Una sola via da percorrere, mille decisioni da prendere
(settembre 2015)
 
Dobbiamo abituarci all’idea che ai più importanti bivi della nostra vita non c’è segnaletica.
(Ernest Hemingway)
 
 
 
“Sai perché sei in punizione, Gordon?”

“No, papà. Perché?”

Un sorriso, e Nick Spencer scompigliò i capelli neri del figlio undicenne, il cui occhio pesto faceva a pugni con il suo viso d’angelo.

“Capisco che tu abbia voluto difendere la tua amica Susan, ma colpire a tradimento un altro ragazzo, non fa di te un eroe. Ti pone sullo stesso livello di Bastian.”

Gordon mise il broncio, già pronto a difendersi, ma Elizabeth McKenna, sua madre, aggiunse: “Non avresti dovuto aggredirlo alle spalle. E’ scorretto.”

“Ma è più grosso di me!” sbottò Gordon, accendendosi d’ira e vergogna. “Voi dite sempre che non dobbiamo limitarci a porgere l’altra guancia, ma dobbiamo anche difenderla. Susan aveva bisogno di essere difesa!”

“Rispettando le regole, Gordon. E’ questo che significa essere veri uomini. Rispettare l’avversario, giocando la partita in modo corretto.”

“Lui non è mai corretto” bofonchiò Gordon.

“E allora, non sarà mai un uomo nel vero senso della parola. Potrà sembrare un uomo, quando giungerà alla maturità, ma la sua mente non sarà mai quella di un uomo” gli spiegò Nick, dandogli un buffetto sul naso.

“Quindi, dovevo affrontarlo a muso duro?”

Ridendo, i genitori scossero la testa ed Elizabeth, nel dargli un bacio sull’occhio tumefatto, replicò: “Sei intelligente quanto basta per batterlo in astuzia, caro, senza per questo rovinarti il tuo bel faccino. La mente, Gordon. La mente batte il corpo. Sempre.”

“Ma è difficile…” si lagnò il bambino.

“Nessuno ha mai detto che crescere fosse semplice. Altrimenti, come apprezzeresti il risultato finale, se fosse facile ottenerlo?” ironizzò il padre, levandosi dal letto assieme alla moglie. “Ora riposa, Gordon. E ricorda; noi ti spalleggeremo sempre, se saprai esserne meritevole. Anche se non lo sarai, ma ci dispiacerà vederti sbagliare.”

“In pratica, niente più botte a scuola.”

Nick gli strizzò l’occhio, ribattendo: “Solo se fatte in modo corretto.”

Gordon allora ghignò e, mentre Elizabeth sgridava dolcemente il marito per aver praticamente dato il benestare al figlio per fare a pugni, il bambino si distese.

Afferrato il suo fumetto degli X-Men dal comodino, iniziò a leggere le avventure di Magneto e Wolverine e, poco prima di addormentarsi, ripensò alle parole del padre.

Diventare grandi non era facile. Se lo fosse stato, come avrebbe potuto godere dei risultati ottenuti?
 
***

Erika si accomodò con leggerezza sul ramo basso su cui si era appollaiato Gordon e il giovane, sobbalzando di sorpresa, esalò: “Ehi! Ciao!”

“Dovevi avere la testa da un’altra parte, se non mi hai sentito arrivare” gli sorrise lei, depositandogli un bacio leggero sulle labbra.

Erano ormai cinque anni che stavano assieme e, pur se Erika era più grande di lui di un anno e due mesi, la cosa non toccava minimamente Gordon.

Erika era la ragazza perfetta per lui, e nessuna avrebbe potuto mettersi al suo livello.

Oltre ad amare lo stesso genere musicale, se la intendevano alla grande anche sul piano fisico.

Certo, lei detestava cordialmente la sua mania della moto – apprezzava molto di più correre come lupo – ma non gli aveva mai vietato di andarci.

Così come lui aveva soprasseduto ogni volta, quando Erika era voluta andare ad ascoltare i concerti di Ed Sheeran.

Per piacere! Ma, se proprio doveva scegliere un cantante melenso per contro bilanciare il suo amore per il Metal, doveva proprio cadere su di lui?

Eppure, a Erika era sempre piaciuto; chi era lui per lamentarsi?

Entrambi avevano scelto facoltà umanistiche, pur se Gordon voleva intraprendere studi incentrati sulla letteratura antica, mentre Erika su quella moderna.

I Master erano alle porte; a ottobre avrebbero iniziato la loro specializzazione, che li avrebbe tenuti impegnati per altri tre anni buoni.

Non era lo studio a preoccuparlo: gli era sempre piaciuto studiare.

Il suo dilemma era un altro, per questo non l’aveva sentita arrivare. E per questo, ora, non sapeva che dirle.

Sbattendo le palpebre dalle lunghe ciglia scure, Erika mormorò: “Va tutto bene, Gordon? Sei un po’ strano, ultimamente.”

“Ma no! Che vai a pensare?!” esclamò lui, avvolgendole le spalle con un braccio.

Non del tutto convinta, Erika poggiò il capo contro la sua spalla e, lanciatogli uno sguardo dal basso all’alto, replicò: “Me lo diresti, vero, se ci fosse un problema tra noi due?”

Stringendola un poco più a sé, Gordon mormorò: “Non potrei amare che te, Erika, perciò calma la tua mente iperattiva. Stai facendo un baccano dell’inferno, sai?”

Sorridendo appena, lei annuì, ma disse: “Sento che qualcosa non quadra ma, se non me ne vuoi parlare, va bene. E’ giusto che ognuno di noi abbia qualche segreto per sé. Però, se avessi bisogno del mio aiuto, me ne parlerai, vero?”

“Saresti la prima a cui mi rivolgerei, se avessi un problema” ghignò il giovane, stampandole un bacio sulla fronte. “Come mai mi hai raggiunto qui al Vigrond, a proposito? Avevi bisogno di me?”

“Per la verità, mi manda tua sorella. Voleva sapere perché non rispondevi al cellulare, visto che sapeva benissimo che eri qui.”

Spalancando gli occhi, Gordon afferrò il suo smartphone dalla tasca del giubbotto di jeans che indossava e fissò basito lo schermo.

“Tredici chiamate?” gracchiò, sgomento.

E dire che la suoneria abbinata al numero di Brianna faceva un baccano dell’inferno!

Come aveva potuto non sentire Run Boy Run?

Erika, a quel punto, lo fissò divertita e Gordon, sospirando, scese con un balzo dal ramo e asserì: “Andrò a sentire cosa vuole.”

“Sarà meglio” motteggiò lei, dandogli una pacca sul sedere.

Lui rise, le mandò un bacio con lo schiocco e le domandò: “Ci vediamo stasera, dopocena?”

“Una sgroppata tra i boschi?” propose lei, ammiccante.

“Non chiedo di meglio” annuì lui. “Qui alle otto e mezza. Va bene?”

“Andata. E ora vai, prima che tua sorella ti stacchi la testa a morsi” rise Erika, correndo via, agile e veloce come il lupo splendido quale era.

Tornando serio, Gordon mise via il cellulare e si incamminò mesto verso la casa di Brianna e Duncan.

Se Erika non aveva subodorato i reali motivi del suo disagio, sua sorella poteva averli compresi eccome, invece.

Non c’era verso di tenerle nascosto niente, per quel che riguardava la sua personala sfera emotiva.

Da quando era diventato un licantropo, non era più riuscito a tenerla lontana dalla sua testa.

Che gran scocciatura avere una wicca come sorella!
 
***

Impegnata nello strigliare Michael, dedito a farle degli scherzi con la sua coda bianco latte, Brianna lanciò un’occhiata sopra il dorso del cavallo, non appena percepì l’aura del fratello.

Quindi, Erika lo aveva trovato.

Data una pacca sul fianco al cavallo, che nitrì fragoroso, la giovane disse: “Coraggio, fenomeno da baraccone… vai a fare un giro nel recinto, prima che io ti rimetta nel box. Domani faremo una cavalcata io e te, d’accordo?”

Michael scrollò il muso come a volersi dichiarare in sintonia con la sua proposta dopodiché, con passo caracollante, uscì dalla stalla.

Brianna non poté non ridere. Quel cavallo era un attore comico nato.

Gli mancava solo la parola.

A volte, le era parso di afferrare qualche suo pensiero errabondo, ma era difficile mettere a parole ciò che pensava un cavallo.

Sapeva, comunque, che le era molto affezionato, e tanto le bastava.

Così come sapeva che Gabriel era innamorato di lei, (per quanto può esserlo un cavallo) e Rafael la rispettava come avrebbe potuto rispettare una madre, o una divinità.

Infilate la mani nelle tasche posteriori dei jeans sdruciti, il venticello di fine estate a incunearsi tra le pareti della stalla, Brianna sorrise e mormorò: “Il figliol prodigo… non hai dunque perso la via per Damasco.”

“Hai mescolato due storie assieme” brontolò Gordon, pur ghignando.

Brianna scrollò le spalle, replicando: “Deformazione professionale… avere un dio in testa ti fa straparlare, a volte.”

Non dare la colpa a me, se confondi le parabole, e digli quello che vuoi dire.

La wicca rise tra sé per quel commento aspro da parte di Fenrir, perciò andò dritto al punto.

“Perché non stai dicendo la verità a Erika?”

Gordon si irrigidì istantaneamente, l’aura già sfrigolante attorno al suo corpo tonico e forte.

Quanto era cambiato, da quando il gene della licantropia era stato risvegliato in lui!

Brianna quasi aveva stentato a riconoscerlo, quando era tornata dall’università, a Pasqua, dopo la sua trasformazione in lupo.

Le sue spalle si erano rafforzate, così come la sua struttura fisica e, sebbene non sarebbe mai diventato imponente come Duncan, o Lance, ora era assai più robusto.

“Gliene hai parlato?” domandò Gordon, dopo alcuni attimi di silenzio.

Brianna scosse il capo, replicando: “Non sono affari miei, ma vorrei sapere perché tanti dubbi. Merita di sapere.”

“Non ho ancora preso una decisione in merito” sottolineò il giovane, poggiandosi nervosamente contro la porta di uno dei box.

Rafael mise fuori il muso, poggiandolo sulla spalla del ragazzo, e lui lo carezzò con un mezzo sorriso stampato in viso.

Indulgente, Brianna mormorò: “Non è quello che ho percepito io.”

“Potresti stare fuori dalla mia testa, per una volta?” brontolò a quel punto Gordon, fissandola arcigno.

I suoi occhi danzarono dal chiaro grigio colomba al più oscuro blu di Prussia, i suoi occhi di lupo.

Imperturbabile, la sorella replicò: “Non dipende da me. Sono pensieri che mi invii tu. Diversamente, non ficcherei mai il naso nei tuoi affari.”

“Come?” esalò sorpreso Gordon, facendo tanto d’occhi. Ora, completamente grigi.

Era bastata quell’ammissione imprevista a farlo tornare in sé.

Sospirando leggermente, Brianna rovesciò un secchio per sedervisi sopra e, poggiati i gomiti sulle ginocchia, ammise: “Lo fai da quando sei diventato lupo ma, solitamente, non avviene spesso. Negli ultimi due mesi, invece, è un fenomeno quasi giornaliero. Perciò ti chiedo… perché non dirglielo?”

Sempre più scioccato, Gordon borbottò: “Che intendi con… con questa cosa? Che sai sempre cosa penso?”

“No, capitano” gli sorrise lei, comprensiva. “Ma so quando stai per prendere una decisione. E’ come se volessi mettermi al corrente di ciò che stai per fare… forse, perché speri nella mia approvazione, o perché io ti fermi se riscontrassi in te dei dubbi.”

Basito, Gordon si lasciò scivolare a terra e, dopo essersi messo le mani tra i capelli, esalò: “Non ne avevo idea… e tu non mi hai mai detto nulla?”

“Ero sempre d’accordo con le tue scelte, e non mi dispiaceva che tu mi mettessi al corrente di quello che volevi combinare” replicò lei, scrollando debolmente le spalle. “Ma stavolta sei agitato, nervoso e, cosa peggiore di tutte, non vuoi dire la verità alla donna che ami. Perché?”

“E me lo chiedi anche?!” sbottò a quel punto Gordon, facendo sfrigolare la sua aura.

Rafael nitrì indispettito, nel suo box, e Gabriel scalciò un paio di volte, irritato da una simile bordata di energia statica.

Gli animali erano assai più sensibili degli uomini comuni, di fronte alle auree dei licantropi.

Brianna, allora, estese il proprio potere per inglobare quello del fratello e, subito, l’aria si fece più leggera.

“Scusami…” borbottò Gordon, reclinando colpevole il capo.

“Sei nervoso. Ti capisco. Inoltre, io ci sono già passata. E’ giusto che ti aiuti a controllare la tua aura, se ne hai bisogno” si limitò a dire Brianna, sorridendogli. “Ti chiedo perché, e a buon diritto, visto che non sei mai stata una persona pavida. Hai sempre preso le tue scelte con coraggio, senza mai guardarti indietro, una volta averle prese.”

“Ma ero da solo!” sottolineò Gordon, snocciolando per la prima volta a voce alta il problema che lo assillava.

Brianna assentì, sospirando lieve a quell’ammissione, e gli domandò: “Credi che non accetterebbe le tue scelte?”

“Erika ha tutto il diritto di scegliere per conto suo, come e dove vivere… io non voglio prevaricarla in nessun modo, ma…”
Non sapendo come proseguire, Gordon si azzittì, ma non Brianna.

“… ma l’offerta di Patricia Dawson MacKenzie ti interessa più di quanto tu voglia ammettere anche con te stesso, e non te la senti di dirglielo, perché questo cambierà radicalmente il vostro futuro. E’ corretto?”

“Colpito e affondato” mugugnò Gordon, tendando di fare dello spirito, pur senza grossi risultati.

“Non credi che dovresti lasciar decidere a lei cosa ne pensa, e non impuntarti nel prendere decisioni per tutti, e senza consultarti con nessuno?” gli fece notare Brianna, intrecciando le mani su un ginocchio.

Fissandola sconcertato, Gordon fece per ribattere, ma si bloccò all’ultimo momento.

Già. Non aveva chiesto la sua opinione.

Era partito dal presupposto che, qualsiasi tipo di decisione avesse preso per il futuro, avrebbe incluso implicitamente l’assenso di Erika.

Lei, invece, aveva innanzitutto il diritto di conoscere ogni aspetto della situazione e, eventualmente, rifiutare di seguirlo.

O proporgli una terza eventualità.

Non doveva più sobbarcarsi quel dilemma in solitudine, ma affrontarlo con l’altra metà del suo cuore, con la sua anima gemella.

Brianna gli sorrise comprensiva, mormorando: “Ricordi quando litigai con Duncan, di ritorno da Glasgow, quando mi ferirono?”

Gordon annuì – quell’anno era stato terrificante, tra il ferimento di Brie, il suo rapimento e la morte di Leon – e asserì mogio: “Preferirei non rammentarlo, ma sì. Ricordo che eri a pezzi, perché ti eri impuntata nel voler risolvere le cose da sola, senza aiuto.”

“Siamo stati cresciuti forti, in grado di prendere decisioni autonome e coscienziose o, per lo meno, si spera…” nel dirlo, rise, e Gordon ghignò, annuendo. “… ma questo non vuol dire non confrontarsi con chi si ama. Ricorda… papà e mamma si sono sempre parlati. Per qualsiasi cosa.”

“Già” assentì suo malgrado il fratello, passandosi una mano tra i capelli.

“Quindi?”

“Le parlerò stasera. Ci vediamo al Vigrond per una corsetta tra i boschi” le spiegò Gordon, accennando un sorrisino.

“Dirò agli altri di non avvicinarsi. La foresta sarà vostra” gli promise, levandosi in piedi per raggiungerlo.

Allungatagli una mano, lo aiutò a fare lo stesso e, nel lanciare uno sguardo a Michael, che ancora stava gironzolando nel recinto, ghignò e disse: “Vai a giocherellare con quel bestione. Hai bisogno di rilassarti, e lui è un asso, in questo.”

Gordon fece per scantonare ma, alla fine, ammise che la sorella aveva ragione. Non solo aveva bisogno di rilassarsi un poco, ma Michael era davvero bravo, nel tirar su di morale la gente.

Quel cavallo avrebbe dovuto fare lo psicoterapeuta.
 
***

Il cielo stava tingendosi per la notte, lasciando che i viola e i rossi si confondessero con il blu scuro e il nero.

Alcune stelle erano già visibili, e la luna piena brillava a est, poco sopra la linea delle chiome delle piante.

Il vento era immoto e, nell’aria, galleggiavano umidi i profumi del bosco e l’aroma dolce di Erika.

Era uno splendido lupo, di una tonalità variabile tra il rosso cupo e il marrone, con una buffa macchia bianca sulla zampa anteriore sinistra.

I suoi occhi, di un caldo color nocciola, lo sondarono curiosi e, quando entrambi si fermarono in prossimità del Vigrond, Gordon si sedette.

Poggiato a terra con le cosce, la scrutò per qualche attimo, indeciso su come approcciare l’argomento, quando Erika borbottò: “Devo metaforicamente tirare fuori i fazzolettini?”

Gordon tossì una risata, scuotendo il muso grigio scuro, e replicò: “Non credo. Per lo meno, non spero.”

“Ergo, posso eliminare dall’equazione l’idea che tu ti sia stancato di me.”

Lui le abbaiò contro irritato un paio di volte, prima di calmarsi.

“Mi era sembrato di averti già detto che ti amo! Dobbiamo tornarci ogni volta?”

“Perdonami la mia ansia, ma è da quasi un mese che hai l’aura in subbuglio e, specialmente dopo aver fatto l’amore, sembri un porcospino. E non intendo i peli che hai addosso.”

Gordon sbuffò, dandosi dell’idiota per aver pensato che la sua ansia fosse sotto controllo.

Le doveva più di qualche spiegazione. Le doveva delle scuse.

Erika, allora, gli diede un colpetto col muso, in corrispondenza del collo e, conciliante, mormorò: “Puoi dirmi tutto, lo sai.”

“Lo so, e te ne sono grato, ma è una cosa grossa, che influirà sul nostro futuro, e non è facile ammettere di aver messo ciò che sto per dirti sul piatto della bilancia.”

“Spara… sarò io a decidere se hai fatto una scemenza, o meno” lo incoraggiò Erika, usando un tono lieve, pur fremendo dentro.

Cosa mai le aveva nascosto, di così tremendo?

“Ricordi Patricia Dawson MacKenzie?”

“Sì. E’ la sorella di Alec. Perché?” esalò sorpresa Erika, chiedendosi cosa centrasse lei con i dubbi di Gordon.

Da quel che sapeva, abitava ad Armagh, in Irlanda del Nord, assieme al marito, Andrew, e ai due figli, Phillip e Cassandra. Ergo, che aveva a che fare con lui?

“Un paio di mesi fa mi ha chiamato per offrirmi un posto di lavoro, per quando avrò finito l’università e il Master in Lingue Antiche che voglio conseguire.”

Lo buttò fuori di getto, senza pensarci, preferendo non girarci tanto intorno.

Aveva tentennato fin troppo, e non c’erano molti modi per spiegare una cosa simile.

Erika sbatté le palpebre, confusa, prima di domandare: “E… quindi? Dove starebbe il problema?”

Fu il turno di Gordon di apparire confuso e, scuotendo il muso con fare sconvolto, esalò: “Ma mi sembra chiaro! Se accettassi, me ne andrei da qui! Non vivrei più a Matlock!”

La lupa allora mutò forma e, tornata a essere donna, rise dolcemente e mormorò: “Ti sei preoccupato così tanto, per questo?”

A sua volta, Gordon tornò uomo e, presa l’amata per le spalle, gracchiò: “Non pensi che sia una cosa che cambierebbe radicalmente le nostre vite? Credi che potrei prendere questa decisione senza neppure preoccuparmi un po’?!”

Erika strinse una delle mani poggiate sulle sue spalle e, nel portarsela al viso, ne baciò il palmo, mormorando: “Avresti anche potuto dirmi che ti trasferivi in Australia, e mi sarebbe andata bene lo stesso. La musica è ovunque, Gordon, e io posso insegnare ovunque ci sia una scuola. Ma il tuo sapere è così raro e prezioso che, se qualcuno ti vuole, tu devi andare. Non sono in molti – soprattutto licantropi – a sapere ciò che tu sai.”

“Sacrificheresti i tuoi legami… per me?” esalò il giovane, facendo tanto d’occhi.

Lei lo abbracciò con dolcezza, carezzandogli la schiena scossa da brividi.

“Non sto sacrificando nulla, Gordon. Sarei a un paio d’ore di volo dalla nostra famiglia e dai nostri amici, non su un altro pianeta. Inoltre, Skype aiuta un sacco.”

Scostandosi da lui per poterlo guardare negli occhi, poi, aggiunse: “Ma, più di tutto, sarei con te. E mi sembra un buon motivo per seguirti ovunque tu andrai.”

“E non ti spiacerebbe lasciarti tutto alle spalle?”

Erika ci pensò su un attimo, vagliando pro e contro, ma disse: “Sarebbe difficile, i primi tempi, ma non saremmo del tutto soli, lassù. Andremmo in un clan di persone fidate, e di cui conosciamo già alcuni membri.”

“Quindi… mi sono fatto venire gli incubi per niente, in questo mese?” domandò a quel punto Gordon, esibendosi in un mezzo sorriso.

Lei allora rise, scosse il capo e lo baciò.

“No, non per niente. Hai dimostrato di tenerci, a me, di non voler scegliere solo per il tuo bene, ma anche per il mio. La prossima volta, però, parlamene subito e togliti il dente. Star male non serve a nessuno” gli confidò lei, avvolgendogli le braccia attorno al collo.

“Ci vorrà del tempo. A ottobre comincio l’ultima sessione di esami e, per l’anno prossimo, dovrei cominciare il Master, che durerà un paio d’anni come minimo. Possiamo fare tutto con calma” asserì Gordon, stringendola a sé, più tranquillo.

Erika socchiuse gli occhi, strusciandosi contro di lui con fare malizioso e, lasciata scivolare lentamente una mano verso le sue natiche, sussurrò: “Sì… possiamo fare tutto con molta calma…”

Lui rise, a quel doppio senso neanche tanto velato e, sulle sue labbra, mormorò: “Non intendevo questo, ma posso durare anche tutta la notte, se vorrai fare con calma.”

Erika rise, annuendo e, nel mordergli delicatamente il labbro inferiore, disse roca: “Ti chiedo solo una cosa.”

“Cioè?”

“Posso avere una vasca idromassaggio?”

Gordon scoppiò a ridere di gusto, per quella richiesta davvero fuori tema e, nel prenderla in braccio, assentì, dichiarando: “Ti troverò un castello, se vorrai, e potrai andare a lavorare su una carrozza. Tutto ciò che ti verrà in mente.”

Lei ammiccò, replicando serafica: “La vasca idromassaggio basterà… per ora.

Il lupo che era in Gordon non attese altro tempo. Spinse l’uomo a baciarla con ardore, chinandosi poi a terra per stenderla sul letto d’erba e fiori notturni che si trovava nella radura.

Erika glielo lasciò fare, offrendo e prendendo parimenti.

Non aveva detto quelle parole per confortarlo, ma perché ci credeva veramente.

Gordon era la sua anima gemella, il pezzo mancante della sua anima e, in qualsiasi posto lui fosse andato, lei lo avrebbe seguito.

Era dolce il fatto che lui si fosse preso tanti e tali scrupoli, prima di dirle la verità. Denotava quanto tenesse a lei.

Ma era tempo che Gordon capisse che era più forte di quanto pensasse… e che iniziasse a crederci lei stessa.

Era tempo che tutti i dubbi, le ansie sul loro rapporto si frantumassero, sparissero per sempre dal suo cuore.

Ora, doveva solo pensare al loro futuro assieme.

E a una splendida vasca idromassaggio.

Avrebbero fatto faville, assieme, in quella vasca, ne era più che sicura.

 
 
 
 
 
 
Note: a chi mi chiedeva come se la stessero cavando Erika e Gordon, ecco svelato il mistero. Spero di aver fatto cosa gradita.
Nelle prossime OS toccheremo altri personaggi minori e, se la fantasia me lo concederà, anche la nascita di Nathan.

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Capitolo 23
*** Ereditarietà (Gennaio 2015) Penny/Spike ***


Ereditarietà (Penny)
Gennaio 2015

 
 
 
Alec stava tenendo Penny per mano, e i suoi chiari occhi color acciaio le scrutavano il viso con fare meditabondo, serio.

La sua mente era impenetrabile, stoica, apparentemente calma come un lago placido, pur se Penny aveva idea che fosse solo un mascheramento.

In quei cinque anni passati assieme, non una volta Alec si era dimostrato disattento verso di lei, o meno che preoccupato per il suo benessere.

Era cresciuta in un branco forte, in cui i lupi erano ligi alle regole e avevano fiero e degno rispetto per il loro capo.

I Gerarchi le avevano voluto bene da subito e, pur se Spike avrebbe sempre rifuggito i suoi gesti di affetto, Penny sapeva che, al minimo starnuto, lui avrebbe distrutto il mondo per lei.

E così suo padre, e così William.

Erano uomini coraggiosi, leali e forti. Avevano avuto i loro problemi in gioventù e, per lungo tempo, avevano guidato con pugno più duro del necessario.

Ma ora quei tempi erano passati. Ora, il clan di Bradford conosceva pace duratura, ma senza il marchio del timore sopra la sua testa.

Eppure, se quella sera, col sorgere della luna, qualcosa fosse andato storto, Penny era certa che neppure il Ragnarök avrebbe potuto essere una cosa brutta, se paragonata all’ira che Alec avrebbe scatenato intorno a sé.

Perché quella sera, Penny avrebbe subito la sua prima trasformazione, lo sapevano tutti.

Era infine divenuta donna e, quando ciò era avvenuto, sia Erin che Alec le avevano sorriso compiaciuti, ma assai preoccupati.

Con l’avvento del primo ciclo mestruale, il gene mannaro si era infine destato in lei e, al volgere del primo plenilunio, avrebbe subito il mutamento.

Per quell’evento, così speciale per ogni licantropo, Alec aveva voluto fare le cose per bene e, chiamati a sé i suoi Gerarchi, aveva poi condotto la figlia al Vigrond.

Erin era rimasta a casa assieme a Irina su espresso ordine del marito, ben sapendo quanto sarebbe stato tremendo, per lei, vedere la figlia mutare per la prima volta.

Ciò che non le aveva detto – ma che ogni lupo sapeva benissimo – era che, se qualcosa non fosse andato per il verso giusto, Penny sarebbe morta tra i più atroci tormenti.

Alec non voleva questo, per Erin, specialmente con il piccolo Gareth ancora da svezzare. Erin doveva rimanere con il loro figlio minore.

A Penny, avrebbe pensato lui.

Per maggiore sicurezza, comunque, Brianna era giunta per assicurare all’amico un’arma in più per sventare la malasorte.

Il suo sangue di wicca avrebbe potuto rendersi necessario per richiamare la bestia sopita in Penny, e Brianna si era dichiarata più che disposta a presenziare.

“Papà?” mormorò Penny, stringendo in un rapido abbraccio Alec, prima di scostarsi.

“Dimmi, tesoro” replicò lui, lo sguardo che correva dal viso della figlia all’orizzonte.

La luna si sarebbe levata presto e, quando questo fosse avvenuto, la mutazione avrebbe avuto inizio.

“Ti voglio bene, sai?”

Alec accennò un mezzo sorriso, tendendo appena la cicatrice sulla guancia.

“Non cominciare, ranocchietta. Qui andrà tutto bene. Ci sarà il nostro potere di Gerarchi a darti man forte, e la streghetta qui presente ti farà bere il suo sangue, se necessario… così tu sorgerai.”

Penny lanciò un’occhiata curiosa a Brianna, che le sorrise tranquilla e fiduciosa.

Anche Alec guardò l’amica e, disperato, esalò mentalmente: “Dimmi che si salverà… o, stavolta, penso che neppure su Helheimr mi vorranno.”

“Nessuno richiederà un simile prezzo, Alec. Abbiamo stabilito ormai da tempo che, grazie all’intervento di una wicca, casi di morte per mutamento non sono più possibili. Sono inferiori allo 0,001 percento, e lo sai.”

Da quando Brianna aveva tentato con Sean, il fratello di Marjorie, altre volte questa carta era stata tentata e, anche grazie all’intervento di Kate, i risultati erano stati ottimali.

Certo, per le due wiccan, il lavoro era stato impegnativo e, molte volte, i giovani erano stati condotti a loro, e non il contrario, visti gli impegni di entrambe.

A ogni buon conto, solo in un caso non era stato possibile fare nulla, ma andava pur detto che, in quell’occasione, si era trattato di un ragazzo nato con una malformazione cardiaca.

Un evento già di per sé difficile da trattare.

“Non voglio che mia figlia rientri in quella casistica risicata!” sbottò Alec, pur mantenendosi saldo di fronte a Penny.

“Penny è sana come un pesce, lo sai. Calmati, Alec, e mantieni salda la tua aura. Forse, ne avrò bisogno, e tu dovrai essere al tuo meglio, per lei.”

Ciò detto, Brianna sospirò e disse ad alta voce: “L’ascesa è iniziata. La luna è sorta. Inizia il tuo percorso di rinascita, Penny.”

La ragazza annuì, sfiorandosi nervosamente la treccia bionda prima di stringere i denti e afferrare entrambe le braccia del padre.

Alec fremette, desiderando prendere dentro di sé quel dolore, quella paura, quel timore di non riuscire, ma non poté far nulla oltre a guardarla mentre soffriva.

William e Spike, vicino a loro, osservavano a loro volta, le espressioni torve, i muscoli tesi allo spasimo.

Brianna, allora, si avvicinò per meglio monitorare la ragazza che, in quel mentre, lasciò la presa dalle braccia del padre per crollare in ginocchio, scossa dai brividi.

Avvertiva il peso della luna, la sua energia, quella della Madre che penetrava in lei attraverso le correnti energetiche lunari,… ogni cosa.

Alec fece per avvicinarla, ma Brianna lo fermò, mormorando: “E’ la sua battaglia, e sai bene che, quando il lupo uscirà, vorrà dilaniare. Penny non si perdonerebbe mai, se ti facesse del male, pur se inconsapevolmente.”

“E’ mia figlia!” ringhiò Alec per contro, fissandola iracondo.

L’amica, però, non cedette di un passo e, nello scrutare Spike, disse: “Sköll, afferra il tuo Fenrir a un braccio, mentre Hati penserà a me, donandomi il suo potere.”

Spike assentì – quando una wicca parlava, le gerarchie andavano a farsi benedire – e, afferrato il suo Fenrir, mormorò: “Scusa, capo, ma quando parla lei, bisogna solo annuire e scodinzolare.”

“Me lo ricorderò, streghetta” sibilò vendicativo Alec, pur attenendosi alle sue direttive.

Brianna sorrise a mezzo, lo sguardo tutto per Penny, che ancora stava tremando,  e allungò una mano verso William, che la afferrò salda.

Subito, la sua energia di Hati le si riversò dentro, aumentando la sua aura e concedendole i puntelli per essere più salda nei suoi propositi.

Piegatasi poi in ginocchio, allungò l’altra mano verso Penny e le sfiorò le labbra distorte dal dolore, mormorando: “La tua wicca ti chiama, lupa,… ascolta il mio richiamo, Figlia della Luna.”

Avevano scoperto, tempo addietro, che bastava il semplice profumo del suo potere, per richiamare la bestia.

Forse, non sarebbe occorso altro, con Penny.

Come previsto, infatti, gli occhi della ragazza – solitamente azzurri come il cielo estivo – si volsero dorati verso di lei e i denti, digrignanti e feroci, lasciarono fuoriuscire dalla bocca aria rovente.

“Ci siamo…” sussurrò eccitata Brianna, pronta a farsi trascinare via da Hati, se necessario.

Un basso ringhio di gola eruppe dalla bocca di Penny che, levate le mani verso la wicca, si ritrovò a fissare lunghi artigli e un principio di peluria… rossiccia.

L’attimo dopo, un grido squarciò l’aria immota, e il corpo di Penny venne squartato, distorto, mutato.

Pelo folto e rosso-bruno le coprì la pelle, mentre le ossa prendevano la forma definitiva, lasciando scorgere finalmente le sue sembianze mannare.

Se già il colore del pelo era stato prova schiacciante del suo nuovo ruolo in seno al branco, la sua mole finale mise il sigillo su tutta la storia.

Penny sarebbe stata il prossimo Sköll, l’allieva di Spike, la futura seconda in comando in seno al branco.

Quando il lupo fu fieramente ritto dinanzi al quartetto, il suo ululato disperato si levò verso la luna pallida e alta in cielo e, l’attimo seguente, Penny fuggì.

Le possenti zampe artigliarono il terreno, sollevando zolle e fogliame secco e, in un attimo, fu svanita nella notte, lasciando tutti senza parole.
 
***

Non aveva mai pensato granché al suo padre naturale, allo Sköll che aveva messo incinta la madre, facendole credere di amarla quando in realtà non era vero.

Per anni, Marcus l’aveva amata e cresciuta e, pur se aveva saputo la verità, non gliene era importato molto. Marcus era suo padre.

Quando questi era morto, per lei era stato solo dolore e rimpianto ma, con l’avvento di Alec, quello squarcio nel suo cuore si era richiuso.

Alec le aveva non solo permesso di ricordare Marcus, ma aveva voluto sapere tutto, di lui.

Certo, non avrebbero potuto esistere due persone più diverse di loro, ma entrambi le avevano donato tutto l’amore del mondo.

E ora, il suo padre biologico, le faceva questo.

Lei, che non aveva mai voluto avere niente a che fare con Sam, con quell’uomo egoista che non l’aveva neppure voluta conoscere, le imponeva il suo lascito!

Avrebbe preferito mille volte essere una comune lupa, piuttosto che portare su di sé il peso di quel titolo, quel titolo che lui le aveva passato con il suo sangue.

Perché nulla v’era di più facile, tra i lupi, che ereditare il ruolo di uno dei due genitori.

Uno scricchiolio di foglie e rami secchi la portò a volgere dolente il muso verso il bosco e, a sorpresa, Penny vide comparire Spike in forma di lupo.

Erano davvero simili, per colore e stazza. Due lupi enormi, del colore delle foglie autunnali.

“Ebbene, allieva? Cos’è questa sparata?”

Come sempre, Spike non ci andava per il sottile, con lei, pur se poteva comprendere benissimo la sua ansia.

Era così strano, poter percepire tutto ciò avvertiva attorno a sé con la sola forza della mente!

La potenza del suo corpo di lupo, le energie infinite della terra, la morbidezza della sua aura. Era tutto così nuovo, così bello… così perversamente ingiusto!

“Con tutto il rispetto, Spike, ma non volevo essere uno Sköll.”

“Non ti chiedo neanche il perché. Non posso esserne la causa, visto che sono io uno Sköll eccezionale.”

Lo disse con così tanta sicurezza e supponenza che Penny non poté non ridere, così tossì quella che le parve una risata lupesca e si sedette sul fogliame secco, allungando il lungo corpo di lupo.

Spike, invece, si accomodò sulle zampe posteriori, fissandola con i suoi penetranti occhi verde oliva.

“Si è ciò che si è, bambina, non ciò che gli altri vorrebbero. Il tuo sangue è forte e, se tuo padre ti ha lasciato almeno una cosa buona, ben venga. Non gli devi nulla. E questo tuo essere il nuovo secondo in comando, puoi vederlo come un pagamento per i suoi peccati.”

“Ma mi ricorderà sempre di lui, e non voglio!” protestò Penny, uggiolando infastidita.

“Pensi che Alec, guardandosi tutti i giorni allo specchio, non veda suo padre mentre lo ferisce con il suo artiglio… o mentre abusa di lui, o di Pat? Lo rammenta ogni maledettissimo giorno, ragazzina, eppure ha fatto di necessità virtù e, in qualche modo, ha messo un passo davanti all’altro e si è fatto coraggio” ringhiò Spike, senza alcuna pietà.

Penny accusò il colpo, ben sapendo dei trascorsi del padre di Alec, e di cosa aveva fatto ai due figli.

“Non credere mai di essere speciale, o che la vita sia stata crudele con te. Lo è stata con tutti, crudele. Chi in un modo, chi nell’altro. Brianna ha perso i genitori, il suo amico umano, ha nella testa una bomba a orologeria pronta a esplodere al minimo starnuto, eppure va avanti. E’ la donna più forte e in gamba che io conosca, tolta tua madre, e io non posso credere che tu ci deluderai tutti quanti, piangendoti addosso solo perché non sopporti Sam!”

Penny digerì malamente le parole piene di livore di Spike e, rizzandosi sulle zampe con forza, fissò rabbiosamente il suo mentore, replicando furiosa: “E’ così che cerchi di aiutarmi? Facendomi capire che sono debole?!”

“Tu non sei debole, sciocchina che non sei altro! Hai solo paura! E la paura è foriera di errori sempre più grandi! Noi abbiamo avuto paura, a suo tempo,… paura di sbagliare, di deludere Alec, di non essere abbastanza forti per sostenerlo, e guarda cosa abbiamo rischiato di fare, con questo branco?!” sbottò Spike, il cui tono divenne dolente, contrito e stanco.

Basita, Penny si azzittì subito, chiaramente stupita di venere in Spike un qualche tipo di rimorso, o dolore.

“Pensi che ognuno di noi non sappia che, negli anni, abbiamo abusato del nostro potere, per tenere in scacco i lupi più indisciplinati? Lo sappiamo bene ma, all’epoca, pensammo che fosse il modo giusto perché loro non commettessero errori. Li stavamo compiendo noi per primi, non concedendo loro un minimo di fiducia.”

“Volevate solo il meglio, per loro…” mormorò Penny, desiderosa di chetare la sua contrizione.

“Si può volere il meglio, ma sbagliare ugualmente nel tentativo di ottenerlo. Perciò, non avere paura di sbagliare, perché sbaglierai, bambina. Lo facciamo tutti. Ma la vera forza sta nell’accettare di avere sbagliato, e adoperarsi per migliorare, per non commettere più lo stesso errore.”

Penny assentì col muso, ora più tranquilla, e mormorò: “Devo accettare ciò che mi è stato dato per errore, e tramutare questo dono non voluto in un pregio…”

“Puoi odiare Sam finché scampi, ragazza, non sarò certo io a negartelo, ma non fare sì che il suo essere un idiota ti condizioni. Accetta il suo sangue e fai in modo che venga usato nel modo migliore, e non come ha fatto lui, che ha gettato al vento ogni cosa per non voler ammettere di aver commesso un errore.”

“Papà se l’è presa, perché sono scappata?” domandò a quel punto Penny, contrita.

“Più che altro, era dispiaciuto perché immaginava i motivi che ti avevano spinta a fuggire, così gli ho detto che ti avrei parlato io, e saremmo tornati a casa assieme.”

“La mamma ci rimarrà male? Per via del mio essere come… come Sam.”

Spike le ringhiò contro, facendola uggiolare di sorpresa e, con voce cavernosa, il lupo sibilò: “Tu non sei lui, Penelope Dawson. Tu sei la mia allieva, la figlia del nostro Fenrir e della sua Prima Lupa. Sei una Figlia della Luna del branco di Bradford, e non vedo onore più grande, onestamente. Perciò, non sei lui.”

“Giusto. Sono l’allieva del più scorbutico Sköll di tutta l’isola, perciò non potrò che diventare la migliore. Poco ma sicuro” ironizzò a quel punto Penny, facendo scoppiare Spike in una grassa risata.

“Questo è parlar chiaro, ragazza! E ora, torniamo a casa e festeggiamo la tua investitura. Ho idea che, nei prossimi mesi, scopriremo chi sono gli altri due Gerarchi. Quando uno parte, gli altri si accodano alla svelta.”

“Speriamo siano persone che mi piacciono.”

“Ho idea che saprai farti amare da chiunque ti capiterà nella Triade” dichiarò a quel punto Spike, incamminandosi per tornare indietro.

Penny, allora, gli trotterellò al fianco e, gustandosi finalmente con pienezza il suo nuovo corpo di lupa, mormorò: “Sarà una figata, d’ora in poi…”

“Puoi dirlo forte… ma non dirlo davanti a tua madre. Sai che le fa schifo quando usi parole del genere” ghignò Spike, mostrando le zanne bianchissime.

Penny rise, assentendo e Spike, strizzandole l’occhio, si mise a correre.

Lei lo seguì un attimo dopo e, con il cuore nuovamente leggero, si domandò chi sarebbero stati gli altri due membri della Triade.

Chissà chi sarebbero stati gli allievi di papà e di Will?

Una cosa, però, Penny la sapeva per certo. Ci sarebbe stato da divertirsi con Spike, da quel momento in poi.

E lui, finalmente, non avrebbe più potuto scansare le sue attenzioni.

Tutta soddisfatta, perciò, accelerò l’andatura e Spike con lei. Sarebbero diventati amiconi, anche se il suo mentore ancora non lo sospettava.

Anche perché, se solo avesse sospettato una cosa simile, sarebbe stato Spike, a scappare a gambe levate, non più lei.

Ma avrebbe fatto capire a quello scorbutico lupo che, avere un’amica ragazzina, non era poi così male.

Così come non era male, dopotutto, aver ereditato questo, da Sam.

 






Note: Come abbiamo appena scoperto, Penny sarà la prossima Skoll del branco di Bradford e, pur se all'inizio la cosa non le è piaciuta per via del suo padre biologico, siamo ormai sicuri che Spike le farà cambiare idea definitivamente.
Rimane da scoprire chi potranno essere gli altri due Gerarchi. Idee su come comporre il trio? Due maschi e una femmina? Tre femmine? Due femmine e un maschio? A voi la votazione!

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Capitolo 24
*** To be, or not to be? (Settembre 2017) Penny ***


To be, or not to be? 

(Settembre 2017)
 
 


La casa dei McKalister era colma di persone, provenienti da ogni angolo dell’Isola, e tutti per festeggiare il battesimo del piccolo Nathan McKalister.

Brianna e Duncan erano semplicemente raggianti, con il loro piccolo tra le braccia, e i sorrisi alla coppia e al bebè si sprecavano.

Quella visita, ormai organizzata da tempo, aveva reso l’attesa della partenza frenetica e piena di energia, per Penelope.

Quando infine erano giunti a Matlock, Penny era praticamente balzata fuori dall’auto per correre incontro ai vecchi amici, incapace di attendere oltre l’impazienza.

Alec, Erin e il piccolo Gareth erano stati più decorosi, nella loro entrata in scena, mentre Blair e Kyle, futuri Fenrir e Hati di Bradford, si erano accodati a un’entusiasta Penny per non perderla di vista.

E, soprattutto, per vedere il piccolo McKalister.

Dopo aver presenziato alla solenne celebrazione in chiesa, l’infinita schiera di ospiti si era poi spostata a casa della coppia e, ora, tutti si stavano divertendo, bevendo, mangiando e ascoltando musica.

L’atmosfera era rilassata, piacevole, e quell’occasione era propizia per rinsaldare vecchie amicizie e farne di nuove.

Tra queste nuove figure vi erano i vari figli dei clan, ormai abbastanza grandi per poter partecipare a eventi simili, e pronti per creare nuove alleanze.

I due figli di Pascal Laroche, capoclan del branco di Cardiff, avevano diciotto e sedici anni e, entrambi, si erano rivelati essere membri della futura Triade.

Il più anziano, nelle vesti di Hati, il più giovane, nelle vesti di Fenrir.

Il loro Sköll, invece, era risultata essere una ragazza di nome Fianna, coetanea del suo Fenrir, e con uno spiccato senso dell’umorismo.

Liam e Colin, i due fratelli Laroche, invece, erano abbastanza seriosi, pur se stavano agli scherzi della loro Sköll, ed erano fieramente protettivi nei suoi confronti.

Nell’osservarli mentre Penny era impegnata a chiacchierare amabilmente con Fianna, Kyle mormorò a Blair: “Pare che sia lei, la futura Fenrir, e non Liam. La tengono d’occhio come dei falchetti.”

“E’ solo perché le vogliono bene, e si tende a dimenticare che, sotto l’aspetto apparentemente fragile di quella ragazza tutta sorrisi, c’è un lupo. Anche per noi è difficile, pur se sappiamo la verità” motteggiò saggiamente la ragazza, sorseggiando il suo succo di frutta. “Inoltre, tu non stai facendo la stessa cosa?”

“Con te? Ovvio! Sono il tuo Hati!” dichiarò lapidario Kyle, fissandola dall’alto del suo metro e ottantasei. Un vero gigante, pur avendo solo sedici anni appena compiuti.

Blair lo fissò di rimando con aria scettica, gli occhi color delle colombe che sprizzavano ironia malcelata e vaga derisione.

Accigliandosi leggermente, il giovane sbuffò, intrecciando le braccia sul torace, e borbottò: “E’ inutile che fai quella faccia, Blair. Ti ho detto la verità.”

“Non mi servono le doti di Lady Fenrir, per capire che stai mentendo alla grande, amico mio” gli sorrise bonaria lei, dandogli una pacca su un braccio. “So che sei accanto a me per proteggermi ma, soprattutto, stai qui perché non vuoi arruffare le piume in presenza di Penny, altrimenti potrebbe capire cosa provi per lei. Ma ti scoccia vedere come lei fraternizzi con tutti… e piaccia ai due lupi gallesi.”

Kyle la frizzò con lo sguardo, i cerulei occhi fiammeggianti d’ira repressa, ma Blair non ci fece alcun caso, e aggiunse: “Ricorda che io ho l’occhio lungo, per queste cose, e conosco sia te che Penny molto bene. Quindi, la faccenda si riduce a un’unica domanda: glielo dirai, o no?”

“Dirle cosa?” brontolò il giovane, distogliendo a fatica lo sguardo da Penny e gli altri per raggiungere il tavolo dei rinfreschi.
Blair lo seguì, simile a un folletto dispettoso, e ciangottò: “Ma come, ‘cosa’? Mi prendi per idiota, mio Hati?”

“Non lo farei mai, mia Fenrir ma, quando dici scemenze, è inutile darti corda” le replicò lui, afferrando un bicchiere di succo d’arancia, che ingollò in un colpo solo.

Di seguito, prese un pezzo di torta agli amaretti e, fissando bieco la sua amica, aggiunse: “Rigiriamo la frittata. Ho visto come hai guardato Colin. Non mi dire che non ti piace!”

“Mi sono lustrata gli occhi, lupo dei miei stivali e, fino a prova contraria, non è vietato da nessuna legge. Potrò pure leccarmi i baffi, ogni tanto” scrollò le spalle Blair, facendo finta di niente.

“Siamo sicuri che tu ti sia limitata a questo?”

Assottigliando le palpebre per fissarlo accigliata, la giovane Fenrir dichiarò: “Non me la faccio con lupi appartenenti alle Triadi. Sai che casino ci salterebbe fuori?”

“Al cuor non si comanda…” replicò Kyle, indicando col pollice Hugh e Tempest, impegnati in una chiacchierata a due nei pressi del roseto. “… visto che quei due sono innamorati da anni, indipendentemente dalle loro cariche.”

“Sì, e infatti guarda che vitaccia devono vivere. Lei, bloccata in quello sputo di terra dimenticato da Dio, e lui Hati della sua Fenrir, in Cornovaglia, nel punto più opposto dell’isola che potesse esserci!” brontolò Blair, scuotendo il capo.

“Al cuor non si comanda…” ripeté il ragazzo, ghignando con aria furba.

“Parla per te, Romeo. Io non ho problemi di cuore, ma tu sì, bello mio. E anche grossi” gli ritorse contro Blair, aprendosi in un sorriso malizioso.

Kyle fece per dirle qualcosa, ma l’arrivo tempestoso di Penny gli fece morire la replica in gola.

Preso sottobraccio dalla ragazza che tanto gli piaceva, Kyle la fissò stranito per alcuni attimi, prima di dire: “Ehi! Che succede?”

“Presto, venite! Andiamo a vedere i cavalli di Duncan! Pare che ce ne sia uno che da’ spettacolo, quando è in presenza di tanti licantropi!” rise Penny, trascinandolo con sé senza alcuna pietà.

Blair si accodò con passo tranquillo, sghignazzando senza pudore nel vedere i due allontanarsi a braccetto.

Liam le si affiancò, lanciò un’occhiata nella stessa direzione e, con ironia, disse: “Devo dire che la tua Sköll ha l’argento vivo addosso. Un po’ come la mia.”

Blair assentì e, quando anche Colin si avvicinò a lei, la ragazza dichiarò ironica: “Devo mettere in guardia il mio Hati, perché ti faccia abbassare la cresta?”

“Oh, no… non ti preoccupare” ironizzò Colin, passandosi una mano tra la folta chioma bruna. “Ho una tensione al collo tremenda, a causa dell’ansia che mi ha fatto venire il tuo Kyle. Avevo il terrore di avvicinarmi troppo a Penny, anche per errore, e di scatenare la sua gelosia.”

Blair non ce la fece. Rise di gusto e, preso sottobraccio Colin, ammise: “Kyle è buono come il pane, ma guai a toccargli Penny. Lei non se n’è ancora accorta, ma mi pare evidente che lui sia cotto come una pera, e chiunque tenterà di avvicinare la mia Sköll, avrà prima a che fare con lui.”

“Non invidio il malcapitato” sorrise divertito Liam. “Ma perché, semplicemente, non glielo dice? Mi sembra che anche Penny sia interessata a lui o che, comunque, si trovino bene insieme. Per lo meno, da quel che ho visto.”

“Perché Penny è così. Lei dispensa amore e attenzioni a tutti, e lo fa con il più totale altruismo. E’ difficile dire cosa pensi veramente, anche per persone che la conoscono da anni come me” sospirò Blair, non sapendo davvero che pesci prendere.

Le spiaceva vedere Kyle così sulle spine, ma non voleva intromettersi in una faccenda che non la riguardava direttamente.

Inoltre, voleva bene a entrambi, e non era davvero il caso di mettere il becco in faccende simili.

“Forse, se gli dicessi che mi piacciono i ragazzi, si rilasserebbe almeno in mia presenza, che dici?” le propose Colin, strizzandole un occhio.

“Solo se è la verità. Diversamente, penso ti strangolerebbe” replicò Blair, sospirando dentro di sé per quello spreco di materiale di prim’ordine.

“Assolutamente la verità. Vero, Liam?” ghignò Colin al fratello.

“Oh, eccome, Blair. Mio fratello è gay al cento percento. Penso sia il re dei gay. Non ha mai avuto dubbi, e io lo invidio molto per questo, perché le certezze nella vita sono importantissime” chiosò Liam, sorridendo con affetto al fratello maggiore.

“Perché, tu non hai ancora deciso da che parte buttarti?” esalò Blair, ora curiosa come non mai.

I due fratelli esplosero in una risata di gola, e scossero all’unisono il capo.

Quando infine si calmarono, Liam riuscì a dire: “No, ma ho maree di lupe arrapate che non vedono l’ora di impalmarmi, e io invece le rifuggo tutte perché so a cosa mirano, e mi fanno un po’ schifo, onestamente.”

“E’ un problema che hanno avuto in tanti, ma penso sarai in grado di scegliere per il meglio, quando scoprirai chi è la donna giusta per te” motteggiò Blair, sorridendogli con sicurezza.

“E per te? Esiste già un potenziale Primo Lupo, o ti lasci ancora tempo per pensarci?” le domandò curioso Colin.

“Io? Io mi lustro gli occhi, e lo farò ancora per anni e anni, onestamente” sorrise furba Blair, lanciando un’occhiata maliziosa a Colin, che replicò con altrettanta malizia. “Peccato per il qui presente, ma penso mi accontenterò comunque di sbirciare, se non darò fastidio.”

“Gli sguardi ammirati fanno sempre piacere… anche quelli delle donne” ironizzò Colin, sollevandole una mano per darle uno scherzoso bacio sul dorso.

Le risate di Penny, Kyle e Fianna interruppero il loro discorso faceto e, quando finalmente entrarono nella stalla, non poterono che unirsi al coro.

Michael, il lipizzano bianco, era davvero un fenomeno da circo.

In piedi nel suo box, stava giocando con la sua coda, mostrando al suo pubblico improvvisato il deretano enorme e bianco latte.

Penny, ancora ancorata al braccio di Kyle, se la stava ridendo della grossa mentre il ragazzo al suo fianco, più impegnato a guardare lei, si domandò per l’ennesima volta perché non avesse il coraggio di parlarle.

Si conoscevano fin da quando lei era giunta da Belfast, avendo avuto la fortuna di capitare nella stessa classe assieme.

Assieme a Blair, avevano composto la loro Triade di Potere nel breve lasso di pochi mesi l’uno dall’altra.

Se per Blair era stata quasi una conferma senza sorprese – era sempre stata una leader, fin da piccolissima – per Kyle era stata un’autentica sorpresa.

Mai nessuno, nella sua famiglia, aveva fatto parte di una Triade.

Questo, non l’aveva solo reso orgoglioso, ma gli aveva dato anche qualche speranza in più.

Essere allo stesso livello di Penny lo aveva reso più sicuro di sé, più coraggioso… ma così tanto da dichiararle ogni cosa.

Come avrebbe fatto a dirle tutto, rischiando così di rovinare la loro bellissima amicizia?

Ci teneva a lei, in un mondo di modi diversi e tutti più che importanti per lui, ma voleva di più, desiderava che Penny fosse la sua Penny.

Non la Penny di qualcun altro e, soprattutto, non la Penny di Colin Laroche.

Il punto, comunque, era un altro, e si riduceva a un’unica domanda: era o non era in grado di dirglielo?

Al momento, sembrava proprio di no.
 
***

Impegnata in una corsa sfrenata intorno ai tavoli assieme al fratellino, a Matthew – il figlio di Becca e Fred – e a Maggie, la cucciola di Estelle e Bright, Penny appariva lontana mille miglia da lui.

Poggiato contro lo steccato che delimitava l’area destinata ai cavalli, Kyle si irrigidì appena quando vide Colin avvicinarsi a lui con un paio di piatti ricolmi di patatine e torta salata.

Non aveva parlato molto con lui ma, in compenso, Penny aveva colmato le sue lacune ampiamente. Anche troppo, per i suoi gusti.

Quando infine il giovane ed elegante Laroche si fermò al suo fianco, porgendogli un piatto con aria sorniona, Kyle accettò l’offerta e domandò: “Stai scappando dal caos sotto i tendoni?”

“Tra le altre cose” ammise Colin, afferrando una patatina per poi addentarla. “Ma volevo anche evitare che ti venisse un infarto.”

“Perché, scusa?” borbottò Kyle, adombrandosi immediatamente.

Il giovane Laroche scrollò le spalle, replicando con calma olimpica: “Perché ho visto come sei protettivo nei confronti di Penny, e non volevo monopolizzare il suo tempo. Anche se è bello averla attorno. E’ una ragazza adorabile.”

Imprecando tra sé per il desiderio di spaccargli la faccia, pur non potendo, Kyle azzannò nervoso un pezzo di torta salata e bofonchiò: “Sì, è adorabile. Ma non devi pensare che serva il mio permesso, per stare in sua compagnia. Se ti ho dato questa impressione, mi scuso.”

Colin allora rise sommessamente, lo fissò per un attimo con aria comprensiva e infine disse: “Non devi scusarti di nulla. anzi, sono io che dovrei farlo, se ti ho dato l’impressione sbagliata di essere interessato a lei.”

“Non ci sarebbe nulla di male. Sarebbe un casino a livello logistico, ma non sarebbe comunque vietato” precisò Kyle, pur faticando a mettere in riga le parole.

Avrebbe voluto dire ben altro, a quel pallone gonfiato dalla faccia perfetta!

“Oh, lo so. Peccato che non mi piacciano le ragazze” ironizzò Colin, ammiccando.

Kyle sbiancò in viso, a quel commento buttato lì con assoluta naturalezza e Laroche, scrollando appena le spalle, aggiunse: “Non è un segreto per nessuno, e non voglio avere sulle spalle la vittima di una crisi di nervi, se posso evitarlo.”

“Ancora non capisco perché…”

Colin, a quel punto, tornò del tutto serio e, soppesando tra le mani una patatina, asserì: “Far finta di niente non aiuta te, e non aiuta lei a farsi chiarezza. Diamine, Penny è adorabile e, come dice la tua Fenrir, dispensa amore solo standole accanto. E’ una creatura dolcissima e carica di un’energia così positiva da essere quasi accecante. Ma mentirle è ingiusto.”

Sospirando suo malgrado, Kyle borbottò: “Ci legano troppe cose, e rovinerei tutto, se le dicessi quello che provo per lei.”

“Quindi, le mentirai finché Penny non vedrà qualcuno che non sei tu, perché ti considererà sempre e solo l’amico che l’accompagna nelle sue avventure, ma non vi partecipa mai con il cuore?” gli fece notare Colin, senza pietà alcuna.

“Io sono sempre partecipe!” sbottò Kyle.

“Se lo fossi davvero, glielo avresti detto. Invece ti mantieni sempre un po’ a distanza, e questo potrebbe allontanarla, col passare degli anni. Potrebbe farla sentire indesiderata, alla fine” gli fece notare Colin, tornando a parlare con estrema comprensione.

“Tu che ne sai? Non la conosci come la conosco io.”

Colin, allora, ammiccò mestamente e disse: “Quando ti piace qualcuno che non ricambia, la vita è dura, amico. Molto dura.”
“Oh” esalò Kyle, facendo tanto d’occhi.

“Per questo ti dico, visto che ti piace tanto, non darle l’impressione che le stai vicino solo perché lo vuole lei. Deve capire che anche tu vuoi stare in sua compagnia e non come prima, alle scuderie, quando facevi di tutto per stare a distanza di sicurezza da lei, senza però mollare il suo fianco. Sono input contrastanti.”

Ripiegato il capo in avanti, Kyle si prese la testa tra le mani e, sospirando afflitto, gracchiò: “La vorrò sempre come amica, anche se lei decidesse per qualcun altro che non sia io. Se le dicessi tutto, lei potrebbe rimanerci male, nella malaugurata ipotesi che non provasse le stesse cose per me, e non voglio vederla soffrire a causa mia.”

“Quindi, vivrai per sempre nell’ombra?” mormorò Colin, spiacente.

“Non me la sento di turbarla proprio ora con i miei sentimenti. E lei ha tutto il diritto di guardarsi in giro, anche se a me da fastidio e anche se, nel caso specifico, ho solo fatto la figura dell’idiota, pensando chissà che cosa” cercò di ironizzare Kyle, abbozzando un sorriso.

Colin allora rise, si passò una mano tra i capelli bruni e setosi e, compiaciuto, ammise: “Sì, in effetti, capisco il tuo errore. Le donne farebbero follie per me… peccato che la cosa sia a senso unico.”

A quel punto, i due scoppiarono a ridere e, quando Liam li raggiunse coi beveraggi, domandò: “Tutto okay, tra voi due?”

“Ho chiarito tutto” assentì Colin, afferrando dalla mano del fratello una lattina di Coca-Cola.

“Bene. Non vogliono ci siano dissidi con il Clan di Bradford” dichiarò soddisfatto Liam, sorridendo a Kyle.

“Tutto regolare, Liam. E scusa se ti ho preoccupato con le mie insulse gelosie” replicò Kyle, scrollando le spalle con contrizione.

“Ehi, amico! Sarebbe strano il contrario. Chi non potrebbe non essere geloso di una ragazza simile? Anch’io sono geloso della nostra Fianna, anche se non per motivi sentimentali. E’ così adorabile e sincera che mi viene spontaneo proteggerla, anche se lei poi, mi rivolterebbe sulle ginocchia per sculacciarmi!” rise Liam, passandosi nervosamente una mano sulla nuca, quasi a voler intendere che un evento simile si era già svolto.

Kyle e Colin risero con lui e, quando l’ilarità fu scemata, Colin ammise: “Fianna può esplodere peggio di un vulcano islandese, se le cose non le piacciono… o se noi facciamo troppo i galli cedroni con lei.”

“Non si sa mai come prendere le misure, insomma” sospirò Kyle, lanciando un’occhiata a Penny che, proprio in quel momento, si volse verso di lui per sorridergli.

Finendo con lo sbattere contro il torace di Eric Goudall, Fenrir del clan di Coulchester, che stava tenendo in braccio il figlio Ford, di due anni e mezzo.

“Oddio…” esalarono i tre ragazzi, guardandola a occhi sgranati mentre Penny, ballonzolando all’indietro, veniva afferrata dal braccio libero di Eric.

Penelope, a quel punto, si scusò a profusione mentre Ford scoppiava in una gaia risata ed Eric le dava una pacca sulla testa.

L’attimo seguente, Alec li raggiunse per assicurarsi che tutto andasse bene e, tra i due Fenrir, passarono diverse battute riguardanti l’attenzione di Penny e la sua velocità nella corsa.

Tutto sembrava essersi risolto bene, tranne che per Penny che, in quel momento, mostrava i segni di una contrizione assoluta.

“Vai da lei e consolala. Ho idea che ne abbia bisogno” mormorò Colin, dando una spintarella a Kyle che, dopo un attimo di tentennamento, corse dall’amica.

Rimasto con il fratello, Liam gli domandò: “Glielo dirà, secondo te?”

“No. Non è ancora pronto” scosse il capo Colin, mangiandosi l’ennesima patatina. “Ma, per lo meno, ha ammesso ad alta voce che Penny gli piace. E’ sempre la parte più difficile, ammetterlo con qualcuno che non sia te stesso.”

Liam fissò spiacente il fratello maggiore e, subito, lo sguardo gli corse a Carter Jones, giovane Freki del loro branco.

Di nove anni più grande di Colin, era il suo amore segreto… e non corrisposto.

Carter era etero al cento percento e, anche conoscendo i sentimenti di Colin, non gli aveva però mai fatto mancare il suo affetto e sostegno, pur non potendo corrispondere il suo amore.

Colin gli era grato per le sue attenzioni, anche se non sapeva se fossero più un danno, per lui, che un favore.

D’altra parte, rinunciare alla sua amicizia gli pareva una cosa impossibile da contemplare così… beh, viveva il suo dramma personale con stoicismo, in attesa di farsela passare.

“Tutto bene, Colin?” gli domandò Liam, battendogli una mano sulla spalla.

“Io sono okay. Ma mi preoccupa Kyle. Spero non commetta l’errore di stare in silenzio troppo tempo. I treni vanno presi al momento giusto, o si rischia che non tornino mai più nella tua stazione” borbottò Colin, sospirando.

“Torniamo in mezzo agli altri… diventi malinconico, a stare da solo” ironizzò Liam, trascinandolo con sé.

Colin si lasciò portare via da quell’angolo di pace e, con lo sguardo, cercò Penny e Kyle, trovandoli in un angolo appartato, intenti a parlare.

No, non gliel’avrebbe detto ma, almeno per quel giorno ancora, poteva fare le parti dell’amico sincero.

Quanto avrebbe potuto durare, senza ammettere la verità, non lo sapeva, ma sperava per entrambi che andasse tutto bene.







Note: E così, conosciamo la nuova triade del clan di Bradford, oltre a quella del clan di Cardiff, di cui sentiremo ancora parlare. 
Scopriamo così che Penny ha uno spasimante e che, a quanto pare, non sembra ancora sicuro di voler spifferare tutto con lei. Colin avrà ragione a dirgli di non aspettare troppo? Lo scopriremo nella prossima OS dedicata a loro.
Spero che le new entry vi abbiano incuriosito (e, per quanto riguarda i loro presta-volto, arriveranno con la prossima OS, quando saranno un po' più grandicelli).
Grazie per essere passate!

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Capitolo 25
*** Essere lupa... e donna (Settembre 2021) Penny ***


Essere lupa… e donna  (Penny)
Settembre 2021

 
 
 
Atterrando Penny con una spallata, Kyle balzò vittorioso su uno sperone di roccia che si gettava direttamente sulle spianate del Peak, e ululò.

Poco dietro di lei, stizzita e pronta a dar battaglia, Penny si rialzò sulle zampe rossicce e fece per avanzare bellicosa verso Kyle, ma Spike la fermò con un ringhio.

Trotterellando come se nulla fosse, Blair fissò la sua seconda in comando, ghignò con le zanne snudate e, mentalmente, disse all’amica: “E dire che, ormai, dovresti conoscere Kyle, no?”

“Che è uno stronzo? Sì, lo so, ma i limiti della sua stronzaggine sembrano non esistere” brontolò Penny, fissando poi contrita il padre, che giunse loro accanto assieme a William.

“Sbaglio, o si era detto niente parolacce?” brontolò Alec, fissando torvo la figlia. “Kyle si è attenuto alle regole… visto che non ce n’erano, a parte non ammazzarvi. Invece, tu ti sei fidata della tua velocità senza badare alla posizione del tuo diretto avversario, e hai lasciato scoperto il fianco.”

Sbuffando, Penny si volse a guardare Spike che, però, assentì e aggiunse: “Tuo padre ha ragione. Inoltre, dovresti ricordati che, quando vi allenate, non siete fidanzatini, ma solo avversari. Lui se lo ricorda, tu no.”

Se un lupo avesse potuto arrossire, Penny sarebbe sicuramente divenuta vermiglia.

Era difficile mantenere segreti di tale portata, quando ti allenavi con menti così potenti.

Inoltre, lei e Kyle non stavano insieme da tanto – solo da tre mesi – e gli ormoni parlavano molto più spesso della sua bocca.

Maledetta lei e gli estrogeni!

Trottando indietro, l’Hati che era Kyle le si avvicinò come a voler chiedere scusa, ma William lo bloccò e disse: “Non devi chiederle perdono, Kyle. Hai vinto regolarmente, sfruttando un suo punto debole per avere la meglio. Lo scopo della gara era, per l’appunto, smussare i propri punti deboli e migliorarsi. Tu l’hai fatto, lei no.”

“D’accordo, ma non si potrebbe evitare di rivangare troppo la cosa?” protestò debolmente Kyle, facendo infuriare Penny per diretta conseguenza.

“Non ho bisogno che tu mi difendi, Kyle!” sbottò l’interessata, fissandolo rabbiosa.

Sul gruppo scese un silenzio imbarazzato, condito solo dallo sfrigolare dell’aura furente di Penny.

A quel punto, Blair si mise e in mezzo e disse: “Pregherei la vecchia Triade di darsi alla macchia per un po’. Devo parlare con i miei sottoposti.”

Alec assentì col muso e, dopo aver lanciato un’occhiata ai suoi due compagni, si avviò verso le ombre scure della notte e i boschetti del Peak District.

Rimasti soli, Blair guardò il suo Hati e la sua Sköll dopodiché, con un sospiro, si accucciò sulle zampe e mormorò: “Penny, è inutile che fai la sostenuta. Non hai ragione. Punto.”

“Oh, grazie, Blair! Sei davvero simpatica! E dire che ti consideravo mia amica!” sibilò Penny, raspando a terra nervosamente con una zampa.

Kyle si limitò a imitare la posa della sua Fenrir e, spiacente, fissò la ragazza – ops, lupa – del suo cuore e sperò in un suo sguardo di rimando.

Nulla da fare.

Penny era davvero furiosa, pur se non comprendeva bene perché.

Lei aveva vinto in velocità decine di volte, e lui si era dovuto scervellare non poco per trovare, nella sua corsa, un punto debole in cui colpirla.

Non poteva fargliene una colpa se aveva trovato il modo di vincere! Il loro allenamento consisteva nel migliorarsi!

Ugualmente, gli spiaceva essere in rotta con lei perché, dopotutto, si stava parlando della ragazza per cui aveva una cotta fin da quando lei si era trasferita da Belfast.

Era stato uno shock, per Kyle, ritrovarsela in classe, quell’autunno del duemiladieci.

Quella candida ragazzina dai capelli biondi e gli occhi di cielo, apparentemente fragile e docile come un agnellino, si era presto dimostrata un osso duro.

E una creatura adorabile.

Molti ragazzi, a scuola, le avevano fatto la corte in modo più o meno sfrontato – per lo meno, i ragazzini normali, non certo i figli di licantropi – ma lei aveva sempre nicchiato.

Per molti anni era stata irraggiungibile e, quando si era scoperto sarebbe stata la prossima Sköll del branco, Kyle si era sentito più inadeguato che mai.

Era stato un sollievo, dopotutto, giungere alla mutazione, pur con tutti i timori del caso.

La wicca di Matlock aveva dovuto richiamarlo con il sangue ma, alla fine, tutto era andato per il meglio e, quando aveva squadrato il suo manto nero, ne aveva gioito.

Dopotutto, non sarebbe stato un semplice mánagarmr, ma un membro della Triade, un Gerarca.

Un lupo degno di quella creatura indomabile che era Penelope Dawson.

Scoprire in Blair Donovan la futura Fenrir non era stata una sorpresa, visto che proveniva da una famiglia dal sangue quasi puro.

Inoltre, fin da piccola, Blair aveva dimostrato le indubbie capacità di un leader. Dove Penny eccelleva per dialettica e tenacia, lei compensava con strategia e calma.

Erano complementari in tutto, e questo sarebbe stato un bene per il branco, in futuro.

E lui avrebbe pensato a tenere al sicuro entrambe, pur amando Penny.

Restava da capire se quest’ultima avrebbe accettato la sconfitta in quella gara – non le piaceva perdere – o se questo avrebbe minato il loro rapporto.

Sperò davvero di no.

Riportandolo con i piedi per terra, Blair dichiarò: “Non voglio drammi nella mia Triade. Se non siete in grado di gestire il vostro rapporto, e il vostro ruolo, allora abbiamo un problema serio. Dovrete lavorarci su.”

Penny fissò entrambi con aria aggrottata e, dopo un istante, fece un cenno ossequioso col muso e se ne andò di corsa, macinando il terreno sotto le zampe.

Kyle la lasciò andare. Non era quello il momento di parlare.

Fissandolo turbata, Blair gli domandò: “Non la segui?”

“E’ una vita che la seguo, Blair. Posso stare senza di lei per qualche ora. Inoltre, non spetta a me farle passare la rabbia, ma a lei stessa.”

“Saggia decisione, mio Hati. Allora, torniamo pure alle auto. Attenderemo lì il ritorno della nostra compagna” dichiarò Blair, dandogli un colpetto con la spalla.

“Dici che ho fatto male a darle quella spallata?”

Blair rise, scuotendo il muso, e replicò: “Era la gara che lo esigeva e, visto che in gara c’eravate voi, è stato giusto così. Penny è molto orgogliosa del suo ruolo, oltre che orgogliosa di suo padre, e non vuole mai sfigurare quando c’è lui. Inoltre, perdere proprio contro di te la fa andare in bestia. Temo pensi che tu non possa stimarla, se si dimostra debole.”

Kyle la fissò con occhi adamantini sgranati per la sorpresa, e Blair assentì, dando peso al suo dire.

“Ti stima così tanto da non voler essere un peso, per te. Dimostrarsi la più brava in tutto serve anche a questo, non solo a rendere fiero il padre, o il suo mentore.”

“La amerei anche con mille difetti” sottolineò per contro Kyle.

“Stai parlando di una donna, Kyle, e di una lupa. Un concentrato di estrogeni e forza bruta allo stato puro. Davvero troppo, perché non ne venga qualche problema” ironizzò Blair, accelerando un poco il passo.

Kyle non seppe che dire e, seguendo la sua Fenrir, accelerò l’andatura mentre la luna illuminava il loro percorso lungo la brughiera.
 
***

Poteva ricordarlo come se fosse successo il giorno precedente.

Entrambi iscritti all’università di Bradford, pur se lei alla facoltà di Legge, e lui a quella di Informatica, potevano vedersi praticamente tutti i giorni.

Fin da quando si erano conosciuti alle scuole elementari, al suo arrivo a Bradford, Kyle era sempre stato il suo amico fidato, la sua spalla, il suo confidente.

Insieme ne avevano combinate di tutti i colori, anche con la complicità di William e Spike e, quando Penny aveva scoperto che Kyle sarebbe stato il prossimo Hati, ne era stata felice.

Sarebbe stato splendido guidare il branco con lui al fianco, lui che sapeva essere un ragazzo fidato e sincero.

Blair era stata solo la ciliegina sulla torta visto che, fin dall’inizio, Penny l’aveva idolatrata al pari di una dea.

Per lei, ciò che usciva dalle labbra di Blair equivaleva a vangelo.

Scoprirla come sua Fenrir era stata una gioia e, insieme a Kyle, avevano festeggiato non poco la sua investitura.

Insieme era divenuti grandi, oltrepassando un’adolescenza costellata di divertimento, allenamenti, studi e dure prove.

Nulla, però, l’aveva messa alla prova come il bacio che Kyle le aveva strappato una notte di luna piena di tre mesi addietro.

Soli, durante una perlustrazione notturna nei pressi dei confini meridionali del clan, Kyle l’aveva distratta mostrandole la curiosa vicinanza della luna con Venere e, a sorpresa, l’aveva baciata.

Lei ne era rimasta così colpita da rimanere impalata per diversi secondi, incapace di riconnettere la mente per capire cosa stesse succedendo.

Quando, però, le sinapsi del suo cervello avevano ripreso a funzionare, le sue mani si erano artigliate alla maglietta di Kyle e l’avevano attirato a sé per approfondire il bacio.

Questo, aveva chiuso la partita.

Che lei si fosse o meno resa conto di aver trasformato, nel suo cuore addormentato e un po’ tonto, la loro amicizia in amore, poco aveva importato, in quell’istante.

Aveva desiderato che quel bacio continuasse fino alla fine del mondo e, quando infine si erano allontanati, i volti di entrambi avrebbero potuto bruciare l’intera foresta.

Kyle le aveva accarezzato le gote in fiamme, aveva sorriso con tenerezza e, con voce solo a stento controllata, le aveva mormorato il suo amore.

Penny aveva riso nervosamente, si era stretta a lui e, nascondendo il viso nel suo torace, aveva ammesso di ricambiare.

Insieme, erano poi tornati sui loro passi, mano nella mano e, meno di un mese dopo, avevano dovuto ammettere ogni cosa coi rispettivi genitori, oltre che con gli altri Gerarchi.

Blair non se n’era stupita per nulla e se, per Alec, era stato un po’ difficile mandare giù l’idea che un ragazzo ronzasse attorno alla sua Penny, alla fine aveva digerito la cosa.

“Andrai avanti ancora per molto a rivangare il passato, ranocchia?” brontolò alle sue spalle Spike, seduto a poca distanza da lei da almeno un’ora.

Penny lo frizzò con lo sguardo, borbottando di rimando: “Nessuno ti ha chiesto di rimanere, Godzilla. Posso benissimo starmene qui a crogiolarmi nella mia stupidità congenita. Alla fine, mio padre naturale non mi ha passato solo il suo manto, ma anche la sua idiozia.”

“Ah, quella può avertela passata anche Alec, se è per questo. A volte, sa essere più idiota di un asino ragliante” ironizzò Spike, facendola ridere nonostante tutto.

“Il fatto rimane. Me la sono presa con Kyle per una cosa assurda, e ora lui mi odierà.”

“Se ti odia per una scemenza simile, allora non merita il tuo affetto, ranocchia. Ma non penso proprio che il ragazzo ti abbia veramente ascoltata, o vista al tuo peggio. Aveva le orecchie turate dall’amore, e gli occhi a cuoricino, per cui…”

Ciò detto, mimò un conato di vomito e Penny, guardandolo esasperata, dichiarò: “Non è un caso se ti chiamo Godzilla. Hai la stessa sensibilità di quel lucertolone gigante, cioè zero.”

“Scusami se non sono un amante dei film d’amore e delle scene strappalacrime” ghignò Spike, scrollando le sue spalle di lupo. “Comunque, volevo solo dirti, ora che hai il cervello libero da tutto quel miele, che devi chiedere scusa non solo a Kyle, ma a me e gli altri. Non ci si comporta così. Non ti ho insegnato così.

“Ragionissima,… scusa, Godzilla. Ma gli estrogeni sono un po’ alti, in questi giorni, e il miele mi ha fatto alzare la glicemia, così sono schifosamente languida e melensa” ironizzò Penny, allungandosi per leccargli il muso.

Spike si scostò disgustato, da sempre restio ad accettare gesti d’affetto – pur se, da lei, si lasciava avvicinare un pochino – e, orripilato, esclamò: “Dio, ti prego, Penny! Tieni queste smancerie per il tuo bel Kyluccio! Io non ho bisogno di venirne contaminato! Mi verrebbe subito il diabete!”

Penny scosse il muso con espressione rassegnata e, avviandosi verso le loro auto – parcheggiate a diverse miglia di distanza –, borbottò: “Sei davvero un caso senza speranza, Spike. Non troverai mai una donna che ti voglia, di questo passo.”

“Sto benissimo da solo, ranocchia dei miei stivali. Gracida in un altro stagno, perché questo in particolare non vuole rane di nessun genere, a creare casino e fastidi.”

“Asociale” celiò Penny.

“Dispensatrice di diabete” replicò Spike.

“Esasperante lupastro dei miei stivali” ritorse allora la ragazza, lanciandosi in un trotto leggero.

“Femminuccia in periodo di pre-mestruo.”

“Spike!” rise Penny, correndo infine a tutta velocità, subito seguita a ruota dalla risata reboante del suo mentore.
 
***

Se c’era una cosa in cui non difettava Kyle, era lo stile.

Era sempre stato un ragazzo elegante, con uno spiccato senso della moda.

Pur se, durante l’adolescenza, questo gli aveva attirato qualche battuta di troppo, dopo essere mutato in lupo tutto ciò si era azzerato di colpo.

Al primo pugno ben piazzato contro il bulletto di turno, le ironie gratuite erano svanite come neve al sole.

Penny ne aveva sempre ammirato lo stile e, segretamente, lo aveva anche invidiato.

Lei non era mai stata così brava, con gli abbinamenti.

Quella sera, quando passò da casa sua, era come di consueto perfetto.

Indossava un dolcevita grigio ghiaccio, i capelli pettinati con il gel erano tirati all’indietro per lasciare scoperto il volto bellissimo e gli occhi di un azzurro quasi irreale.

Penny, in tuta da ginnastica e calzettoni, si sentì una vera sciattona, ma Kyle neppure guardò la sua mise.

I suoi occhi erano solo per lei, per i contorni del suo viso, per le profondità del suo sguardo ceruleo, per la sua bocca rosea piegata in una smorfia.

A Kyle non era mai importato che lei fosse negata, in fatto di moda, o gliene importasse ben poco.

“Posso entrare?” le domandò a un certo punto, visto che il silenzio tra loro si stava protraendo all’infinito.

Riscossasi, Penny assentì e lo lasciò entrare, sentendosi veramente un’idiota.

Perché riusciva a complicare anche le cose più semplici, come invitare una persona a entrare in casa?

Invitatolo a seguirla, si accomodarono in cucina – i familiari erano in sala a guardare un’amichevole di rugby – e lì, afferrata la scatola dei biscotti, domandò a Kyle: “Ne vuoi un po’? Li ho fatti oggi pomeriggio.”

“Se sono i tuoi biscotti con le gocce di cioccolato e, dal profumo, mi sembra di sì, accetto volentieri” le sorrise Kyle, accomodandosi al tavolo rettangolare della cucina rustica di casa Dawson.

Un poco più sicura di sé, Penny sistemò i biscotti su un piattino di ceramica e, dopo aver servito a entrambi del latte, si sedette a sua volta e mormorò: “Scusa.”

A Kyle quasi andò di traverso il biscotto.

Tossicchiando per tornare a respirare, lui la fissò dubbioso e replicò: “Per cosa, Penny?”

“Per la scenata idiota dell’altra sera. Non dovevo farla. Ho mancato di rispetto a voi tutti” mormorò contrita, allungando una mano sul tavolo per afferrare quella di Kyle.

Lui gliela strinse subito, intrecciando le loro dita con aria felice e, scuotendo il capo, ribatté: “Non ho bisogno di scuse, ma solo di sapere se mi vuoi ancora con te. Il solo pensiero di averti ferita non mi ha fatto dormire, ieri notte.”

Penny lo fissò a occhi sgranati e, scuotendo recisamente il capo, esalò: “Ma neanche per sogno! Cioè, insomma, certo che ti voglio ancora con me. Ero più preoccupata del contrario, veramente.”

Kyle, allora, le rise in faccia senza alcuna pietà e, dolcemente, mormorò: “Sei davvero una stupida, Penny Dawson, se pensi che una tua semplice sfuriata da parte tua possa allontanarmi da te.”

Penny storse appena la bocca, borbottando: “Okay, lo ‘stupida’ me lo sono proprio meritato… ma solo stavolta.”

“E tutte le altre volte in cui lo sarai… o che lo sarò io. Non dubito che, prima o poi, sarò io a combinarne una grossa, e non tu. Per allora, ti ricorderò che tu hai peccato per prima. Cosa che, di solito, ti viene molto bene.”

“Cosa, peccare?” sbuffò Penny, accigliandosi.

“Arrivare prima” replicò Kyle, sollevando le loro mani intrecciate per baciarne il dorso.

Lei arrossì appena, mormorando: “Voglio solo essere perfetta per te.”

“Lo sei già… anche con quella tuta e i calzettoni di Hello Kitty” sorrise Kyle, ammiccando.

Penny si sporse per guardarsi le calze con un moto di imbarazzo – Hello Kitty era la sua croce e delizia – e mormorò: “Lo so, non sono molto fashion.

“Su di te, anche un completo da contadino sarebbe fashion. Perché non sono gli abiti a renderti bellissima, ma sei tu a brillare. A renderti irresistibile” dichiarò con semplicità Kyle.

“Se sono così irresistibile, perché ci hai messo tanto a vuotare il sacco?” replicò Penny, infilandosi in bocca un biscotto.

Il cioccolato si sciolse sulla lingua, scivolandole caldo e invitante lungo la gola e, per un attimo, desiderò baciare Kyle con le labbra ricoperte della stessa linfa piacevole.

L’attimo dopo, si riscosse, incolpando per l’ennesima volta i suoi ormoni. Maledetta lupa e il suo periodo fertile!

Avere lì Kyle, bellissimo e disponibile, la faceva diventare un’assatanata.

Apparentemente ignaro della sua battaglia interna, il ragazzo mormorò imbarazzato: “Se vuoi saperlo, a suo tempo, sono stato debitamente bastonato in merito.”

“Oh… e da chi?” esalò sorpresa lei.

“Da Colin del clan di Cardiff.”

A quel punto, Penny fece tanto d’occhi ed esalò: “E quando mai può averti… oh, aspetta. Al battesimo di Nathan?”

“Esatto. Notò subito il mio affetto speciale per te, e mi disse di non aspettare troppo a parlartene, perché questo avrebbe voluto dire rischiare di perderti” ammise Kyle, sorridendo mesto.

“E così, tu l’hai ascoltato ma non hai seguito il consiglio, e ti sei dovuto sorbire la sottoscritta e i suoi sei mesi folli con Butch O’Bryan” sospirò Penny, scuotendo il capo al ricordo.

I diciassette anni erano stati il suo momento più basso, quanto a capacità di discernimento.

Certo, Butch era bello, forte, affascinante, maledettamente coinvolgente… ma era umano, in primo luogo.

E, secondariamente, era un idiota che amava farsi più ragazze contemporaneamente.

Quando lo aveva scoperto, non solo si era sentita un’idiota patentata, ma aveva avuto anche la brillante idea di sfogarsi proprio con Kyle.

Col senno di poi, doveva dare atto che il ragazzo era stato assai disponibile e comprensivo, con lei.

Oltre che dannatamente paziente.

“E’ stata anche colpa mia. Avrei dovuto farmi avanti, avere più fede nei miei sentimenti” cercò di consolarla lui.

“Io non ero pronta” sottolineò però Penny. “Forse, avrei trovato la cosa assurda, perché ti volevo solo come amico. Ma, da quel momento, da quando tu mi hai consolata a quel modo, pensando solo a me e al mio cuore infranto, qualcosa è cambiato.”

Sorrise, sentendosi una stupida ad ammettere tutto, ma trovandolo più giusto che mai a ogni secondo che passava.

“Ho cominciato a vederti con occhi nuovi, a notare cose che, in precedenza, non avevo visto e, quando mi hai baciata… è uscito tutto. Ogni pezzo del puzzle che stavo costruendo su di te, si è messo magicamente a posto.”

“Quindi, devo ringraziare Butch per essere l’idiota che è?” ironizzò Kyle, facendola ridere.

“Oh, no. Lui ha già avuto anche troppe attenzioni, da parte nostra” sorrise Penny. “Ma Blair ha ragione. Dobbiamo imparare a gestire meglio il nostro rapporto. Io devo essere meno competitiva, e tu lo devi essere di più.”

“Anche se questo comporterà farti perdere qualche volta?”

“Sì. Devo capire che non è la perfezione che cerchi, ma solo me stessa, per quella che sono” sorrise Penny, levandosi in piedi per allungarsi verso di lui e dargli un bacio. “E tu devi capire che non è la perfezione che cerco, ma solo te stesso, per quello che sei.”

Kyle la trattenne, avvolgendole la nuca con una mano per approfondire il bacio, e Penny glielo lasciò fare.

Qualche attimo dopo, però, si scostò con uno strillo, quando Alec aprì di botto la porta della cucina e, gelido in viso, chiosò: “Andiamoci piano, d’accordo, ragazzi?”

Dal salotto, la voce di Erin si elevò come una tempesta, urlando al marito. “Alec! Torna subito QUI!

Lui sbuffò a quel richiamo e, dopo un ultimo sguardo a Kyle, che sentì le sue carni raggelare di paura, svanì dallo specchio della porta e tornò dalla moglie a passo pesante.

Kyle e Penny si guardarono, i rispettivi cuori che battevano all’impazzata per lo spavento preso ma, alla fine, risero divertiti.
Nel tornare a sedersi, la ragazza mormorò: “Ci vediamo venerdì sera al pub?”

“Preferivo portarti al cinema a vedere l’ultimo film della Marvel.”

“Oh… cinema” ammiccò lei, pensando alla sala buia, alle immagini potenti e…

Basta, mia lupa! Non posso saltargli addosso e mangiarlo!, brontolò con se stessa, cercando di chetare i suoi pensieri.

Kyle, a quel punto, sorrise imbarazzato e, nel mordicchiare un biscotto, mormorò: “Credo che sia un po’ presto, per quel genere di venerdì sera.”

“Già” sussurrò contrita lei, coprendosi il viso con le mani per la vergogna.

Il ragazzo, allora, si levò in piedi, aggirò il tavolo e, chinatosi accanto al suo orecchio, le sussurrò: “Non vedo l’ora, però. E so già che sarà bellissimo, con te.”

Penny avvampò nel sentire il fiato caldo di Kyle accarezzarle la pelle e, prima che lui potesse scostarsi, lo afferrò e lo baciò con maggiore passione rispetto a prima, strappandogli un ansito.

“Pen…”

Dal salone, Alec iniziò a richiamare la figlia, ma Erin gli tappò la bocca, trattenendolo sul divano con il suo peso e, in seguito, con un bacio travolgente che stordì il marito.

Questo permise alla figlia di proseguire nel suo, di approccio e, quando Kyle la sollevò dalla sedia per stringerla a sé, ansò contro la sua bocca: “Ti prego, Penny… non ora… non così…”

Penelope dovette prosciugare ogni stilla delle sue forze, per allontanarsi da Kyle e, ansante e piena di desiderio, ansò: “In questo momento, odio la mia lupa.”

“Io la amerò sempre, invece, anche se ora devo correre via a gambe levate” ironizzò Kyle, avviandosi verso la porta.

Con un ultimo sorriso, il ragazzo si volatilizzò e Penny, crollando esausta sulla sedia, esalò: “Mio Dio… quando arriveremo al dunque, uno dei due morirà di sicuro.”

Sulla porta della cucina, una piuttosto accaldata Erin replicò: “Non morirete… ma sarà bellissimo.”

Penny lanciò un secondo strillo di paura, non aspettandosi l’entrata in scena della madre e, fissandola bieca, esalò: “Ma vi siete messi d’accordo, tu e il papà, per farmi morire di paura?”

“No. E, ora che ci penso… Penny, vai a fare una passeggiata, per favore” ammiccò la madre, tornando subito dopo in salotto.

Cogliendo al volo il messaggio, Penelope si affrettò a uscire di casa prima di sentire troppo, e peggiorare così la sua situazione.

Benedetti ormoni!

 





Note: Spero che questo trittico su Penny vi sia piaciuto. Per le prossime OS mi occuperò di altri personaggi, anche se non so ancora bene quali. Direi che comunque vi ho dato un'idea di come procedono le cose, nel clan di Bradford. E' ora di occuparsi di un altro branco, adesso.
A presto, e grazie per essere passate!

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Capitolo 26
*** Per diritto di nascita (Dicembre 2022) Keely ***


Per diritto di nascita (Keely) –

Dicembre 2022

 

 

Passeggiare per i boschi era sempre bellissimo, specialmente quando la neve cadeva fitta come quel giorno.

Ma, più di ogni altra cosa, era bello perché era in compagnia di suo padre.

Keeely aveva amato il padre Lance al primo sguardo e, nel corso degli anni, questo sentimento non era che cresciuto, facendosi sempre più forte e profondo.

La mamma Mary Beth, sempre amorevole con entrambi, aveva riempito l’altra metà del suo cuore e, in tutta onestà, Keeely non era sicura esistesse al mondo persona più amata di lei.

Forse, solo suo nipote Nathan.

La divertiva il pensiero di avere un nipote, pur essendo lei poco più di una bimba, eppure era così.

Gli strani casi della vita avevano voluto che sua sorella Brie fosse adottata da Mary Beth, assieme al fratello Gordon.

Così, quando era nata lei, Brie e Gordon erano diventati per legge suoi fratelli… e lei, era diventata zia alla nascita del piccolo Nat.

Adorava suo nipote, ogni sua espressione, ogni suo colpo di testa, persino i suoi pianti.

Lo aveva visto crescere, era stata con lui fin dal primo momento e poteva dire, in tutta onestà, di considerarlo più un fratellino, che un nipote.

“Pensieri profondi, Keely…” mormorò al suo fianco il padre, sorridendole nello spazzolarle una spalla dalla neve.

Lei assentì, mentre gli scarponcini schiacciavano il manto nevoso, che scricchiolava a ogni loro passo.

“Abbiamo una famiglia strana, ma non la cambierei per niente al mondo” dichiarò lei, balzellando in avanti per un paio di metri prima di aprirsi in un sorriso tutto per il padre. “Neanche se mi regalassero un milione di gelati, tutte le torte dell’universo… e anche gli M&M’s!”

Lance rise – sua figlia era notoriamente golosa – e, nel tornare al suo fianco, le domandò: “Rientriamo? Ormai è tardi, e la mamma dovrebbe rientrare dall’ospedale nel giro di poco.”

“Dici si preoccuperebbe, non…” iniziò col dire Keely prima di bloccarsi, il fiato mozzo e le gambe rese deboli da una scossa improvvisa di energia.

Il padre si accigliò subito e, torvo, lanciò un’occhiata al cielo nuvoloso.

Non poteva vederla, ma sentirla, sempre.

La luna si era levata all’orizzonte, e il pallore di Keely poteva voler dire una cosa sola.

Afferratala, la prese in braccio per ricondurla subito a casa, ma l’urlo disumano che lacerò l’aria, lo spinse a bloccarsi.

Keely inarcò la schiena al punto tale che, per poco, Lance non rischiò di farla cadere perciò, controvoglia, si fermò e la poggiò a terra.

Come era prevedibile, bruciava come per una febbre improvvisa… pur se non lo era affatto.

Era il Mutamento. E lui era nel bel mezzo del bosco del Vigrond, lontano almeno tre miglia dalla prima casa utile e troppo distante da un qualsiasi licantropo perché li udisse.

Afferrò subito il cellulare ma, come sempre nel bosco, i punti scoperti dalla banda, erano troppi… e quello era uno dei tanti.

Maledicendo la tecnologia, Lance si limitò a stringere le mani tremanti di Keely che, spaventata, ansò: “Cosa… succede?”

“Stai cambiando, Keely. Ne avevamo parlato, ricordi? Ora devi solo pensare a respirare. Concentrati sul potere della luna che sta entrando in te. Lo senti?”

Il suo tono di voce appariva calmo ma, dentro di sé, Lance stava morendo un respiro alla volta.

Fin da quando aveva udito il suo primo vagito, i suoi pensieri erano stati colmati da lei e dalla donna che l’aveva partorita.

Keely e Mary Beth erano la sua vita e, senza di loro, sarebbe stato meno di niente, un lupo solitario che ululava sperduto alla luna, senza alcuna possibilità di vivere serenamente.

Per anni, aveva paventato quel momento e, quando Mary gli aveva confermato che la loro dolcissima figlia era diventata donna, non aveva più voluto che uscisse sola.

Ogni momento sarebbe stato buono per il Mutamento e, a quanto pareva, sarebbe spettato a lui assistervi.

Seduta in mezzo alla neve, le gambe raccolte contro il petto e i lunghi capelli biondi scompigliati sulle spalle tremanti, Keely ansò: “Papà… ho tanta paura.”

“Non devi. Io sono qui con te e, anche se non ho i poteri di tua sorella, ti aiuterò a mutare. Fosse anche l’ultima cosa che faccio” le mormorò con convincimento lui, avvolgendole le spalle con un braccio.

Keely fece per sorridergli, ma un’altra contrazione violenta la spinse a urlare, e torcersi in maniera così innaturale da spaventare non poco Lance.

Avrebbe resistito, o sarebbe morta tra le sue braccia?

Scacciando subito quei pensieri orrendi dalla sua mente, Lance se la strinse al petto dopo l’ennesimo rantolo doloroso.

Sapeva cosa stava rischiando: il lupo dentro di lei, nell’uscire, avrebbe potuto ferirlo… anche mortalmente.

I lupi neonati non avevano controllo su loro stessi, quando uscivano per la prima volta e, se avevano qualcuno nei pressi, era quasi naturale che li ferissero.

Tenerla così stretta avrebbe anche potuto voler dire venire azzannati al collo, o squarciati dagli artigli al ventre.

In quel momento, però, l’unica cosa importante era tenere al sicuro dalla paura la sua piccola Keely, il suo dolce angelo.

Divincolandosi nella stretta del padre, la ragazzina però esalò: “Allontanati, papà… non voglio farti male…”

“Tenendoti stretta, calmo i centri nervosi” le spiegò lui, infischiandosene del pericolo.

“Ma rischio di…” ansò Keely, spalancando gli occhi un attimo dopo.

La schiena le si spezzò, producendo un secco, sordo suono che scalfì l’apparente calma di Lance.

Il suo cuore, al tempo stesso, raggelò e, quando un secondo schiocco seguì il primo, Lance sentì il suo petto andare a fuoco.

Erano solo sensazioni, le sue, mentre il dolore della figlia era più che reale.

Con una spinta violenta, corredata di artigli, Keely riuscì infine a scansarsi e, nel crollare a terra priva di forze, gracchiò: “Resta. Lì.”

Tastandosi il torace, su cui si erano aperti quattro tagli ben visibili – nonostante indossasse un piumino e un maglione – Lance obbedì suo malgrado e fissò senza forze il dolore crescente della figlia.

Annaspando nella neve, Keely chiuse ermeticamente gli occhi e ripensò alle parole di Brie.

La luna era loro alleata, lei doveva solo lasciarla entrare dentro di sé, anche se questo poteva sembrarle un controsenso, visto il dolore che stava patendo.

Non potendo fare altro, quindi, si concentrò sull’onda di energia che stava bruciandole i centri nervosi e, lasciandosi andare, crollò sulla neve.

I muscoli si rilassarono, del tutto passivi e, pur ansando, sentì il dolore diminuire un poco.

Fu a quel punto che avvertì il bacio della luna, il suo benvenuto tra i suoi figli.

Il fuoco che l’aveva divorata si tramutò in un tepore più simile a quello della cioccolata calda che, pur bruciandola, era certamente più piacevole rispetto a prima.

Sorridendo nonostante le dolesse ogni particella del corpo, mormorò: “Sono pronta. Prendimi. Accoglimi.”

L’attimo seguente, ogni osso le si spezzò, formando una nuova catena, una nuova forma, assieme a muscoli nuovi, un cuore più forte, occhi più sensibili.

Gli abiti le si sbriciolarono, gli arti presero nuove sembianze e, mentre i suoi sensi venivano invasi da sensazioni mai provate, percepì distintamente l’ansito strozzato del padre.

Sì, papà. L’uomo che le era vicino era papà, e lei non voleva fargli male.

Rotolando lontana di qualche metro, giusto per essere certa di non colpirlo con movimenti improvvisi e scoordinati, Keely si poggiò sulle… sì, sulle zampe e ululò.

La coda spazzò la neve mentre si poggiava con i posteriori sul terreno, e il suo muso puntava verso le nubi gonfie e immobili.

“Amore mio…” mormorò senza forze Lance, portandola a volgere il muso verso di lui.

Quel movimento apparentemente facile la portò a sbilanciarsi, finendo così con il carambolare a terra, a zampe all’aria.

Meravigliose, nitide zampe nere all’aria.

Se il riso spontaneo e liberatorio di suo padre la portò a tossire a sua volta una risata, la sua mente volò leggera, urlando dentro di sé: “Sono Hati, sono Hati, SONO HATI!”

Lance fu subito da lei e, nell’aiutarla a mettersi ritta sulle zampe, la abbracciò con forza, affondando il viso rigato di lacrime nella gorgiera.

Keely trovò strano percepire suo padre piccolo, visto che lo aveva sempre considerato un gigante.

La sua nuova forma di lupo, però, le consentiva di provare quello strano paradosso e, pur non avendo un gran equilibrio sulle zampe, riuscì a sedersi senza tirare in terra entrambi.

Suo padre le carezzò il muso, le grattò gentilmente le orecchie e, e per tutto il tempo, non fece che dirle quanto era orgoglioso di lei, quanto fosse felice di saperla Hati.

Lei si limitò a guardarlo incredula, la lingua ciondoloni e i sensi ipersensibili che captavano ogni cosa stava loro attorno.

Persino la neve che si appoggiava delicatamente sul suo pelo, aveva un suono, una frizione quasi impercettibile, ma presente.

“Papà?” tentennò Keely, non sapendo se lo avrebbe sentito.

“Ehi, bambina… come va lì dentro?” mormorò in risposta l’uomo, la voce roca ed emozionata.

“Mi sento strana, ma va bene. Un po’ instabile. E forte. Molto forte” gli spiegò lei, guardandosi un poco e finendo con il cozzare contro la testa del padre, che rise. “Scusa…”

“Non ti devi scusare di nulla, piccola. E’ normale essere un po’ spaesati. Entro qualche minuto, passerà tutto” le spiegò lui, continuando a carezzarle il muso.

Gli occhi di Keely – ora divenuti di un bel nocciola chiaro – registrarono solo in quel momento le ferite sul petto del padre e, spiacente, mormorò: “Sono stata io?”

“Non è niente, tesoro. E, anche quanto, sarò orgoglioso di portare le cicatrici che ne verranno. Mi ricorderanno sempre come tu sia stata capace di affrontare con coraggio il Mutamento e, per un padre, esistono pochi altri ricordi altrettanto forti e potenti. Solo la tua nascita, forse.”

Se avesse potuto farlo, Keely avrebbe sorriso imbarazzata e, pur sentendosi un po’ in colpa per la ferita inferta al padre, non poté che gioire del suo sguardo orgoglioso.

Guardandosi intorno, la lupa notò con rammarico la fine indecorosa che avevano fatto i suoi abiti e Lance, nel notarlo, rise.

“Già, non sono più utilizzabili, al momento. Temo dovrai aspettarmi qui mentre vado a prenderti qualcosa. Non riusciremmo mai a raggiungere casa senza essere visti. A meno che tu non voglia andare a casa di Duncan e Brie. Lì, possiamo arrivarci” le propose Lance, dandole una pacca sulla schiena.

“Andiamo da Brie. Per ora, non voglio cambiare forma. E poi, voglio abituarmi a camminare sulle zampe.”

“Faremo così” assentì Lance, mettendosi al suo fianco per poi incamminarsi per raggiungere la casa dei parenti.

Fu così che Keely assaporò per la prima volta il suo nuovo status di lupo.

Godette della sensazione della neve sotto i cuscinetti delle zampe, degli artigli che affondavano nel manto morbido e freddo, del naso che registrava ogni minimo odore.

Percepì l’odore inconfondibile delle prede, ma le lasciò perdere.

In quel momento, non voleva cacciare, voleva godersi i suoi primi momenti da lupo in compagnia del padre, che non smetteva di sorridere.

Forse, per quando fossero arrivati a casa di Duncan e Brie, gli sarebbe venuta una paresi.

La sola idea la fece ridere e, pur trovando assurda la risata dei lupi, si lasciò comunque andare a quello strano tossicchiare goffo e sgraziato.

Lance, allora, le batté una mano sulla spalla, replicando: “Non mi verrà una paresi, tranquilla.”

***

Quando infine raggiunsero i confini della proprietà dei McKalister, Keely balzò oltre la staccionata, mentre Lance faceva lo stesso con agilità.

Subito, dalla porta sul retro, spuntò Brianna che, correndo verso di loro, si lasciò andare a un abbraccio, esalando: “Dio! Quando ho sentito la tua presenza nelle vicinanze, sono rimasta sbalordita! Come va, tesoruccio?”

“Tutto bene, Brie. Non è stato il massimo, ma neppure così brutta come temevo” replicò Keely.

Dietro di loro, Duncan e Nat li avevano raggiunti con calma ed entrambi sorridevano in direzione dell’enorme lupo nero.

“E’ la zia?” domandò curioso Nat, lanciando un’occhiata dubbia al padre.

“Sì, è proprio la zia Keely, Nathan. E’ il suo primo giorno da lupo” gli rispose Duncan, prendendo in braccio il figlio.

“Wow” esalò ammirato il bimbo, allungando una mano curiosa in direzione del lupo.

Keely rimase perfettamente immobile e Duncan, sorridendo, poggiò il figlio sulla groppa della zia, prima di dire: “A quanto pare, è una notte speciale per molti.”

Curioso, Lance fissò il suo Fenrir e domandò: “Che intendi dire?”

“Poco meno di un’ora fa, Mary B ci ha chiamati perché non riusciva a raggiungerti telefonicamente. Voleva che sapessimo almeno noi che non sarebbe tornata a casa a breve, perché era impegnata con un’urgenza un po’ speciale.”

Subito correndo ad afferrare il cellulare – la cui batteria era morta nel frattempo – Lance domandò: “Che genere di urgenza?”

Sorridendo orgogliosa, Brie dichiarò: “Abbiamo ufficialmente il nuovo Sköll del branco oltre, a quanto pare, alla nuova Hati.”

Sobbalzando per la sorpresa, Lance gracchiò: “E chi è, di grazia? E che c’entra Mary?”

Duncan, allora, gli parlò della visita a sorpresa in ospedale di certi loro amici e di come, all’improvviso, il loro figlio si fosse sentito strano.

Subodorando guai di natura mannara, Mary si era affrettata a lasciare l’ospedale assieme a loro e, ben decisa a stare con i coniugi O’Riley e il figlio, avevano raggiunto casa di questi ultimi.

Non avevano neppure fatto in tempo a chiudere la porta d’ingresso, che il giovane dodicenne Simon era crollato a terra, scosso da brividi e convulsioni.

A quel punto, intervenne Brie, dicendo: “Mary non ha neppure avuto il tempo di chiamarmi per assistere all’evento, che Simon era mutato dinanzi a loro, un bel lupo rossiccio ben piantato e con un bel paio di occhi bicolori a fare da corollario.”

“Wow… Simon O’Riley? Ora, chi lo sopporterà più? Già si vantava per avere i voti più alti a scuola… adesso, mi farà venire l’orticaria alle orecchie a forza di dire che lui sarà il prossimo secondo in comando!” brontolò suo malgrado Keely, facendo scoppiare a ridere gli adulti.

Nathan, invece, li fissò dubbioso dalla sua posizione rialzata e, piegandosi per abbracciare come meglio poté la zia, mormorò: “Bella. Tanto bella.”

Il cellulare di Brie scelse quel momento per suonare e, nell’accettare la chiamata, la donna disse eccitata: “Ciao, Mary. Grandi notizie! Stanotte è davvero speciale, visto che Keely è appena diventata la nostra prossima Hati!”

“Che cosa? Keely? La… la mia bambina? Ora?” esalò sconvolta Mary, mentre i coniugi O’Riley la fissavano colmi di gioia.

“A quanto pare, sì. E’ proprio qui davanti a me, e Lance è così orgoglioso che sta per farsi venire una paresi alla faccia, tanto sorride” ammiccò la donna, mentre il patrigno scrollava imperturbabile le spalle.

Mary B scoppiò in una risatina allegra e nervosa al tempo stesso e, nell’osservare gli amici al suo fianco, esalò: “Sono due. E in una notte sola. Davvero una cosa da ricordare.”

“Non poteva esserci regalo più bello, in vista del Natale” assentì lieta Lyanna O’Riley, battendo una mano sulla spalla dell’amica.

Bastian, il marito, sorrise a entrambe le donne e disse: “Vado a stappare lo champagne. Qui ci vogliono delle bollicine per festeggiare!”

Sia Brie che Mary scoppiarono a ridere e, con la promessa di raggiungere la casa degli O’Riley per brindare degnamente a quella serata magica, la wicca chiuse la comunicazione.

Guardando poi la sua famiglia, indirizzò un sorriso a Keely e disse: “Vieni con me. Troviamo qualcosa da farti indossare. Non possiamo andare a una festa col solo pelo di lupo addosso, ti pare?”

“Non ci penso proprio. Simon mi prenderebbe in giro finché scampo” chiosò Keely, facendo scoppiare a ridere nuovamente la sorella.

Lasciato Nathan al marito, Brie si diresse dunque dentro casa, ben decisa a rendere presentabile la sorella.

Con maggiore calma, il trio di uomini rientrò a casa e Duncan, nel dare una pacca sulla spalla a Lance, gli domandò: “Tu, come stai?”

“Se ti dicessi che, fino a un’ora fa, temevo di morire di paura?” ironizzò l’Hati, ma neanche più di tanto.

“Non mi diresti nulla di strano” dichiarò Duncan, scompigliando i capelli del figlio, che rise allegro. “Quando ci arriveremo con lui, dovranno legarmi a una pianta, temo, per impedirmi di stargli lontano.”

“Come puoi vedere, io non ne sono stato in grado” ammise Lance, indicandosi il petto, dove si poteva notare la giacca squarciata.

“Già. Ma dubito mi sarei comportato diversamente da te” si limitò a dire Duncan.

Sarebbero passati ancora anni e anni, prima che Nathan dovesse confrontarsi con il Mutamento ma, come ogni lupo sapeva, quel giorno sarebbe arrivato.

Presto o tardi, a sorpresa o meno, ma sarebbe giunto.

Dovevano solo prepararsi mentalmente e tentare di essere forti, per loro stessi e per i figli, che avrebbero dovuto accompagnare attraverso quella difficile prova.

Nel baciare la testa del figlio, Duncan sperò soltanto di poter dimostrare, un giorno, la stessa forza del suo Hati.

Hati che scoppiò a ridere non appena entrarono in caso, quando sentì la figlia lagnarsi perché aveva le mani rosse per il troppo camminare nella neve.

Trovandola avvolta in un pesante asciugamano, l’aria accigliata e irritata, Lance le disse: “Ti abituerai. Come per tutto il resto.”

“Già ma, nel frattempo, Simon non avrà le mani arrossate, mentre io sì” bofonchiò Keely, trascinando con sé la sorella al piano superiore.

Nathan, ancora in braccio al padre, chiosò: “Femmine.”

Lance e Duncan riuscirono solo a fatica a non ridere, ma fu molto, molto difficile.

 

 

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Capitolo 27
*** Dipende dai punti di vista - Colin Laroche (2019) MxM ***


N.d.A.: Si tratta di una storia MxM (giusto per avvisarvi...)


 
 
Dipende sempre dai punti di vista - (Colin Laroche)
 
 
È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo, ci dovete provare.
(Robin Williams nel film L’attimo fuggente)
 

Giugno 2019 - Cardiff
 
 
 
“Merda…” borbottò per la centesima volta Colin Laroche, guardando con aria accigliata il suo libro di biologia.

Suo padre Pascal, impegnato nel preparare un french toast per colazione in una placida domenica di inizio giugno, lo guardò da sopra la spalla e disse: “Non sapevo che all’università vi insegnassero le feci.”

Colin levò i suoi candidi occhi azzurri a scrutarlo e, ghignando, dichiarò: “Oh, papà… non hai neppure idea di quello che ci insegnano, a Londra. E poi, da quando lady Fenrir ha studiato lì, è difficile reggere il suo confronto, quanto a voti. Ci sono degli insegnanti che la ricordano con un affetto quasi preoccupante.”

Pascal scoppiò a ridere, a quel commento e, nel rivoltare il suo toast sulla padella, replicò: “Mi sembra che tu non stia andando così malaccio, visto che hai già terminato tutti gli esami che avevi in programma. Ripartirai solo a novembre, con le altre prove, no?”

“Sì, papà, ma…” iniziò col dire Colin, prima di arricciare il naso e borbottare: “Lo stai bruciando, pa’.”

Pascal tornò subito con lo sguardo al suo toast e, nel toglierlo immediatamente dal fuoco, lo depositò su un piatto e si accomodò al tavolo della cucina.

Lì, preso del succo di mirtilli, inzuppò il tutto e, sotto lo sguardo disgustato di Colin, diede inizio alla sua colazione.

“Se la mamma ci fosse ancora, ti avrebbe preso a morsi sul sedere, piuttosto che vederti mangiare quella schifezza” sottolineò Colin, tornando con il naso nei libri.

“Mamma avrebbe pazientato perché sa che mi piacciono… poi mi avrebbe morso sul sedere quando avessi finito. Sai, giusto per non sporcare la cucina” ironizzò Pascal, dando un gran morso al suo toast.

Colin sorrise a mezzo, a quel commento, e assentì.

Sì, Ellana Pardick Laroche era una donna amorevole, ma anche assai determinata.

Sarebbe stata un’ottima Fenrir, se fosse nata con la livrea bianca ma, anche da Prima Lupa, era stata rispettata e onorata da tutto il clan.

Anche a distanza di quasi dieci anni, si sentiva ancora la sua mancanza, al Vigrond, durante le cerimonie sacre.

Ovviamente, per i suoi figli e il marito, era una mancanza che si avvertiva sempre, in ogni istante.

Ellana, però, era riuscita in qualche modo a rendere quella mancanza meno dolorosa, più accettabile per tutti loro.

Fino all’ultimo istante di vita, aveva riempito le loro esistenze di sorrisi e tanto amore.

Anche portarla al Santuario di Manchester, presso il dottor Nelson Withlock, era servito a poco, ma avevano comunque tentato.

La disfunzione cardiaca – che aveva avuto fin dalla nascita – non era guarita, con la mutazione in lupo mannaro e, nel corso degli anni, il danno era divenuto così grave da costringerla a letto.

Essendo un licantropo, non avrebbe mai potuto essere inserita nella lista per i trapianti, poiché un semplice cuore umano non avrebbe mai accettato la mutazione in lupo.

Il dottor Withlock, per quanto possibile, le aveva prestato le cure migliori e, per tutto quel tempo, Ellana era stata sorridente e positiva nonostante le avversità.

Non aveva permesso ai figli o al marito di disperarsi e, quando si era spenta, lo aveva fatto nel sonno, senza soffrire, lasciando un sorriso a coloro che l’avessero vista nel suo letto.

Pascal aveva pianto in silenzio per settimane, di fronte alla sua tomba ma, dovendo crescere due figli di otto e dieci anni, aveva dovuto infine abbandonare quel dolore per pensare a loro.

Sia i genitori di Ellana, che quelli di Pascal, erano stati di aiuto, e il clan tutto si era stretto intorno alla Prima Famiglia per sopperire a quel vuoto doloroso.

Alla fine, volente o nolente, tutto era ripartito senza di lei e, a distanza di dieci anni, non era più così difficile parlare di Ellana senza scoppiare in lacrime.

Era diventato un ricordo dolce, non soltanto amaro e straziante.

Quando Pascal ebbe terminato il suo french toast scrutò il viso corrucciato di Colin e domandò: “Allora, è così difficile tenere il passo di lady Fenrir?”

“Prova tu a parlare di biologia molecolare con lei, poi mi saprai dire” brontolò Colin, sorridendo mesto.

“Sono un contabile, Colin. So di numeri e parcelle esattoriali, non di batteri e cellule” sottolineò Pascal, levandosi dal tavolo per mettere piatto e posate nella lavastoviglie. “Tuo fratello, piuttosto, è ancora vivo? Sono le otto e non si è ancora visto.”

“Sta dormendo della grossa. Credo che sia stato alzato a scrivere in chat fino alle quattro di mattina. Finché non guarirà il taglio che gli ha inferto Fianna, dovrà far passare che ha un braccio rotto, altrimenti tutti potrebbero trovare strana una cicatrice come la sua. Perciò, niente uscite serali per il rugby notturno.”

Pascal ridacchiò, a quel ricordo.

Durante uno degli allenamenti assegnati alla nuova Triade, Fianna ci aveva dato dentro davvero molto, finendo con il ferire a una zampa il suo Fenrir.

Dire che la ragazza aveva speso tutte le lacrime del mondo, a seguito di quell’incidente, era un eufemismo.

Si era scusata con Liam almeno diecimila volte e, a ogni scusa, era seguito uno scoppio di pianto.

Liam era rimasto più sconvolto dal pianto della cara amica e sua Sköll, che dalla ferita in sé e per sé, a ben vedere.

Alla fine, si era ritrasformato in lupo e aveva obbligato Fianna a fare lo stesso e, in compagnia di Colin, erano rimasti tutta notte nel Vigrond a riposare.

Gli uni vicini agli altri, come cuccioli appena nati.

Questo aveva finalmente chetato la ragazza e, la mattina seguente, si erano inventati la storia del braccio rotto per spiegare le enormi fasciature con cui era stato medicato.

In seguito a quell’incidente, sarebbe rimasta un’imperitura cicatrice come memento di quella lotta ma, per il mondo, sarebbe stato solo il risultato di una frattura esposta.

“Beh, se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi. Ci vediamo a cena” disse Pascal, salutandolo nell’uscire di casa per recarsi a pescare.

Colin resistette fino a che non fu partito con la sua Subaru dopodiché, chiuso il libro, sospirò e guardò stranito il suo cellulare e il messaggio di Whatsapp che attendeva una risposta.

Quelle due virgolette azzurre gli stavano facendo venire una rabbia infinita e, al tempo stesso, un desiderio estremo di rispondere a colui che lo aveva contattato.

Ma come fare, visto che si trattava di un umano?
 
***

Carter Jones, Freki del branco di Cardiff e, tra le altre cose, primo amore di Colin, stava sistemando alcuni scatoloni nel suo garage, quando avvertì la presenza di qualcuno alle sue spalle.

Volgendosi a mezzo, sorrise nel vedere Colin Laroche e, tergendosi la fronte umida, disse: “Ehi! Già a casa? Hai finito gli esami, per ora?”

“Fino a ottobre non si riparla di lezioni o altro e, solo a novembre, dovrò darci dentro con altri esami” assentì Colin, avvicinandosi all’uomo.

Più grande di lui di nove anni, Carter aveva rappresentato, per Colin, un autentico battesimo del fuoco.

A quindici anni, aveva compreso di non essere come gli altri suoi amici, di non apprezzare le curve mozzafiato di Kate Winslet quanto, piuttosto, il sorriso di Jude Law.

Era stato un bel colpo, per lui, pur se ne aveva avuto il dubbio già da un pezzo.

Nessuna delle sue compagne gli era mai piaciuta, e neppure la sensualissima Fianna, la loro Sköll, era riuscita a farlo tremare di desiderio.

Solo Carter vi era riuscito, e questo aveva voluto dire fare i conti con la prima batosta sentimentale della sua vita, visto che Colin era sempre stato cosciente dell’eterosessualità del loro Freki.

Non vi erano mai stati dubbi, in merito.

Carter era stato sempre e solo con donne, nel corso della sua vita e, dopo aver preso il coraggio a due mani, gliene aveva parlato per semplice logica.

In un mondo dove puoi leggerti nella mente, certi segreti non puoi proprio tenerli.

Carter era stato comunque gentilissimo, con lui.

Aveva capito, non l’aveva né scacciato, né deriso e anzi, lo aveva aiutato a non soffrirne troppo, per quanto gli era stato possibile.

Con il passare dei mesi, e anche grazie al fratello e alla dolcissima Fianna, era infine riuscito ad accettare la cosa, e Carter era sempre stato lì per spalleggiarlo.

Suo padre, più semplicemente, gli aveva dato una pacca sulla spalla e gli aveva detto che, per qualsiasi cosa, lui sarebbe stato pronto ad ascoltarlo e appoggiarlo.

“Che succede, Colin? Perché hai quella faccia pensierosa?” domandò subito Carter, poggiandosi contro una scaletta di metallo.

Grattandosi dietro la nuca, un mezzo sorriso a illuminargli il viso affascinante, Colin mormorò: “E’ mai possibile che tu riesca sempre a capire al volo che c’è qualcosa?”

“Amico, che ci posso fare se, per me, sei un libro aperto?” ironizzò Carter, indicandogli di sedersi su uno degli scatoloni. “E poi, i Freki hanno un sesto senso, per i guai.”

“Stai facendo trasloco? Come mai così tanta roba fuori posto?” domandò curioso Colin, sedendosi e cambiando temporaneamente discorso.

“Ospiterò mio figlio Roy, visto che la madre ha pensato bene di farsi mettere in galera” ammiccò Carter, sorprendendolo un po’.

Già, Roy, il figlio semi-segreto di Carter.

Il bambino era nato da una breve, quando accesa, relazione con una lupa del clan di Matlock che, a quanto pareva, aveva fatto il passo più lungo della gamba.

“Duncan come l’ha presa?” domandò Colin.

“Non bene. Quando mi ha chiamato, era tranquillo come se stesse parlando del tempo, il che è tutto dire…” borbottò Carter, storcendo la bocca.

Persino i sassi sapevano che, se Duncan McAlister appariva calmo e pacato durante una crisi, allora voleva dire che era furioso al pari di una tempesta.

“Ti hanno concesso la custodia definitiva, allora?”

Colin sapeva, più o meno, quello che stava succedendo ma, dopo quel colpo di scena, forse tutto sarebbe cambiato.

“Il giudice deciderà a giorni ma, da quel che dice l’avvocato, Roy potrebbe rimanere con me per sempre” dichiarò Carter, allargando un poco il suo sorriso.

Colin fu felice per lui.

Sapeva quanto tenesse a quel bambino di quattro anni, e quanto la separazione da Belinda – pur se non si erano mai sposati – lo avesse provato.

Lui l’aveva amata davvero, anche se cose erano andate a catafascio molto alla svelta, tra di loro.

“Non ho dimenticato la tua faccia ansiosa, sai…” ironizzò dopo un istante Carter, ammiccando al suo indirizzo.

Colin rise e, annuendo, allungò gli avambracci sulle cosce e, scrutando il pavimento di cemento senza realmente vederlo, mormorò: “Credo di essere nei guai.”

“Di che tipo? Devo uccidere qualcuno per te?” domandò Carter con assoluta serietà.

Il suo ruolo di Freki era primario, nella sua vita e, se un Primo Figlio aveva bisogno di aiuto, suo compito era quello di agire.

“No, niente di tutto ciò. Credo di essere nei guai… qui…” asserì lui, poggiandosi una mano sul cuore.

“Oh. Te l’ho detto, Colin. Sei bello da far schifo, ma non mi intendo di maschi” ironizzò Carter, facendolo scoppiare a ridere.

Ormai potevano riderne insieme senza problemi, perché Carter aveva fatto in modo fin da subito che il rapporto di amicizia tra loro non scemasse mai.

“Lo so, tranquillo… anzi, spero non ti ingelosirai, ma penso di aver trovato qualcuno che potrebbe ricambiare il mio interesse.”

“Beh, tutto dipende se regge il confronto con me, altrimenti sì che potrei arrabbiarmi” ghignò Carter, prima di tornare serio. “Dimmi dove sta il problema. Non sei sicuro che bazzichi nel tuo stesso giardino?”

“No, di quello sono sicuro. Il problema è il suo retroterra.”

Sorpreso, Carter impiegò alcuni attimi prima di capire e, accigliandosi leggermente, mormorò: “E’… umano?”

“Già. Al cento percento. Senza parenti legati alla nostra stirpe, o anche soltanto neutri. Niente di niente. Nada” sospirò Colin, passandosi una mano tremante tra la chioma di capelli castano dorati.

“Cristo, ragazzo… ma i guai vai proprio a cercarteli, eh?”

“Amerò le storie senza speranza, che ci vuoi fare?” ironizzò Colin.

“Beh, non metterla giù così. Non è detto che sia senza speranza. Non sarebbe il primo umano che diventa parte di un branco… solo, devi capire bene com’è la situazione. Sondare le acque, diciamo” cercò di chetarlo Carter, levando le mani per frenarne le ansie.

“Dici che dovrei dirlo a mio padre?”

Carter sospirò.

Solitamente, di queste cose si sarebbe occupata la Prima Lupa ma, essendo venuta a mancare Ellana, tutto ciò ricadeva su Fenrir… o sulla Lupa Madre.

Ma come spiegare, a una lupa di quasi novant’anni, delle interazioni tra due ragazzi gay?

Non aveva neppure idea se la vecchia Lynn ne conoscesse l’esistenza!

“Senti, se ti va posso curiosare un po’ in giro io. Senza dare nell’occhio, s’intende…” gli propose Carter, fissandolo con aria curiosa e, al tempo stesso, preoccupata.

“Mi spiace chiederti una cosa del genere, ma non so davvero che pesci pigliare” sospirò Colin, fissandolo contrito.

“Se fai una faccia simile, deve piacerti davvero molto.”

“Che faccia sto facendo?” domandò il giovane Laroche.

“Come di uno a cui manca l’aria” sottolineò Carter, sorridendogli mesto. “Con me, non avevi quella faccia.”

Colin sospirò, si passò le mani sul viso e, guardandosele come se non le riconoscesse, asserì: “Sarà perché, quando penso a Chris, mi sembra davvero che mi manchi l’aria.”

“Nome completo?”

“Christofer Sterling. E’ di Cardiff anche lui ma, strano a dirsi, ci siamo conosciuti solo all’università. Seguiamo gli stessi corsi” gli spiegò Colin, prima di mostrargli il cellulare. “Mi ha invitato per una gita in barca con degli amici.”

“Guaio… così non posso seguirvi” storse il naso Carter. “Però, direi che potresti andarci lo stesso e vedere che aria tira, per così dire.”

“L’ho baciato, Carter. So già che aria tira” ammise Colin, sorprendendo un poco Carter.

“Oookay… quindi, in prima base ci sei già arrivato. Il punto è sapere se è il caso di fermarsi lì, o proseguire.”

Colin scosse il capo, borbottando: “Dio, parli come Liam. Anche lui fa sempre metafore sportive, per cose simili.”

“Tu, invece, somigli sempre di più a lady Fenrir, sai?” ironizzò Carter, facendolo sogghignare.

“Sarebbe un bel traguardo, visto quanto la ammiro.”

Carter, allora, gli diede una pacca sul ginocchio, annuì con vigore e disse: “Vai e divertiti. Al resto penserò io. E cerca di non essere troppo affascinante. Puoi stendere la gente anche così, senza usare zanne e artigli.”

Colin rise di quella battuta e, nel salutare Carter, si avviò verso casa, accettando l’invito di Chris.

Era sempre bello parlare con Carter, anche se non sapeva davvero come sarebbero finite le cose, stavolta.
 
***

La barca del padre di Chris era una Ferretti di oltre quindici metri, con tanto di camera da letto sottocoperta, bagno con doccia hi-tech e una cucina funzionale quanto attrezzata.

Quel giorno, era guidata dalla sorella di Chris, Joyce, che aveva quattro anni più del fratello e, al pari suo, amava il mare e la buona compagnia.

Sdraiato sulla prua della barca stava il suo fidanzato, mentre un paio di amici comuni stavano bevendo birra e ascoltando musica ad alto volume.

Chris, invece, seduto a poppa in contemplazione del mare, appariva pensieroso, ma non necessariamente triste. Solo… isolato da tutti.

Colin poté scorgere più volte il baluginio di un sorriso sul suo volto – velato da un leggero strato di barba bionda e abbronzato al punto giusto.

Mentre sorseggiava della coca-cola, pur se aveva l’età per bere birra, il suo sguardo corse molte volte in direzione di Chris, ma mai una volta tentò di avvicinarlo.

Era come se qualcosa glielo impedisse, come se il desiderio di Chris di estraniarsi dagli altri bloccasse le sue membra.

La gita era partita sotto i migliori auspici e, anche grazie alla guida spericolata di Joyce, si erano divertiti un sacco.

Le risate avevano spesso accompagnato le curve ai limiti della fisica compiute dal motoscafo e, ogni volta, il gruppo si era complimentato con Joyce per la sua audacia.

Una volta calata l’àncora poco al largo di Manorbier, nei pressi del Pembrocke National Park, Chris però si era ammutolito, rintanandosi a poppa della Mirage.

Da quel momento, non aveva più parlato con nessuno.

“Quando fa così, lo strangolerei con le mie stesse mani” brontolò Joyce, alle spalle di un preoccupato Colin.

Lui si volse sorpreso, scrutando la statuaria bellezza bionda che era la sorella di Chris, e sorrise a mezzo.

“Non ti sembra una scelta un po’ lapidaria?”

“Con Chris? Sarei anche gentile” ironizzò la giovane, dandogli una pacca sulla spalla. “Vai a parlargli, prima che io lo scaraventi in acqua. Vuole che io guidi la barca come un pilota di offshore, e poi fa il musone… un vero scocciatore, il mio fratellino.”

“Forse, vuole stare per i fatti suoi. Non vorrei disturbarlo” sottolineò Colin.

A quel punto, Joyce sorrise dolcemente e replicò: “Prima che tu possa disturbarlo, gli oceani si prosciugheranno. Vai da lui, coraggio.”

Non potendo fare altrimenti, Colin si avviò verso poppa.

Dopo aver poggiato la sua coca-cola ormai vuota su un parapetto interno, si accomodò al fianco di Chris, lasciando ciondolare le gambe fuori bordo al pari dell’altro.

Christofer si volse appena, nel sentirlo e, ammiccando, mormorò: “Joyce ti ha rotto?”

“Vuole sapere se stai bene. E anch’io, in effetti” asserì Colin, poggiando gli avambracci sul parapetto di acciaio satinato.

La brezza di mare portava profumi distanti, l’amaro del sale contenuto nell’acqua, gli odori delle città costiere e il rumore delle navi, ma tutto ciò non disturbava Colin.

Era ormai abituato da tempo a non farsi distrarre dai suoi sensi e, quando Chris era nei paraggi, forse non avrebbe neppure udito il richiamo del suo Fenrir.

Passandosi una mano tra i capelli castano dorati, Chris sorrise un poco e disse: “Non voglio che tu ti preoccupi. Sto bene… è solo che, quando sono in mare aperto, tendo a perdermi un po’ in mille pensieri.”

“Pensavo ti piacesse” sottolineò Colin.

“Oh, sì… molto. E’ per questo che mi faccio pensieroso. Scusa, prima ti invito e poi mi defilo per farmi i fatti miei. Sono davvero un pessimo amico” mormorò Chris, allungando una mano per dargli una pacca sul ginocchio.

Una scarica involontaria di adrenalina si espanse in tutto il corpo di Colin, ma lui la tenne a bada come al solito.

Quando Chris lo toccava – anche con gesti innocui come quello – il suo sistema endocrino andava completamente in palla, e la bestia ringhiava per uscire e accoppiarsi.

Un bel guaio, quando non avevi a che fare con un altro licantropo, e non potevi gettarti sul malcapitato per una buona notte di sesso a base di artigli e morsi.

Non che Colin avesse sperimentato in prima persona, visto che il suo unico amore era stato Carter, e con lui non aveva combinato un bel nulla.

Certo, nel branco erano presenti circa una decina di coppie omosessuali ma erano, per l’appunto, coppie.

E lui non era fatto per gli accoppiamenti da una notte e via. Voleva ben di più, per se stesso ma, a quanto pareva, il suo corpo desiderava quello da Chris.

Come fargli capire che, primo, Chris non era un lupo e, secondo, non sapeva che lui lo era?

A volte era difficile venire a patti con la parte più ferina della sua doppia natura.

Chris parve comunque capire il suo stato d’ansia – pur se non i motivi – perché gli sorrise e, allungando gli avambracci fuori dal parapetto, disse: “Ho come l’impressione che tu stia combattendo un’aspra battaglia, anche se non capisco il perché.”

“Non sarebbe carino sbatterti a terra per divertirmi un po’, ti pare?” ironizzò Colin, facendolo ridere.

Il problema era ben più grande di quello ma, come spiegazione, poteva andare.

“Oh, io non piangerei, credimi ma, in qualche modo, vedo che sei frenato, quando stai con me. Ripensamenti? Pentito di avermi baciato?” domandò Chris, sollevando un sopracciglio con espressione curiosa.

“Tutt’altro” scosse recisamente il capo Colin, prima di notare un tatuaggio curioso nella parte interna del polso del giovane. “Toh, non mi ero accorto che avessi un tatuaggio.”

“Questo?” mormorò Chris, indicandosi il disegno brunito a forma di spirale che spiccava sulla sua pelle lievemente ambrata. “Una cosa di famiglia. Se guardi Joyce, ne ha uno sulla caviglia. Noi Sterling abbiamo tutti un tatuaggio.”

“Se io me lo facessi, mio padre darebbe in escandescenze” ridacchiò Colin, continuando ad ammirare quella spirale, composta da più tratti concentrici e tutti diversi.

“Paura di un’infezione?” domandò curioso Chris.

“No, terrore degli aghi! Sverrebbe per interposta persona” rise Colin, coinvolgendo anche Chris nella sua ilarità.

Nonostante la drammaticità della situazione, Colin ricordava con divertimento il giorno in cui, nella clinica del dottor Whitlock, sua madre era stata sottoposta a diversi esami… e suo padre era svenuto.

Pensare al potente capoclan di Cardiff, abbattuto dalla vista di un ago, lo aveva mandato al tappeto per il gran ridere.

Persino sua madre Ellana era scoppiata in una gran risata, e Liam aveva preso in giro Pascal per giorni.

Era stato un bel momento, nonostante tutto.

“E’ davvero bello. Le sfumature bruno-rossastre sono fatte molto bene e…” cominciò col dire Colin, prima di venire colto da un dubbio.

Istintivamente, allungò una mano per afferrare quella di Chris che, però, si scostò per impedirglielo, fissando poi turbato Colin.

A quel punto, il giovane sorrise a mezzo e, cogliendolo di sorpresa, lo prese per la nuca e lo avvicinò a sé per baciarlo, mandandolo così in confusione.

Nella foga di quel momento di passione, Chris perse di vista la precedente mossa di Colin, e quest’ultimo poté mettere in pratica ciò che voleva fare.

Afferrò il braccio di Chris proprio all’altezza del polso e, non appena la sua pelle toccò quella del giovane, una scarica di dolore si inframmezzò al piacere che stava dilagando in lui.

Chris se ne accorse, però e, scostandosi nonostante la stretta di Colin – altra cosa che sorprese il giovane Laroche –, fissò a occhi sbarrati il ragazzo e ansimò stordito: “Che fai?!”

Colin, però, non gli rispose. Scrutò il suo palmo arrossato, il tatuaggio di Chris e, annusando meglio l’aria, riuscì a cogliere un aroma che, fino a quel momento, non aveva notato.

Lui e Chris si erano sempre incontrati in luoghi ove, gli odori e gli aromi, avevano sempre costituito un impedimento, una sorta di barriera.

Sia Londra che Cardiff, così come il mare stesso, avevano cospirato contro di lui e i suoi sensi.

Ora, però, un lento, trionfante sorriso si allargò sul suo viso, non appena la verità gli venne mostrata con chiarezza.

A quel punto, Chris sgranò ancor più gli occhi e, con voce resa roca dal dubbio, mormorò: “Tu… tu sai…”

Colin si limitò ad annuire e, con maggiore sicurezza, tornò a baciare Chris che, stavolta, non gli impedì di toccare il suo tatuaggio.

Come in precedenza, una scarica di elettricità statica percorse il corpo di Colin, eccitandolo e stordendolo e, quando infine si scostò dal giovane, sussurrò sulle sue labbra: “E’ una rihall, vero?”

“Come conosci questo termine?” gracchiò Chris, prima di guardarsi intorno con espressione turbata.

I loro amici stavano ridendo della grossa, a prua, del tutto presi da un’apparente partita a poker con Brady, il ragazzo di Joyce.

Quest’ultima, invece, era sdraiata a prendere il sole, ignorando bellamente il caos prodotto dai giovani accanto a lei.

Nessuno poteva udirli, in quel momento, ma Chris ebbe comunque timore di esporsi, di parlare, pur se era assurdo il solo pensarlo.

Colin, a quel punto, prese in mano le redini della situazione e, preso il viso del giovane tra le mani, gli sorrise e, occhi negli occhi, mormorò: “So ogni cosa. Conosco altri come te, davvero.”

Era stato interessante, qualche anno addietro, fare visita al clan di Dublino su espresso invito del nuovo Fenrir, e conoscere ben quattro principi di Mag Mell.

Pur se ne aveva ascoltato le storie per bocca stessa di lady Fenrir, era stato strano mettere insieme mito e realtà dei fatti.

Non che la visione di Litha mac Lir e dei suoi fratelli non somigliasse, e di molto, alla personificazione in terra di un mito ancestrale.

Pur non avendo interesse per le donne, aveva trovato Litha assai affascinante, oltre che molto più misteriosa dei fratelli e, quando era saltata fuori la sua duplice discendenza, ne era rimasto sbalordito.

In generale, quel viaggio in Irlanda era stato incredibile per diversi motivi, ma il fatto che Litha fosse una semi-divinità, era il particolare che più lo aveva colpito.

A quel punto, la sorpresa di Chris si fece confusione e Colin, nel lasciarlo andare, aggiunse: “Ho avuto l’onore di conoscere i principi di Mag Mell. Stheta, Krilash e Rohnin, oltre alla loro sorella Litha.”

Chris si passò una mano sul viso, sgomento, lanciò uno sguardo al mare aperto come a cercarvi mille spiegazioni ma, alla fine, riuscì solo a chiedere: “Non dovresti neppure conoscere i loro nomi. E poi, perché chiami la principessa con il nome di Litha?”

Colin allora sorrise, e replicò: “A quanto pare, sono più informato di te. Litha è stata adottata dai sovrani fomoriani, ma è di discendenza mista. E’ per metà una Tuatha de Danann.”

Chris non disse nulla, di fronte a quelle informazioni, si limitò ad alzarsi in piedi e, afferrato Colin a un braccio, lo obbligò a fare altrettanto, prima di trascinarlo sottocoperta con sé.

“Ehi, voi due, non fate cosacce!” gli gridò dietro Stuart, uno dei loro amici.

Chris lo mandò debitamente al diavolo, mentre un coro di risate esplodeva a prua e, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, fissò astioso Colin e sbottò.

“Posso sapere che diavolo sta succedendo?! E perché sai tutte queste cose sui fomoriani?!”

Colin si sedette su uno dei divanetti e, dopo aver pregato Chris di fare altrettanto, asserì: “Visto che sei ciò che sei, e che so benissimo che, coloro di voi che abitano sulla terraferma, non fanno più parte di Mag Mell o dei Protettorati, posso dirti ciò che sono io.”

“E dopo mi spiegherai perché conosci tanto di… di ciò che sono io?”

A Colin parve strana, come domanda.

Era più preoccupato di capire come lui potesse essere a conoscenza dei fomoriani, piuttosto che del segreto che stava per dirgli?

“Non ti preoccupa ciò che sto per dirti?” domandò a quel punto Colin.

Chris sbarrò gli occhi, confuso, e asserì: “E di che dovrei preoccuparmi? Potenzialmente, io potrei mutare in un pesce. Che altro ci può essere di così strano? Lo sapevi, vero? Dimmi di sì, ti prego, o mi sentirò un idiota per avertelo spiattellato così, senza prepararti.”

“Delfino, Chris, non pesce” sottolineò sorridendo Colin, e Chris rise nervosamente, annuendo.

“Sì, non ricordarmelo. La prima volta che mia madre me lo disse, quasi le risi in faccia e, nel prendere una scatoletta di tonno, le domandai se fossimo loro parenti. Non ti dico cosa mi fece” ammise Chris, ora più rilassato, sorridendo con espressione meno tesa.

“Siete tutti fomoriani?” domandò a quel punto Colin, notando come, il tremore alle mani di Chris, fosse scemato.

“Non mi sto dimenticando che volevi dirmi qualcosa, sappilo…” sottolineò quest’ultimo, frizzandolo con i suoi occhi grigi. “… ma, visto che questa è la conversazione più bizzarra che io abbia mai fatto in vita mia, mi diverte l’idea di continuarla.”

“Bene… sapevo che ti piacevano le cose strane” disse Colin, facendo spallucce.

“Per risponderti, no, mio padre è umano, e mia madre decise di abbandonare il Protettorato dei Mari del Sud per andare con lui. Si conobbero sulle Antille e, da lì, si trasferirono a Cardiff per seguire la ditta di mio padre” gli spiegò Chris, sospirando leggermente.

“E la tua rihall? Come mai è scura? Non dovrebbe essere chiara?”

“Sai davvero un sacco di cose, su di noi…” mormorò ammirato Chris, poggiando il mento su una mano, sollevata per fungere da piedistallo. “… ma sì, avrebbe dovuto essere chiara. Mamma risvegliò a entrambi noi la rihall, quando compimmo diciotto anni. Voleva che avessimo la possibilità di scegliere.”

“Per questo, ammiri il mare con aria così pensierosa?” domandò a quel punto Colin.

“Ho sempre pensato che, una volta terminati gli studi, avrei preso la pelle di delfino che mia madre mi ha offerto e, dicendo addio a tutti, sarei disceso sul fondo del mare. Credevo fosse quello, il mio futuro. Lo sentivo…”

Nel dirlo, si toccò il torace, all’altezza del cuore.

“Ma poi…?”

“Sei arrivato tu” sorrise appena Chris, scrutando gli occhi blu di Colin.

Vagamente sorpreso, il giovane lo fissò in cerca di spiegazioni, e quest’ultimo non si fece pregare.

“Hai spezzato il mio legame col mare e, quando vengo qui per ritrovarlo, non lo sento più. Certo, posso udire le voci del mio popolo, ma non avverto più il bisogno di conoscerlo, di farne parte…” mormorò Chris, sorridendogli.

“Non so se è un pregio, o un difetto, ciò che hai detto” sottolineò Colin, dubbioso.

“Dipende da ciò che farai d’ora innanzi.”

“Credo sarà il contrario” ammise Colin, accigliandosi. “Credimi.”

“Te l’ho detto. Nulla può essere più strano di me che posso diventare un delfino” ironizzò Chris. “Certo, se tu mi dicessi che sei un malato terminale, potrei anche morirne, ma…”

Essere un licantropo è meglio, o peggio?, si domandò Colin, prima di sospirare.

“Non sono un malato terminale.”

“Grazie al cielo” sospirò sollevato Chris. “Sei diventato improvvisamente etero, allora?”

“Decisamente no!” rise Colin.

“Bene, altro pericolo scampato. Ti piace qualcuno che non sia io?”

“Pensi ti bacerei come ho fatto, se così fosse?” mugugnò Colin, fissandolo male.

“Hai ragione, scusa. Anche se va detto che mi hai tratto in inganno, prima” precisò Chris, sempre con tono allegro e faceto. “Vuoi dirmelo, Colin? Cos’altro ci può essere, di così tremendo, da temere una mia crisi di nervi?”

“Se ti dicessi che non sono esattamente… umano?” tentennò Colin.

Chris sollevò il viso dalla mano, fissò curioso Colin e, infine, borbottò: “A me lo sembri tutto. E so che non sei fomoriano. Quindi…”

“Anche tu sembri umano, ma non lo sei” sbuffò il giovane lupo, accigliandosi.

“Okay, è vero. Resterò assolutamente serio. Davvero” assentì a quel punto Chris. “Dimmi tutto. Ti ascolterò senza dire scemenze.”

“Sono un licantropo” mormorò di getto Colin, attendendo trepidante la sua reazione.

Reazione che, però, non venne.

Chris rimase perfettamente immobile a fissarlo, gli occhi chiari che lo guardavano con espressione meditabonda, come se attendessero qualcosa di veramente sconvolgente.

Come se quello che Colin gli aveva appena detto non lo fosse!

A quel punto, Colin si ripeté, scandendo bene le parole: “Sono. Un. Licantropo.”

“Ho capito. Davvero. Non sapevo che esistessero ma… ehi, chi sono io per recriminare? E quindi?”

“Come, e quindi? Tutto qui?!” sbottò Colin, non aspettandosi di certo una reazione così freddina.

Chris, allora, gli sorrise gentilmente, si allungò sul tavolo che li divideva per dargli un bacio e, nello scostarsi, disse: “Sì, ora la tua aura sfrigola che è un piacere.”

“Che?! Senti la mia aura?!” ansimò Colin, sempre più confuso.

“I fomoriani possono percepire le auree delle creature non umane, se queste sono particolarmente intense. Mi era parso di avvertire qualcosa, in te, quando ci eravamo baciati la prima volta ma, visto il momento molto particolare, ho pensato di essermelo immaginato” sottolineò Chris, scrollando le spalle.

“Quindi, normalmente, non avverti nulla…”

“No, niente di niente. Per questo non ho mai sospettato nulla” scosse il capo Chris. “Ma ribadisco… perché pensavi non avrei accettato la cosa?”

“Non trovi strano che io… beh, che io possa mutare in un lupo?” domandò ancora confuso Colin, trovando del tutto assurda quella discussione.

“Per la verità, no. Io, in linea teorica, posso farlo ma, per ovvie ragioni, non l’ho mai sperimentato, però ho visto mia madre. Non credo sia molto diverso” disse Chris, tornando alla sua posa rilassata, col viso poggiato sulla mano stesa a palmo in su. “Non avevo idea che esistessero altre creature mistiche, se così vogliamo definire le nostre unicità, ma non sono un sapientone, perciò…”

Colin scosse il capo, ormai privo di parole.

Ma cosa diavolo stava succedendo? Stava veramente avendo una discussione del genere con Chris, o se la stava solo sognando?

Chris, allora, allungò la mano libera verso quella di Colin, la strinse e, sorridendo comprensivo, gli disse: “E’ una vita che sento parlare di cose strane, in casa mia. I miei racconti della buonanotte erano conditi di storie sui fomoriani, sulle battaglie contro i figli di Danann e sulla vita di corte dei reali di Mag Mell. Sapere che non siamo così unici come credevo, è solo un sollievo.”

“Perciò, mi sono fatto delle seghe mentali per mesi, per niente?” ironizzò nonostante tutto Colin, ritrovando finalmente il sorriso.

“Temo di sì” ammise Chris, ridacchiando.

Non era possibile! Poteva realmente essere tutto così facile?

Aveva davvero trovato una persona da amare, e che poteva accettarlo senza dover fare i conti con il suo retroterra folle?

Scoppiando a ridere, Colin si passò una mano sul viso, ora finalmente tranquillizzato, e disse: “Ora, ti dirò come ho saputo di voi. Va bene?”

“Grazie. Sono davvero curioso di sapere come è potuto succedere… poi, mi farai vedere com’è essere un lupo, d’accordo? La cosa mi intriga parecchio.”

“Potrei anche darti la luna, ora come ora” sussurrò Colin, allungandosi per baciarlo.

Sapendo che poteva avvertirla, il giovane estese la sua aura per avvolgerlo e Chris, sorridendo contro le sue labbra, mormorò: “Oh, questo sì che è bello! Tieniti la luna. Preferisco questo.”
 
***

Accomodato su uno dei divani del salotto di casa Sterling, Colin ripeté la storia che aveva esposto a Chris poche ore prima e, quando ebbe terminato, Fiona macMharran sospirò sorpresa e compiaciuta.

“Fui compagna di Lithar durante una delle ultime campagne militari contro i Tuatha, e mi piacque molto il suo spirito. Era volenterosa e coraggiosa in battaglia, e niente affatto superba” spiegò Fiona, sorridendo di quei ricordi. “Sono felice che abbia trovato una persona degna di lei… e tu mi dici che è per metà una figlia di Danann? Strabiliante.”

Colin non era sicuro cosa fosse più strabiliante, se parlare con una guerriera plurimillenaria abbigliata con jeans e camiciola, o essere libero di dire ciò che sapeva, senza restrizioni o tabù.

Chris, seduto al suo fianco, gli sorrise e Joyce, appollaiata sul bracciolo della poltrona del fidanzato, borbottò: “Non è giusto, però… tu hai trovato un lupo, mentre io solo un umano.”

“Ehi, dico!” sbuffò Brady, dando un pizzicotto sulla coscia alla sua fidanzata.

Tutti risero, di fronte a quella burla e Colin, nell’osservare la statuaria bellezza bionda che era la madre di Chris, disse: “Tutto mi sarei aspettato, tranne questo. Temevo di non poter dire niente a Chris, e invece voi avevate più segreti di me.”

“Forse non di più… solo diversi” replicò la donna, sorridendogli. “Pensi sarebbe possibile mettermi in contatto con la principessa? Sarebbe bello scambiare due parole con lei e rivangare i bei ricordi.”

“Eccola che comincia… preparati, Colin. Quando sentirai le parole ‘armata’ e ‘fomoriani’ nella stessa frase, scappa a gambe levate” ironizzò Ronald Sterling, il padre di Chris.

Colin rise nonostante tutto e, scuotendo il capo, asserì: “Mi piacerebbe molto ascoltare qualche aneddoto e, quanto al contattare Litha, non c’è problema. Ogni lupo che si rispetti ha i numeri di telefono di tutti i Santuari del Regno Unito.”

Ciò detto, estrasse il cellulare, chiamò casa Doherty e, quando udì la voce di Rey, disse: “Guardiano, i miei rispetti. Sono Colin Laroche del Clan di Cardiff. Posso parlare con la tua stimata compagna?”

“Ehi, Colin, ciao. Certo che puoi. E’ successo qualcosa?”

“Niente di grave. Penso che Litha potrebbe essere lieta di parlare con una sua vecchia conoscenza. Dille che Fiona macMharran dei Protettorati del Sud vorrebbe parlarle.”

“Che ci fai con una fomoriana al fianco?” domandò curioso Rey.

“Storia lunga. Lo scoprirai a breve” ironizzò Colin, mentre Litha prendeva il telefono dalle mani del compagno.

“Un saluto a te, futuro Hati del clan di Cardiff. E’ dunque vero che uno dei miei anziani commilitoni è appresso a te?”

Colin trovò buffo quel modo di parlare un po’ desueto ma sapeva bene come, regole vecchie di secoli, fossero difficili da eradicare.

Nel sorridere a Fiona, le passò il telefono e, mentre le due donne iniziavano a parlare tra loro, Colin uscì sul balcone assieme a Chris.

Lì, alla luce della luna, Chris gli domandò con una certa ironia: “Ululerai per me?”

“Scordatelo” rise Colin. “Ma domani ti presenterò la mia famiglia, se ti va.”

“Sarà un vero piacere” annuì Chris, prima di mormorare: “Mi piacerebbe anche passare a trovare tua madre, se non è un problema.”

“Affatto. Ci andremo uno di questi giorni, così potrà complimentarsi con me per il mio buon gusto” ironizzò Colin, lanciando un’occhiata verso il cielo.

Chris gli sorrise e, mentre entrambi restavano in silenzio alla luce diafana della luna, Colin sperò davvero che sua madre potesse vederlo, in qualche modo, ed essere felice per lui.

Lui, di sicuro, lo era.







Note: Un po' di ispirazione è giunta e, se non si bloccherà nuovamente, dovrei riuscire a sfornare qualcosa nel nuovo anno. Se non vi ritrovate con l'accenno ai fomoriani e alle rihall, vi rimando alla mia serie The Cross of Changes. Per ora, utilizzo questa nuova OS per augurarvi Buon Natale! 

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Capitolo 28
*** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 1 (Liam Laroche) 2020 ***


Dio li fa e poi li accoppia – Liam Laroche - Parte 1 -
 
 
Gennaio 2020- dintorni di Cardiff
 
 
Era. Nei. Guai.

Guai grossi, pelosi e zannuti, a ben vedere, perché suo padre era grosso, peloso e zannuto, quando era un licantropo.

Considerando che, oltretutto, Pascal Laroche era anche l’attuale Fenrir del suo branco, era il più grosso tra i grossi, pelosi e zannuti di sua conoscenza.

Ma che diavolo gli era saltato in mente di esibirsi come Edward Cullen in Twilight?

Ovviamente, lui lo aveva visto solo a scopo più o meno didattico ma, alla fine dell’opera, il fatto rimaneva.

Lui, Liam Laroche, futuro Fenrir di Cardiff, si era messo in mezzo tra un’auto e il corpicino perfetto e terrorizzato di Cerridwyn Lancaster.

Incurante del pericolo corso nel mettersi in mostra, nonostante non vi fosse nessuno presente a parte l’autista – ubriaco e addormentato – e la stessa Cerridwyn, Liam si era buttato.

Se fosse stato Spider-Man, avrebbe potuto dare la colpa ai suoi sensi di ragno, ma lui non aveva una tutina in latex e la maschera con gli occhi a mosca.

No, tutt’altro.

Lui aveva zanne e artigli, oltre a sensi sviluppati e un istinto protettivo piuttosto marcato.

Oltre a una cotta sperticata nei confronti della piccola Cerridwyn.

Per questo, si era trovato al posto giusto, nel momento giusto e per questo, si era buttato al momento giusto, ma nel contesto più sbagliato possibile.

Compagni di classe fin dai tempi delle elementari, lui e Cerridwyn erano cresciuti insieme, pur se in due mondi separati e distanti quanto la luna dalla Terra.

Pur se vicini fisicamente – sia a scuola che come abitanti della stessa zona di Cardiff nord – non lo erano stati nella vita reale, vista la seconda identità di Liam.

A dodici anni il giovane Laroche aveva scoperto, con la sua prima mutazione, di essere l’erede del padre alla guida del clan.

Se non fosse stato per suo fratello Colin, di due anni più grande di lui e già erede del titolo di Hati, probabilmente avrebbe dato di matto.

Sapere che Colin avrebbe guardato le sue spalle per tutta la vita, era stato un sollievo, per lui.

Già la perdita di sua madre era stata un peso enorme da portare. L’idea di non poter avere sempre al fianco il fratello, lo avrebbe distrutto.

Si fidava dei lupi del branco, e aveva tanti amici licantropi a cui avrebbe affidato il suo braccio destro, ma Colin era Colin.

Da quel momento, per lui la vita era drammaticamente cambiata e, quando anche Fianna era stata elevata al ruolo di Sköll, per loro le cose erano divenute molto differenti.

Certo, avevano seguito la scuola come tutti gli umani ma, oltre a ciò, loro avevano dovuto prendere sulle spalle anche un altro genere di impegno.

Ci si doveva preparare fin da giovani, per essere la Triade di Potere, poiché non era dato sapere quando il Fato avrebbe potuto metterci lo zampino.

Questo retaggio proveniva da un passato ancestrale, quando i Cacciatori predavano indisturbati i licantropi, e le Triadi venivano spesso falcidiate perché esposte per difendere i clan.

I giovani dovevano essere in grado di guidare i branchi anche in tenera età, o il sistema piramidale della stirpe mannara sarebbe collassata.

Certo, la guida del branco poteva anche essere sostenuta da un Consiglio, ma esso non avrebbe mai potuto essere potente – o infondere sicurezza – come una Triade.

Perciò, per Liam, Colin e Fianna, era iniziata una doppia vita fatta di segreti, bugie e un addestramento serrato per il corpo e la mente.

In tutto questo, Cerridwyn non aveva avuto spazio, così Liam l’aveva serbata nel cuore come un dolce pensiero a cui aggrapparsi nei momenti bui.

Dolce pensiero che, però, era divenuto molto reale quando, l’estate precedente, lei si era presentata a casa sua per chiedergli come stesse, non appena giunta a conoscenza del suo incidente.

In realtà, Fianna lo aveva ferito con un artiglio ma, come sempre, avevano dovuto mascherare il tutto e raccontare una bugia, simulando un suo braccio rotto.

Trovarsela dinanzi alla porta di casa, bellissima e preoccupata solo per lui, lo aveva sbriciolato.

Tutti i suoi tentativi di relegarla in un angolino del suo cuore, erano venuti meno e, quando lei lo aveva abbracciato, facendogli gli auguri per una pronta guarigione, Liam si era sentito perso.

Per sua fortuna, né Colin né il padre si erano trovati a casa, in quel momento, o avrebbero capito subito cosa gli fosse passato per la testa nel vederla.

Il suo cuore aveva fatto una capriola, la sua aura si era spezzettata come un vetro in frantumi e il suo dolce ricordo, di colpo, era divenuto un sogno a occhi aperti. E chiusi.

Era abbastanza onesto da ammettere che, vederla in calzoncini corti e maglietta aveva pesato un po’, sul suo stato d’animo, ma Cerridwyn gli piaceva per mille altri motivi.

Non solo perché era un piccolo concentrato di bellezza gallese.

Cerry era intelligente in una maniera quasi imbarazzante, eccelleva in tutte le materie, e lui adorava le donne furbe e sveglie.
Aveva un brio e una verve davvero rare, e il suo sorriso poteva illuminare una stanza al solo passaggio.

Chiacchierava senza posa, e le sue risate erano sempre contagiose.

Inoltre, cosa che per lui era assai importante, amava i cani. Li adorava con tutta se stessa.

In fondo, per quanto il termine ‘cane’, per loro, fosse un insulto, cos’erano se non canidi un po’ speciali?

L’abbaiare frenetico del cane di Cerry – Fluffy – lo riportò alla realtà, scaraventandolo nuovamente su quella strada semibuia in cui aveva scorto il pericolo.

E scongiurato un disastro epocale per crearne un altro, forse altrettanto grande.

“Ssst, Fluffy, basta… la tua padrona sta bene” mormorò Liam, chinando finalmente lo sguardo a scrutare negli occhi nocciola di Cerridwyn, stesa sotto di lui.

Aveva corso come un matto, per raggiungerla e, per trascinarla via dal marciapiede, le si era gettato addosso in stile carro armato.

Nel frattempo, aveva dato una gran manata al SUV che stava per centrarla e che, in quel momento, si trovata spalmato contro un pilone della luce.

A giudicare dal battito che avvertita provenire dall’auto, il folle alla guida era vivo e vegeto, addormentato come Aurora nella famosa fiaba e ben lungi dall’essersi accorto di quello che era successo.

Cerridwyn continuò a fissarlo ancora per diversi istanti senza proferire parola e Liam, nel reggersi su un ginocchio, le domandò: “Tutto okay, lì sotto?”

Lei assentì muta, lanciò un’occhiata all’auto che l’aveva quasi ammazzata e, alla fine, riuscì a gracchiare: “Sei un vampiro?”

Liam sbuffò, si passò una mano sul viso e, fissando il cielo pieno di stelle con aria esasperata, pensò tra sé: “Lo sapevo che la storia di Edward Cullen sarebbe saltata fuori!”
 
***

Chiamata la polizia per avvertire di un incidente nei pressi della Merthyr Road, vicino alla confluenza con Cwm Gwynlais, la coppia di ragazzi e Fluffy attesero pazienti i soccorsi.

Era impensabile allontanarsi, così come abbandonare quel pazzo a se stesso. Allontanarsi da Cerry alla chetichella avrebbe destato troppi sospetti, oltre a rendere indigesto il suo gesto alla ragazza.

Certo, l’idea di parlare di ciò che era avvenuto era ancor più impensabile, anche perché Liam non sapeva come prendere il silenzio di Cerry.

Dopo quella battuta più che scontata – evidentemente, anche Cerry aveva visto quel film, da piccola – la ragazza si era azzittita e aveva continuato a guardare nel vuoto, pensosa.

Lui si era limitato a restare in silenzio, rispettando il bisogno della ragazza di metabolizzare il tutto… e crearsi le sue risposte, più o meno folli che fossero.

Fluffy, nel frattempo, lo leccò per la centesima volta in viso, ma lui vi diede poco peso.

Sapeva che i cani, una volta compresa la loro buona volontà, tendevano a idolatrarli.

Dopotutto, erano la quintessenza stessa dei canidi. Un po’, ci stava.

Da lì a un po’, però, la sua faccia avrebbe avuto bisogno di una buona dose di sapone, se Fluffy non avesse smesso di ringraziarlo per aver salvato la sua padroncina.

Padroncina che, quando giunsero polizia e ambulanza, sembrò ridestarsi a nuova vita.

I poliziotti non attesero neppure un attimo, e chiesero loro la dinamica dell’incidente e le loro condizioni di salute.

A quel punto, Liam raggelò, temendo il peggio.

Cerridwyn, però, lo sorprese.

Disse al poliziotto che lei, il suo cane e Liam stavano passeggiando sul marciapiede, quando l’autista aveva sbandato, rischiando di centrarli.

Spiegò loro come fossero scivolati sulla neve per schivarlo, indicando poi la lunga striscia nevosa schiacciata, dove erano ruzzolati poco meno di venti minuti prima.

Aggiunse anche che Liam l’aveva protetta col suo corpo, rovinandosi a quel modo il giaccone sull’asfalto del marciapiede.

Tutto vero, verissimo, se non si contava l’urto sul passaruota dell’auto che, però, era stato danneggiato anche dall’attrito contro il lampione.

L’ammaccatura prodotta dalla sua mano era mescolata alle altre lamiere contorte e, visto che l’autista era addormentato, quando aveva rischiato di investire Cerridwyn, lei era l’unica vera testimone.

A parte Fluffy, ovviamente, ma lui non poteva certo testimoniare contro di lui.

Ritenendosi soddisfatti, i poliziotti chiesero loro se volessero un passaggio fino a casa, ma Cerry negò di averne bisogno, visto che abitava a meno di mezzo miglio da lì.

Anche Liam scansò con gentilezza l’invito e, quando ambulanza e polizia se ne andarono, Cerry si volse verso di lui e domandò: “Ora mi dici che è successo?”

“Quello che hai detto tu?” ironizzò lui, sogghignando teso.

“Sì, lo so che quella parte è tutta vera” brontolò lei, allungando una mano per bloccare l’ennesimo tentativo di Fluffy di leccare in faccia Liam. “E piantala! Non ti accompagnerò mai più fuori, Fluffy, se non la smetti!”

Liam rise nonostante tutto e, rimettendo a terra il cucciolo di golden retriever, gli diede un buffetto sulle orecchie e si rimise diritto.

Il cucciolo si strusciò contro le gambe di Liam con fare adorante e Cerry, con un mezzo sorriso, mormorò: “Ti adora, a quanto pare… e dire che ha solo pochi mesi, e lui ti ha visto solo stasera.”

“Mi piacciono i cani” asserì Liam, notando solo in quel momento il tremore alle mani di Cerridwyn e i suoi occhi lucidi.

Il suo battito cardiaco stava lentamente salendo di intensità e, allo stesso modo, l’adrenalina nel suo sangue stava scemando.

Stava per cedere.

“Cerry…” sussurrò lui, allungando una mano a sfiorarle il braccio.

Lei sobbalzò, a quel tocco e, inaspettatamente, si gettò tra le braccia di Liam, scoppiando in lacrime.

Ecco, e ora cosa doveva fare?

Non avendo molta dimestichezza con le lacrime – Fianna piangeva spesso, se era arrabbiata, ma di solito lui la consolava da lupo – le batté goffamente le mani sulla schiena.

“Ehi, va tutto bene… siamo okay, no?” mormorò roco lui, inebriato dal suo profumo leggermente speziato e dalla morbidezza dei suoi riccioli ramati, che gli sfioravano il mento.

Lei assentì contro il suo petto, stretta ancora a lui come un koala e tremante come una foglia sbattuta da un vento inclemente.

Calmati, Liam… è solo un crollo nervoso. Ora le passa, si raccomandò tra sé, cercando di tenere a bada il suo, di cuore.

Era dura, però, averla tra le braccia, spaventata e tremante, e non ricorrere al classico e abusatissimo bacio che si vedeva sempre nei film.

Lo avrebbe voluto fino all’ultima stilla di potere che aveva in corpo, ma non l’avrebbe mai fatto.

Primo, perché lui non amava i film strappalacrime, secondo, perché rispettava troppo Cerry per farle uno sgarbo simile.

Rimase perciò perfettamente immobile, sfiorandole solo la schiena con lente carezze nel tentativo di calmarla.

Lentamente, mentre la notte avanzava e l’aria diveniva sempre più fredda, Cerridwyn si calmò e, contro l’ampio petto di Liam, mormorò: “Perché sei così caldo? Fa un freddo assurdo.”

“Giacca della Columbia. Ha un interno termico” si giustificò lui, ammiccando quando lei tornò a riemergere dal suo petto per guardarlo dal basso.

Cerry non se la bevve neppure per un istante e, scostandosi di colpo da lui, gli puntò il dito contro e borbottò: “Sei come Jake, allora!”

Liam assottigliò le palpebre, la fissò esacerbato e sbuffò.

Ma lei non aveva ancora finito, con le citazioni.

Batté le mani come una bambina, la crisi ora completamente passata e, afferrando le sue, saltellò sul posto ed esclamò: “Sei un…”

Liam fu lesto a tapparle la bocca e, ora sofferente, le sussurrò: “Cerry, ti prego…”

Lei sembrò comprendere al volo e, annuendo con fare da cospiratore, abbassò subito la voce e mormorò: “Oh, giusto. Immagino che tu non possa farlo sapere a nessuno. O almeno credo…”

“Far sapere cosa, Cerry?”

“Ora non prendermi per idiota, Liam Laroche” sottolineò lei, tornando seria. “D’accordo, non sono stata molto edificante, nel citarti un film YA, ma mi è venuto spontaneo. Comunque, ho capito benissimo che qualcosa non quadra.”

Sospirando, Liam le disse: “Dai, andiamo. Ti accompagno a casa. Sei in evidente stato confusionale, e non è il caso che tu prenda anche un raffreddore.”

Lei, però, si scansò dalla mano protesa del giovane e, per tutta risposta, afferrò il cellulare che teneva in tasca e chiamò sua madre.

Liam sbiancò, quando le sentì dire che sarebbe andata a casa del suo amico Liam per studiare, e che suo padre l’avrebbe riaccompagnata più tardi.

Se c’era una persona libera come l’aria e spensierata come una giornata estiva, era Suzzanne, la madre di Cerry.

Ex figlia dei fiori, aveva cresciuto la figlia nel rispetto della natura e dell’amore incondizionato verso le altre persone.

Il padre, un tantino più controllato di così, aveva comunque assecondato la moglie, che amava alla follia e per cui avrebbe anche venduto un rene, se necessario.

Liam li trovava un tantino troppo mielosi, ma erano una bella coppia e volevano un gran bene alla figlia.

Chiusa la comunicazione, Cerry guardò poi Liam con aria di sfida e, intrecciando le braccia, sentenziò: “Ora, andiamo a casa a studiare.”

“E… e cosa?”

“Te” decretò lapidaria la ragazza, avanzando poi a passo di marcia lungo il marciapiede.

Fluffy rimase accanto a lui, guardandolo dubbioso e Liam, non potendo fare altro oltre al tramortirla, si accodò a capo chino.

Se suo padre avesse scoperto come si era fatto infinocchiare da una ragazza che pesava tre volte meno di lui, avrebbe riso fino alla fine dei suoi giorni.

Dopo averlo scuoiato, s’intende.
 
***

Per sua fortuna, Colin era uscito con Chris e la sua famiglia, quel week-end, e si erano recati al nord per andare a fare visita a degli amici.

Suo padre, però, era a casa e, quando i due entrarono in compagnia del piccolo Fluffy, levò il capo dal giornale che stava leggendo e, accigliandosi, balzò dalla poltrona ed esalò: “Liam! Ma che è successo? Cerridwyn… ma perché siete così ammaccati?”

“Piccolo incidente” mormorò Liam, trasmettendogli poi mentalmente, e con tono agitato: “Sa tutto! O, per lo meno, ne sa una parte!”

Pascal si accigliò ancora di più, abbandonò il salottino e si diresse verso la cucina, indirizzando i giovani proprio lì.

Messo un bollitore sul fuoco, invitò Cerry a sedersi vicino alla stufa di maiolica e lei, dopo aver tolto il giubbotto infradiciato di neve e rovinato in più punti, lo ringraziò.

Imitatala, Liam si accomodò su una delle panche imbottite poste sotto le finestre a bovindo e, nello scrutare Cerry, si chiese se si sarebbe spinta a fare domande di fronte a suo padre.

Lei, però, rimase in silenzio, si limitò ad accarezzare Fluffy e, quando Pascal le offrì una tazza di tè bollente, gli sorrise e ancora ringraziò.

“Vuoi dirmi che è successo?” gli domandò suo padre, mentre passava una tazza di tè anche a lui.

“Un’auto stava per investirla. L’autista si è addormentato al volante, tanto era ubriaco” gli raccontò succintamente.

“E immagino tu non ti sia limitato a scansarla…”

“Era troppo lontana. Mi sono dovuto lanciare su di lei, e scansare l’auto. Ma tranquillo, quella si è schiantata contro un palo, e il segno che ho lasciato io si è confuso con le lamiere contorte.”

“Oh, sì, guarda… sono tranquillissimo” ironizzò sarcastico Pascal, mentre chiedeva a Cerry se Fluffy avrebbe gradito del latte. “Abbiamo soltanto un’umana in casa che ti ha visto fare Superman.”

“Non ti ci mettere anche tu con gli esempi filmici, papà. Sono appena passato dall’essere equiparato a un vampiro-lampadina, per poi passare a un lupo tatuato” brontolò Liam, nella sua testa.

Nonostante tutto, Pascal si lasciò sfuggire un sorrisino e Liam, sbuffando, mormorò: “Sei sicura di sentirti bene, Cerry? Non vuoi che chiamiamo un’ambulanza? Dopotutto, abbiamo fatto un bel ruzzolone.”

“Sto benissimo, grazie” sottolineò la ragazza, inclinando il capo nello scrutare Liam con espressione intensa.

Lui si passò le mani sul viso, esasperato e Pascal, nel notare la sua aura febbricitante, sospirò ma infine disse: “Sono contento che mio figlio ti abbia evitato un incidente potenzialmente mortale. Sa essere un bravo figliolo, quando si impegna.”

“Oh, sì, è stato molto coraggioso, e non ha badato ai rischi, pur di salvarmi” assentì la ragazza, sorridendo generosa prima di aggiungere con enfasi: “A nessun rischio.”

Pascal rise nonostante tutto e, nel rivolgersi a un disperato secondogenito, asserì: “Mi avevi detto che Cerry è in gamba, ma forse non sei stato abbastanza generoso coi complimenti.”

“Mi inventerò qualcosa di meglio, per descriverla, la prossima volta” mugugnò Liam, avvampando in viso.

“Cos’hai detto a tuo padre?” domandò a quel punto Cerry, dimenticando temporaneamente la sua curiosità.

“Che sei intelligente e molto perspicace. Forse troppo” brontolò lui, tornando a coprirsi il viso con le mani. Che diavolo doveva fare, a quel punto?

Pascal rise ancora, passò accanto al figlio e, nel dargli una pacca sulla spalla, disse: “Mi trovate di là, se avete bisogno di me.”

Ciò detto, uscì dalla cucina, si chiuse la porta alle spalle e Liam, fissando il battente con espressione sconvolta, esalò mentalmente: “Ma che fai? Abbandoni così il tuo erede?!”

“Cerry è uno scricciolo… non puoi davvero aver paura di lei.”

“Ho paura di quello che potrebbe sapere! O capire!”

“Non mi sembra sia scappata, o sia svenuta di paura. E’ venuta consapevolmente qui per sapere la verità. Dimostra un coraggio che tu non stai replicando. Sii un tantino più uomo di così, Liam.”

Quel dolce rimbrotto lo fece sbuffare e, tornando a guardare Cerry, mugugnò: “Allora… sentiamo le tue teorie. Poi ti saprò dire quanto hai battuto forte la testa.”

Lei rise un poco, e a Liam vennero i brividi caldi. E non per colpa della stufa.

Perché doveva avere una voce così dolce, e una risata così sensuale? Ma, soprattutto, perché doveva essere un’umana?

“Allora… nella vostra famiglia, siete tutti dei colossi. E, se non fosse che mia madre ama alla follia mio padre, potrei dirle di puntare a tuo padre già da domani, visto quanto è fascinoso” ammiccò Cerridwyn, facendo sorridere un poco Liam.

Nella sua testa, si riversò la risata mentale del padre, così da portare il figlio a borbottare: “Non ti montare troppo la testa, tu…”

“Fammi almeno gongolare un po’. Se una ragazza di diciannove anni mi trova fascinoso, posso vantarmi per qualche minuto, no?”

Liam lo lasciò perdere e, invitando Cerry a continuare, ne ascoltò con attenzione le elucubrazioni.

“Diamo per scontato che, questa vostra mole, sia accompagnata da un discreto grado di forza. Forza che, sommata al tuo gesto, mi porta a pensare che sia un tantino superiore alla media” aggiunse la ragazza, indicando la mano del giovane.

Liam la scrutò senza nulla trovarvi, ovviamente. Il livido e i graffi si erano già rimarginati e, a parte un lieve rossore, non v’era nulla a memoria dell’incidente.

“La tua mano non è minimamente ferita, eppure hai preso in pieno il passaruota dell’auto, …l’ho visto molto bene.”

“Tu cosa pensi, dunque?” le domandò Liam, facendo spallucce.

“Innanzitutto, grazie” gli sorrise a sorpresa lei, arrossendo un poco. “Tra l’arrivo della polizia e il mio mutismo selettivo, non ti avevo ancora ringraziato per avermi salvata.”

“Non c’è di che” mormorò lui, detestando l’idea che suo padre stesse ascoltando l’intera conversazione.

“Ciò detto, stavo pensando a molteplici soluzioni logiche, visto che sono il mio campo…” sottolineò lei, ammiccando. “… anche se, con le mie uscite, penso di non averti dato proprio questa impressione.”

“Giusto. Sei o non sei la nostra futura astronauta?” ironizzò un poco Liam.

“Ci si prova ma, prima di arrivare lì, dovrò farne di passaggi intermedi” brontolò lei, scuotendo poi una mano per scacciare quella distrazione. “Allora, lasciando perdere sieri fantasiosi alla Captain America, morsi di ragno e robe simili, non sono arrivata a capo di nulla. Per questo, ho sparato la scemenza su Jake ed Edward. Scusa.”

Mica tanto scemenza, brontolò tra sé il giovane.

“Scusami tu, se faccio un po’ l’avvocato del diavolo, ma tu saresti disposta a ficcare il naso in una cosa che non capisci… per quale motivo?” le domandò lui, fissandola con sincera curiosità.

Perché non era preoccupata?

Sapeva che Cerry non era come il Chris di Colin. Ormai sapeva come sgamare i fomoriani, e Cerridwyn era umana al cento percento.

La ragazza, a quel punto, gli sorrise dolcemente e, nel guardare la porta della cucina, domandò: “Correggimi se sbaglio… tuo padre può sentirci, vero?”

“Sì” assentì lui, senza dare altre spiegazioni.

Cerry, allora, arrossì un poco e Liam, mandando al diavolo tutto e tutti, si alzò, le afferrò la mano e le chiese: “Ti fidi di me?”
“Stasera stiamo esagerando, con le citazioni” ironizzò lei, ma annuì.

Liam allora rise e, nell’uscire dalla cucina con la ragazza, salì le scale per raggiungere il primo piano, mentre il padre gli borbottava nella testa: “Non è giusto, però!”

“Fatti gli affari tuoi. Io e Colin non c’eravamo, quando hai fatto il cascamorto con mamma!”

Ciò detto, aprì la porta della sua camera, vi si infilò e, quando anche Cerry lo ebbe raggiunto, disse con una scrollatina di spalle: “Pareti insonorizzate.”

“Oh” mormorò lei, guardandosi intorno curiosa.

Solo a quel punto, Liam si ricordò che la sua stanza non era esattamente in ordine e, arrossendo come un peperone, cercò di rimediare alla bell’e meglio.

Frettolosamente, lanciò i suoi capi sporchi nella cestina dei panni da lavare, che teneva accanto alla scrivania e, dopo aver lisciato il copriletto, si volse a guardarla.

Lei stava sorridendogli, per nulla preoccupata per il disordine.

Anzi, le sue endorfine sembravano molto alte e gli estrogeni…

Liam scosse il capo, lasciando perdere alla svelta ciò che il corpo di Cerry gli stava trasmettendo e, nell’offrirle la poltroncina della sua scrivania, si lasciò cadere sul letto e borbottò: “Spara pure.”

Sperando con tutto se stesso che, una volta aperta la sua tenera boccuccia, non uscissero bombe tali da ucciderlo davvero.

 






Ciao a tutte/i e buon anno! Torniamo dai nostri lupetti con questa breve storia su Liam Laroche, futuro Fenrir del branco di Cardiff. Per chi se lo chiedesse, questa storia è divisa in due parti, poi ne verrà un'altra in cui ritroveremo sia Colin che Chris, così da completare il cerchio, per così dire.
Come andrà a finire questo tuffo nella verità, per Liam? Si accettano scommesse!

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Capitolo 29
*** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 2 (Liam Laroche) 2020 ***


 
Dio li fa e poi li accoppia - Seconda parte
 
 
 
Cerry si accomodò con grazia sulla sedia della scrivania, si volse a mezzo per giocherellare con una penna e, sorridendo a mezzo, mormorò: “Non ricordavo ti piacesse Scarlet Johansson.”

Liam guardò il poster che capeggiava su una parete, e il simbolo degli Avengers stampigliato sotto.

Chi era che non apprezzava Scarlet? Solo un uomo morto, forse.

“Mi piacciono le donne di carattere” asserì diplomaticamente Liam.

Il sorriso di Cerridwyn si accentuò.

Intrecciando le mani tra loro, la ragazza lanciò uno sguardo al soffitto e, pensierosa, disse: “Mi hai chiesto perché abbia voluto ficcare il naso. E se sia pronta alle conseguenze delle mie azioni.”

Lui assentì, sempre più nervoso, e la giovane si limitò a dire: “Ma perché sei tu, mi pare ovvio.”

“Eh? Scusa?” gracchiò Liam, facendo tanto d’occhi.

“Anche se, per un certo periodo, ho pensato che te la intendessi con Fianna…” cominciò col dire lei, gesticolando un poco con le mani. “… ho capito quasi subito che, tu e lei, eravate solo buoni amici.”

“Di sicuro! Fianna è come una sorellina… anche se mi sgozzerebbe subito, se sapesse che la reputo più piccola di me, visto che è il contrario. Di tre mesi e due giorni, per essere precisi” ammiccò Liam, ghignando.

“Te lo fa notare?” ironizzò lei.

“Tutte le volte che faccio l’atto di comportarmi da fratello maggiore” annuì Liam, massaggiandosi distrattamente il braccio dove recava la sua cicatrice da artiglio.

“E perché ti comporti così, visto che Fianna ha ben due fratelli maggiori?”

Il sorriso di Liam si fece dolce, a quel punto e, allungati gli avambracci sulle cosce, mormorò: “Perché Fianna è speciale, per me, anche se non nel senso che molti immaginano, per intenderci.”

“Quindi, non devo prenderla per i capelli?” buttò lì Cerry, facendo risollevare di colpo Liam, che la guardò senza parole.

“In che… senso?” bofonchiò lui, ora non sapendo più bene che dire.

“Nell’unico senso possibile, Liam. Te lo avrei chiesto la settimana prossima, per il mio compleanno ma, visto che siamo qui, e siamo in ballo…”

“No, aspetta, aspetta!” ansimò lui, sollevando le mani per bloccarla. “C’è un problema nel mezzo, un problema enorme e, per quanto vorrei molto che tu mi dicessi quello che io spero tu voglia dirmi, dobbiamo chiarire un paio di cose, prima.”

Lei arrossì a quelle parole e, nel giocherellare con un ricciolo dei suoi capelli, domandò: “Dando per scontato che stiamo parlando della stessa cosa… e lo spero… che impedimenti ci sarebbero, scusa? Appartieni a qualche culto strano, per cui non puoi avere una ragazza?”

“Ecco, lo ha detto… e ora come faccio a non saltarle addosso per baciarla?”, si domandò tra sé Liam, agitandosi sul letto.

Cerridwyn aveva detto esattamente ciò che aveva da sempre voluto sentire da lei, ma era difficile mettere assieme il suo desiderio e la sua realtà.

Cerry storse appena il naso e mormorò: “E’ per via… di quel che ho visto? Non è un problema, se sei forte. Anzi, non può che essere un vantaggio.”

“E non ti turba sapere perché io sia così forte?” sbottò lui, accigliandosi.

Fluffy, che li aveva seguiti fino a lì, andò a posizionarsi di fronte a Liam e, sedutosi sulle zampe posteriori, gli abbaiò un paio di volte.

Il giovane lo carezzò istintivamente, borbottando: “No, che non sono arrabbiato con lei, Fluffy. Non dire scemenze.”

Cerridwyn inarcò immediatamente le sopracciglia, esalando: “In che senso… non dire scemenze? Sai quel che dice? Sei come… il dottor Dolittle, ma in versione Maciste?”

Per Liam fu troppo.

Crollò sul letto, piegato da una risata così profonda da portarlo a lacrimare.

Tenendosi la pancia con le mani, Liam strizzò gli occhi, tossì un paio di volte e, infine, esalò: “Oddio… pure questa!”

“Piantala! Sto cercando di capire! Davvero!” sbottò Cerridwyn, accigliandosi.

“Lo so, sul serio… e credimi, mi fa piacere. Ma ho il terrore di dire tutto perché…”

Bloccandosi, tornò del tutto serio e, nel rimettersi seduto, sussurrò: “… perché, se tu non potessi accettare la verità, dovrei farti fare una cosa che aborro più di ogni altra.”

“Liam…”

Lui le sorrise mesto e, allargando le mani a mostrare i palmi, asserì: “Non era proprio una scemenza, quando mi hai accusato di essere come Jake.”

Cerridwyn si irrigidì leggermente, a quelle parole e, per un istante, Liam temette di vederla correre via urlando.

Sarebbe stato un bel colpo al cuore e, con tutta probabilità, avrebbe dovuto chiamare Lady Fenrir o Kate Alexander perché le facessero il lavaggio del cervello.

Di certo, non un’idea esaltante, visto quanto gli piaceva Cerry.

Lei, però, non fuggì, rimase seduta sulla poltroncina girevole, gli occhi fissi su Liam e la bocca leggermente dischiusa.

Liam percepì senza sforzo l’accumularsi dell’adrenalina nel suo sangue, il pulsare frenetico del cuore, così come il disseccamento delle fauci.

A volte, avvertire tutto così chiaramente, era un fardello quasi insopportabile.

Cerry, comunque, si fece forza e, tossicchiando per riprendere fiato, sbatté un paio di volte le palpebre e mormorò: “Che intendi dire?”

Liam si lasciò scivolare a terra, in ginocchio, giusto per apparire un po’ meno imponente – anche stando seduto, era comunque molto grosso – e, con un sospiro, disse: “E’ una cosa genetica, come per i quileute.”

“Hai visto il film?” borbottò Cerry.

“Farebbe molta differenza?”

“Mera curiosità” scrollò le spalle lei.

Liam, allora, assentì e ammise: “Io e Colin volevamo capire com’erano quei licantropi.”

Al suono di quell’ultima parola, Cerridwyn rabbrividì e Liam, immediatamente, si azzittì.

La ragazza, però, scosse le mani dinanzi a sé, prese un altro bel respiro e disse: “No, no, ce la faccio. Davvero. Ma sul serio ci siete andati?!”

Liam rise appena, riconoscendo a Cerry una tempra davvero rara. Tentava di scherzare pur se, dentro di sé, il panico lottava strenuamente contro la curiosità.

Preso in braccio Fluffy, che scodinzolò felice, Liam le raccontò ciò che era e, soprattutto, perché era ciò che era.

Non lasciò indietro nulla e, per tutto il tempo, i suoi occhi corsero da lei al cucciolo di labrador, e viceversa.

Impiegò quasi un’ora per raccontarle l’essenziale e, quando finalmente terminò, aveva la gola secca.

Cerridwyn non si era mai mossa, né aveva fatto domande.

Quando ogni rumore si spense e un quieto silenzio si impadronì della stanza, Liam non seppe più che pensare.

Sapeva che Amanda, l’amica di lady Fenrir, aveva avuto una mezza crisi di panico, nel sapere la verità. La stessa Brianna non l’aveva presa benissimo, all’inizio.

Estelle, la moglie di Bryan di Aberdeen, era stata mutata a causa di uno sciocco incidente, e aveva scoperto la verità gioco forza.

La moglie di Jerome Rowley lo aveva scoperto grazie ai suoi poteri di Percepente… ma quante altre donne poteva dire di conoscere, che avevano avuto simili battesimi del fuoco?

Cerridwyn, comunque, colse l’occasione per stupirlo ancora una volta.

Scivolò a sua volta in terra, sulle ginocchia e, preso Fluffy dalle gambe di Liam, se lo strinse al petto, gli sorrise e mormorò: “Non sai che, se un cane sta bene con una persona ed è sereno, vuol dire che quella persona è buona?”

“O-kay” tentennò cauto Liam.

“Fluffy è stato con te tutto il tempo, ti idolatra… perciò, direi che non è proprio un caos totale, quello che mi hai detto.”

“L’ho spiegato così male?” esalò Liam, un tantino ansioso.

Cerry allora rise, scosse il capo e, allungandosi verso di lui, lo baciò sulle labbra, indugiando qualche attimo prima di ritirarsi e dire. “Oh, sì, hanno proprio il sapore giusto.”

Liam ristette perfettamente immobile, così come perfettamente zitto, sapendo bene che, se non avesse mantenuto il totale controllo su se stesso, sarebbe successo un disastro.

Altro che Estelle e Bryan!

Cerridwyn l’aveva baciato! Non era scappata urlando, non gli aveva dato del mostro e l’aveva ascoltato senza interromperlo, o dargli del bugiardo.

Solo per quello, avrebbe potuto ululare alla luna per mesi, tanta era la gioia che stava provando.

“Tutto bene? Ho esagerato?” domandò lei, preoccupata.

Lui scosse il capo, arrischiandosi a sorridere e Cerry, più tranquilla, mise giù Fluffy e si avvicinò un poco a Liam, sussurrando: “E se io mi sedessi un poco più vicina a te, succederebbe qualcosa?”

Liam nascose tempestivamente le mani dietro la schiena e Cerridwyn, dubbiosa, gli domandò: “Non vuoi toccarmi?”

Dio, com’era difficile avere a che fare con una fragile umana che, tra le altre cose, poteva mandarti in briciole solo parlando!

Visto che la lingua gli faceva ancora difetto, liberò una mano per mostrargliela e, evidenti, gli artigli apparvero in tutta la loro pericolosità.

Cerry li fissò strabiliata ma, memore delle parole di Liam, non li toccò, limitandosi a guardarli per qualche istante prima di chiedergli: “Sei… nervoso? Per me?”

Liam assentì vigorosamente e la ragazza, a sorpresa, arrossì e gli gettò le braccia al collo, esclamando: “Che bello!”

Contraccolpo e sorpresa portarono Liam a sbilanciarsi all’indietro, così che la sua testa andò a cozzare contro la pediera del letto.

Si sentì un toc secco, ma a lui non fregò un accidenti.

Cerry lo stava abbracciando tutta contenta e, a quanto pareva, sembrava provare un genuino piacere tutto femminile, al pensiero di destabilizzarlo a quel modo.

Il quel momento, non seppe se odiarla un pochetto o amarla ancora di più.

Quando lei infine si scostò, tornò a guardare la mano di Liam, sorrise fiera e domandò: “Quindi, quando perdi il controllo, può succedere questo?”

“Può capitare” ammise Liam, ritrovando finalmente la favella.

A quel punto, lo sguardo di Cerry si addolcì e, nel prendere la mano di Liam con attenzione, disse: “Hanno un che di ferale… e non potrebbe essere altrimenti, ma sono anche affascinanti. Sei una belva feroce, ma sei anche docile.”

“Sono innanzitutto un lupo, e solo dopo un uomo. Puoi accettarlo?” le domandò lui, deglutendo a fatica.

“Spiegamelo. Vorrei capire.”

“Io ragiono da lupo, in prima istanza e, come erede del titolo di capoclan, i miei mannari verranno prima di chiunque altro. Solo la mia Prima Lupa e i miei cuccioli, saranno antecedenti agli altri” mormorò lui, occhi negli occhi con Cerry.

Era così strano parlare di un suo ipotetico futuro, con lei ad ascoltarlo!

Cerridwyn saggiò le parole ‘Prima Lupa’ con tono contemplativo, quasi in trance e, facendosi di colpo triste, disse: “Sarà la tua compagna, giusto?”

“Beh… potrebbe anche non esserlo. Sono esistiti casi in cui la Compagna e la Prima Lupa non erano la stessa persona, però…”

Perché stavano parlando proprio di quello, con tutti gli argomenti che potevano toccare in merito alla sua licantropia?

Liam stava cominciando a sudare freddo.

“…però immagino che, in quanto entità animali, abbiate rituali piuttosto… fisici” borbottò Cerry, e i suoi occhi nocciola si fecero fumosi, quasi rabbiosi.

Rabbiosi?

“Alcuni, in effetti” assentì cauto Liam.

“Tuo padre, quindi?”

“La manágarmr più alta in grado si presta per tale funzione, quando necessita, ma è raro” le spiegò sbrigativamente Liam, non volendo scendere nei particolari.

“Fa schifo. Tutto questo fa semplicemente schifo” sbuffò Cerry, accigliandosi.

“Che cosa, esattamente?” tentennò Liam, non sapendo come interpretare questa ammissione.

“Il fatto che io ti debba dividere con qualcuno!” sibilò lei, fissandolo con estrema rabbia, come se fossero chiari i motivi per cui era furiosa.

“Ah” riuscì soltanto a dire lui, prima di accennare un sorrisino comprensivo. “E’ carino quello che dici, ma…”

“Niente ma. Pensi davvero che me ne sia stata senza un ragazzo per tutti questi anni, solo perché ero timida o noiosa? Stavo aspettando te!” sbottò la giovane, sorprendendolo. “Ma tu non ti facevi mai avanti! Ma, quando mi sono stancata e ho finalmente preso le redini in mano, mi esplode questa bomba tra le mani… e scopro che ti devo dividere con una lupa?!”

A Liam quasi si disarticolò la mascella, di fronte a quella confessione spontanea, ma Cerry non aveva ancora finito con il suo monologo irritato e furente.

“Non mi dire che sono tutte belle come Fianna, o potrei dare davvero di matto. Oh, cielo! Ma dovevo innamorarmi proprio di un…un capoclan?! Non potevi essere un semplice mannaro? Almeno non avrei avuto questi problemi!”

Non era arrabbiata per le loro differenze abnormi, per nulla. Era gelosa delle altre lupe!

Liam sorrise di fronte a quella semplice, incredibile verità e, nello sfiorarle il viso, la avvicinò a sé per baciarla, chetandone la rabbia al solo tocco.

Lei si lasciò andare a un sospiro deliziato e si inarcò verso di lui, sfiorandogli il torace con una mano.

Il suo cuore prese a battere all’impazzata, al pari con quello di Cerry .

Con la mano libera, poi, la giovane scivolò lentamente lungo il braccio di Liam e, senza che lui si accorgesse di nulla, si punse il dito con l’artiglio del ragazzo.

Liam impiegò alcuni attimi prima di avvertire l’odore del sangue di Cerridwyn ma, quando si scostò inorridito e spaventato, era ormai tardi.

Mentre lui fissava quel piccolo dito sporco di sangue scarlatto, Cerry lo osservava soddisfatta, quasi compiaciuta.

L’istante successivo, lei guardò risoluta Liam e dichiarò: “Ho aspettato sei anni che ti decidessi a parlarmi come qualcosa di più di un semplice amico, ma non lo hai mai fatto e, anche se ora ne capisco i motivi, posso dirti che non ho più intenzione di lasciare a te il timone della nave. Ora decido io. Per me e per te perché, quant’è vero Iddio, nessun’altra ti avrà.

Quella confessione un tantino lapidaria lo scosse non poco, anche se fece ululare di gioia il suo lupo.

“Ma non pensi a come cambierà adesso la tua vita?! Non hai la più pallida idea di cosa voglia dire avere segreti per tutti, vivere sempre con un profilo basso, sapere che ci sono nemici ovunque!” protestò Liam, non sapendo se essere arrabbiato o spaventato a morte.

Cerry, allora, lo rabbonì con una sola carezza e gli sorrise, asserendo: “Eppure, nonostante tutto, tu sei un bravissimo ragazzo, Colin è adorabile e, per quanto ne so, tuo padre è un brav’uomo. Non mi sembra che queste immani difficoltà vi abbiano impedito di essere persone degne di nota.”

“Stai semplificando troppo” brontolò Liam.

“E tu la stai facendo più difficile di quel che è. Ora diventerò come te, così potremo essere alla pari, in questo rapporto. Perché adesso sarai il mio ragazzo, è chiaro?”

Liam non poté che scoppiare a ridere, di fronte a tanta schiettezza e sfrontata sicurezza e, succhiando il dito ferito di Cerry perché smettesse di sanguinare, esalò: “Ma sei solo preoccupata di questo?”

“Sono preoccupata che qualche lupa abbia la prelazione su di te!” sospirò lei, prima di borbottare: “Anche se, a ben pensare, non hai mai avuto una ragazza, giusto?”

“Esatto. Non c’era bisogno di correre questo rischio, e solo per essere la mia ragazza. Adesso, dovrai affrontare un’Ordalia, per stare con me e, prima ancora, la Mutazione con la prossima Luna Piena, e chissà cosa potrà succedere, in quel caso.”

“Oh… e farà male?” domandò dubbiosa Cerry, mordendosi il labbro inferiore.

“Perché me lo domandi? Non è il dolore la parte più pericolosa della faccenda, ma la tua possibile morte.”

“Perché non sono molto carina, quando piango. Divento tutta rossa in faccia” precisò Cerridwyn, facendolo ridere nuovamente. “Inoltre, non morirò affatto. Ci tengo troppo a te, per farmi fregare a questo modo.”

“Non so se sei del tutto pazza, o se non hai capito pienamente la situazione” le disse lui, sfiorandole il viso con una carezza.

“Una discreta dose di follia è presente in famiglia, visto che conosci mia madre…” ironizzò Cerridwyn. “… ma la faccenda è un’altra. Potrei anche decidere di farmi suora, se servisse a stare con te. Ti sembrerà un po’ prevaricante, od ossessivo, ma ero stanca di aspettare che fossi tu a fare il primo passo. Perciò, l’ho fatto io.”

“Dovrai combattere per avermi, Cerry” le ricordò lui, bonario.

“Qualcuna ti ama come ti amo io?” lo sfidò lei, facendolo arrossire nonostante tutto. “Sei adorabile quando diventi rosso, lo sai?”

“Piantala. Io cerco di essere serio, e tu mi prendi in giro.”

“Ti sono sempre piaciuta perché, oltre a essere intelligentissima… e a farti copiare in biologia, sono anche molto spiritosa” sottolineò lei, facendogli un grattino sotto il mento.

“Non sono un cane, Cerry!” esalò lui, scostandosi ma senza riuscire a trattenere una risata.

Lei rise con lui e Liam, non potendone più, tornò a baciarla, ma stavolta con maggiore passione, maggiore frenesia.

Lei lo amava! Quella pazza scavezzacollo si era incisa un dito con il suo artiglio, perché lo amava così tanto da non volerlo lasciare a nessun’altra.

Un lento, feroce sorriso si fece strada sul suo viso e, quando si scostò da lei, Cerridwyn lo guardò e mormorò sorniona: “Oh, qualcuno comincia a capire quanto io sia seria.”

“Spero di non venirti a noia, perché ormai è fatta” ammiccò lui, prendendola per mano per uscire dalla stanza.

Meglio che non rimanessero lì un minuto di più, o avrebbero finito per fare un altro guaio.

“Ehi, dove andiamo?” esclamò lei, mentre Fluffy li seguiva trottando.

“Ci sono un paio di cose da fare, adesso che ti sei infilata nella tana del bianconiglio” le ricordò lui, tutto sorridente.

“Sei un lupo, non un coniglio!” sottolineò lei, facendolo ridere.

“Come?” esclamò a sorpresa Pascal facendo sbucare la testa dalla porta del salotto.

Sia Liam che Cerry lanciarono uno strillo per la paura, di fronte a quell’entrata in scena a sorpresa e, per poco, non finirono con l’inciampare sui loro stessi piedi.

Pascal, invece, li guardò dubbioso e domandò: “Che diamine avete combinato, fino a ora?”

“Scusa, papà, ma perché te ne stavi appiccicato alla porta del salotto, invece che seduto in poltrona? Cercavi di origliare?” brontolò Liam, cercando di ritrovare un minimo di contegno.

“Origliare? Non sia mai” precisò Pascal, facendosi serissimo.

Cerridwyn ridacchiò divertita e, nel farsi avanti, allungò una mano e disse: “Tanto piacere di ri-conoscerla, signor Laroche. Ora, come devo chiamarla?”

“Liam… te lo ripeto. Che avete combinato?” borbottò Pascal, cominciando a subodorare la portata del problema.

“Non guardare me, ha fatto tutto da sola” sottolineò Liam, prima di aggiungere. “Per inciso, sto ancora gongolando un po’, perciò non posso sgridarla. Se vuoi, fallo tu.”

“Uomini senza nervo. Ecco chi ho tirato su” si lagnò Pascal, scuotendo il capo. “Il maggiore passa più tempo a mollo di quanto non ne passi nei boschi e, a quanto pare, il mio erede si è fatto mettere i piedi in testa da una fanciulla umana grossa meno della metà di lui. Senza offesa, s’intende.”

“Ma certo. Anche se va detto che, tra dodici giorni, non sarò più tale” ammise la ragazza, sorprendendo anche Pascal.

“Come, prego?”

“E’ per questo che gongolavo. O meglio, non solo per questo” sottolineò Liam.

“Se Lady Fenrir sapesse che abbiamo mutato un’umana dopo… quanto? Un’ora e mezza dalla scoperta della verità, ci manderebbe di filata nella prigione di Niflheimr… e avrebbe ragione” borbottò preoccupato Pascal, scuotendo pensieroso il capo nell’osservare la giovane al fianco del figlio.

“Liam non ha colpe. Ho fatto tutto da sola e ora, volente o nolente, prenderò in mano le redini della situazione” sorrise con candore Cerridwyn.

Sconfitto, Pascal si avviò verso il telefono e borbottò: “Sarà meglio che io chiami lady Fenrir. Non si sa mai. Ma questa me la paghi, Liam. Sul serio.

Liam preferì non dire nulla, perché non si poteva mai sapere, con suo padre.

Era buono e gentile, almeno finché non gli si pestavano i piedi.
 
***

Fermo di fronte alla casa di Cerry, Pascal spense l’auto e, nel guardare il profilo della ragazza alla luce soffusa proveniente dal cruscotto, le domandò: “Sei davvero sicura, Cerridwyn? Se anche si è arrivati a questa soluzione inarrestabile, non è detto che tu debba affrontare un’Ordalia. Liam ti ha spiegato cos’è, vero?”

La ragazza gli sorrise con calore e, per un attimo, Pascal rivide Ellana, in lei.

Anche Ellana era stata solita sorridergli così, quando voleva ficcargli in testa un concetto con le buone. Ma fermamente.

“Lei e Liam siete molto simili, e non fa specie che siate due guide per i vostri…oh, dovrei dire noi lupi, anche se ancora non ho sperimentato direttamente” ammiccò lei. “Però, non deve pensare che io abbia fatto questa scelta in maniera affrettata. Le è mai capitato di sapere una cosa fin dall’inizio, e senza alcun dubbio a macchiare tale certezza?”

“Sì. Quando vidi la mia Ellana per la prima volta” assentì Pascal.

“Era una donna molto bella e gentile, ed è un peccato che sia morta prematuramente… ma io e lei ce la saremmo intesa alla grande. Io so che Liam è quello giusto per me. L’ho sempre saputo ma, ingenuamente, ho sempre pensato che avrebbe fatto lui il primo passo. Ora, so perché non lo fece, così l’ho fatto io al posto suo, togliendolo dall’impiccio.”

“E sei disposta a mantenere i segreti che ti verranno imposti, ad accettare dolore e sangue? Perché non ci sarà solo Liam, come premio” le rammentò lui.

Cerry fu molto seria, quando rispose.

“Chi non offre sangue e dolore, per raggiungere i propri sogni, allora non ci crede davvero. Almeno, io la penso così” scrollò le spalle la ragazza, serafica. “Non si preoccupi. Me la caverò.”

“Nel dubbio, ti faremo addestrare da Fianna. Ho idea che Liam non starebbe tranquillo, diversamente” la avvertì Pascal, sorridendo appena.

“Oh, e come mai proprio lei?”

“E’ l’unica che sia mai riuscita a ferire Liam perciò, se ti addestra lei, lui si sentirà meglio. Saprà che hai la migliore, a insegnarti, e lei sceglierà la lupa giusta per il tuo battesimo del fuoco” le spiegò l’uomo, sorridendole generosamente.

“Fico. Non lo sapevo. Me lo farò spiegare da lei, allora” annuì la giovane, mormorando subito dopo: “Devo avere paura? Almeno un pochino?”

“Con lady Fenrir al tuo fianco, non avrai problemi, e tutti noi ti supporteremo, Cerridwyn. Hai compiuto un gesto molto coraggioso, e noi lo onoreremo nel migliore dei modi. Inoltre, ami mio figlio, il che ti rende speciale in un milione di modi diversi, ma tutti importanti” le spiegò lui, chinandosi per darle un bacio sulla guancia. “Riposa bene, figlia mia, e ricorda che ora hai un intero branco, al tuo fianco.”

“Mi piace l’idea” ammiccò lei, scendendo dall’auto. “Buonanotte, e grazie!”
 
***

Sorseggiando dell’infuso di papaya e arancio, Liam levò il capo non appena sentì tornare il padre e, quando lo vide rientrare, gli domandò: “Allora?”

“Penso che, dopotutto, non siete venuti su tanto male, se avete fatto scelte simili” sentenziò bonario Pascal, servendosi a sua volta della tisana.

“Ne sono lieto… anche se mi ha terrorizzato a morte, quando si è punta. Anche quanto, avrei voluto arrivarci per gradi. O non arrivarci mai. Non vorrei ne soffrisse, un giorno” mormorò Liam, sospirando.

“Non si pentirà. E’ come la mamma. Quando prende una decisione, è quella, ed è per sempre” lo tranquillizzò il padre. “Viene da chiedersi se tu sarai alla sua altezza.”

Con un ghigno, Liam asserì: “Ne sarò degno, poco ma sicuro. Ora vado a chiamare Colin. Immagino che scoppierà a ridere, quando saprà tutto.”

“Ascolterò la vostra telefonata” gli strizzò l’occhio Pascal, godendo nel sentire ridere spensierato il figlio minore.

Quando fu solo, e il figlio ebbe raggiunto il piano superiore, Pascal scrutò il ritratto di Ellana posizionato su una mensola in cucina e, sorridendo, mormorò: “Non siamo stati malaccio, come genitori, dopotutto.”






Note: Naturalmente riaffronteremo la coppia Colin-Chris, e la mutazione di Cerry. Non lascerò dei dubbi in merito, ve lo prometto.
Per ora, spero che questo viaggio nel clan di Cardiff vi sia piaciuto.

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Capitolo 30
*** Changing - Liam/Cerry e Colin/Chris (Gennaio 2020) MxM ***


 
Changing – Chris e Cerry
 
 

Gennaio 2020 – Cardiff
 
“Di tutte le scemenze che avresti potuto dire, questa è la più grande di tutte” sbottò Colin, fissando arcigno Chris per alcuni istanti, prima di imprecare vistosamente.

“E’ inutile che alzi la voce, strepiti o dai di matto. Tanto ho deciso, e a ciò mi atterrò” sottolineò Chris, sdraiandosi sul letto di Colin per poi incrociare le caviglie tra loro e le mani dietro la nuca.

“Sì, fai pure il rilassato, razza di idiota che non sei altro” gli ringhiò contro Colin, e i suoi occhi si accesero di un tono di verde brillante, lasciando dietro di sé il solito azzurro cielo. Il lupo voleva emergere con prepotenza.

Come sempre quando ciò accadeva, Chris sorrise soddisfatto; adorava vederlo perdere il controllo, pur se sapeva i rischi che correva, nel farlo.

“Se Cerridwyn ha avuto il coraggio di ferirsi il giorno stesso in cui ha saputo la verità, perché io dovrei esitare a chiederti lo stesso, visto che sono sei mesi che stiamo assieme… e che so tutto?”

“Forse, perché non deve essere una gara tra te e lei? Forse, perché non c’è bisogno che tu diventi un lupo? Forse, perché c’è il rischio che tu muoia?!” si incendiò Colin, urlando le ultime parole.

Sì, Chris lo sapeva perfettamente.

Sapeva che non doveva essere una gara tra lui e la piccola Cerry, ma ammetteva di essere un po’ geloso della sua intraprendenza.

Colin era stato così gentile, con lui, permettendogli di scegliere liberamente tra ciò che sentiva nel cuore e ciò che l’animo gli suggeriva.

Certo, lui amava Colin con tutto se stesso, ma il richiamo del mare era sempre stato forte, dentro di sé, e rinunciarvi senza prima esserne del tutto sicuri, sarebbe stato da sciocchi.

Colin l’aveva supportato pienamente, in questa scelta, lasciandolo libero di scegliere e rimanendo sempre accanto a lui per sostenerlo.

Per questo, sapeva di volere avere un rapporto completo con lui, per gli anni a venire.

Come fomoriano, non rischiava di diventare vittima della forza di Colin… non completamente, per lo meno.

Avrebbe saputo come difendersi, in qualche modo, in presenza di un Colin fuori controllo, ma quest’ultimo non voleva correre questo rischio.

Fare l’amore con lui era stato splendido, un’incognita che veniva risolta, un incontro tra due anime che sapevano capirsi nonostante le differenze.

Era stato affascinante provare su di sé la carezza febbricitante dell’aura di licantropo di Colin, così come il suo tocco ribollente su ogni centimetro di pelle.

Lui, però, non sarebbe mai stato in grado di replicare a tanta generosità… a meno di non diventare egli stesso un lupo, ovviamente.

Quanto al morire, sapeva benissimo anche questo. Sapeva che c’era il concreto pericolo di perdere la vita durante la mutazione.

A tal proposito, Colin si era sperticato in racconti sempre più raccapriccianti, in quegli ultimi dieci giorni, al solo scopo di farlo morire di paura.

Non che non si fosse spaventato; lo era eccome.

L’amore per Colin, però, era superiore alla paura e, come Cerry, vedeva - oltre al rischio - un premio così grande da valere qualsiasi impresa.

Sospirando, Colin si lasciò cadere in ginocchio accanto al letto e, piegandosi, baciò Chris con dolcezza, sussurrando sulle sue labbra: “Davvero non capisci quanto la cosa mi terrorizzi?”

“Lo capisco, e anch’io ho paura. Non sono così stupido da non capirlo. Ma ne vale la pena, e credo che anche Cerry affronterà meglio la cosa, se saremo in due” sottolineò Chris, attirandolo a sé per un abbraccio. “Ce la faremo, davvero.”

“Dovete per forza perché, se anche uno solo di voi due dovesse morire, nessuno di noi due sopravvivrebbe. Io morirei di dolore, se la compagna di mio fratello perisse per la mutazione, e Liam subirebbe medesima sorte, se a te capitasse qualcosa.”

“Siete così legati, eh?” mormorò Chris, stringendolo ancor più a sé. Non faceva specie che entrambi i fratelli fossero così in ansia.

“Sì. E non so se mio padre sopravvivrebbe, questa volta. Già con la mamma è stato difficile, ma eravamo in tre a sostenerci. Così… non so cosa potrebbe succedere” asserì mesto Colin.

“Sei carino a mettere sulle mie spalle, e quelle di Cerry, il destino dell’intero branco di Cardiff” cercò di ironizzare Chris, e Colin sorrise contro il suo collo, prima di baciarglielo.

“Scusa. So che è da bastardi farlo.”

“Te lo concedo” ammiccò Chris, rimettendosi a sedere quando una lampadina si illuminò contro il muro.

Avendo le mura insonorizzate, era difficile poter sentire il trillo del campanello così, in ogni stanza da letto, era stato sistemato un segnalatore luminoso per casi del genere.

Balzando in piedi con eleganza, Colin asserì: “A giudicare dall’orario, dovrebbe essere lady Fenrir.”

“Non l’hai sentita arrivare?” domandò curioso Chris.

“Brianna non lascia trasparire l’aura, se non è assolutamente necessario. E’ una sorta di calamita per licantropi, e Duncan non gradisce molto che altri lupi la avvicinino per annusarla” gli spiegò Colin, ammiccando.

“Oh… così interessante?”

“Lo scoprirai presto” asserì Colin, uscendo dalla sua stanza assieme a Chris.

Nel corridoio, si trovavano già Liam e Cerridwyn che, nel vederli comparire, si fermarono un attimo per aspettarli.

La ragazza, poi, sorrise alla coppia e disse: “Scusa ancora, Colin.”

“Non è colpa tua se il mio ragazzo è masochista e autolesionista” sogghignò per contro lui, prendendosi un pugno nel fianco.

Il futuro Hati si volse a mezzo, sorrise di fronte alla smorfia di Chris e aggiunse: “E dire che ormai lo sai che questi scherzi, con me, non funzionano.”

“Se non fosse che ti amo, ti darei un calcio nel sedere” brontolò Chris.

“Ami troppo anche il mio sedere, per malmenarlo” gli fece notare con malizia Colin, facendo scoppiare a ridere Chris, Cerry e Liam.

“Scendiamo, prima di far aspettare troppo lady Fenrir” sottolineò subito dopo Colin, superando quasi di corsa Cerry per scendere le scale e affiancare il fratello.

La ragazza discese più lentamente e, nel guardare Chris dietro di sé, mormorò: “L’abbiamo combinata grossa, eh?”

“Temo di sì” assentì lui, dandole una pacca sulla spalla.

Deviando verso il salotto, dove si udivano delle voci differenti, la coppia di potenziali nuove leve si ritrovò innanzi una donna dai corti capelli biondi, un uomo imponente e dai capelli neri e un bimbetto.

Pascal stava stringendo le mani alla donna con reverenza e quest’ultima, con un sorriso allegro, si volse in direzione dei nuovi arrivati, asserendo: “Oh, ecco i nostri piccoli eroi.”

“Cerridwyn e Christofer” disse Liam, strizzando l’occhio a entrambi.

“Io sono Brianna McAlister, lui è mio marito Duncan, Fenrir di Matlock, e questo birbante è nostro figlio Nathan” si presentò la donna, stringendo loro la mano.

I due giovani la salutarono compiti, non sapendo bene cosa aspettarsi da quella donna gioviale e attraente.

“Se non ho capito male, ti sei ferita a un dito di tua spontanea volontà… cogliendo in fallo il futuro Fenrir, giusto?” si interessò subito Brianna, ammiccando a Cerry.

“Ehm, temo proprio di sì. So che non è stato molto corretto ma, se avessi aspettato lui…” scrollò le spalle la ragazza, lanciando un’occhiata sbarazzina al giovane che amava.

Brianna rise sommessamente, asserendo: “Lo so, cara. Se aspettassimo loro, diventeremmo vecchie.”

Duncan tossicchiò, a quel commento, e Pascal gli diede una pacca sulla spalla, consolatorio.

“Quanto a te, giovane fomoriano, so che non hai ancora ricevuto alcun genere di ferita, ma sostieni di voler comunque mutare in concomitanza con la nostra eroica – e un po’ folle – Cerridwyn” si informò poi Brianna, volgendo lo sguardo per curiosare il viso di Chris.

“Esattamente, lady Fenrir…”

“Brianna, per carità. Questa mania di chiamarmi lady Fenrir, finirà con il farmi montare la testa” ridacchiò lei, scuotendo una mano con ironia.

Chris sorrise di fronte a tanta spontaneità ma, quando si ritrovò addosso lo sguardo teso di Colin, parte della sua baldanza venne meno.

Anche Brianna se ne accorse e, comprensiva, disse: “So quanto la cosa possa procurarti ansia, Colin, poiché anch’io mutai mio fratello in lupo, e ogni attimo fu per me un’agonia. Per questo, ho chiamato anche Kate a darci una mano.”

L’intero gruppo sospirò di sorpresa – con l’eccezione di Duncan e Nathan – e Brianna, sorridendo appena, aggiunse: “Non voglio negare a questi due ragazzi di fare ciò che desiderano, visto che i loro animi sono sinceri, ma neanche voglio metterli inutilmente in pericolo, così ognuna di noi si occuperà di un diverso candidato.”

“Ti abbiamo disturbato anche più del dovuto, Brianna…e così Kate” mormorò Pascal, scuotendo il capo.

“Non dire sciocchezze, Pascal. Se non ci aiutiamo tra di noi, con chi altro dovremmo farlo?” gli sorrise lei, tranquilla. “Ci saremo sempre, per i nostri licantropi.”

“Troverò comunque un modo per sdebitarmi” sottolineò Pascal.

Brianna scosse il capo, gli sfiorò un braccio con la mano e mormorò: “Mi basterà saperli vivi, credimi.”

Nessuno osò proferire parola.

Il richiamo di una wicca era importantissimo, come avevano avuto modo di scoprire negli anni, e Kate e Brianna si erano prestate spesso per questo genere di servizio.

I rischi, comunque, non erano nulli, e una trasmutazione da umano a licantropo aveva incognite che, un licantropo in fase di Mutazione, non aveva.

Nascere licantropi e mutare era un conto. Nascere umani e venire trasformati, era un altro e, in quel campo, non erano ancora così esperti come desideravano.

Quanto ai fomoriani, l’unico caso conosciuto era quello di Konag MacLeogh, divenuto Connor MacLeogh e compagno di una licantropa di Dublino.

Non avevano molto su cui basarsi, ma Brianna desiderava che entrambi i giovani candidati riuscissero in ciò che volevano più di qualsiasi altra cosa.

Sapeva cosa voleva dire soffrire per qualcosa che non si poteva avere – abbandonare il clan per salvare Duncan dalla pazzia, le era quasi costato la sanità mentale.

Non avrebbe permesso che qualcuno patisse il suo stesso dolore, anche se per poco tempo.
 
***

Kate Alexander giunse a Cardiff qualche ora dopo in compagnia del suo fidanzato, il Geri del suo branco.

L’amore tra di loro era sbocciato lentamente, dopo anni e anni di conoscenza e, quando si erano resi conto di amarsi, la cosa aveva sorpreso tutti, loro per primi.

Anni di convivenza più o meno forzata li aveva portati ad abituarsi così tanto l’uno all’altra, da celare ai loro stessi occhi ciò che stava nel profondo dei loro animi.

La corte sfacciata di un licantropo del branco di Aberdeen, però, aveva risvegliato la gelosia in Kurz Wagner che, senza attendere oltre, si era messo in mezzo per chetare le pretese del lupo.

Bright aveva trovato la cosa dapprima divertente ma, quando aveva compreso la serietà dei sentimenti del proprio Geri, aveva fatto intervenire Estelle per sedare gli animi.

Lei era un asso, nel farlo e, anche in quel caso, era stata eccezionale.

Dopo aver parlato con il licantropo per conoscerne le reali intenzioni, aveva messo sotto torchio Kurz e, infine, aveva stressato così tanto Kate da farle ammettere ciò che provava.

Estelle era dolce come il pan di spagna ma, sulle faccende di cuore, diventava più testarda di un mulo... e più micidiale di un caccia bombardiere.

Quando la coppia si presentò alla porta dei Laroche, Kate sfoggiava un anello di fidanzamento nuovo fiammante e, non appena Brianna lo vide, la sequestrò per conoscere tutti i particolari.

Kurz, a quel punto, salutò il resto del gruppo e, con una scrollata di spalle, dichiarò di fronte agli amici: “Estelle non mi avrebbe lasciato uscire dalla città, se non glielo avessi regalato.”

Sia Duncan che Pascal scossero il capo e, divertiti, asserirono con un tocco di esasperazione: “Sappiamo bene com’è fatta.”
Liam e Colin ridacchiarono di fronte alle loro espressioni e Cerry, curiosando con lo sguardo il nuovo venuto, domandò: “E’ una lupa così tremenda?”

“La mia Prima Lupa? Oh, no. E’ la donna più dolce del pianeta… finché non le tocchi l’amica del cuore. Allora, diventa peggio di Attila” ironizzò Kurz. “Voleva essere assolutamente certa che io fossi serio e onesto, nei confronti di Kate, altrimenti –testuali parole – mi avrebbe ridotto a brandelli poco per volta.”

Chris sgranò gli occhi al pari di Cerridwyn, a quelle parole e la ragazza, timorosa, gracchiò: “E’ stata… chiara.”

“Limpidissima, credimi. Ma non corro rischi, visto che amo davvero Kate” sorrise tranquillo Kurz.

Proprio in quel mentre, le due wiccan riapparvero e Brianna, asciugandosi una lacrima di ilarità, guardò comprensiva Kurz e disse: “Estelle ti ha proprio fatto sudare sette camicie, eh?”

“Forse anche otto, lady Fenrir” assentì l’uomo, ridacchiando.

Kate, allora, si presentò a Chris e Cerry e, a quel punto, prendendo in mano le redini della situazione, domandò: “Come intendete procedere?”

“Preferirei portarli al Vigrond. Lì, le energie sono più forti e potrebbero aiutarvi nel compito” asserì Pascal, lanciando un’occhiata ansiosa ai due giovani. “Inoltre, chiamala pure scaramanzia, mi sento più tranquillo, con la quercia nelle vicinanze.”

“Io preferirei occuparmi di Chris, vista la sua doppia natura” intervenne a quel punto Brianna. “Lo ferirò io stessa, così il potere che circolerà nelle sue vene sarà lo stesso che lo richiamerà a galla. Dovrebbe concederci un margine di manovra più ampio.”

Colin assentì, grato, e Brianna aggiunse: “Preferirei farlo subito, piuttosto che attendere domani, quando la luna impiegherà solo poche ore a sorgere. E’ meglio che il mio potere circoli nel suo corpo per il maggior numero di ore possibili.”

Kate annuì e, nel guardare Cerridwyn, disse: “Io rimarrò con te fino a domani, e risponderò a tutte le tue domande. Brianna farà lo stesso con Christofer così, a questo modo, i vostri spiriti saranno più pronti per ciò che dovrete affrontare. La consapevolezza aiuta, in questi casi.”

“E’ davvero necessaria tutta questa preparazione?” domandò Chris, avendo sperato di passare la notte con Colin.

“Un licantropo cresce in una famiglia che, fin dalla tenera età, spiega al proprio cucciolo ciò che potrà succedere, e perché. Voi siete novizi, in questo mondo, e avete bisogno di tutte le nozioni possibili per affrontare questo momento così importante” gli fece notare Brianna. “Credimi, non vorresti mai trovarti a mutare come è successo a me. Fui ferita in combattimento da un Cacciatore, il mio sangue si mescolò con quello del mio Sköll e, complice la luna piena di quella notte, mutai quasi istantaneamente.”

Chris deglutì a fatica, ansioso, ma Brianna proseguì nel racconto.

“Fu la cosa più dolorosa, destabilizzante e tremenda che mi capitò di vivere. Ero del tutto impreparata, perciò la paura si impadronì di ogni cellula del mio corpo. Forse, nonostante tutto, il mio patrigno mi salvò la vita, gettandomi addosso l’aconito. Se non fossi svenuta, forse sarei morta per il terrore provato.”

“Il tuo patrigno era… un Cacciatore?” esalò Cerry, sgomenta.

Brianna assentì appena e, nel guardare Kate, disse: “Raccontale pure la storia. Credo potrebbe servirle.”

Kate assentì e, presa per mano Cerridwyn, disse a Liam: “Vieni anche tu. E’ giusto che ascolti le domande della tua compagna, questa notte.”

Il futuro Fenrir assentì e, quando anche Brianna fece lo stesso con Colin e Chris, Pascal li osservò turbato salire le scale per raggiungere le camere da letto.

Duncan, allora, gli poggiò una mano sulla spalla, strinse un poco e mormorò: “Andrà tutto bene. Davvero.”

“Lo spero, o il clan sarà distrutto, perché nessuno di noi sopravvivrà, stavolta” sospirò Pascal, lanciando un breve sorriso a Nathan, che dormiva placido contro la spalla del padre. “Sarà il caso di farlo sdraiare?”

Duncan scosse il capo e, sorridendo al figlio addormentato, gli baciò la chioma corvina e mormorò: “Quando dorme così, preferisco non spostarlo. Dice che gli piace il mio profumo, e chi sono io per smentirlo?”

Pascal assentì con un sorriso e, nell’invitare Duncan e Kurz nel salotto, disse: “Sarà una notte lunga… cosa posso offrirvi?”
 
***

Il Vigrond era ricoperto di neve fresca e un vento gelido sferzava da nord, facendo rattrappire Chris e Cerry nei loro giubbotti imbottiti.

Tutt’attorno al Luogo di Potere del clan di Cardiff, alcuni alfa del branco vigilavano perché nessuno disturbasse la cerimonia di Mutazione.

Colin e Liam, già nelle sembianze di lupo, passeggiavano nervosamente tutt’attorno e Pascal, accanto alla quercia sacra, vigilava silenzioso.

Duncan e Kurz erano rimasti a casa Laroche per tenere compagnia a Nathan, oltre a non voler disturbare le rispettive compagne.

La loro concentrazione doveva essere massima, e la minima disattenzione avrebbe potuto costare la vita ai due giovani.

Inspirando a fondo, Brianna assentì tra sé e Fenrir, dentro di lei, mormorò: L’ora è giunta. La luna sorgerà all’orizzonte nel giro di pochi minuti. Procedete pure con il richiamo del sangue.

“Molto bene. Grazie, Fenrir.”

Di nulla, cara.

Sorridendo appena a Kate, la wicca disse: “Possiamo procedere. Fenrir ci ha dato il via.”

“Ottimo” assentì la donna scozzese, afferrando uno stiletto per pungersi un dito.

Subito, l’Hati del branco le fu accanto per proteggerla e, quand’anche Brianna si fu morsa la mano, Freki le si avvicinò per esserle di appoggio.

Carter aveva voluto prendere su di sé quell’impegno, e Colin gliene era stato grato. Era importante, per lui, che partecipasse in qualche modo a quella cerimonia.

Annuendo perciò al Freki, Brianna avvicinò la mano sanguinante alla bocca di Chris, che la stava guardando con occhi sgranati e un po’ timorosi, ed esclamò: “Vieni a me, Figlio della Luna! Io ti richiamo dalle viscere del luogo in cui sei sopito! Sorgi per me, figlio di Fenrir, stirpe divina, sangue ultraterreno!”

Allo stesso modo, Kate declamò la stessa intonazione e, quando Chris crollò in ginocchio, scosso da spasmi incontrollabili, Carter afferrò Brianna per trarla lontano.

L’attimo seguente, anche Cerridwyn crollò a terra, squarciando l’aria con un grido raggelante.

Colin e Liam uggiolarono spaventati ma non si avvicinarono, memori del fatto che, in quei momenti, nessuno avrebbe potuto aiutarli.

Brianna, comunque, mormorò a Chris: “Lascia che il potere della Madre e della luna entrino in te, Figlio di Fenrir. Abbandona il dolore per accogliere il loro calore.”

Kate la imitò, arrischiandosi a carezzare i riccioli ramati di Cerry prima di essere nuovamente allontanata dall’Hati del branco.

Quando il primo osso si spezzò per dare inizio alla Mutazione, Colin ululò al cielo oscurato dalle nubi.

L’attimo seguente, anche Liam si unì a quel coro addolorato e Pascal, poggiato contro la quercia, strinse la mano sulla spalla del suo Sköll, gracchiando: “Non posso guardare, Riley. Non posso.”

“Resisti ancora un po’, Pascal. Sta andando bene… davvero” mormorò l’uomo, pur non riuscendo a mascherare del tutto la sua ansia.

Cerridwyn rantolò nella neve, artigliando il fondo smosso prima di esplodere – letteralmente – in una confusione di abiti stazzonati, pelo argentato e una lunga coda nera.

Chris, invece, scivolò lentamente a terra, si lasciò andare a un tremulo respiro e, come al rallentatore, il suo corpo si dilatò, strappò gli abiti e un fluente pelo grigio scuro e bianco andò a ricoprirlo.

Colin e Liam crollarono al suolo, stremati dalla paura. Vedere coloro che amavano in quelle condizioni, era stato davvero atroce, per i loro nervi.

Quando anche l’ultimo osso andò a sistemarsi al proprio posto, terminando quella serie infinita di mutazioni fisiche, Cerridwyn si levò dubbiosa e tremante sulle zampe.

Chris scosse il muso come se si stesse risvegliando da un lungo sonno e, uggiolando dubbioso, balzò goffamente sulle zampe per poi ricadere a terra, pancia all’aria.

Questo smorzò il senso di tensione fin lì accumulato e Colin, avvicinandosi a Chris, gli disse: “Fai piano… nei primi minuti, devi imparare nuovamente a camminare. L’equilibrio è diverso.”

Il lupo che era divenuto Chris lo guardò con curiosi occhi bicolore, verde e azzurro e, annuendo col muso, riprovò.

Cerry, invece, infilò la testa sotto le zampe anteriori per guardarsi la coda dopodiché girò in tondo per un po’ prima di trotterellare al fianco di Liam, carezzandogli la gorgiera col muso.

Liam le leccò il musetto, su cui spiccava un rombo nero nel mezzo della fronte e Brianna, con un gran sospiro, guardò Kate e dichiarò: “Direi che è andata bene, no?”

“Te lo saprò dire quando metterò i miei piedi gelati di fronte a una stufa. Per il momento, sto rischiando l’ipotermia.”

Quella battuta sancì la chiusura della cerimonia e, tra calde lacrime di divertimento miste a commozione, il branco si sciolse e i due nuovi lupi vennero accompagnati verso l’esterno del Vigrond.

Quando raggiunsero il limitare della foresta, a entrambi vennero consegnati i cambi d’abito, così che potessero riprendere sembianze umane per salire in auto.

Non era il caso di rientrare a Cardiff in quelle condizioni, anche se tutti sapevano bene quanto fossero esaltanti e piacevoli, quei primi momenti in forma di lupo.
 
***

Accoccolati accanto alla stufa della cucina mentre gli adulti erano nel salotto, impegnati a chiacchierare, il quartetto di ragazzi appariva lieto e spensierato.

Cerry continuava a carezzare il braccio di Liam mentre Colin, come in trance, giocherellava con le dita di Chris, semi-addormentato contro la sua spalla.

Nel baciarle i capelli, Liam domandò a Cerridwyn: “Hai avuto paura?”

“Per un attimo, sì. E mi spiace se ho lanciato quello strillo. Il dolore è arrivato all’improvviso, e così mi ha colta in fallo.”

Liam scosse il capo, scacciando i suoi dubbi. “Abbiamo urlato tutti, non credere.”

“Comunque, quando ho ricordato le parole di Kate, ho cercato di rilassare il mio corpo il più possibile, così ho visto lei.”

“Lei, chi? Madre, intendi?”

“Penso di sì. Per lo meno, credo fosse un’entità superiore o qualcosa del genere. Era luminosa come una stella, e calda come il fuoco di questa stufa” spiegò Cerridwyn, sbadigliando sonoramente. “Mi ha detto di non aver paura, che ero pronta per accoglierla… e così ho fatto.”

“Sei stata fortunata. Non tutti riescono a concentrarsi così tanto da sentirLa” le disse Colin, sorridendole orgoglioso. “Io, per esempio, ero più impegnato a mordere la terra, che ascoltare ciò che mi dicevano.”

Liam rise, assentendo, e aggiunse: “Io, invece, mi rotolai nell’erba come un cucciolo. Ma va detto che, all’epoca, noi non avemmo l’aiuto di nessuna wicca.”

Cerry annuì, mormorando: “Se Kate non mi avesse preparata, sarei sicuramente impazzita. Il loro intervento è stato vitale.”

“Concordo in pieno” borbottò Chris, risvegliandosi un poco. “Se Brianna non mi avesse spiegato per filo e per segno ogni cosa, avrei dato di matto. E’ stato qualcosa di sconvolgente.”

Sia Liam che Colin assentirono, sapendo bene a cosa si stesse riferendo il giovane.

La Mutazione era qualcosa che non poteva essere spiegata a parole, poiché era un’esperienza di puro dolore, e variava da persona a persona.

Nessuno poteva dire di aver vissuto la stessa esperienza e, l’unico punto in comune, era soltanto l’estrema sofferenza provata.
Siete stati tutti molto bravi, non abbiate timore, disse all’improvviso una voce ancestrale nelle loro menti.

“Fenrir?” domandò ossequioso Liam.

Ciò è esatto, giovane erede. Volevo solo complimentarvi con voi per le scelte fatte. Ci saranno ancora dei momenti complicati da affrontare, ma il più è fatto.

“Come mai potete parlare con noi, mentre Brianna chiacchiera amabilmente nell’altra stanza?” domandò curiosa Cerry.

Fenrir rise, e le disse: Siamo due entità distinte, piccola, e possiamo distaccarci per un po’, quando serve. In questo momento, volevo chiacchierare un po’ con voi, invece che con gli adulti in salotto.

Il quartetto rise sommessamente, a quell’ultimo commento e Chris, divertito, asserì: “Siamo più interessanti, immagino.”
Soprattutto tu. Non mi è semplice incontrare facce veramente nuove, e tu mi incuriosisci molto, giovane fomoriano.

“Sarò lieto di offrirmi alla vostra curiosità, Fenrir.”

Sono vostro padre, ragazzi. Niente forme di cortesia, con me, mormorò calorosamente Fenrir.

Era stato poco presente per i suoi figli, avendo dovuto abbandonarli dopo solo vent’anni dalla loro nascita ma, ora che poteva stare accanto alla sua stirpe, lo avrebbe fatto in ogni modo possibile.





Note: Facciamo così una breve conoscenza con Kurz, il futuro sposo di Kate, che la dolce ma tenace Estelle ha messo sulla graticola perché si confessasse con lei.
Scopriamo anche come i nostri due novizi hanno combattuto per affrontare la Mutazione, così ora ci resta solo da affrontare il branco quando Liam deciderà di nominare Cerry sua Prima Lupa. Che dite, la accetteranno tutti, e subito? Lo scopriremo presto! Promesso!
Per ora grazie per essere passate/i! Alla prossima!

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Capitolo 31
*** E venne il giorno - Febbraio 2020 (Cerry) ***


E venne il giorno – Cerry e Liam
 
 
Febbraio 2020 – Nei pressi di Cardiff
 
 
La foresta era immersa nel freddo invernale. Silente, tranquilla, ovattata.

I passi dei quattro licantropi che si trovavano nei pressi del loro Vigrond suonavano smorzati, grazie alla neve fresca che ricopriva ogni cosa.

I pochi animali presenti si tenevano ben alla larga dai quattro enormi predatori, pur se loro non si trovavano in quel luogo per cacciare, ma per ben altra attività.

Quando infatti raggiunsero l’ampia radura del loro Luogo di Potere, il gruppetto si fermò e il lupo dal manto bruno rossastro si volse verso gli altri e disse: “Colin, Chris… voi mettetevi sul limitare della radura. Non ci andrò leggera, ma non voglio abbattere alberi inutilmente. Tenete alte le difese.”

“Nessun problema, Fianna. Ho già insegnato a Chris come fare” la tranquillizzò Colin, avviandosi con calma verso il bordo est della radura.

Christofer lo imitò, raggiungendo il limitare ovest, mentre Fianna e Cerridwyn si posizionavano nel mezzo dello spiazzo privo di alberi.

Lì, Fianna osservò la lupa dal manto argentato che aveva innanzi, ne studiò gli occhi gialli come ambre, le zampe robuste e l’ampia schiena.

Sì, era una bella lupa, dalla corporatura forte e ben strutturata.

La bassa statura che aveva in forma umana non si era replicata, in forma mannara, in un lupo piccolo e magrolino.

Questo sarebbe stato un vantaggio, per Cerry, ma Fianna sapeva bene che non sarebbe bastato per farle vincere l’Ordalia.

Le lupe di Cardiff si erano dimostrate delle autentiche gallesi. Donne forti e determinate… e anche un tantino testarde.

Tre di loro si erano proposte per combattere contro Cerridwyn, quando Liam aveva dichiarato, due settimane addietro, di volere la sua fidanzata come Futura Prima Lupa.

Fianna aveva sperato che le licantrope del branco si dimostrassero più lungimiranti – proporre un’Ordalia aveva ripercussioni molto potenti – ma, alla fine, alcune sue amiche l’avevano delusa.

Pur se Liam, negli anni, aveva tentato di relegare il suo amore per Cerry in un angolino del suo cuore, a lei era sempre parso ovvio che, per l’amico, l’unica donna avrebbe potuto essere solo lei.

A Liam non sarebbe importato nulla, se anche fosse rimasta umana, perché l’aveva sempre amata per quello che era.

Il gesto di Cerry, però, aveva chiuso un capitolo della loro vita per aprirne un altro, ben più pericoloso e attualmente senza un finale.

Sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, spiegare ai genitori di Cerridwyn una sua eventuale menomazione fisica, o peggio, la sua morte.

Loro non sapevano per espresso desiderio di Cerry, che non voleva metterli in ansia prima che tutto fosse finito. In un modo o nell’altro.

Fianna non sapeva se quella fosse la decisione giusta. Era nata licantropa in una famiglia di licantropi, perciò lei non aveva mai dovuto mentire ai suoi genitori.

Certo, alcune marachelle non erano mai giunte all’orecchio di Maurice e Betty Malone, ma erano tutte cose di ben poco conto, se paragonate al segreto di Cerridwyn.

Raspando a terra sulla neve, Fianna lasciò perdere quei pensieri per concentrarsi sulla sua avversaria e, atona, disse: “Le lupe contro cui combatterai saranno spietate, e non avranno alcuna pietà di te. Vogliono il ruolo di Prima Lupa indipendentemente dall’amore di Liam.”

“Come possono pensare di poter essere delle brave Prime Lupe, senza il suo affetto?” brontolò Cerridwyn, scuotendo il muso con espressione confusa.

Di tutta quella situazione, era la cosa che più le dava fastidio e, in parte, Fianna, la capiva bene.

Come donna, avrebbe aborrito in ogni attimo un rapporto non basato sull’amore e il rispetto reciproco, ma qui si parlava di altro.

Si parlava di potere, di rispetto ottenuto con la forza e, a quanto pareva, a quelle tre lupe importava unicamente questo.

Le faceva semplicemente schifo il pensare che, soltanto il giorno prima della richiesta di Ordalia, quelle tre fossero state sue amiche.

Come potevano comportarsi in quel modo, e sperare che lei le rispettasse ancora?

Non erano più nel Medio Evo, dove eventi simili non solo erano accettati, ma anche ben visti.

La Compagna e la Prima Lupa erano state per secoli due entità separate, poiché molti avevano pensato che Fenrir fosse più libero di agire come capo, con due lupe a ricoprire i ruoli di combattente e madre.

Già da molto tempo, però, le due figure si erano sovrapposte per divenire una cosa sola e in nessun branco britannico, al momento, si contavano ruoli sdoppiati.

Fianna, però, non aveva fatto i conti con la doppiezza delle persone, evidentemente, e neppure Cerry.

Sospirando, Fianna borbottò: “Sono rimasta sorpresa anch’io, Cerridwyn, perché pensavo che Selene, Kathrin e Shemain fossero più intelligenti di così, ma invece mi sbagliavo di grosso.”

“Liam dovrebbe accettare una di loro, se io non vincessi l’Ordalia? Senza battere ciglio?”

“Loro non vinceranno. Punto. Ma, per rispondere alla tua malaugurata ipotesi, sì, dovrebbe accettare la vincitrice come Prima Lupa ma non come Compagna. La Prima Lupa difende il branco con Fenrir, presiede al Vigrond per le cerimonie e si occupa della vita dei suoi lupi. La Compagna ha il solo scopo di occuparsi di Fenrir e della prole.”

“Medio Evo” borbottò Cerry, raspando a terra.

“D’accordissimo. Infatti, nessuno segue più questa pratica, ma sembra che quelle tre se lo siano dimenticato. Ora, però, lasciamo da parte queste inutili discussioni e pensiamo ad allenarti. Mancano due settimane al tuo scontro, e non posso combinare nulla, se tu sei distratta.”

“Antipatica” brontolò Cerridwyn, pur scodinzolando.

Fianna conosceva Cerry dalle elementari, perciò non aveva avuto problemi ad accettare il suo cambiamento così repentino.

La scelta di Liam di fare di lei la sua insegnante, però, l’aveva messa nella scomoda situazione di essere inflessibile e di non dimostrare pietà, pur se Cerridwyn le piaceva.

Sapeva, però, perché Liam aveva scelto proprio lei, per quel compito e, per nulla al mondo, avrebbe deluso il suo Fenrir.
 
***

Sdraiata sul tappeto della camera di Fianna, i piedi quasi incollati al termosifone e un panino in una mano, Cerridwyn mormorò assonnata: “Stasera ci hai dato davvero dentro. Avevo le zampe quasi congelate.”

A dare maggiore credito alle sue parole, si indicò i piedi arrossati, e dove ancora si potevano scorgere dei tagli da gelo sulla carne.

Entro la mattina seguente, sarebbe sparito tutto, ma Fianna guardò colpevole quelle ferite, sentendosi in colpa.

Ugualmente, non avrebbe cambiato nulla nell’addestramento di Cerry e, nell’ingollare un po’ di succo di pera, asserì: “E’ solo tempra, cara. Tu devi recuperare anni di combattimenti non effettuati e, quando ti presenterò a Lily per il tuo primo duello, dovrai essere pronta. Lei è dalla tua parte, ma non sarà tenera. Dovrai guadagnarti il tuo titolo di manágarmr.”

“Lo so” sospirò Cerry, infilandosi in bocca anche l’ultimo pezzo di panino.

Si sentiva svuotata, stanca come mai lo era stata nei suoi vent’anni di vita e se pensava che, di lì a breve, avrebbe dovuto combattere per la propria vita, tremava di paura.

Solo quando l’immagine di Liam balenava nella sua mente, il tremore cessava e l’adrenalina pervadeva il suo corpo.

Secondo Fianna era un bene, ma anche un problema, perché Liam sarebbe stato presente durante l’Ordalia, e lei avrebbe rischiato di distrarsi.

Se soltanto avesse percepito l’ansia di Liam, Cerridwyn avrebbe potuto perdere la concentrazione, e alla sua avversaria sarebbe stata consegnata la vittoria su un piatto d’argento.

Poggiandosi sui gomiti quando ebbe terminato il panino, Cerry lanciò uno sguardo dubbioso a Fianna, che stava pettinandosi i corti capelli ramati, e disse: “Sono convinta che, se anche Liam non mi avesse voluta subito come sua Prima Lupa, quelle tre avrebbero comunque trovato il modo per accopparmi.”

“Oh, giunti a questo punto, lo credo anch’io” borbottò irritata Fianna, lasciando andare la spazzola per guardare l’amica negli occhi nocciola. “Sono talmente idiote da non capire che stanno rischiando l’esilio.”

“In che senso?” volle sapere Cerry, intrecciando le gambe per poi poggiare i gomiti sulle ginocchia.

Sospirando, Fianna ne imitò la posa sul tappeto e asserì: “Pensi davvero che, una volta terminata l’Ordalia, Liam le vorrà nel suo branco?”

“Ma comanda ancora Pascal” sottolineò Cerry.

“Oh, sì… e credi che lui lascerà correre sul fatto che ben tre sue lupe hanno cospirato per togliere di mezzo la donna amata dal figlio? L’Ordalia ha un senso se la decisione di Fenrir – o del suo erede – dimostra dissennatezza o poco scrupolo, ma qui si parla solo di mero potere. Tu hai tutte le carte in regola per essere un’ottima Prima Lupa, perciò non meritavi l’Ordalia, secondo me.”

“Ma non esiste nessuna legge che vieti di battersi per il potere, mi pare” le fece notare Cerridwyn, pragmatica. “Una lupa che dimostri sete di potere, dimostra anche di avere potere da mettere in gioco. Magari non sarà amatissima ma, di sicuro, saprà difendere bene il branco.”

Basita, Fianna gracchiò: “Che fai? Difendi le tue nemiche?”

Cerry le sorrise dolcemente e, nello scuotere il capo, mormorò: “Affatto. Ma sono anche abbastanza obiettiva per vedere le cose come stanno. Come Prima Lupa, dovrò difendere il branco, e non so se ora sarei in grado di farlo. Loro possono già da ora.

“Storie” sbuffò Fianna, scuotendo una mano con aria infastidita, pur ammettendo tra sé che Cerridwyn aveva ragione.

“Sii onesta, e non lasciarti prendere dalla nostra amicizia, Fify” le sorrise l’amica, ammiccando.

“Dai, ti prego… Fify poteva andare bene a dodici anni, ma non ora che ne abbiamo diciotto” mugugnò Sköll.

“Diciannove, prego. Io li compio prima di tutti voi, visto che sono nata a gennaio, perciò sono la più grande tra me, te e Liam” ironizzò lei, ghignando soddisfatta.

“Cambia poco, credimi. Inoltre, l’essere una diciannovenne non ti salverà da un pestaggio in piena regola.”

“Ora sì che mi hai tirato su di morale” sbuffò Cerry.

Fianna sbuffò e, di colpo, si allungò verso l’amica per abbracciarla, borbottando contro la sua spalla: “Non voglio che ti facciano del male. E’ tanto difficile da capire?”

“No, per niente” replicò Cerridwyn, replicando all’abbraccio. “Inoltre, ti sto rovinando il sabato sera, quando avresti potuto uscire con qualcuno, invece che occuparti di me.”

Fianna rise a quel commento e asserì: “Credimi… prima che un maschio – o una femmina – entri nella mia vita, dovrà passarne ancora di acqua sotto i ponti.”

Vagamente sorpresa, l’amica esalò: “Ma come? Non ti interessa trovare l’anima gemella?”

“Per niente” scosse il capo Fianna, facendosi seria. “Il mio unico scopo nella vita, al momento, è servire bene il mio Fenrir, ed essere una buona spalla per Hati. So bene di essere in una posizione particolare all’interno della Triade, e ciò mi coinvolge più di quanto avrei pensato all’inizio.”

Cerridwyn la fissò dubbiosa, così l’amica si spiegò meglio.

“Sai, vero che, se c’è un conflitto tra clan, è Fenrir ad andare in battaglia, supportato da Hati?”

“Sì. Sköll deve mantenere l’equilibrio di potere quando il capobranco è in guerra” assentì Cerry.

“Quindi, a conti fatti, difficilmente io mi ritroverò a combattere. Saranno sempre Liam, o Colin, a rischiare la vita per me. Per questo, la mia vita la spenderò per loro, per ripagarli della sicurezza in cui io vivrò finché avrò fiato nei polmoni.”

Il tono lapidario e sentito con cui lo disse, confermò a Cerridwyn la veridicità delle parole dell’amica.

Fianna avrebbe speso la sua vita per gli amici. A ogni costo.

“Non ti sembra di escludere la felicità dalla tua vita, così?”

“Non se pensi che, facendo a questo modo, io sono felice” sottolineò Fianna, sorridendole. “Magari cambierò idea più avanti, nessuno può dirlo, ma non mi metterò a caccia di un compagno perché, al momento, non ne sento davvero l’esigenza.”

Cerry scrollò le spalle, le sorrise divertita e disse: “Beh, i maschietti del circondario perdono un’occasione non da poco. Ma sono convinta che qualcuno saprà conquistarti.”

“Per ora, no” ammiccò Fianna, serafica.
 
***

Lily stava mettendosi un cerotto sul dorso della mano, quando Cerridwyn scrutò dubbiosa Fianna e domandò: “Mi chiedevo una cosa…”

“Spara.”

“I combattimenti devono essere fatti necessariamente in forma di lupo?”

Fianna e Lily si guardarono vicendevolmente con aria sorpresa e, lì per lì, non seppero come rispondere.

Essendo entrambe nate licantrope, per loro essere lupe era una cosa naturale come respirare ma, effettivamente, non era così per Cerry.

“Dovremmo chiedere a Pascal. Onestamente, non so se vi sia l’obbligo, o se una lupa può combattere anche in forma umana. Pur se non ne capisco il vantaggio” ammise Fianna, rimuginando su quella domanda a sorpresa.

“Ti batti abbastanza bene, per essere una novizia e credo che, con la spinta emotiva data da Liam, non dovresti avere problemi” aggiunse Lily, infilandosi il maglione che, prima del loro combattimento, aveva infilato in un pratico zaino.

Ancora dubbiosa, Cerry disse: “Grazie, Lily… ma ammettiamolo, ti ho ferito solo perché sei scivolata sulla neve.”

“Vale anche la goffaggine dell’avversario, sai?” ironizzò la ragazza, pur comprendendo i suoi dubbi.

Avevano lottato per più di un quarto d’ora, artigliando l’aria e affondando le zampe nella neve alta invece che nella pelliccia dell’avversaria.

Cerridwyn era molto agile nell’evitare gli attacchi frontali e laterali, ma stentava a coniugare difesa e attacco.

Il lato umano era ancora predominante su quello del lupo che ora viveva in lei.

Durante un’Ordalia, questo avrebbe potuto segnare la sua fine.

Raccolti i riccioli in una coda di cavallo, Cerry si infilò la cuffia in testa e, dopo aver afferrato il suo zaino, dichiarò: “Se riuscirò a fare quanto mi sono prefissa, dovrei riuscire a batterle. Diversamente, non so davvero come potrà finire.”

“Chiederemo a Pascal” ripeté Fianna, dandole una pacca sulla spalla. “Ma dopo averglielo chiesto, mi parlerai di questo tuo fantomatico piano. Voglio essere sicura che abbia un senso logico, prima di lasciarti nelle mani del destino.”

Cerridwyn la fissò malissimo e replicò: “Dubiti della mia intelligenza?”

Fianna allora scoppiò a ridere e asserì: “Oh, no, credimi. Ricordo bene che i test di matematica li ho passati grazie alle tue ripetizioni, ma qui non siamo a scuola. Questa è una vita vera, crudele e rude.”

“Lo so. Ma Liam è un premio che vale sudore, sangue e lacrime” dichiarò convinta Cerry, ricevendo il plauso delle altre due ragazze.

Cerridwyn non disse altro, e sperò ardentemente che Pascal le desse il benestare. Diversamente, non avrebbe avuto speranze.
 
***

Pascal ristette seduto sulla poltrona del salotto per diverso tempo, immerso nel più completo silenzio, mentre Cerry, Fianna e Lily attendevano impazienti il suo responso.

Quando infine parlò, Pascal scrutò ansioso Cerridwyn e ammise: “Nessuna legge lo vieta, ma capirai bene perché neppure una lupa, in tutta la storia, ha utilizzato il suo corpo da umana per combattere.”

“Ne sono consapevole ma, per quello che ho in mente, mi servono mani e piedi, non zampe, o il corpo allungato di un lupo” replicò sicura di sé la ragazza.

“E, naturalmente, non mi dirai perché sei convinta di voler agire così.”

“Ha promesso di dirlo a me, Fenrir, se può esserti di consolazione” soggiunse Fianna, sorridendo a mezzo.

“Mi fido del tuo giudizio, allora, Fianna. In ogni caso, avete il mio benestare, qualora il piano di Cerridwyn si rivelasse valido” sospirò Pascal, scuotendo il capo. “Davvero non capisco perché si sia arrivati a questo.”

“Il potere, evidentemente, fa gola… anche quando viene accompagnato dal disprezzo” sintetizzò rabbiosa Fianna.

“Hanno ricevuto delle minacce?” si informò allora Pascal.

“Non proprio, ma c’è stato un ostracismo generalizzato. Nessuna di noi capisce perché debbano mettersi contro Liam. Il problema non è Cerry. Diverse lupe si sono, anzi, dimostrate orgogliose del fatto che lei abbia voluto mutare subito dopo aver conosciuto la verità. L’hanno trovata una mossa coraggiosa” specificò Fianna, sorridendo all’amica, che arrossì.

“Selene, Kathrin e Shemain, no, però…” intuì Pascal, accigliandosi.

“Se posso essere onesta, Fenrir, ritengono tuo figlio un debole, per essersi lasciato abbindolare così da un’umana, e pensano che il branco abbia bisogno di una Prima Lupa forte, e che possa bilanciare l’eccessiva… gentilezza del futuro capoclan” mugugnò Fianna, arrossendo di rabbia nel dire quelle parole.

Pascal rimase imperturbabile e assentì, replicando soltanto: “Mi domando cosa succederà, quando Cerry vincerà l’Ordalia…”

Cerridwyn lo beneficiò di un sorriso adorabile e tutto fossette, asserendo: “Ora sono costretta a vincere.”

“Temo di sì, mia cara. Il tuo Fenrir te lo impone” ammiccò Pascal, levandosi in piedi per poi darle una pacca sulla spalla. “Stando così le cose, abbiamo tre potenziali lupe con manie di protagonismo che non possono e non devono assurgere al ruolo di Prima Lupa.”

Guardando poi Fianna, aggiunse: “Sei assolutamente certa di quanto mi hai riferito, Fianna?”

“Sì. Alcune neutre sono venute a riferirmelo, e una di loro ha anche fatto un filmato con il cellulare, per confermarmi ciò che avevano udito. Si vantavano di poter vincere a occhi chiusi” riferì Fianna, porgendo il proprio cellulare a Pascal perché visionasse a sua volta il video.

“Alla faccia dell’esuberanza giovanile…” chiosò alla fine Pascal, restituendo lo smartphone alla ragazza.

“Già” chiosò Fianna, scrollando le spalle.

“Questo pone dei problemi anche al di fuori dell’Ordalia. Se alcuni ragazzi e ragazze pensano di poter fare e dire quello che vogliono, sarà il caso che io chiarisca chi è che comanda” sottolineò Pascal, accigliandosi.

“Male non farebbe” annuì Fianna, salutando poi Pascal assieme alle altre per recarsi finalmente a casa.

Non appena furono in strada, Cerridwyn domandò curiosa: “E’ davvero così grave, a parte il discorso dell’Ordalia? Sì, insomma, i giovani sanno essere assai indisponenti, quando vogliono, no?”

“Non in un branco. Nel clan vige una legge piramidale, sostenuta dalla Triade di Potere, e tutti sono tenuti a rispettarla… letteralmente” replicò Fianna. “Chi non vuole attenersi a queste regole, può andarsene dal branco e diventare un lupo nomade, un apolide, ma non può rimanere sul territorio del clan.”

“Oh” ansimò sorpresa Cerridwyn.

“Mettere in dubbio le capacità di Liam come futuro leader, è molto grave. Questo comporterà una dimostrazione del potere di Fenrir e, spero, solo questo” sottolineò la giovane Sköll, accigliandosi.

“Pascal ha guidato il branco per anni con mano ferma ma gentile” aggiunse Lily. “Forse, alcuni si sono lasciati troppo andare e hanno cominciato a pensare di potersi comportare come gli umani, ma sbagliano di grosso.”

“Per umani, intendete dire cose come non rispettare le regole, aggirarle o cose simili?” si informò Cerry.

“Esatto. In un branco devi rispettare le regole, o si rischia di venire scoperti dagli umani” asserì Fianna. “E’ vitale essere rispettosi.”

“Quindi, quelle ragazze cosa rischierebbero?”

“Oltre a una potenziale bastonatura da parte tua? L’espulsione dal branco, come minimo, o una punizione corporale, come massimo. Offendere il futuro Fenrir non è cosa da poco” si accigliò a sua volta Lily, scuotendo il capo. “Sono state veramente delle idiote, a parlare così.”

“A proposito di bastonatura… cos’avevi intenzione di fare, quindi?” domandò a quel punto Fianna. “Dicci un po’.”

Cerridwyn annuì con vigore e, mentre la riaccompagnavano a casa, la ragazza spiegò per filo e per segno ciò che aveva intenzione di fare.

Quando infine raggiunsero l’entrata di casa, sia Fianna che Lily stavano sorridendo grandemente.

La giovane Sköll, ridacchiando malignamente, le disse: “Sai una cosa? Potrebbe davvero funzionare.”

“Deve. O non avrò speranze” sottolineò Cerry.

“Di sicuro, la tua scelta di batterti con un corpo da umana, le spiazzerà, e ti porrà in un indubbio vantaggio” soggiunse Lily, tutta ghignante.

“Speriamo basti. Non saprei che altro inventarmi” scrollò le spalle Cerridwyn, un po’ sconsolata.

Fianna e Lily la abbracciarono per confortarla e, nell’accomiatarsi, le augurarono una buona notte di riposo.

Di lì a poco avrebbe dovuto combattere contro tre lupe esperte e desiderose di diventare Prime Lupe per motivazioni, ai suoi occhi, davvero risibili.

A lei non interessava un accidente il potere, o il prestigio che le sarebbe venuto dall’essere la compagna di Liam.

Lei voleva stare con Liam. Punto.

Se per farlo, avesse dovuto fare a botte, allora l’avrebbe fatto.

Se non altro, le sue lezioni di karate sarebbero servite a qualcosa.
 
***

Il Vigrond era puro concentrato di potere, quella notte.

I manágarmr presenti erano circa una quarantina – la maggior parte erano stati tenuti lontani per poter permettere alle contendenti di poter lottare con totale libertà.

La Triade di Potere presenziava al gran completo, e così la Novella Triade, ove spiccava un Liam particolarmente scuro in volto.

Quando, poche ore prima, era passato a casa di Cerridwyn per accompagnarla al Vigrond, la ragazza lo aveva trovato pensieroso e molto, molto irritato.

Nel chiedergliene spiegazione, lui aveva nicchiato, limitandosi a darle un bacio di buon augurio e pregandola di fare attenzione.

Cerry aveva preferito non insistere. La sua concentrazione doveva essere massima, e non poteva occuparsi anche degli eventuali dubbi di Liam.

Non appena avevano messo piede nel loro Luogo di Potere, comunque, Cerridwyn aveva potuto notare lo stesso umor nero nei Gerarchi e sì, anche in Fianna e Colin.

Che un simile umore avesse a che fare con il video che Pascal aveva visionato qualche giorno addietro?

Tutto era possibile.

Quando anche l’ultimo dei lupi alfa si fu posizionato per reggere l’enorme aura di potere che, ben presto, le contendenti avrebbero sprigionato, Pascal si portò nel mezzo della radura e, stentoreo, dichiarò: “Come prevedono le regole tra mannari, si dia inizio all’Ordalia per il ruolo di futura Prima Lupa del branco.”

Kathrin, Selene e Shemain fissarono sorridenti e tronfie la loro avversaria, ma Cerry non diede loro peso. Doveva pensare bene alle sue mosse, piuttosto che a loro.

“Mio figlio Liam, in quanto futuro Fenrir del branco, ha scelto come sua Prima Lupa la qui presente Cerridwyn, mentre tre lupe del clan hanno chiesto l’Ordalia per ottenere lo stesso ruolo” proseguì Pascal, imperturbabile al brusio di sottofondo o alle occhiate divertite delle tre licantrope in oggetto.

Dopo alcuni secondi di obbligato silenzio, Pascal domandò: “Vi è qualcuno che si oppone a questa prova?”

Nessuno aprì bocca, così Pascal aggiunse: “In ossequio alle regole, Cerridwyn ha chiesto di poter combattere mantenendo la sua forma umana e, non essendovi nulla in contrario, ho accettato.”

Questa notizia scatenò un mare di commenti a mezza bocca, ma fu Kathrin a mettere a voce il dubbio di molti.

“Non mi sentirò responsabile della sua morte, se intende combattere in quella forma.”

“Che c’è, non vuoi farti vedere nuda dal branco? Hai qualcosa da nascondere?” rincarò la dose Shemain, fissandola dal suo quasi metro e ottanta di altezza.

Cerry si limitò a fissarle con aria di sufficienza e, rivolta a Selene – che non aveva espresso alcun commento – disse: “Non sai che il vino buono sta nelle botti piccole?”

Quella battuta fece sorridere più di un lupo ma, a quel punto, Selene prese la parola per dire: “Se a lei sta bene, io non ho nulla da ridire. Ma che sia chiaro: quando una di noi vincerà, non dovranno esserci recriminazioni di sorta.”

“Nessuna recriminazione, Selene” assentì Pascal. “Inoltre, Cerridwyn ha espresso il desiderio di battersi contro di voi contemporaneamente.

Se prima i lupi presenti avevano commentato a mezza bocca, stavolta il borbottio fu così forte che Pascal dovette levare una mano per azzittirli.

Kathrin fece spallucce, iniziando a spogliarsi, mentre Shemain asseriva: “Se vuole, può anche legarsi una mano dietro la schiena. Dimostreremo una volta di più che non è adatta per il ruolo per cui vostro figlio l’ha scelta.”

Pascal preferì non replicare al commento acido della ragazza e, nell’avvicinarsi a Cerridwyn, le sussurrò: “Sempre sicura di voler combattere così? Non è un problema, se hai cambiato idea.”

“Muterò solo le mani” si limitò a dire lei, con un mezzo sorriso.

Pascal si fece ancor più perplesso ma non disse null’altro e, con passi misurati, andò a sistemarsi tra il suo Sköll e il suo Hati.
Liam, protetto ai due lati dal fratello e da Fianna, prese istintivamente la mano dell’amica nella propria e mormorò: “Sei sicura che sia pronta?”

“Cerridwyn sa il fatto suo, e la sua idea è semplicemente geniale. Nessuno di noi ci aveva mai pensato prima ma, in effetti, potrebbe davvero funzionare” lo rincuorò lei, sorridendogli.

“Iniziano” sussurrò Colin, gli occhi puntati sul centro della radura.

Le tre lupe iniziarono a camminare intorno a una Cerridwyn perfettamente immobile e apparentemente tranquilla, le teste basse e i denti snudati, pronti a colpire.

Il silenzio, ora, era totale. Persino la foresta sembrava essersi uniformata all’importanza di quel momento.

Gli occhi attenti di Cerry seguivano il movimento ipnotico delle tre lupe che, in cerchi concentrici sempre più stretti, le si stavano avvicinando col chiaro intento di colpirla all’unisono.

Esattamente come aveva previsto.

I bulli colpiscono in gruppo, mai da soli, e lei aveva confidato proprio in questo.

Permettendo agli artigli di allungarsi per quanto necessario, Cerry lasciò che i suoi sensi si espandessero, così che la sua aura avesse la possibilità di sfiorare quella ribollente delle nemiche.

La sua, placida come un lago di montagna, non fece altro che galleggiarvi contro, imperturbata.

Fu così, a diretto contatto con le loro estensioni metapsichiche, che riuscì a percepire con chiarezza il momento in cui l’avrebbero attaccata.

Tre corpi enormi e dotati di zanne le si lanciarono contro, ma lei attese l’attimo esatto in cui il suo corpo minuto, e quello delle tre licantrope, sarebbero venuti in perfetto contatto, per agire.

Quando venne il momento, lei balzò in aria, trovandosi alla loro stessa altezza e, slanciate braccia e gambe, colpì le tre lupe sui rispettivi tartufi, mandandole riverse sulla neve.

Più di un lupo si tastò dolente il naso, quasi quel colpo lo avessero ricevuto loro.

Mentre le licantrope giacevano a terra doloranti, stordite dalla miriade di segnali dolorosi giunti nel cervello a causa di quel colpo imprevisto, Cerridwyn si avvicinò e recise velocemente il tendine d’Achille di ciascuna di loro.

Lesta, poi, balzò a distanza di sicurezza e, ora affannata e tutto sommato soddisfatta, esalò: “Più o meno come avevo previsto.”

Ciò detto, si guardò la mano arrossata dal colpo inferto a Shemain, scrollandola un poco per farsi passare il dolore.

Un coro di generale stupore si levò tra i presenti e, mentre le lupe tentavano inutilmente di rimettersi in piedi, Pascal esclamò: “Pensate ancora di combattere contro di lei?”

Kathrin fu la prima a ritrasformarsi in donna e, guardandosi le caviglie sanguinanti e lesionate, esclamò: “Questo è giocare sporco!”

“E secondo quale regola, scusami?” replicò Pascal, serafico.

Alcuni lupi ridacchiarono derisori e Kathrin, furiosa, reclinò contrita il capo, cercando ancora una volta di rimettersi in piedi.

Niente da fare. Il taglio di Cerry era stato chirurgico e, per recuperare la funzionalità dei tendini, sarebbero occorsi mesi, dolorosi quanto insopportabilmente lunghi.

Il padre di Shemain fece per avvicinarsi alla figlia, così da portarla lontana dal Vigrond, ma Liam lo interruppe con il solo sguardo e, rivolto alle contendenti, domandò gelido: “Non ho sentito la vostra resa. Senza quella, nessuna di loro se ne andrà da qui.”

Tutti guardarono Pascal, ma lui si limitò ad assentire col capo. Liam poteva parlare come Fenrir, in quel momento.

Allungata una mano in direzione di Cerridwyn, che si affrettò a raggiungerlo per affiancarlo.

Liam strinse quella piccola mano nella sua, grande e forte e, lapidario, ringhiò: “Una vostra resa o, per me, potrete anche morire qui per dissanguamento.”

Quelle parole livide andarono a segno e Liam, infervorato come poche altre volte, proseguì dicendo: “Mi avete tacciato di essere succube di questa fragile ragazza ma, a quanto pare, ella si è dimostrata molto più scaltra e intelligente di tutte voi messe assieme. Credo che siano queste, le qualità migliori che una Prima Lupa possa avere. Qualità che anche mia madre aveva, e che io rivedo in Cerridwyn… di certo, non in voi, che avete basato tutto sulla vostra forza fisica.”

Vi furono cori assenso e apprezzamento, e un ‘ben fatto, Cerridwyn’ che portò Liam e Cerry a sorridere per un istante.

Nulla ancora udendo, però, Liam digrignò i denti e, con la Voce del Comando, disse: “Ora, voi vi scuserete, e dichiarerete chiusa l’Ordalia.”

In molti rabbrividirono – sorpresi dal fatto che Liam fosse già in grado di usare quel particolare dono di Fenrir – e la stessa Cerry sentì, sulla sua pelle ipersensibile, il potere di quella voce.

Kathrin, Selene e Shemain, letteralmente, crollarono sotto il peso di quell’imposizione e, come richiesto dal loro futuro Fenrir, dichiararono chiusa l’Ordalia.

A quel punto, Pascal tornò nel mezzo della radura e, poggiata una mano sulla spalla del figlio, asserì: “Poiché abbiamo saputo che, non solo queste giovani, hanno mancato di rispetto alle figure della Nuova Triade, ma anche altri ragazzi, ordino ai loro famigliari di ricordare con i fatti cosa voglia dire far parte di un branco. Non ammetterò altri comportamenti incresciosi, né parole offensive nei confronti di Liam, Colin e Fianna. Come avete potuto appurare, mio figlio possiede già la Voce e, se avesse voluto, avrebbe potuto comminare una punizione ben peggiore a queste tre sciagurate.”

Diversi licantropi reclinarono contriti il capo, ma Pascal proseguì.

“Quanto a Kathrin, Selene e Shemain, le bandisco dal branco, poiché non si sono dimostrate abbastanza intelligenti per capire quando mollare la presa su un potere che mai, nella vita, avrebbe potuto essere loro” dichiarò gelido Fenrir. “La Prima Lupa non è solo potente, ma è saggia è sa consigliare il proprio Fenrir. Cerridwyn si è dimostrata all’altezza, poiché non solo vi ha sconfitte utilizzando la vostra stessa forza, ma non ha neppure chiesto vendetta quando avrebbe potuto.”

“Così è” mormorarono in coro i manágarmr presenti.

“In tutta onestà, non posso desiderare di voler ancora simili lupe nel mio branco. Sarete cacciate, ma concederò alla vostra famiglia il tempo per trovare un luogo alternativo in cui vivere” asserì a quel punto Pascal. “Meditate bene su ciò che avete fatto, e pensate a quanto è costato ai vostri cari. Non avete saputo giudicare Cerridwyn, altrimenti vi sareste rese conto che lei, fin dall’inizio, meritava il ruolo di Prima Lupa.”

Ciò detto, consentì ai famigliari delle ragazze di portarle via dal Vigrond per ricevere le prime cure.

Liam non attese oltre e abbracciò Cerridwyn che, solo in quel momento, scoppiò in un pianto silenzioso e mormorò: “E’ davvero necessario bandire anche le loro famiglie? Non voglio essere la causa di tanto dolore.”

“Papà?” domandò allora Liam, guardando Pascal.

“Non posso più fidarmi di loro, cara. Se le figlie sono cresciute con tali sentimenti di odio e superficialità, significa che l’hanno imparato in casa… dai loro stessi genitori, perciò essi sono pericolosi al pari delle figlie irriflessive e impulsive” le spiegò gentilmente l’uomo. “Dimostri gentilezza, ed è una qualità rara, ma va anche ponderata bene, nel nostro mondo. Semplicemente, certe persone non la meritano.”

Lei assentì e, mentre Pascal tornava dai suoi compagni, alcuni alfa si avvicinarono per complimentarsi con Cerry.

Stringendole la mano, le fecero i complimenti per quella tecnica del tutto innovativa e lei, ritrovando la forza per imporsi un sorriso, asserì: “Dopotutto, se ai cani dà fastidio essere colpiti sul naso, poiché molto sensibile, ho pensato che valesse anche per i licantropi. Essendo una cintura blu di karate, sapevo bene o male come fare.”

Liam scoppiò a ridere, a quell’accenno e, nel sorriderle, disse: “Me n’ero completamente scordato!”

“Eri troppo impegnato a imparare a come essere un bravo leader, per ricordarti anche quello” sottolineò lei, lanciando poi un’occhiata alle sue avversarie mentre venivano scortate via.

Uno dei lupi più anziani, nel vederla così giù di corda, disse: “Non devi preoccuparti, ragazza. Ciò che ha detto Pascal è più che giusto. Noi lupi non possiamo ragionare come gli umani, o la nostra società si sfalderebbe come neve al sole. Tu hai fatto una cosa molto intelligente, sfruttando i tuoi punti di forza, e ritorcendo contro di loro quelli delle ragazze.”

A quell’accenno, un altro lupo si grattò il naso, ammiccando, e aggiunse: “Ho sentito male per loro, in quel momento. Essere colpiti al naso produce una quantità incredibile di stimoli del dolore, e si finisce con l’esserne accecati di per diversi secondi. Ottima tattica.”

“G-grazie” mormorò lei, ora un po’ imbarazzata.

Fianna scelse quel momento per raggiungerli e, presa sottobraccio Cerry, esclamò: “Su, su, maschietti, non statele troppo addosso. E’ stata una serata impegnativa, per lei, sotto il profilo psicologico. Ora ha bisogno di stare un po’ tranquilla.”

I lupi risero divertiti e, nell’allontanarsi, dissero che avrebbero lasciato tutto il tempo di questo, alla loro nuova Prima Lupa, per abituarsi a loro e alle loro attenzioni.

Fu con quell’atmosfera tranquilla che, finalmente, il gruppo poté tornare a Cardiff.

Liam era suo, nessuno avrebbe più potuto portarglielo via e, a quanto pareva, i lupi più forti la apprezzavano.

Cerry poté ritenersi soddisfatta e, quando salì in auto, crollò per la stanchezza e si addormentò.
 
***

“Dici che dovremmo svegliarla?” sussurrò Fianna, carezzando i riccioli ramati di Cerry, sparpagliati sul cuscino del divano di casa Laroche.

“Si è meritata un po’ di riposo…” mormorò Liam, sorridendo alla figura addormentata della sua futura Prima Lupa.

“Di sicuro. E’ stata geniale, con quella mossa” assentì Colin.

Sospirando, Chris borbottò: “E’ un vero peccato che io non abbia potuto essere presente. Sono sicuro che mi sarei divertito un sacco, a vedere Cerry mentre mette nel sacco quelle lupe.”

A quell’accenno, Liam divenne serio e Pascal, nel notarlo, gli domandò: “Qualche problema, ragazzo?”

“Non so se ho fatto bene a usare la Voce. Ho dato l’impressione di non saper comandare, usandola? Che ho bisogno della coercizione, per ottenere il loro rispetto?” borbottò Liam, passandosi una mano tra i capelli.

“Ricordati che la Voce è l’equivalente animale della stretta al collo. Sottomettere un lupo, a volte, è necessario, e i modi sono solo due; la Voce del Comando, oppure azzannare il lupo al collo. Con le persone, usiamo la Voce, coi lupi, i denti” replicò tranquillo Pascal. “Hai fatto bene, perché le motivazioni per cui si sono spinte a chiedere l’Ordalia erano sbagliate. Tutto il branco lo sa.”

Hati soggiunse con voce quieta: “Se tu avessi scelto una persona indegna, sciocca, che avrebbe potuto tradire noi e il branco, allora che avrebbero avuto tutte le ragioni del mondo per chiedere l’Ordalia. La prova serve a questo, a proteggere il branco, non a creare potere personale.”

Fenrir e Sköll assentirono a quelle parole e Colin, nel dare una pacca sulla spalla al fratello, mormorò: “Lei è perfetta. Non avere dubbi. E tu sarai un grande Fenrir. Non avere dubbi neppure su questo.”

“Come potrebbe avere dubbi? E’ mio figlio” celiò Pascal, facendo scoppiare a ridere tutti e svegliando, a quel modo, Cerridwyn.

Sobbalzando, la ragazza guardò dubbiosa Liam e domandò: “Beh? Che succede?”

“Nulla, mia Prima Lupa. Assolutamente nulla” le sussurrò lui, dandole un bacio sulla punta del naso.

“Allora, torno a dormire” dichiarò lei, appoggiando nuovamente il capo sul cuscino.

 
 
 
 
 
Note: E con questa OS si chiude la piccola parentesi sul clan di Cardiff. Caso mai mi venisse in mente qualcosa, la posterò ma, per ora, con loro direi che ho chiuso. Ora, ho in programma di scrivere qualcosa su Beverly e Thor, che erano rimasti più o meno in sospeso, inoltre spero di poter riprendere in mano anche la storia di Hugh e Tempest.
Per adesso, i pensieri sono questi... vedremo cosa ne verrà fuori.
Grazie per avermi seguita fino a qui.

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Capitolo 32
*** She Wolf, He Bear (Novembre 2017) Beverly e Thor ***


Ogni bambino che considerate come vostro, diventa il vostro se date voi stessi per quel bambino. 
(Dale Evans)
 
 
 
Novembre 2017 – Bradford
 
 
Beverly non trovava strano essere contattata dal suo Fenrir.

Lei era a capo delle sentinelle del branco, oltre che unica völva dei licantropi di Bradford.

Da quando Thor era rimasto in seno al clan – ed era diventato suo compagno, oltre che suo Maestro – i suoi poteri si erano immensamente sviluppati. Niente di strano, quindi, se il suo capoclan voleva parlarle.

Forse, aveva bisogno di qualche visione, o di controllare qualcosa sul confine.

Non che protendesse molto verso la seconda ipotesi, visto che il clan di Matlock era loro alleato da tempo e, a nord, potevano contare sull’appoggio del clan di Glasgow.

Quando, perciò, raggiunse l’officina meccanica di proprietà di Alec, Bev vi entrò con il dubbio nella mente ma la serenità di chi non si aspetta drammi o problemi.

Salutò William, loro Hati e meccanico nell’officina del loro Fenrir, dopodiché si diresse verso gli uffici dove, solitamente, Alec controllava i conti al venerdì pomeriggio.

Con un sorriso, Bev sorrise e scambiò due chiacchiere con l’efficiente segretaria umana di Alec – al corrente della loro licantropia – e chiese di poter parlare con il capo.

Glory assentì lasciando dondolare i morbidi boccoli scuri e, con un mezzo sorriso, sussurrò: “Se ti pare abbacchiato, non farci caso. Le sue donne sono fuori a fare shopping… senza di lui…”

Beverly sorrise divertita mentre, da dietro la porta chiusa dell’ufficio, la voce cavernosa di Alec faceva giungere il suo risentimento.

“Ti ho sentito, sai, Glory?!”

Sia la segretaria che Bev esplosero in una dolce risata di gola e, dopo aver salutato la donna di colore, la sentinella penetrò nell’antro del Minotauro, pronta ad affrontarlo.

E, a ben vedere, quando Beverly puntò lo sguardo su Alec, le parve davvero di scorgere il temibile mostro mitologico.

Dopo un attimo, però, comprese perché.

Gareth era in ufficio con lui e, per quanto il suo Fenrir amasse e idolatrasse il figlio, comprendeva bene perché le apparisse così stanco.

Nell’ufficio pareva essere passato un tifone. Combinato con un uragano. Ed entrambi a braccetto con una tempesta di meteoriti.

Una quantità imprecisata di giocattoli erano sparsi ovunque, insieme a più fogli di quanti potrebbe contenerne un raccoglitore ad anelli.

Gessetti colorati e pennarelli erano sparsi come mine vaganti su tutto il pavimento e, quando Gareth la vide, si esibì in un sorriso tutto fossette, corredato da guanciotte colorate di blu e verde.

“Zia Bev!” esclamò il bimbo, balzando in piedi e trotterellando verso di lei a braccia spalancate.

Beverly non riuscì a capire come, ma il bimbo non calpestò nessun gessetto. Fu tanto bravo da esibirsi in una corsa sbilenca, ma quanto mai efficace.

Lei lo accolse con naturalezza, prendendolo in braccio per poi baciargli le guance colorate e dire: “Sembri un capo indiano, così.”

“Bello!” trillò il bimbo, tutto felice.

Alec si passò una mano sul viso, esalando: “E ora passerà la prossima ora a ululare come un sioux in battaglia. Come minimo.”

Beverly rise della sua aria esasperata, pur se i suoi occhi dicevano quanto fosse felice di passare del tempo col figlio.

Ma nessuno è indistruttibile, neppure un licantropo, e Gareth sembrava aver fatto un autentico disastro, lì dentro.

“Immagino che la tua capacità di dire di no sia pari a zero, vero?” chiosò Beverly, sedendosi su una sedia con Gareth in grembo.

“Oh, i no sono abbondanti e ripetuti, ma lui si inventa sempre qualcosa di nuovo, dopo i miei no. Pare che la sua mente non conosca freni all’immaginazione” sospirò Alec, scuotendo stancamente il capo. “Volevo preparare dei preventivi per la settimana prossima ma, a questo punto, delegherò a Glory e lascerò perdere. Ho tentato questo esperimento, ma si è dimostrato fallimentare.”

“Portarlo con te sul lavoro?” domandò divertita Bev, mentre Gareth le intrecciava alcune ciocche di capelli.

“Esatto. Volevo passare un po’ più di tempo con lui, ma…”

Gareth si volse verso il padre con un sorrisone pieno d’amore e, per poco, il volto di Alec non andò in briciole.

Così come il suo cuore.

Beverly avvertì senza sforzo l’accrescersi delle endorfine nel sangue del suo Fenrir, così come l’accelerare impetuoso del suo cuore.

Quando Gareth era nato, Alec aveva passato diversi mesi nel dubbio più totale, non sapendo bene come comportarsi con il suo erede maschio.

In fondo, Penny ed Erin lo avevano voluto, bramato, ma quel piccolo?

Lui era nato nella sua famiglia, con Alec come padre. Non lo aveva scelto, gli era stato conferito dal Fato.

Per lungo tempo, si era chiesto se sarebbe stato degno di quel frugoletto, e solo l’aiuto combinato di Erin, Brianna, Penny e della quercia sacra del loro Vigrond, aveva compiuto il miracolo.

Ogni volta che Gareth lo guardava a quel modo, quindi, Alec si sentiva un miracolato, e Beverly trovò quell’amore incondizionato e potente davvero bellissimo.

Era lieta che, finalmente, la vita concedesse una tregua al suo Fenrir, visti i suoi trascorsi infantili e giovanili così turbolenti e terrificanti.

“Papà… posso dormire un po’?” domandò Gareth, indicando il divano presente nell’ufficio.

“Ma certo. Non devi neanche chiederlo” mormorò Alec, levandosi in piedi per raggiungerlo, stando ben attento a non pestare i suoi gessetti.

Presolo dalle braccia di Bev, lo depositò sul morbido divano in pelle, lo coprì con un panno in pile degli Avengers e, dopo un buffetto sul naso, gli augurò buon riposo.

Gareth lo deliziò con un altro dei suoi sorrisi stordenti e, nel giro di pochi minuti, crollò in un sonno profondo.

Bev sorrise nel vedere la scena e, quando Alec tornò alla scrivania, chiosò: “Ha le pile scariche.”

“Decisamente. Mi domandavo quando sarebbe successo” ironizzò Alec, prima di tornare serio. “Ho una cosa da chiederti.”

“Dimmi pure, Fenrir” assentì lei, tornando nelle sue vesti di völva e sentinella.

Alec estrasse da un cassetto una busta oblunga, che le consegnò e, intrecciando le mani sulla scrivania di legno, disse: “Si tratta di una coppia di Halifax, i coniugi Skipton. Emily e Roger. Non so se li hai mai conosciuti.”

Sorpresa, Beverly ci pensò sopra un attimo e, nel rammentare la giovane coppia di licantropi, asserì: “Se non ricordo male, erano presenti alla Cerimonia del Vigrond per l’accettazione di Gareth. Giusto?”

“Esatto” assentì Alec. “Beh, Emily era incinta, all’epoca, e hanno avuto una bambina, che hanno chiamato Raven. Credo, per via dei capelli neri, non so di preciso…”

Quel dilungarsi in particolari secondari sorprese Beverly. Cosa stava cercando di non dirle?

Storcendo il naso, Alec si grattò distrattamente la cicatrice sulla guancia e, nel reclinare appena il capo, borbottò: “Li hanno uccisi. Un Cacciatore si è introdotto in casa loro, nel cuore della notte, e ha gettato loro addosso dell’aconito per farli svenire, dopodiché li ha sgozzati con un pugnale d’argento.”

Beverly si sgomentò, di fronte a quella notizia ma, ripensando alle ultime notizie del telegiornale, non rammentò nulla del genere.

Come intuendo i suoi pensieri – nessuno di loro era solito ficcare il naso nella testa degli altri, perciò si agiva spesso d’istinto – Alec chiosò: “Le autorità hanno preferito tenere la cosa sotto silenzio, perché l’assassino è ancora in circolazione, e non vogliono fargli pubblicità.”

“Perché non è intervenuto Freki?” domandò sdegnata Beverly.

“Oh, Freki è già sul campo, se è per questo ma, stavolta, dobbiamo lasciar fare alle autorità e, eventualmente, dare qualche dritta alla polizia” brontolò Alec. “Purtroppo, i primi a trovare i corpi non sono stati dei lupi, ma i vicini di casa degli Skipton, una coppia di umani che, nel vedere la piccola Raven nel cortile, in pigiama e in piena notte, si sono preoccupati a morte.”

“E loro che ci facevano, fuori, in piena notte?” brontolò Beverly.

Sorridendo appena, Alec asserì: “Tranquilla, sono puliti. Erano di ritorno da una festa e, quando hanno parcheggiato l’auto in cortile, hanno notato Raven. Nel vedere del sangue sul suo pigiamino, hanno dato di matto, chiamando la polizia, così ora abbiamo le mani legate, almeno in parte.”

“Ovviamente, nessuno dei nostri era di turno, quella notte” sbuffò contrariata Beverly. Avere qualche agente mannaro all’interno della polizia non garantiva la copertura totale, purtroppo.

“Quando si dice la fortuna…” assentì torvo Alec. “… comunque, stiamo già indagando su come siano stati scoperti, e Geri ha già inviato Huginn e Muninn a caccia. Quando verrà stanato, faremo una soffiata alla polizia, e tutto si risolverà.”

“Posso dare una mano” si propose Beverly, sfiorandosi la fronte con un dito.

Se si fosse trovata sulla scena del crimine, avrebbe potuto percepire qualcosa con quasi totale certezza.

Alec scosse il capo, replicando: “Da quel che Geri mi ha detto, è solo questione di ore. Da te, vorrei un altro tipo di aiuto.”

Ora, Beverly era davvero sconcertata. Se quel caso era praticamente già risolto, lei a cosa poteva servire?

Arrossendo un poco, Alec borbottò: “Nella busta ci sono le foto di Raven e… beh… volevo sapere se a te e Thor poteva… poteva interessare l’idea di…”

Beverly fissò il suo Fenrir con autentico sconcerto. Da quando in qua, Alec Dawson balbettava?!

Addolcendo subito il suo sguardo, la donna sorrise e, nell’estrarre alcune foto, mormorò: “E’ molto carina.”

“Mi dicono che è anche assai brava” sottolineò subito Alec. “Per lo meno, da quel che ho saputo dai servizi sociali che l’hanno in custodia.”

“Non ha parenti?” esalò sorpresa Beverly.

“No. Erano figli unici entrambi, e i genitori sono morti, o presunti tali. Nessuno che possa curare la piccola.”

Presunti tali. Già, era un modo carino per dire che, quei licantropi in particolare, erano morti per la società umana, ma non per quella mannara.

Persone che si erano allontanate così tanto dalla società umana, da non agognare neppure per un istante di tornarvi.

Quei mannari erano tornati alla Madre e alle sue leggi e, per nulla al mondo, avrebbero ripercorso il sentiero che conduceva al mondo degli esseri umani.

Neppure per una nipote da accudire e crescere.

“Capisco” mormorò spiacente Beverly. “Vorresti che ce ne prendessimo cura noi?”

Alec avvampò in viso, scosse con violenza il capo e, reclinandolo contrito, borbottò: “Il ‘vorrei’ non è neppure da contemplare. Io non voglio niente ma pensavo che, visto il vostro… problema… avreste potuto desiderare di…”

Ancora quel balbettio incoerente, quell’imbarazzo inusuale.

Bev sorrise ancora di più e, nel poggiare le fotografie sulla scrivania, la donna domandò: “Perché non hai lasciato questo compito a Erin? Come Prima Lupa, sarebbe spettato a lei.”
Alec, a quel punto, tornò a levare i suoi occhi grigio ghiaccio e, con uno sguardo che Beverly tornò a riconoscere, disse: “Sono il tuo Fenrir e, visto il nostro passato in comune, preferisco essere io a dirti certe cose. Erin mi ha riferito che tu e Thor non potete avere figli.”

“Incompatibilità genetica. Ne avevamo il sospetto ma, anche grazie a Brianna, ne abbiamo avuto la conferma” assentì Bev, con falsa sicurezza.

Non ci poteva fare nulla e, prima o poi, lo avrebbe anche accettato, ma era ancora difficile dirlo a voce alta.

“Capisco” mormorò Alec, passandosi una mano sulla zazzera di capelli cortissimi. “Senti, Bev, non voglio assolutamente imporre niente a nessuno dei due, perché è la decisione più personale e importante che uno possa prendere, però…”

“Fenrir…” lo richiamò dolcemente lei, facendogli risollevare il viso.

Alec… te l’ho già detto e ripetuto. Quella roba pomposa dei titoli lasciamola per il Vigrond, per favore” brontolò lui. “Ho già esaurito il mio periodo da smargiasso.”

Beverly accentuò il suo sorriso e ammise: “Sei davvero cambiato se si pensa che, fino a qualche anno addietro, avresti staccato la testa a morsi a chiunque non avesse riconosciuto sempre e comunque il tuo status.”

“Avevo le mie seghe mentali da farmi passare” ammise lui, con la sua solita grazia.

Bev rise appena, a quel commento, e asserì: “Brianna e Duncan sono stati di grande aiuto, in questo, ed Erin ti ha dato il colpo di grazia.”

“Non ricordare a Erin quanto sia stata vitale, o potrebbe approfittarsene troppo” ironizzò Alec.

Tornando seria, Beverly gli domandò: “Torno a chiedertelo, Alec. Perché hai voluto prenderti questo impegno? Poteva farlo Erin.”

“Ti devo troppo, per delegare ad altri…” ammise lui, sorprendendola. “… e, visto che qualcosa l’ho imparato anch’io, su come capire gli altri, volevo essere io a… offrirti una soluzione.

“Alec…”

“So che non sarebbe lo stesso, ma credo che…” iniziò subito col dire lui, venendo però interrotto da un gesto di Beverly.

“Non mi devi nulla, Fenrir, davvero. E quello che c’è stato tra di noi, doveva finire così. Per te, perché trovassi Erin, e per me, perché trovassi Thor. Io la vedo così, e nessuno mi farà cambiare idea” asserì Bev, convinta.

“Sei sicura?”

Beverly non disse nulla. Si limitò a intrecciare le braccia sotto i seni e accavallare le gambe, in attesa.

“D’accordo, non fare come quella sclerotica di mia moglie che, quando vuole farmi passare da idiota, si mette in posa supponente” brontolò Alec, facendo ridere sommessamente Bev.

A quel punto, Alec tornò a essere se stesso e, con dovizia di particolari le spiegò ogni cosa, senza tralasciare nulla.
 
***

“… e così, ha pensato che avrebbe potuto interessarci adottarla. Tramite gli agganci che abbiamo, sarebbe relativamente facile averne l’affidamento, e lei vivrebbe in una famiglia che potrà capirla e appoggiarla se, un domani, dovesse dimostrare di avere il gene della licantropia dentro di sé” terminò di spiegare Beverly, accomodata a gambe intrecciate sul suo cuscino da meditazione.

Thor, in una posa assai simile, sorrise appena, si passò una mano tra i capelli biondo-castani e ammise: “Quel lupo mi ha davvero sorpreso, stavolta.”

“Che ne pensi?” domandò lei, slegandosi con agilità dalla posizione del loto per procedere con alcuni esercizi di scioglimento dei muscoli.

Thor, però, non le rispose subito.

Si levò in piedi con altrettanta grazia, si portò al tavolino dove teneva le spezie e gli unguenti per i loro riti di divinazione e, dopo aver acceso un bastoncino di incenso, mormorò: “Non avrei mai immaginato di potermi innamorare di un licantropo. Vi abbiamo sempre ritenuti – a torto – dei nemici. Ciò che successe con Loki fu davvero uno scorno insopportabile per tutti noi, perché ci mise dinanzi ai nostri limiti, così come ai nostri inutili preconcetti.”

Beverly si risollevò per raggiungerlo e, sfiorandogli un braccio, si poggiò delicatamente contro di lui, carezzandogli la schiena nuda, dove i tatuaggi dell’orso spiccavano scarlatti sulla pelle chiara.

Lui poggiò la guancia contro i suoi capelli e, sorridendo, proseguì dicendo: “Partecipare alla lotta, conoscerti, aprirti, e aprirmi come ho fatto, mi ha reso un uomo migliore e, soprattutto, un uomo felice.”

“Anche se non posso darti un figlio?” domandò lei, pur avendo già sentito il suo parere a suo tempo.

“Conta ciò che siamo insieme, Bev. Ma, se potremo offrire un rifugio e un luogo amorevole in cui crescere a quella creatura, io ne sarò ben felice. So già che tu saresti un’ottima madre… quanto a me, spero di essere alla tua altezza” le disse lui, volgendosi a mezzo per poterla guardare negli occhi.

Lei sollevò i propri, grigi e fumosi, per incrociare quelli azzurri come le acquemarine di Thor e, sorridendo, asserì: “Credo che Raven sarà felice di avere un padre come te.”

“Domani presenteremo la richiesta, allora” assentì lui, abbracciandola con calore.

Lei restituì l’abbraccio e, come la prima volta, si sentì protetta e amata.

Era stato strano lasciare che il suo cuore si avvicinasse a quell’uomo, così diverso da lei per mille e più motivi.

Non soltanto per una questione di nazionalità e di cultura, ma soprattutto per via della loro doppia natura animale.

Lei lupo, lui orso. Due realtà apparentemente inconciliabili che, però, avevano trovato un punto comune in cui incontrarsi, toccarsi… amarsi.

Quel sentimento era giunto quasi a sorpresa, in una notte d’inverno, a distanza di due anni da quando Thor si era trasferito a Bradford per farle da mentore.

Il loro addestramento presso il Vigrond l’aveva sfiancata più di quanto avessero entrambi immaginato e, alla fine, Thor aveva dovuto portarla a casa di peso.

Bev si era sentita un’autentica sciocca, in quel momento, ma aveva apprezzato le sue attenzioni e, quando infine si erano ritrovati dinanzi a casa sua, lei lo aveva abbracciato.

Per i lupi, era normale farlo. Un po’ meno per gli orsi, ben più ombrosi e solitari.

A parlare per Thor, però, era stato l’uomo che, non solo aveva apprezzato il gesto, ma vi aveva replicato con un bacio delicato sulle labbra.

A quel punto, la sua lupa si era messa da parte per lasciare spazio alla donna e, da quel momento, lupa e orso avevano stretto un accordo di non belligeranza, per amore dell’uomo e della donna.

Era stato curioso come, per entrambi, le loro parti più deboli fossero divenute, di colpo, le più potenti tra le due entità che li componevano.

Beverly, però, non aveva mai rimpianto di aver fatto tacere la lupa, per una volta, e di aver lasciato le redini in mano alla donna.

Ora, lupa e orso erano amici, quando erano in forma animale, ma quello contava poco.

Quello che contava, per loro, erano l’uomo e la donna.

E loro avrebbero cresciuto Raven come una famiglia. Strana, un po’ sopra le righe, ma sicuramente unita.

 





Note: ho pensato fosse carino approcciare anche la loro storia, visto che era rimasta in sospeso, e non avevo più fatto sapere molto, su di loro. Spero che questa OS abbia chiarito eventuali dubbi su di loro. A presto! 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 33
*** Reversal - Parte 1 (Estelle/Bright) 2003 ***


1.
 
 
Aberdeen – Novembre 2003
 
 
Non era possibile che, per l’ennesima volta, fosse in ritardo! Eppure, almeno a giudicare dal suo orologio da polso, lo era eccome!

Aumentando il ritmo della corsa per non giungere ancora una volta alla fermata dell’autobus con il cuore in gola, Estelle strinse tra le dita la stringa della borsa che portava a tracolla e sbuffò.

Non aveva le scarpe adatte per quel genere di attività fisica ma, come sempre le accadeva, l’occhio finiva per avere ragione sulla logica e così, al posto di più pratiche scarpe da ginnastica, infilava i suoi stivaletti dal tacco a spillo.

Le piacevano così tanto da aver quasi consumato la suola, ma sapeva che non erano le scarpe adatte per una ritardataria fatta e finita come era lei.

«Ma quando mai imparerò?» si lagnò tra sé Estelle, svoltando lungo il marciapiede per raggiungere Garthdee Road.

Aveva appena lasciato la Robert Gordon University di Aberdeen, dove seguiva il corso di farmaceutica e, come sempre, si era dilungata in una chiacchiera con Percy.

Il suo geniale amico era una sagoma e sapeva sempre farla divertire, ma aveva anche la capacità di peggiorare – se possibile – i suoi già cronici ritardi.

Quando, poi, si rese conto che, alla fermata dell’autobus, era già presente quello studente, i suoi piedi rischiarono di inciampare su loro stessi, presi dall’ansia e dalla frenesia.

Era sempre così, quando vedeva lui.

Alto, compassato, silenzioso, educato e bello da far paura.

Non aveva idea di quale corso frequentasse, sapeva soltanto che era uno studente della sua stessa università. Lo aveva incrociato diverse volte di fronte all’ateneo principale e, ogni volta, il suo sguardo pensieroso si era trovato tra le pagine di un libro.

Sapeva solo quanto fosse schivo con le persone, e parco con le parole, ma era sempre stato educato con tutti coloro che gli avevano rivolto la parola, e volenteroso con gli studenti alle prime armi.

Era così che lo aveva notato, la prima volta, impegnato a spiegare la piantina dell’enorme campus a una coppia di ragazzini del primo anno dall’aria sperduta.

Gli era parso la quintessenza della calma e, dalla sua bocca arcuata in un mezzo sorriso, era uscita una voce profonda, calda e partecipativa.

I ragazzi lo avevano ringraziato mille e mille volte ma lui, con un cenno del capo e un saluto, se n’era andato senza null’altro dire, come se fosse abituato a dispensare aiuto e parole gentili.

Un leader in tutti i sensi.

In quel momento, come suo solito, stava leggendo un libro, non causalmente sistemato contro l’angolo esterno della pensilina, a protezione di una dolce nonnina dalle raffiche insidiose del vento.

Estelle aveva notato più di una volta come, quel ragazzo, si prestasse a simili gesti di cortesia.

Che fosse un anziano bisognoso di un posto sull’autobus, piuttosto che di un gesto di semplice gentilezza, lui era sempre pronto a prestarsi in tal senso.

Estelle aveva trovato quei gesti molto generosi ma, al tempo stesso, anche apparentemente consoni a lui. Per come la vedeva lei, quel giovane era istintivamente portato a prendersi cura degli altri.

A capo chino su un libro trattenuto con la mano destra, dalle dita lunghe e forti, i riccioli castani a oscurargli gli occhi e aria concentrata, sembrava dimentico di tutto e di tutti, ma non della sua protetta.

Col suo corpo enorme doveva fornire davvero un’ottima protezione contro il vento, e nulla sembrava distoglierlo da tale compito.

Estelle rallentò il passo, esalò un sospiro di pura ammirazione e infine si fermò a pochi passi dalla pensilina, lanciando ogni tanto delle occhiate di straforo nella direzione del giovane.

Se solo fosse stata più intraprendente, gli avrebbe parlato – dopotutto, prendevano lo stesso autobus tre volte la settimana da almeno cinque anni – ma il coraggio non era mai stato il suo asso nella manica.

Era una ciarliera nata, parlava anche per dieci, e aveva amici a ogni angolo di strada ma, con gli uomini che le interessavano, era sempre stata una frana. Come se un folletto dispettoso le legasse la lingua proprio in quelle occasioni così speciali.

Una folata dispettosa di vento le scompigliò i lunghi e lisci capelli biondi e, con uno sbuffo, Estelle si affrettò a estrarre l’ombrello pieghevole dalla sua sacca. C’era aria di tempesta.

Neanche due minuti più tardi, come richiamate dal suo pensiero, le nuvole cupe che ricoprivano Aberdeen decisero di rilasciare il loro carico, riversando sulla città un disagevole temporale autunnale.

L’aria divenne gelida nel breve decorrere di alcuni minuti ed Estelle, rattrappendosi su se stessa, pregò disperatamente perché l’autobus giungesse alla svelta. Per una volta che era in anticipo, Madre Natura doveva punirla a quel modo?!

«Ma che ho fatto di male?» brontolò tra sé, guardando spiacente i suoi stivali di pelle. L’acqua li stava rovinando, e dubitava fortemente avrebbe potuto salvarli.

In compenso, il suo misterioso oggetto del desiderio sembrava essere immune da qualsiasi problema, fosse esso umano o climatico. Si era limitato ad aprire l’ombrello con la mano libera e, imperturbabile, stava continuando a leggere il suo romanzo di…

Estelle sgranò leggermente gli occhi, quando intravide il titolo del libro; Moby Dick. Lei lo aveva trovato eccessivamente lungo e tedioso, ma chi era per lagnarsi? Non a tutti piacevano le stesse opere.

Da come lo stava leggendo, comunque, sembrava che la storia lo stesse appassionando davvero molto.

Così impegnata a scrutare di nascosto il giovane lettore, Estelle rischiò seriamente di finire vittima dell’autobus in arrivo. Quest’ultimo, incurante delle pozzanghere già formatesi a terra, vi passò sopra sollevando enormi schizzi d’acqua che fecero sorgere diversi brontolii di protesta.

Con uno strillo ben poco edificante, Estelle si scostò in tutta fretta per non dover dire del tutto addio ai suoi stivali e, irritata, salì subito sul mezzo lanciando un’occhiata venefica a un indifferente autista.

Preferendo non sollevare un vespaio, però, non disse nulla e, raggiunto il primo posto utile, vi si accomodò, gettando ai suoi piedi il piccolo ombrello pieghevole.

La borsa poggiata sulle gambe e il viso rivolto al finestrino rigato di pioggia, Estelle cominciò a pensare distrattamente alla successiva ora di viaggio in autobus. Dopo una serie di fermate in città, il mezzo si sarebbe spinto verso Stonehaven e, infine, avrebbe toccato il piccolo villaggio di Rickarton, dove abitava.

Era una tratta che conosceva ormai a memoria e che, normalmente, concedeva alla vista sprazzi di natura davvero belli ma, con la pioggia, tutto sarebbe apparso triste e funereo. Una versa sfortuna, visto che non aveva libri con sé e il lettore mp3 era morto e sepolto.

Sospirando, cercò ugualmente di pensare ad altro e, subito, la mente le corse al piccolo villaggio in cui abitava.

Le piaceva quel luogo tranquillo, dove abitavano persone che conosceva da una vita e che, anche se distante da qualsiasi luogo di interesse, lei trovava perfetto. La campagna scozzese sapeva essere splendida e regalare scorci naturalistici meravigliosi, e lei amava osservare il suo lento mutare nel corso delle stagioni.

Dalla finestra della sua camera poteva ammirare la brughiera in lontananza, i piccoli boschetti quasi impenetrabili e il lento lavorio degli agricoltori della zona. Dietro casa sua, inoltre, un piccolo sentiero portava direttamente alle colline e più di una volta, lei e i suoi cani, lo avevano imboccato per lunghe e piacevoli passeggiate.

Per quanto amasse fare shopping e visitare musei, non avrebbe mai ceduto la sua vita in quel piccolo angolo di Scozia per qualcosa di diverso.

Sapeva che, presto o tardi se ne sarebbe dovuta andare per lavoro – una volta terminata l’università, avrebbe cercato un'occupazione ad Aberdeen – ma avrebbe goduto di quelle lande finché avesse potuto.

«Questo posto è libero?»

Quella domanda giunse a sorpresa da una voce roca e profonda, con una leggera inflessione del nord. Le ‘esse’ erano molto marcate, e a Estelle tornò subito in mente la voce di Sean Connery.

Peccato che, quando si volse, non trovò ad attenderla l’alto attore scozzese - volto prestato al famosissimo agente segreto di Sua Maestà. No, lì dinanzi a lei, con il libro di Moby Dick in una mano e lo zainetto nell’altra, se ne stava il giovane che Estelle tanto aveva osservato di nascosto in quegli anni.

Avvampando come uno stoppino, Estelle si limitò ad assentire e il giovane, accomodandosi subito, sistemò il suo ombrello a terra e poggiò lo zainetto della North Face sulle gambe lunghe e muscolose.

Doveva stare assai scomodo, pigiato com’era in quel posto pensato per una persona ben più bassa di lui, eppure la sua figura ora rattrappita non ne diminuiva il fascino.

Estelle si spiacque per i suoi ovvi disagi ma, al tempo stesso, ringraziò la sua buona stella per quell’insperato dono del cielo. Forse, dopotutto, Madre Natura non ce l’aveva proprio con lei.

«Di questo passo, si allagherà tutta Aberdeen» commentò con casualità il giovane, lanciandole un mezzo sorriso pieno di cordialità.

Che stava dicendo? Estelle impiegò diversi secondi per riconnettere il cervello, elaborare la sua frase e rispondere qualcosa che non apparisse assolutamente idiota.

«Già… speriamo che non allaghi anche le aule dell’università…» chiosò lei, lanciando un’occhiata rapida all’esterno. «…alcune si trovano nel seminterrato.»

Il giovane levò un sopracciglio con interesse, replicando: «Sei alla RGU anche tu? In qualche corso?»

Grandioso! Non si è neppure accorto di me, brontolò tra sé la giovane, stampandosi in viso un sorriso falsamente allegro.

«Corso di Farmaceutica. Sono al terzo anno» gli spiegò Estelle, mentre l’autobus tremolava leggermente nel ripartire.

L’autista inserì la marcia con un gran raschiare di metallo, ma Estelle non vi fece minimamente caso. Aveva ben altro per la testa, e non certo la bravura del conducente nell’usare la frizione.

Il giovane al suo fianco assentì e disse: «Mi sembrava di non averti vista ai miei corsi, infatti. Io faccio Economia.»

Ciò detto, allungò la mano e aggiunse: «Mi chiamo Bright. Bright Cox. Molto piacere.»

«Estelle Beauchamp, piacere mio.»

«Pronuncia inglese o francese?» domandò a quel punto lui, accentuando il suo sorriso.

«Ah… inglese» esalò lei, maledicendosi mentalmente l’attimo seguente.

Riconnetti il cervello, cretina, se non vuoi dargli l’idea di essere una decerebrata!

Bright annuì debolmente e, mentre il mezzo proseguiva nella sua marcia sotto un autentico diluvio universale, le sue chiacchiere intrattennero Estelle come un piacevole canto di sirene.

Era felicissima che lui si fosse seduto al suo fianco e, ancor più felice, constatare che, non solo Bright aveva una bella faccia ma che, dentro quella splendida testolina, c’era anche un cervello!

Grazie all’imbeccata offerta da Moby Dick, Estelle scoprì che quella lettura in particolare era un pegno da pagare a una sua amica, vincitrice di una scommessa letteraria che, invece, lui aveva perso.

Scoprire che Bright e questa ragazza avevano combattuto a suon di date di prime edizioni di libri, sorprese non poco Estelle. A quanto pareva, lui era caduto sulla prima edizione di Uno Studio in Rosso di Conan Doyle.

«Amo leggere ma, onestamente, non saprei dire la data di una singola edizione dei libri che ho letto» ammise con candore Estelle, ridendo di se stessa.

«Oh, io e Kate siamo fanatici dei numeri, non farci caso… lei, infatti, è al primo anno di Matematica» scrollò le spalle Bright prima di aggrottare un poco la fronte e volgersi verso l’autista con aria incuriosita.

«Qualcosa non va?» domandò Estelle, sorpresa dal suo sguardo attento.

Dopo aver oltrepassato senza grossi problemi il centro di Stonehaven, l’autobus aveva virato verso est, risalendo la collina per raggiungere i paesini che ivi erano costruiti.

La strada appariva come un immenso fiume d’acqua, in cui le foglie cadute dagli alberi parevano tante barchette alla deriva.

Accigliandosi ulteriormente, Bright mormorò: «No, non è nulla. Mi è sembrato di sentire un rumore, ma…»

Scuotendo il capo, il giovane le sorrise con aria tranquilla, aggiungendo: «Non preoccuparti. Me lo sono sicuramente sognato.»

Estelle cercò di credergli ma qualcosa, nei suoi occhi nocciola, la mise in allarme.

Distogliendo per primo lo sguardo, ben conscio di essere in difficoltà di fronte agli occhi attenti di Estelle, così puri e inconsapevoli, Bright sollevò goffamente il suo libro e domandò: «Ti disturba se finisco il capitolo? Mi manca giusto una pagina, e sono in un punto cruciale della storia.»

Estelle annuì senza problemi, replicando con divertimento: «Ti capisco bene. Anch’io amo arrivare alla fine dei capitoli, prima di chiudere la lettura, altrimenti riprendere è un autentico supplizio. Ne approfitto per controllare se ho delle chiamate sul cellulare. A lezione lo tengo silenziato, così evito di disturbare.»

Bright la ringraziò con un sorriso e, sentendosi un emerito idiota per essersela metaforicamente data a gambe da quel confronto ravvicinato, finse di leggere per dar credito alla sua bugia.

In realtà, non era neppure in grado di dare un senso logico alle lettere che stava osservando rabbuiato. Da quando in qua si spaventava al solo incrociare lo sguardo di una donna?

Che razza di uomo era?!

Doveva ancora capire perché si era arrischiato ad avvicinarla quando, per anni, aveva fatto di tutto per evitarla. Vederla così abbattuta, tutta sola su quel sedile e con lo sguardo perso, lo aveva però messo alle strette, e aveva ceduto.

Sapeva di dover essere cauto, oltre che non troppo intraprendente, ma era piacevole comportarsi come una persona normale, per una volta, senza tutto il peso del suo nome sulle spalle.

«Il cielo si è fatto ancor più scuro» commentò a un certo punto Estelle, strappandolo a quei pensieri. «Il mio cellulare, invece, è morto e sepolto. La batteria se n’è andata. Dovrò ricordarmi di mettere sotto carica sia il lettore che il cellulare. A volte, so essere la quintessenza della sbadataggine.»

Bright scrutò oltre il profilo alla francese di Estelle, cercando con tutto se stesso di non incantarsi a guardare le sue labbra morbide. Era stato davvero un imbecille a cedere alla curiosità e avvicinarsi a lei!

Estelle non faceva per lui!

Accigliandosi quando, però, vide le coltri nere all’orizzonte oltre il profilo perfetto della ragazza, scacciò quei pensieri e borbottò: «Peggiorerà ancora.»

Estelle, allora, sbuffò e scrutò dolente i suoi stivali. «Avrei dovuto evitare di metterli. Altra nota di demerito a me. Sbadata, smemorata, ritardataria e fissata

Bright fece per sorriderle con comprensione, divertito dall’apparente facilità della ragazza nello schernirsi. Non doveva essere una di quelle tipe fissate con il voler apparire perfette a ogni costo, soprattutto di fronte a un uomo.

Lo scarto improvviso degli pneumatici sull’asfalto bagnato, unito alla pressione esercitata dal mezzo in sbandata, lo misero però subito in allarme, ammutolendolo prima di poter commentare il suo dire.

Senza dare alcuna spiegazione a Estelle, le avvolse le spalle per avvicinarla a sé, un attimo prima che l’autobus sbandasse oltre il ciglio della strada, travolgendo la fragile palizzata di un campo a riposo.

Urla collettive si levarono tra i presenti mentre il mezzo, sbilanciato dal suo stesso peso e dalla forza centrifuga, carambolava lungo il prato in pendenza.

A quel punto, anche Estelle urlò, i suoi occhi sgranati per la paura e immersi in quelli calmi di Bright che, puntellato col braccio libero e con una gamba contro i sedili, protesse la ragazza col suo corpo.

Il mezzo cappottò due volte, mentre borse, ombrelli e quant’altro ruzzolavano all’interno dell’autobus, e le voci rotte dalla paura della gente ammorbavano l’aria.

Bright, però, non diede loro alcun peso, concentrato unicamente sullo sguardo terrorizzato di Estelle. Fu questo a tradirlo… e a fargli commettere l’errore più terribile di tutta la sua vita.

Distratto suo malgrado da quegli occhi che, pur se spaventati, dimostravano anche una salda fiducia in coloro che stavano osservando, Bright non pensò.

Il suo corpo reagì d’istinto, lasciandosi andare al pericolo che lo circondava, e mutò.

Un colpo improvviso alla testa, causato da una valigia sfuggita al controllo della cappelliera, fece il resto.

Bright strinse involontariamente la mano poggiata sul braccio di Estelle, e la sua natura ferina compì l’impensabile.

L’attimo seguente, il bus si bloccò completamente, urtando con la tettoia ormai deformata dagli urti contro un abete e, come un’onda di piena fermata da un muro, le persone crollarono le une sulle altre in un unico groviglio di corpi.

Vi furono ansiti di dolore, pianti, imprecazioni e scongiuri per lo scampato massacro ma Bright, sgomento di fronte al sangue che gli macchiava le dita, non udì nulla di tutto questo.

Il suo unico pensiero, in quel terribile momento, fu quello di aver ferito Estelle.

Con i suoi artigli.
 
***

Le sirene di polizia e ambulanze rimbombavano come un tam tam tra le colline, mentre i lampeggianti rossi e blu tingevano l’erba con colori smorzati, surreali.

Decine di persone erano affollate sul luogo dell’incidente dove, per grazia di Dio, si era solo sfiorata la tragedia senza mai davvero toccarla.

Il conducente del mezzo, chiaramente sconvolto e senza parole, stava raccontando la sua versione dei fatti alla polizia, mentre i paramedici ne controllavano pressione e ossimetria.

Bright, però, non aveva bisogno di sentire ciò che egli aveva da dire; sapeva già a cosa imputare la colpa di quell’incidente.

Il filo della frizione si era spezzato di colpo, impedendo all’autista di scalare marcia in tempo per affrontare la curva in discesa.

Il panico momentaneo, unito al ritardo di reazione nel pigiare i freni, oltre alla strada reda viscida e scivolosa dal temporale, avevano fatto il resto.

Il mezzo si era ritrovato in piena curva a una velocità eccessiva, era sbandato a causa dell’assito bagnato e ricoperto di fogliame zuppo, e la forza centrifuga aveva completato l’opera.

Tutto ciò, però, non lo toccava minimamente. I suoi pensieri erano tutti incentrati su una sola persona, e su ciò che egli aveva fatto.

Bright era in piedi e avvolto in una coperta termica, al riparo di una tensostruttura montata in tutta fretta per il ricovero dei feriti, a un passo da dove si trovava la ragazza al centro delle sue elucubrazioni mentali.

Accanto a lui, medicata da un paramedico che le stava sistemando la ferita al braccio, Estelle appariva scarmigliata ma in salute.

Nulla poteva farle presagire ciò che, entro una decina di giorni al massimo, sarebbe avvenuto, e tutto a causa della disattenzione e della superficialità di Bright.

Come ho potuto essere così idiota?, pensò tra sé il giovane, sentendosi prossimo a uno scoppio d’ira coi fiocchi.

Peccato non potesse riempirsi di pugni. Gli sarebbe risultato alquanto difficile essere efficace, ma lo avrebbe davvero voluto.

«E’ stata davvero fortunata, signorina. E’ tra le persone che ne sono uscite meglio» dichiarò il paramedico, abbassandole la manica della maglia dopo averle chiuso la fasciatura. Subito dopo, le sistemò la coperta termica sulle spalle e le sorrise.

Estelle, allora, tributò a Bright un sorriso pieno di gratitudine e replicò: «Posso ringraziare solo lui, per questo. Mi ha protetta durante tutto l’incidente.»

«I miei complimenti, allora. Lei ha bisogno di medicazioni?» si informò il paramedico.

«Mi hanno già sistemato, grazie» mentì spudoratamente Bright, scrollando le spalle.

I lividi stavano già rimarginandosi e, ben presto, non avrebbe avuto più alcun ricordo di quell’incidente.

A parte uno.

Il paramedico, allora, li salutò per raggiungere un altro ferito e Bright, nel sedersi accanto a lei su una sedia pieghevole, messa a disposizione dalla protezione civile, mormorò: «Stai veramente bene?»

Estelle assentì con vigore e, guardandosi il braccio - dove era evidente la macchia di sangue - e, al di sotto, la fasciatura, asserì: «Uscire da un simile incidente solo con un taglietto, è quasi un record. E lo devo solo a te.»

A quelle parole, Bright strinse i denti per la rabbia nei confronti di se stesso ma, ben sapendo di non poter parlare con lei di quel taglio – c’erano troppe orecchie, nei paraggi – le domandò: «Sei riuscita a parlare con i tuoi genitori?»

Lei scosse il capo, sospirando afflitta, e mormorò: «Devono essere ancora fuori casa, e non rispondono neanche al cellulare. Ma non ho potuto insistere, visto che ho dovuto usare il telefono di un soccorritore.»

«Non c’è problema. Ti accompagneremo a casa io e Kate» le propose subito lui, battendole delicatamente una mano sul braccio sano.

«Oh, ma sarebbe solo un disturbo, e…» cominciò col dire lei, prima di venire fermata dal giovane.

«Sei di Rickarton, no? Quindi, passeremo di lì per forza, per arrivare a casa mia. Non sarà un problema, davvero» le spiegò Bright, ben deciso a fare in modo che lei accettasse il passaggio.

«Beh, se non è un problema, allora… accetto.»

«Nessun problema, davvero» replicò lui, prima di levare il capo a scrutare la folla di persone presenti.

Il profumo di miele e noci di Kate gli giunse inconfondibile alle narici e, levatosi in piedi, si mostrò oltre la tensostruttura per rendersi visibile all’amica.

La fulva e piccola ragazza, dopo aver scrutato a destra e a manca per alcuni attimi, infine lo scorse e, accorrendo verso di lui, parve assai sollevata di vederlo.

Kate, ultima erede di un’antica stirpe di wiccan appartenenti alla famiglia Alexander, era entrata a far parte del loro branco alcuni anni addietro, quando il dono le si era sviluppato e aveva dimostrando così le sue abilità.

Rossa di capelli e dai profondi occhi azzurri come i turchesi, Kate era una diciottenne profondamente timida e schiva e, ben di rado, concedeva la sua amicizia.

Anni di bullismo scolastico ne avevano minato le sicurezze e, pur se ora le cose andavano meglio, al suo primo anni di università, lo scoglio della timidezza cronica si faceva ancora sentire.

Con Bright e molti membri del branco, però, Kate era riuscita a instaurare un buon rapporto e, pur se ancora faticava ad accettare i contatti fisici, le cose cominciavano ad andare meglio.

Quando infine li raggiunge, i riccioli ramati le finirono sulle spalle in un groviglio ribelle e lei, con gesti nervosi delle piccole mani, li scansò dicendo affannata: «Dio ti ringrazio… stai bene.»

«Tutto regolare, Kate» assentì lui prima di scostarsi per presentarle Estelle. «Lei è Estelle Beauchamp. Una mia nuova amica.»

«Molto piacere, Kate» disse subito Estelle, allungando una mano.

Kate gliela strinse, mormorando: «Piacere mio, Estelle. Spero che anche tu stia bene.»

«Solo un graffio, e tutto per merito del tuo amico, qui, che mi ha protetta» sorrise Estelle, lanciando un’altra occhiata grata a Bright.

Kate ne seguì lo sguardo – già conoscendo la fonte di quel graffio in particolare – e, nel notare come l’amico fosse in ansia, preferì soprassedere per dire: «Sarà meglio che andiamo. La sera cala in fretta, e credo sia preferibile rientrare prima che le persone a casa si preoccupino.»

«Grazie per lo strappo. Non volevo essere d’intralcio, ma…» iniziò col dire Estelle.

Kate scosse il capo, anticipando qualsiasi sua replica e, con un candido sorriso, replicò: «Nessun disturbo. Bright ha fatto bene a dirtelo. Andiamo nella stessa direzione, perciò non avrò alcun problema.»

Bright, allora, sfiorò la schiena di Estelle per sospingerla gentilmente fuori dalla tensostruttura e Kate, nell’osservare di straforo le premure del giovane, gli disse mentalmente: “Questa cosa non piacerà, se dovesse saltare fuori, sappilo…”

“Come se non lo sapessi…” brontolò in risposta Bright.

Aveva un bel po’ di cose da risolvere, e ancor più decisioni da prendere, ma non poteva fare tutto da solo, purtroppo. Il suo ruolo aveva enormi vantaggi, ma non era possibile fare proprio tutto senza dire nulla ai suoi sottoposti.

In quanto Fenrir del branco di Aberdeen, aveva delle responsabilità verso i suoi lupi. E anche con Estelle, in questo momento.
 
***

Claus Koeler, sua fida spalla e suo Hati fin da quando Bright aveva ricevuto la bianca livrea, borbottò un’imprecazione quando il suo Fenrir ebbe terminato il racconto.

Marla Johnson, sua Sköll e licantropa dagli occhi viola come Liz Taylor, chiosò più pacata: «Davvero mi stupisci, Bright. Non ci avevi detto di aver perso la testa per un’umana.»

Bright fissò la sua seconda in comando con espressione arcigna, ma non poté replicare più di quel tanto alla sua affermazione.

Di fatto, aveva cambiato i suoi corsi proprio per prendere l’autobus più spesso assieme a Estelle e, di fatto, si era seduto al suo fianco per avere la possibilità di conoscerla.

Per anni aveva ascoltato le sue conversazioni, spiato le sue azioni e commesso tutta un’altra serie di atti più o meno illegali – la parola stalking gli balenò pestifera nella mente – e soltanto per scoprire come fosse in realtà.

Come altro avrebbe potuto chiamare quelle scelte se non ‘infatuazione’? O era meglio dire ‘fissazione’, parafrasando le stesse parole di Estelle?

Piegandosi in avanti e prendendo la testa tra le mani, Bright si arruffò i riccioli castani, borbottando: «Grazie per il riassunto calzante, Marla, ma non ho bisogno di sentirmi dire che sono stato un idiota. Lo so già. Anche Kate mi ha messo in guardia sulle ripercussioni di ciò che è successo.»

«E’ sconvolgente il solo pensiero che Kate ti abbia mosso qualcosa di anche solo simile a una critica. E’ così dolce, con te!» ironizzò a quel punto la donna, di un anno più giovane di Bright.

Pur essendo la più giovane del trio, Marla tendeva a essere un filo materna con entrambi loro, ed erano soventi le volte in cui i due uomini si ritrovavano sotto il rasoio delle sue prediche.

Questa volta, però, Marla ci andò cauta e aggiunse con calore: «Non ti sto giudicando, foggy. Sto solo dicendo che, di solito, sei molto più compassato e controllato di così.»

Bright assentì, sempre tenendosi la testa tra le mani, lo sguardo basso e perso nel vuoto. Sapeva bene di essersi comportato diversamente dal solito. Non lo chiamavano foggy – nebbioso – per nulla; aveva sempre avuto la tendenza a essere nebuloso, imperscrutabile. Stavolta, però, era difficile per lui controllarsi e tenere a bada ciò che sentiva.

Marla sorrise comprensiva e gli arruffò i riccioli, mormorando: «Le hai detto niente?»

«Troppe persone. Era un argomento troppo delicato da trattare in presenza altrui e, anche in auto, ho preferito soprassedere. Le ho chiesto se potevamo rivederci e lei ha accettato, così avrò modo di parlarle con calma del casino madornale in cui l’ho cacciata.»

Claus sghignazzò, replicando baldanzoso: «Amico, le hai fatto un favore, caso mai. Se è così bella da far sbarellare uno come te, le faranno comodo zanne e artigli, così terrà a bada i mosconi!»

Marla lo fissò malissimo non appena lo udì parlare e il diretto interessato, interdetto, esalò: «Ma che ho detto di male? E’ una figata essere licantropi!»

«Già, peccato che magari, prima di diventare tali, sarebbe meglio essere avvisati. Cerca di capire, Claus… Bright ha giustamente ragione, nell’essere dispiaciuto a causa di questo guaio. Inoltre, è Fenrir solo da un paio d’anni, e certe cose possono metterlo in cattiva luce. Dopotutto, il vecchio Fenrir è ancora vivo, si è solo ritirato per lasciare spazio a noi giovani ma, se venisse a sapere di questo errore, potrebbe ripensarci.»

Piccato, Claus esclamò: «Non potrebbe togliere lo scettro a Bright! Sarebbe contro le regole!»

«Lo so bene, ma un clan che non si fida del proprio Fenrir conta molto di più di una regola non scritta in cui si dice che, de facto, il capo è Bright, e non più Simon» sottolineò Marla, con tono pacato.

«Mi fai incazzare, quando fai così la saccente» brontolò Claus, buttandosi sul divano con aria infastidita.

Marla accennò un sorriso a quel commento e replicò: «Devo compensare te, che parli – e pensi – come un criceto.»

Bright sorrise nel vederli battibeccare e, sollevandosi stancamente dalla sua poltrona, mormorò: «Andrò a parlarle. Mi ha detto che rimane alzata fino a tardi per guardare le stelle con il telescopio. La troverò ancora sveglia… specialmente dopo ciò che è successo ieri.»

«Fatti onore, capo!» esclamò Claus, levando una mano verso di lui.

Bright batté il cinque con l’amico e Marla, nel dargli un pizzicotto sul fianco, asserì: «Sii sincero. Se ti ha attirato tanto, non può essere una stupida, ti pare?»

Lui annuì e, con passo tranquillo, uscì dal suo piccolo appartamento, costruito nella dependance che il padre aveva eretto per lui anni addietro.

Non appena fu all’esterno, l’odore del fieno raccolto nel capannone gli solleticò le narici, facendolo sorridere.

Suo padre, così come suo nonno, si erano sempre guadagnati da vivere con l’agricoltura. Essendo licantropi, non avevano potuto tenere capi di bestiame – la paura degli animali sarebbe stata troppa, perché potessero essere produttivi – ma si erano sempre occupati dei terreni in modo proficuo.

Segale, mais e grano erano state le loro occupazioni principali, assieme al fieno che veniva venduto agli allevamenti locali.

Il tutto aveva consentito loro di vivere dignitosamente, e aveva anche permesso a Bright di avere i soldi per proseguire gli studi all’università.

Era cresciuto in quella florida azienda agricola nelle vicinanze di Mergie con ben chiari pochi, ma importanti precetti, tra cui l’amore per la famiglia e l’umiltà di essere loro debitore.

Secondo suo padre e suo nonno, tutti nascevano uguali, ed erano le azioni a determinare la grandezza di una persona. Nessuno poteva dirsi superiore, soltanto perché la livrea indicava uno status piuttosto che un altro; la fiducia e il rispetto andavano meritati.

Proprio per questo, doveva scusarsi con Estelle e farle capire a cosa sarebbe andata incontro, da quel momento in poi.


 



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Con questa breve storia affronterò l'evento che portò alla mutazione di Estelle e ciò che avvenne in seguito. Spero possa piacervi.
Nel breve periodo, poi, inizierò a postare una nuova storia sui licantropi, stavolta ambientata in Canada. Il titolo sarà "Claire de Lune".

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Capitolo 34
*** Reversal - Parte 2 (Estelle/Bright) 2003 ***


 
2.
 
 
 
Era notte fonda. La seconda notte fonda che passava alzata, completamente desta e per nulla interessata al sonno notturno.

Estelle aveva più volte rassicurato i genitori circa la sua buona salute, dopo il terribile incidente cui era stata vittima il giorno precedente. Persino i telegiornali ne avevano dato notizia e, quando sua madre aveva visto le condizioni del bus, era quasi svenuta.

Suo padre, più controllato, si era limitato a stringere i pugni sul tavolo ma, prima di dormire, l’aveva abbracciata forte, come da anni ormai non faceva più.

Estelle ne era rimasta assai colpita, sentendosi paradossalmente in colpa per averli turbati, pur non avendo colpa alcuna per ciò che era avvenuto.

Certa che avrebbe dormito il sonno dei giusti, si era però ritrovata a fissare il soffitto per tutta la notte e, dopo una giornata passata a studiare – sempre nel tentativo di sfinirsi – il risultato non pareva mutato. Sembrava che il suo cervello non avesse compreso che lei, prima o poi, avrebbe voluto dormire.

Naturalmente, non ne aveva fatto menzione con i genitori, certa che quell’insonnia si sarebbe trasmessa automaticamente anche a loro.

Non desiderava deprivarli delle ore di meritato riposo, visto che erano impegnati sul lavoro tutto il santo giorno, e meritavano di dormire senza incubi.

Lei avrebbe risolto in qualche modo quella momentanea impasse, ne era certa, anche se non aveva ancora scoperto come.

Non sapendo che altro fare per ingannare il tempo, quindi, si coprì ben bene per non prendere un malanno e aprì la finestra per usare il suo telescopio.

Puntatolo verso sud, si mise a rimirare la luna, sperando che quell’attività per lei così abituale la calmasse a sufficienza per conciliarle il sonno.

Fu l’uggiolio di uno dei loro cani, Russell, a farle distogliere l’attenzione dall’osservazione del cielo notturno.

Estelle scrutò incuriosita la sveglia sul comodino – segnava le due di notte – e, messo da parte il telescopio, sbirciò dabbasso per scoprire cosa avesse attirato l’attenzione del cane.

Nulla vedendo, si allungò ulteriormente fuori dalla finestra per avere una visione d’insieme del cortile. Quando, a sorpresa, scorse la figura di Bright, il cuore le fece un balzo nel petto e, per poco, non rischiò di scivolare dal primo piano.

Lui teneva il braccio levato per salutarla con timidezza, e un mezzo sorriso gli illuminava il viso, baciato dalla bianca luce della luna.

«Ma che ci fai, qui?» bisbigliò nervosa la giovane, non sapendo bene come interpretare la sua presenza. D’accordo che si erano sincerati di potersi rivedere, ma non aveva inteso a quel modo!

«Potrei parlarti un attimo?» le domandò per contro lui, allungandosi poi per carezzare il testone enorme di Russell, che scodinzolò al punto tale da far vibrare tutto il suo corpo mastodontico.

Estelle se ne sorprese non poco; Russell non era un amante degli estranei e, anzi, avevano dovuto montare un cancello proprio per impedirgli di divorare gli sprovveduti.

«Scendo. Ma dovrai avere una valida scusa, per questa incursione notturna» lo mise in guardia lei, afferrando di proposito una mazza da baseball per poi mostrargliela attraverso la finestra.

Bright rise sommessamente e annuì, accomodandosi poi sulla panchina che si trovava sotto il ciliegio ormai spoglio.

Scuotendo il capo per l’assurdità di quella situazione, Estelle si affrettò a scendere dabbasso – per fortuna, i suoi genitori avevano il sonno pesante – e, dopo essersi chiusa la porta di casa alle spalle, avanzò cauta nel cortile.

La mazza da baseball in mano e Russell a fare buona guardia – o almeno così lei sperava – Estelle si avvicinò a Bright e lo fissò dubbiosa per diversi secondi.

Indossava jeans schiariti, una maglietta e un giubbotto leggero e, apparentemente, non aveva alcun problema a sopportare il freddo di quella notte stellata.

Non sembrava volerle fare del male ma, per ogni buon conto, tenne ben salda la mazza in una mano e si accomodò all’estremità opposta della panchina, mormorando: «Ebbene? Non potevi aspettare domattina?»

«Volevo assolutamente parlarti, mentre ancora ho il coraggio di farlo» ammise lui, lanciandole un’occhiata contrita.

Arrossendo leggermente, Estelle reclinò il viso e borbottò: «Di cosa, nello specifico

Bright avvertì l’accelerazione del suo battito cardiaco, l’aumento delle endorfine nel suo corpo e, come aveva temuto, il lupo dentro di lui mugolò per uscire. Quella femmina gli piaceva molto ed era difficile ricordargli che, dall’altra parte, non c’era una lupa ad attenderlo.

O meglio, non ancora.

Allungando gli avambracci sulle cosce per poi intrecciare le mani, Bright mormorò roco: «Ho un segreto piuttosto scomodo da confessarti, e temo che tu potresti non credermi affatto, se te lo dicessi. Devo comunque dirtelo, perché da questo segreto dipendono un sacco di cose che avverranno a breve.»

«E’ una frase piuttosto oscura e criptica, Bright» sottolineò lei, stringendo impercettibilmente la mazza tra le mani. Cosa stava cercando di dirle?

Sospirando, Bright si passò una mano tra i riccioli, nervoso quanto determinato a dirle tutto ma, prima di poter parlare, lei gli domandò: «Sono riccioli naturali, i tuoi?»

«Eh? Oh, sì. Mia madre li ha così» esalò lui, un po’ sorpreso dalla domanda.

«Sono molto belli» asserì lei, accennando un sorriso.

Suo malgrado, Bright arrossì e mormorò: «Beh, grazie… comunque, vorrei che tu capissi che, niente di ciò che è successo, è avvenuto perché io desiderassi metterti nei guai, e…»

«Bright, vieni per caso da una famiglia in cui, se tocchi una donna per proteggerla, poi devi anche sposarla?» ironizzò Estelle, accentuando il suo sorriso.

«Che?! Ma no!» gracchiò lui, fissandola senza parole.

Estelle, allora, scrollò le spalle e replicò: «Allora, cosa devi dirmi di così tremendo da farti venire i brividi? Abbiamo solo parlato, e tu mi hai salvato da un brutto incidente. Non mi sembra di ricordare altro.»

«La tua ferita…» le rammentò lui, spiacente.

Estelle si guardò il braccio coperto dal pesante maglione che aveva indossato per guardare le stelle e replicò: «Mi sarò fatta male con qualcosa di tagliente. Davvero non ricordo, ma non è certo colpa tua.»

«Sono stato io a procurarti quel taglio, e me ne dolgo sinceramente» mormorò lui, reclinando colpevole il viso.

La giovane, però, chiosò pragmatica: «Se anche fosse? Mi hai salvata, Bright. Ci sono persone che ne sono uscite con le ossa rotte, lesioni spinali ed emorragie interne più o meno gravi. Io, solo con un taglietto. Direi che mi è andata di lusso, grazie al tuo intervento. Pensi che un graffio potrebbe cambiare quello che penso di te?»

«Cambierà la tua opinione, così come la tua vita, purtroppo, ed è solo a causa mia se ciò avverrà» ammise lui, passandosi le mani sul viso con aria colpevole. Come poteva dirle che sarebbe diventata un lupo?!

Impallidendo leggermente, Estelle però travisò la sua preoccupazione e mugugnò: «Hai… hai per caso qualche malattia venerea?»

Lui la squadrò un tantino offeso e, irrigidendosi come un bastone, replicò: «Non avrei mai approcciato una donna, se avessi avuto l’AIDS o quant’altro! Non sono un untore depravato!»

Tirando un sospiro di sollievo, Estelle allora disse: «D’accordo, non sei un untore, ma quindi cosa ti preoccupata tanto, di quella ferita?»

«Mi preoccupa il fatto che, a causa mia, la tua vita cambierà drasticamente e tutto avrei voluto, ieri, tranne sconvolgere i tuoi equilibri.»

Di fronte a un simile rincrescimento, Estelle non poté far altro che sghignazzare. Davvero credeva di essere così bello e speciale da destabilizzarla al punto di cambiarle la vita? Era questo che pensava?

«Bright, davvero, mi interessa conoscerti, e mi ha fatto piacere che tu ti sia seduto di fianco a me, ieri, perché avrei tanto voluto farlo io, da un po’ di tempo a questa parte, tra l’altro …ma questo lo penso indipendentemente dal fatto che tu mi abbia salvato. Volevo parlare con te da prima di questo casino, perciò non hai bisogno di blandirmi con le tue parole, o farmi credere di essere così speciale da rendermi impossibile non rimanere vittima del tuo fascino, o che so io.»

A quel punto, Bright la fissò costernato e replicò: «Estelle, non voglio fare colpo su di te!»

Lei lo fissò scettica, chiaramente non credendo affatto alle sue parole, e asserì per contro: «Fai il dispiaciuto, poi mi dici che d’ora innanzi io cambierò perché ti ho incontrato. Cosa dovrei pensare, scusa?»

Perché le femmine sono così complicate?, brontolò tra sé Bright, lanciando un’occhiata torva al cielo stellato. Probabilmente, se avesse avuto a che fare con quasar e nebulose, avrebbe avuto sorte migliore.

«Perché questi ti hanno cambiata. Per sempre» sbuffò lui, levando una mano per mostrarle i suoi artigli mentre, con l’altra, le tappava la bocca perché non urlasse.

Estelle fissò quella mano dalle lunghe dita, dita forti che tanto l’avevano incuriosita ma che, in quel momento, erano dotate di micidiali artigli ricurvi e dannatamente sinistri.

Sobbalzando, Estelle scattò in piedi per la paura - già pronta a fuggire - ma venne bloccata sul nascere da Bright che, lesto, la afferrò alla vita per stringerla a sé e, mandando tutto all’aria, la baciò.

Per mesi aveva fantasticato su quelle labbra, che lasciavano sgorgare la sua voce bellissima così come esibirsi in una serie di smorfie allegre quanto tristi, sagaci quanto buffe.

Il grido di Estelle morì sulle labbra di lui, tramutandosi in un mugolio di sorpresa e, infine, in un ansito quasi disperato e al tempo stesso colmo di piacere. Nel breve decorrere di qualche attimo, la mazza da baseball che tanto caparbiamente aveva trattenuto, finì col cadere a terra, mentre le sue mani afferravano il giubbotto di Bright.

Non per scostarlo, ma per trattenerlo.

Invogliato a proseguire e travolto dal suo stesso desiderio, Bright approfondì il bacio e, sinuose come serpi, le zanne fuoriuscirono, graffiando il labbro inferiore di Estelle fino a far stillare una goccia del suo sangue.

Bright lo leccò via, si scostò da lei e, privato della parola dalla marea di emozioni che rischiavano di soverchiarlo, affondò negli occhi grigio-verdi di Estelle senza sapere cosa dire, o che fare.

Estelle non aveva davvero capito nulla. Non era lei che doveva temere di cadere sua vittima, ma l’esatto contrario.

Prima di tutto, però, doveva pensare alle sue necessità, e non ai propri desideri. L’aveva cacciata in un guaio colossale, e doveva rimediare.

«Scusa» disse perciò, sfiorandole il viso arrossato con una mano prima di poggiarle entrambe sulle sue spalle. «Mi è venuto spontaneo quando ho capito che avresti urlato.»

«Bella… scusante…» mormorò lei, cercando di recuperare un minimo di controllo, nonostante il suo fiato corto la smascherasse ampiamente. Di controllato non aveva nulla, al momento.

Gli si era praticamente avvinghiata addosso!

Scrutandosi con attenzione, Estelle dovette ammettere di sì e, vergognosa, si scostò un poco da lui per poi aggiungere: «E’ chiaro che non posso fare esattamente l’offesa, visto che mi sono avviluppata a te come un polpo.»

Bright accennò una risatina nervosa, replicando: «La cosa non può che farmi piacere, da maschio di media intelligenza quale io sono, ma vorrei che ti focalizzassi sui motivi che ti hanno spinta a fuggire.»

Rammentando suo malgrado i micidiali artigli che lui le aveva mostrato, e avendo memoria delle zanne che l’avevano ferita al labbro, lei mormorò in risposta: «Ammettendo che mi avresti già mangiata, se questi fossero stati i tuoi intenti… puoi dirmi qualcosa che mi faccia capire che succede?»

Bright, allora, la ricondusse alla panchina e, con calma, le spiegò di lui, di ciò che rappresentava e del perché, quella ferita più volte nominata, l’avesse messa nella scomoda situazione di conoscere ogni suo segreto. O quasi.

Sulla sua infatuazione per lei poteva anche non conoscere nulla, per il momento.

Per tutto il tempo, Estelle ascoltò e strinse tra le sue la mano artigliata di Bright, ben decisa a tenere sott’occhio il motivo per cui, ogni stramberia da lui detta, doveva essere la semplice, sconvolgente verità.

Quegli artigli che l’avevano ferita erano ciò che lui rappresentava. Una bestia ancestrale, una creatura della notte che poteva mutare in lupo, un essere che le genti conoscevano con il mistico nome di licantropo.

Un lupo mannaro, niente affatto la creatura terrificante vista in Underworld – a voler credere alle sue parole, per lo meno – ma un vero e proprio lupo… solo, molto più grande.
A quell’accenno, Estelle si arrischiò a domandare: «Grande come Russell?»

Bright scrutò il grosso Terranova che si era accoccolato ai loro piedi e, scuotendo spiacente il capo, replicò: «Io sono alto al garrese quanto un puledro.»

La giovane fece tanto d’occhi, strinse maggiormente la mano di Bright e deglutì a fatica, cercando di venire a patti anche con quella parte di verità.

«E… e io… come… come sarò?» riuscì in qualche modo a domandare lei, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

«Dovremo aspettare la prima luna piena, per scoprirlo» ammise Bright, scrollando impotente le spalle.

«Luna… piena? Cioè, come si vede nei film?» gracchiò Estelle, lanciando un’occhiata dubbia alla luna crescente che si poteva vedere in cielo.

«Siamo più carini di quanto non ci dipinga Hollywood, credimi» dichiarò Bright, prima di aggiungere: «Non ti voglio nascondere, però che, la prima volta in cui muterai, proverai un certo grado di dolore, perciò desidero che tu faccia l’abitudine con quest’idea.»

Pur rabbrividendo, lei assentì e mormorò: «Okay. Un po’ come quando ti tolgono il dente del giudizio senza anestesia?»

Bright impallidì leggermente, a quell’idea e, tappandosi la bocca come a proteggere la propria dentatura, borbottò: «Nessun dentista si è mai avvicinato alle mie zanne, perciò non so risponderti.»

Nonostante l’assurdità di quella conversazione, Estelle trovò la forza di sorridere divertita e, scostando la mano di Bright, gli scrutò i denti bianchissimi prima di domandare: «Non hai denti da squalo, adesso. Funziona come per gli artigli, allora?»

Preferendo non sottolineare il fatto che lui non aveva denti da squalo neppure in forma lupesca, Bright assentì e le spiegò il processo di mutazione intermedia, che gli permetteva di cambiare a comando solo alcune parti del suo corpo.

Questo scatenò per diretta conseguenza la curiosità di lei, che chiese: «Quindi, cos’è successo nel bus?»

«Una botta in testa. Mi sono distratto e, combinata la distrazione alla tensione accumulata a causa dell’incidente, ho sbagliato» mormorò Bright, dicendo solo in parte la verità.

Non poteva certo ammettere con lei che erano stati i suoi occhi a distrarlo! Anche se lei aveva accettato più che volentieri il bacio, non era necessariamente detto che avrebbe preso per buono anche il suo interessamento.

Specialmente dopo ciò che sarebbe avvenuto di lì a nove giorni.

No, doveva mettersi in testa che, in quel momento, doveva soltanto pensare a condurla per mano fino al plenilunio, mettendo a tacere il suo lupo e le proprie brame.

«Oh… capisco» mormorò lei, sfiorandosi il braccio all’altezza della fasciatura. «C’è altro che dovrei sapere?»

«Più che altro, vorrei chiederti un favore, se fosse possibile, anche se mi sento un mostro a chiedertelo.»

Lei sbatté le palpebre, confusa, ma disse: «Chiedi pure. Ti dirò io se sei un mostro o meno.»

«Vedi, all’interno del branco io detengo una posizione di dominanza assoluta e, in linea teorica, io dovrei essere esente da errori simili. Tramutare un’umana in lupo dovrebbe essere una decisione presa in seno al branco, e con te non è davvero successo. Essendo io Fenrir, il capoclan, posso prendere una decisione simile anche da solo, se gli altri due Gerarchi sono d’accordo ma, in ogni caso, non dovrebbe mai succedere senza il consenso dell’interessato

Estelle socchiuse la bocca, sorpresa, prima di assentire. «Sì, ha senso. Ma, se vogliamo essere onesti, tu non l’hai fatto di proposito e, anche se tutti pensano che un capo non possa sbagliare, sappiamo benissimo che non è così. In qualsiasi epoca, e in qualsiasi civiltà, è sempre avvenuto. Alessandro Magno resta un grande condottiero e un ottimo regnante anche se, sicuramente, avrà commesso degli errori a sua volta.»

Bright annuì, grato per quelle parole di conforto.

«Se me lo chiederanno, dirò che l’ho voluto io. Non ci sono problemi. Non ho nessuna intenzione di farti passare un guaio, e solo perché mi hai protetta» gli promise lei, accennando un sorrisino.

Bright, allora, reclinò profondamente il capo, così a fondo da scoprire la nuca per offrirla allo sguardo di Estelle che, sorpresa, mormorò: «Perché fai così, ora?»

Lui fece per rialzarsi e spiegarle, ma la giovane allungò una mano per sfiorargli la spina dorsale, visibile attraverso il colletto della maglia che indossava e, spiacente, aggiunse: «Hai una vecchia ferita, qui. Hai avuto un incidente?»

Il giovane rabbrividì leggermente, al suo tocco e, nel risollevarsi, ammise: «Ferite di battaglia simulata, mentre mi addestravo per diventare capo. Gli artigli lasciano segni indelebili sulla nostra carne, esattamente come l’argento, che…»

Al solo nominare la parola ‘argento’, Estelle si portò le mani al volto, sgomenta, ed esalò terrorizzata: «In che senso, scusa? Non potrò più indossare gioielli in argento?!»

«Ehm… temo di no» gracchiò lui, sorpreso da quella domanda così piena d’ansia.

Estelle, per tutta risposta, reclinò afflitta il capo, e i suoi biondi capelli formarono una tenda dorata attorno al suo viso, oscurandolo ai suoi occhi.

Bright desiderò con tutto se stesso scostarli per poterne tastare la morbidezza sotto le dita, ma si trattenne.

Non era il caso di indulgere in simili piaceri. Aveva già strappato un bacio a Estelle e, di sicuro, non era il momento di amoreggiare alla luce della luna.

«Sappi che ti sto odiando, in questo momento. Non tanto, ma un pochino, sì» brontolò lei, oltre la coltre bionda.

«E’ un tuo diritto» ammise lui. Trovava strano che se la prendesse soltanto per l’argento, ma ognuno aveva le proprie reazioni spontanee, in casi come questo.

Levandosi in piedi di colpo, Estelle si scostò la chioma su una spalla con un gesto imperioso quanto vagamente snob e, fissandolo dall’alto al basso con espressione torva, borbottò: «Sappi che dovrai ricomprare tutti i miei gioielli in argento, per farti perdonare.»

«Non c’è problema. Mostrameli, e lo farò» si limitò a dire lui, scrollando le spalle.

A quella risposta, Estelle spalancò gli occhi e, arrossendo, esalò in fretta: «Ma no! Scherzavo, dai! Volevo solo fare un po’ di scena, visto che mi hai buttato addosso anche questa novità.»

Bright allora si levò a sua volta, le si avvicinò e, scostandole con gentilezza un ricciolo di capelli dietro l’orecchio – come aveva immaginato, erano morbidissimi – mormorò: «Lo farei volentieri, anche solo per iniziare a ripagarti degli inevitabili disagi che dovrai patire a causa mia.»

Deglutendo a fatica, Estelle scosse il capo, replicando roca: «Non amo piangere sul latte versato. Mi insegnerai ciò che devo sapere. Punto. Tolto il dente, tolto il dolore, no?»

Rabbrividendo nuovamente, Bright esalò: «Dio, ti prego! Non usare metafore sui denti! Sono terribili!»

Estelle allora gli sorrise maliziosa, mormorando: «Buffo come, un potente lupo mannaro, sia spaventato da un mite dentista.»

«Non c’è niente di mite in un tizio che ti trapana in bocca, o ti cava i denti con pinza e martello» brontolò per contro Bright.

Estelle a quel punto rise sommessamente, assentì e disse: «Sarà il caso che io vada a dormire, e inizi a digerire tutto ciò che mi hai detto. Forse, domani ti prenderò per pazzo, ma non farci caso…»

«Potrai dirmi ciò che vorrai» le promise lui, sfiorandole il viso con un buffetto prima di correre via nella notte.

Estelle lo scrutò ammirata, sorpresa di scoprirlo così veloce e agile, ma del tutto affascinata dai suoi movimenti fluidi e sinuosi. Era davvero una creatura degna di essere enumerata tra i miti.

E lei lo aveva baciato senza ritegno, avvolgendolo come un polipo.

Avvampando al solo pensiero, Estelle se ne tornò in casa dopo aver recuperato la mazza da baseball. Non era il caso che suo padre, al suo risveglio, la trovasse nel cortile senza alcuna spiegazione.

Raggiunta infine la camera, si gettò sul letto, affondò il viso nel cuscino e, magicamente, si addormentò, come se quell’incontro assurdo, invece di sconvolgerla a morte, avesse messo tutte le cose a posto.
 
***

Appollaiato sulla staccionata del granaio, lo sguardo perso nell’oscurità della notte e mille pensieri a fare da corollario al suo silenzio, Bright osservò senza sorpresa la figura di suo padre sul limitare della proprietà.

Doveva essere uscito per una corsa notturna. Non era insolito che si lasciasse andare a simili piacevolezze.

Salutandolo con un cenno della mano, lo guardò raggiungerlo a passo tranquillo, il volto rilassato e solo in parte curioso. Aveva avvisato suo padre della sua uscita notturna, tacitandone però il motivo. Era chiaro che, ora, avrebbe dovuto parlargli di tutto.

«Ebbene, figliolo? Hai risolto ciò che ti rodeva il fegato?» esordì l’uomo, accomodandosi accanto a lui sulla staccionata.

William Cox era un uomo robusto e tarchiato, dalle ampie spalle e l’altezza considerevole. I chiari capelli biondi erano ingrigiti sulle tempie e la pelle, bruciata dal sole, lasciava trasparire più rughe rispetto ad altri uomini della sua età, ma Bright sapeva che sua madre amava ogni singolo segno sul corpo del marito.

Johanna Greyson Cox era una donna forte, di polso, che aveva cresciuto i due figli nel rispetto delle regole, sia umane che del branco. Da sempre una Freki di prim’ordine, aveva ceduto lo scettro al suo successore esattamente come Simon aveva fatto per Bright.

Aveva sostenuto che fosse tempo, per lei, di essere innanzitutto madre, e poi una sentinella, e Simon si era dichiarato concorde, al pari degli altri Gerarchi.

«Temo di aver fatto un mezzo pasticcio, papà, ma ho avuto la fortuna di incontrare una persona che ha trasformato quel guaio in un’opportunità» mormorò Bright, scrutando il cielo. Alcune nubi si stavano assiepando all’orizzonte ed era probabile che, nelle successive ventiquattro ore, sarebbe nuovamente piovuto.

«Parli per enigmi, Bright, ma immagino vi sia di mezzo una donna, visto che profumi di camomilla» ghignò l’uomo, facendolo arrossire.

Schiarendosi la voce per il nervosismo, il giovane borbottò: «Non l’ho messa incinta, sia chiaro. Il pasticcio non è di questo genere.»

William, allora, scoppiò in una grassa risata e diede una poderosa pacca sulla schiena al figlio che, per poco, non carambolò a terra per il colpo ricevuto.

Tossicchiando per riprendere fiato, Bright lo fissò malissimo e sbottò: «Ma che fai?!»

«L’idea di te che metti incinta una lupa mi ha fatto troppo ridere, scusa» gorgogliò il padre, tergendosi una lacrima di ilarità prima di notare lo sguardo offeso del figlio. «Ehi! Non ho detto che non ne saresti in grado. Solo, che non sei un donnaiolo.»

«Per fortuna Krissy dorme, o ti darebbe del maschilista» sottolineò Bright, pensando alla sorella diciottenne.

Cinque anni li dividevano all’anagrafe ma, per i lupi, l’età non contava molto. Fin dal primo combattimento, Kristal si era dimostrata un’indomita e potente licantropa e, pur essendo ora a malapena maggiorenne, faceva già parte dell’élite delle sentinelle del branco.

Non poteva che essere orgoglioso della sua intrepida sorellina, ma sapeva anche che parlarle di certi argomenti avrebbe fomentato le sue ire.

Non voleva sentirne parlare di maschi alfa che facevano i cascamorti con le donne per poi lasciarle nei guai, da bravi cafoni.

Che gli piacesse o meno ammetterlo, molti lupi avevano questo discutibile vizietto, e non pochi Fenrir si erano ritrovati a dover dirimere più faccende di letto, che di confine.

Era anche per questo che diversi lupi del branco le stavano alla larga. Non perché lui fosse Fenrir, e temevano le sue ire, ma perché lei mordeva più deretani di chiunque altro, se non si comportavano come dovevano.

Il solo pensiero lo fece sorridere e, nello scrutare la luna sfiorare l’orizzonte ricolmo di nubi, mormorò: «E' un’umana, papà.»

Tutta l’ilarità di William scemò di colpo e, fattosi attento, gli domandò: «Ne hai già parlato con Marla e Claus?»

«Ovviamente e, come immaginerai, Claus mi ha detto di darci dentro, e Marla mi ha trattato come un bambino piccolo» chiosò il figlio, ammiccando.

«Benedetta ragazza. Sto tranquillo solo perché c’è lei, nella tua Triade» scosse il capo l’uomo, esasperato.

«Grazie per la fiducia, papà» brontolò Bright, accigliandosi.

«Scherzi a parte… cos’è successo?»

Bright, a quel punto, gli spiegò dell’incidente, e di come Estelle fosse rimasta ferita incolpevolmente.

William ascoltò il tutto con estrema attenzione e, alla fine, si limitò a dire: «Vorrei conoscerla. Voglio scusarmi con lei per aver tirato su un ragazzo così imbecille da commettere un errore tanto grossolano.»

Bright scivolò dalla staccionata per la sorpresa e, fissando burbero il padre, grugnì: «Penso che andrò a letto. Sei più acido di un barattolo di candeggina, a quest’ora di notte.»

William scrollò le spalle, imperturbabile, e ripeté: «Portami la ragazza, sbarbatello che non sei altro. Voglio conoscere la donna che ti ha ridotto in pappa il cervello. Non è davvero da te, perdere il controllo a questo modo.»

Arrossendo suo malgrado, Bright non lo degnò di una risposta e, brontolando, se ne andò verso il suo appartamento per chiudervisi dentro. Ne aveva abbastanza di essere deriso, per quella notte.






 

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Capitolo 35
*** Reversal - Parte 3 (Estelle/Bright) 2003 ***


 
 
3.
 
 
 
 
Tenendo conto che, presto o tardi, sarebbe diluviato nuovamente, la scelta di indossare comode scarpe da ginnastica al posto di più eleganti tronchetti con il tacco, era parsa la scelta migliore.

In virtù del fatto che Bright abitava in un’azienda agricola, a Estelle era sembrato sciocco abbigliarsi in maniera troppo sofisticata ma, in ogni caso, non aveva lasciato nulla al caso.

Detestava essere sciatta e, anche con le scarpe da ginnastica, aveva optato per un look casual e studiato, non afferrato a caso dal guardaroba.

I jeans schiariti le fasciavano alla perfezione le lunghe gambe e il maglione in angora verde pallido ben si intonava con i suoi occhi e la lunga chioma bionda.

La borsa, una tracolla semplicissima e nera come il carbone, conteneva il minimo indispensabile ed era pratica e sportiva al punto giusto. Nel complesso, poteva andar bene, per incontrare delle persone a lei sconosciute, ma a cui voleva dare una buona impressione di sé.

Bright l’aveva chiamata – come promesso – il giorno seguente il loro strano incontro notturno, e l’aveva invitata a casa sua per farle conoscere la sua famiglia.

Ancora in fase di accettazione della verità, aveva preso un gran respiro prima di dare il suo assenso ma, con Bright, aveva anche voluto dettare i patti perché non vi fossero problemi ulteriori, visto che già ve n’erano a sufficienza per sei vite.

Si era perciò premurata di dire che sarebbe andata da lui da sola, così da non incuriosire troppo i genitori. Diversamente, trovandosi un giovane sconosciuto alla porta, avrebbero fatto fin troppe domande, domande a cui lei non poteva – e non voleva – rispondere, al momento.

Aveva sufficienti questioni in sospeso in prima persona, senza dover causare preoccupazioni ai genitori. Quando, e se, avesse deciso di approcciare il discorso con loro, avrebbe chiesto a Bright, ma a quello avrebbe dovuto pensare necessariamente un’altra volta.

Quando, perciò, raggiunse l’indirizzo lasciatole da Bright, fermò l’auto nei pressi della rimessa del granoturco e, scesa che fu, lanciò sguardi incuriositi tutt’attorno.

L’azienda era pulita e in ordine, molto più grande di quanto non si fosse aspettata in un primo momento e, non senza un certo stupore, del tutto priva di animali. Che il loro essere dei licantropi, creasse problemi con le altre specie?

«Ciao! Tu devi essere Estelle!» esclamò una voce femminile alle sue spalle, sorprendendola.

Volgendosi a mezzo, vide una ragazza alta e longilinea, sui vent’anni, avvicinarsi a lei con passo lungo e morbido, da fotomodella e, colpita, Estelle si chiese chi fosse, e perché la conoscesse.

La bellezza castana sorrise e allungò una mano, aggiungendo: «Sono Kristal, la sorella minore di Bright. Molto piacere.»

Una… sorella? Era chiaro che quel particolare, tra le tante spiegazioni che Bright le aveva dato due notti addietro, era rimasto nel dimenticatoio.

«Piacere mio, Kristal. Bright non mi aveva accennato di avere una sorella» dichiarò lei, stringendo quella mano dai polpastrelli ruvidi e dalla presa salda.

Dava l’idea di non avere grilli per la testa, di sapere esattamente quale fosse la sua strada e di non darsi tanta pena di apparire tosta, agli occhi della gente.

Estelle la invidiò. Tanta sicurezza in se stessi era soltanto un pregio, ai suoi occhi, e lei aveva bisogno di molta sicurezza nei propri mezzi, in quel momento.

Ridacchiando divertita, Kris replicò: «Oh, il fratellone mi tiene per il dessert. Sa che ho un caratteraccio, e non vuole spaventare nessuno.»

Ciò detto, inspirò a pieni polmoni e chiosò: «Cavolo, hai davvero un buon profumo! Personalmente, non apprezzo molto l’aroma degli umani, perché è troppo slavato, ma il tuo sa di buono.»

Sbattendo le palpebre per la sorpresa e la confusione, Estelle si limitò a dire: «Ah… grazie. Ho pensato di non mettere nessun profumo perché, ecco… ho creduto che…»

Di fronte alla sua espressione spaesata, Kris scoppiò a ridere di gusto e, presala sottobraccio, la condusse verso casa, asserendo: «Scusa. Non voglio spaventarti, facendoti pensare che siamo dei cani da trifola, o altro. Ma davvero, profumi sul serio di buono.»

«Beh, se non altro non darò adito a storture di naso» sospirò sollevata Estelle, sconcertata da quella creatura così selvaggia e, al tempo stesso, così adorabile.

«Beh, il fratellone ha avuto il tempo di dirti qualcosa, a quanto pare. Non si è limitato a cacciarti nei guai e basta» celiò Kris, facendo spallucce.

«Sì, mi ha spiegato a grandi linee le regole base del vostro mondo» annuì Estelle, mentre Kristal apriva la porta per farla entrare.

Non fece però in tempo a chiamare Bright che, quasi di corsa, questi si riversò nel corridoio, uno sguardo omicida negli occhi nocciola interamente rivolto alla sorella.

Scostandosi immediatamente da Estelle, Kris rise divertita e celiò: «Ehi, ehi, ehi, fratellone. Calma! Non le ho torto un capello, giuro.»

Lui si limitò a sospirare, recuperando poco alla volta l’autocontrollo e, spiacente, guardò una sorridente Estelle per poi dire: «Vedo che hai già avuto il discutibile piacere di conoscere mia sorella. Giuro che non morde, anche se può sembrare un po’ ruvida.»

«Io la trovo piacevole» replicò Estelle e, per tutta risposta, si volse per sorridere a Kris.

Ciò produsse un cambiamento subitaneo nella diretta interessata che, da spavalda che era, arrossì copiosamente e, mordendosi il labbro inferiore, si accostò a Estelle per darle un bacetto fugace dietro l’attaccatura dell’orecchio.

Subito dopo, ringhiò in direzione Bright e gli intimò: «La addestrerò io, quando muterà. Sia chiaro!»

Ciò detto, se ne andò di corsa, risalendo le scale per raggiungere il primo piano e, mentre Estelle si sfiorava il punto in cui la ragazza l’aveva baciata, Bright fischiò ammirato e mormorò esterrefatto: «Dio mi è testimone, è la prima volta che Krissy va in brodo di giuggiole per qualcuno.»

Sorpresa, la giovane esalò: «Perché ha fatto così?»

Sorridendole suo malgrado affascinato, Bright accompagnò lungo il corridoio la sua ospite, dicendole: «E’ un punto molto sensibile, per noi lupi. E’ considerato un enorme segno di rispetto, permettere a qualcuno di baciarci in quel punto. Mostriamo la gola, perciò ci mettiamo letteralmente nelle mani di colui che si avvicina a noi, facendo così.»

«Oh, quindi è un po’ come fanno i lupi veri» assentì Estelle, rammentando alcuni frame dei tanti documentari che aveva visionato, dopo la sua illuminante chiacchierata con Bright.

«Esatto. Allo stesso modo, baciando qualcuno in quel punto, si espone a propria volta la gola. Anche se sei ancora umana, ti reputa degna delle sue attenzioni» sottolineò a quel punto il giovane, ancora sbalordito dal comportamento della sorella. Dacché aveva memoria, non era mai accaduto prima.

«Beh, credo che dovrei ringraziarla, allora» si premurò di dire Estelle, ancora un po’ confusa da quel gesto imprevisto.

«Il tuo sorriso è stato il ringraziamento migliore che potessi tributarle. Krissy ha un carattere ombroso, di sicuro più del mio, ed è difficile che si faccia delle amiche. Sentirsi dire da te che l’hai trovata piacevole – credendoci davvero – deve averla colpita molto.»

Estelle lanciò un’occhiata dietro di sé, nel punto in cui Kristal era fuggita via e, dentro di sé, sentì forte il desiderio di dirle qualcosa che potesse renderla felice.

Era ingiusto che qualcuno potesse soffrire solo per il proprio carattere un po’ scontroso. Lei era sempre stata solare e aperta, fin troppo chiacchierona e appiccicosa, ma sapeva che non tutti erano come lei. Inoltre, Krissy si era comportata in modo aperto, niente affatto irritante, e lei apprezzava le persone sincere e dirette.

«Vieni. I miei genitori ti vorrebbero conoscere» la sospinse gentilmente lui, proseguendo lungo il corridoio, su cui si affacciavano diverse porte chiuse.

Il luogo era spartano quanto pulito e profumato di fresco. Alle pareti erano appese delle stampe di luoghi disparati e sparsi per mezzo mondo, con tanto di cartoline annesse e gagliardetti di importanti città.

Mobili di legno grezzo e semplice si alternavano a elaborate composizioni di pizzo e, quando Estelle entrò in un caldo salottino rischiarato dalle fiamme di un camino, sorrise nel trovarvi due coppie dall’aria gentile.

I più anziani, accomodati sul divano, si alzarono con l’ausilio di un paio di bastoni mentre l’uomo accanto alla finestra, scostandosi dalla donna minuta al suo fianco, avanzò baldanzoso, esclamando: «Ah, benvenuta, Estelle. E’ un piacere conoscerti. Io sono William.»

Bright si piegò verso il suo orecchio, sussurrandole: «Mio padre.»

Stringendo la mano poderosa dell’uomo, lei ringraziò per l’invito prima di sorridere alla donna che, immaginò, fosse la madre di Bright e Kristal, aggiungendo: «Sono molto felice di essere qui.»

«Invitarti qui ci sembrava il minimo, sapendo che brutto guaio ti ha gettato addosso nostro nipote» motteggiò la donna canuta di fronte al camino.

«Oh, ma… è stato davvero un incidente. Lo capisco, e non sono arrabbiata» sottolineò Estelle, scuotendo le mani con fare nervoso.

William scosse serioso il capo e asserì: «Questa ragazza è troppo buona, con te. Avrebbe dovuto pestarti in testa qualcosa. Come minimo

Estelle si coprì la bocca per non ridere sguaiata, ripensando alla sua mazza da baseball e al non uso che lei ne aveva fatto.

Notandolo, l’uomo ghignò e aggiunse: «Ah, ma allora ci avevi pensato!»

«Caro, lascia in pace la nostra ospite. Dobbiamo parlare di cose serie, perciò non farle pensare che siamo stati allevati dai lupi» sottolineò Johanna con tono pacato.

William, però, la fissò bieco e replicò: «Cara… noi siamo stati allevati dai lupi

La moglie lo squadrò per alcuni attimi senza capire, prima di accennare una risatina e ammettere: «In effetti, sì… ma immagino che Estelle abbia capito.»

La giovane assentì, trovando davvero gradevole quella donna dai riccioli castani e dall’aria saggia e compassata.

A quel punto, come a un muto ordine, i tre uomini si allontanarono dalla stanza e, rimasta soltanto con Johanna e Mirabell, la madre di William, Estelle si accomodò e domandò: «E’ consuetudine che gli uomini non partecipino a certi… incontri

Johanna le sorrise, scuotendo il capo, e replicò: «Bright ha pensato che saresti stata più a tuo agio con altre donne, in particolar modo parlando di certi argomenti. Era così contrito, quando mi ha spiegato cos’è successo!»

«Posso assicurarle che non ce l’ho con lui. Se non fosse intervenuto, a quest’ora avrei le ossa rotte, o peggio, perciò non me la sento davvero di prendermela con lui per questo suo… errore

«Sei molto carina a pensarlo, ma nella nostra comunità non è pensabile commettere simili sbagli, e capirai bene perché, immagino» replicò la donna, intrecciando le mani sul tavolo rotondo del salotto.

Annuendo, Estelle mormorò: «Lo posso capire. Siete una società segreta, ed è vitale che tutto rimanga nascosto. Stento ancora a credere alla metà delle cose che Bright mi ha detto, ma gli artigli che ho visto non possono avere molte altre spiegazioni.»

«Battesimi del genere sono sempre molto potenti…» assentì Mirabell, sorridendole cordiale. «… e Johanna può capirti molto bene, visto che è stato William a mutarla.»

Sorpresa, Estelle la fissò con grandi occhi spalancati, ed esalò: «Oh… davvero?»

«Impiegò circa due anni, prima di dirmi ciò che era e, quando me lo ammise, rimasi giustamente perplessa. Chi mai crederebbe a favole simili?» ironizzò Johanna, dando una pacca sul braccio alla suocera. «Capisco perfettamente, perciò, che tu abbia la mente confusa e piena di domande. Noi siamo qui per questo, e ti aiuteremo una volta che sarai mutata ad accettare e conoscere la tua lupa.»

«Oh, Kristal si è già offerta di addestrarmi» ci tenne a dire Estelle.

Sia Mirabell che Johanna, a quel punto, sospirarono piene di sorpresa e quest’ultima, sorridendo meravigliata, esalò: «Beh, la mia smoggy mi sorprende sempre.»

«Smoggy?» ripeté divertita Estelle.

«Foggy e smoggy. Sono i nomignoli dei miei due figlioli. Se hai conosciuto Krissy, immagino avrai capito perché la definiamo fumosa. Ha un carattere assai ombroso, e difficilmente mostra chi è in realtà. Quanto a Bright, lo definiamo nebbioso perché, pur essendo più ciarliero della sorella, anche lui tende a perdersi nei suoi pensieri, ed è impossibile capire dove navighi la sua testa. Inoltre, ha anche a che fare con la sua parte animale, ma lo scoprirai a suo tempo.»

Estelle si ritrovò a pensare alle volte in cui aveva visto Bright, al suo sguardo perennemente concentrato e imperscrutabile e, tra sé, assentì. Sì, foggy gli si addiceva.

«Se quella brontolona di Krissy ti ha offerto il suo aiuto, puoi star certa che diventerai una lupa con i controfiocchi, ragazza» si premurò di dirle Mirabell.

«Potete spiegarmi cosa intendete, per addestramento?» chiese a quel punto Estelle.

Fu così che la giovane venne a sapere degli incontri al primo sangue per scalare la gerarchia nel branco, così come la struttura sociale interna al clan.

Le parlarono del ruolo delle sentinelle, di cui Kristal faceva parte, così come di Bright e della Triade di Gerarchi del branco.

Estelle ascoltò ogni parola con interesse misto a incredulità, e sempre più forte in lei crebbe la certezza di non esse adatta a quel ruolo, così come a quella vita. Finalmente cominciava a capire perché Bright si fosse scusato così tanto con lei, nei giorni addietro.

Come avrebbe mai potuto sopportare di battersi, o ferirsi, o anche solo pensare di fare coscientemente del male a qualcun altro per il solo scopo di risalire la scala sociale all’interno del branco?

Un sospiro tremulo le sgorgò dalle labbra tremanti, e proprio nel momento in cui Krissy aprì la porta per entrare nel salottino. Quella visione la irritò immediatamente così, sgarbata, sbatté battente sotto gli occhi sgomenti di madre e nonna e, muovendosi come un panzer in guerra, raggiunse Estelle.

Estelle sobbalzò di fronte a quell’entrata in scena imprevista quanto battagliera mentre Johanna, quieta, replicava al volto iroso della figlia con tono fermo e placido.

«E’ questo il modo di comparire, cara? Pensavo di averti inculcato almeno un paio di norme sulla buona educazione.»

«Al diavolo, ma’, l’educazione!» sbottò la giovane, indicando poi Estelle con aria inferocita. «Non vi siete neppure rese conto di ciò che le avete rovesciato addosso?!»

«Che intendi dire, cucciolotta?» replicò Mirabell, confusa.

Krissy sbuffò sonoramente, passandosi le mani tra i corti capelli castani e, portandosi accanto a Estelle, sbottò dicendo: «Le avete mostrato solo i doveri di un lupo, ma niente dei suoi diritti, o piaceri! Chiunque ne sarebbe spaventato! Ne siamo spaventati noi che siamo nati lupi, figurarsi lei che ci è finita dentro tra capo e collo, senza che nessuno glielo chiedesse!»

Johanna e Mirabell ebbero la decenza di non dire nulla e di guardarsi reciprocamente, piene di imbarazzo così Kristal, afferrando gentilmente Estelle a un braccio, borbottò: «Vieni con me. Ti dirò io cos’è un licantropo.»

Alla giovane non restò altro che seguirla e, scusandosi con lo sguardo con le sue due ospiti, uscì dal salotto per dirigersi direttamente verso il prato sul retro della casa.

Lì, Kristal le guardò i piedi, storse appena la bocca e infine disse: «Con la pioggia di questi giorni, ti sporcheresti di sicuro le scarpe. Sali sulle mie spalle. Tanto peserai come un fuscello.»

«Oh, ma davvero, non è necessario che tu…» tentennò Estelle, non sapendo bene cosa aspettarsi da Kristal.

Lei, però, accennò un sorriso e aggiunse: «Sali, per favore. Voglio solo mostrarti qualcosa di bello, dopo tanti ordini e doveri.»

Sistematasi a tracolla la borsetta, Estelle decise di darle corda e, dopo essere salita a cavalcioni – erano più di dieci anni che non le succedeva! – lasciò che Kristal la conducesse lontano dalla fattoria.

Per Estelle fu subito una sorpresa notare con quanta facilità Kristal potesse muoversi nonostante il suo peso a gravarle sulle spalle, e lo sconcerto aumentò quando la velocità tenuta dalla licantropa aumentò passo dopo passo.

L’ansia e la paura provate entro le mura del salottino vennero ben presto sostituite dalla gioia, dalla scoperta e dalla meraviglia.

Ritrovandosi a sorridere per il vento che le scompigliava i capelli, o per come tutto le appariva sfocato ai lati del suo campo visivo per via della velocità tenuta, Estelle si ritrovò a dire: «E’ stupendo!»

«Aspetta di poterlo fare tu, e su quattro zampe! E’ molto meglio!» esclamò Krissy, scoppiando in una risata liberatoria. «Ora stringiti!»

Estelle fece come consigliatole e subito Kristal accelerò l’andatura, balzando oltre un torrente per poi condurre la nuova amica fino a un’altura vicina. Lì, si fermò per concederle di scendere e, indicando la fattoria ormai molto distante, mormorò: «Laggiù c’è l’azienda.»

Lo stupore si dipinse sul viso accaldato quanto eccitato di Estelle, e un subitaneo sorriso le illuminò il viso, tanto che Krissy esalò: «Cristo… se mi piacessero le donne, ora ti bacerei. Sai di essere invidiosamente bella, vero?»

Estelle scoppiò in una calda risata di gola, strinse con forza una mano di Krissy e replicò: «Mi piace la mia faccia, ma credo che non piaccia solo a me, se è questo che intendevi. Comunque… cavoli… sei stata velocissima!»

«Considera che Bright è più veloce di me» sottolineò Kristal, poggiandosi contro il tronco di una piccola quercia. «Mamma e nonna hanno fatto bene a dirti che essere un lupo comporta determinati doveri, ma è giusto che tu veda anche il bello di essere un licantropo. Puoi apprezzare ciò che ti circonda a un livello tale che, anche il più piccolo refolo d’aria, porta con sé una novità. La Natura ti apparirà diversa, più intensa, e tutto risulterà più stimolante.»

«Stimolante?» ripeté curiosa Estelle, facendo sorridere Kristal.

«Tutti i nostri sensi sono più sviluppati, ma ne abbiamo anche un altro che non si vede, e che noi chiamiamo aura. Ti permette di fare un sacco di cose, che più avanti imparerai ma, se saprai gestirlo bene, ti permetterà anche di sentire come mai prima. Sulla pelle, dentro di te… è qualcosa che non ha eguali.»

Ciò detto, sollevò la mano di Estelle che ancora si stringeva alla sua e mormorò: «Naturalmente non senti nulla, vero?»

«No, mi spiace. Cosa percepisci, tu?» le domandò Estelle, guardando le loro due mani intrecciate.

«Niente di diverso dal solito. Il tuo battito cardiaco, il profumo della tua pelle, le endorfine nel sangue… cose così. Kate, forse, potrebbe farti percepire qualcosa e, sicuramente, potrebbe spappolarti il cervello, ma non lo farebbe mai. E’ buona come il pane.»

Estelle ripensò alla giovane dalla chioma rossa che l’aveva ricondotta a casa, e si chiese perché Kristal pensasse di lei cose simili. Dubitava fosse una persona che andasse in giro a rompere teste a suon di mazzate.

Come intuendone i pensieri, Kristal aggiunse: «I poteri di Kate sono peculiari, e può fare cose che noi non possiamo. Bright ti ha raccontato dei Cacciatori?»

All’assenso turbato di Estelle, proseguì dicendo: «Uno dei poteri di Kate sta nel poter giocare con le menti degli umani che, per caso o per disgrazia, hanno a che fare con noi e intendono farci del male. Può cancellare ciò che è ritenuto un pericolo per noi. Non lo fa volentieri, e le procura sempre delle emicranie terribili, ma può farlo.»

«Deve essere tremendo poterlo fare» mormorò spiacente Estelle.

«Per Kate, sicuramente. E’ una creatura dolce come il miele e delicata come un cristallo, quanto a carattere, e io di sicuro sono la persona meno adatta a farle da amica. Sono uno schiacciasassi, nella migliore delle ipotesi» sghignazzò Kristal, facendo sorridere divertita Estelle. «Tu, però, potresti aiutarla a farla aprire. Ha avuto un’infanzia di merda – scusa il termine – a causa di diversi bulli, e ora si fida più o meno solo di Bright. Sai, con lui ha un legame d’anima, ed è più facile per lei accettarne la presenza. Magari, tu sarai in grado di farla sentire meno sola.»

«Ci proverò» assentì Estelle, prima di domandarle: «Che intendi con legame d’anima

«Sono come casse di risonanza. Quando le loro anime si toccano, vibrano come corde di violino» tentò di spiegarle Krissy, grattandosi pensierosa una guancia. «Se si amassero, potrebbero avere l’unione più forte e profonda che due persone potrebbero desiderare, ma così come stanno le cose, sono solo i due migliori amici del mondo. A ogni buon conto, avere un legame d’anima ti fa stare molto bene, o malissimo, perché senti come sta l’altro a un livello profondo e unico.»

Sgranando gli occhi, Estelle assentì ammirata e, grazie a questo, si chiese se Bright avesse chiamato Kate proprio per questo, invece dei genitori, il giorno dell’incidente. Con un legame simile, forse Kate aveva percepito il pericolo corso dall’amico, e lui aveva voluto tranquillizzarla.

Era possibile? O a Bright era venuto spontaneo chiamarla proprio perché era la sua migliore amica?

Con una scrollata di spalle, si ripromise di chiederglielo. Dubitava fortemente che Krissy conoscesse la risposta a quel quesito.

«Immagino che Bright non si sia esibito dinanzi a te per farti vedere come siamo, vero?» le domandò a quel punto Kristal.

«No, ma mi ha detto che siete piuttosto grossi.»

«Ti andrebbe di vedermi?»

Lappandosi nervosamente le labbra, Estelle assentì dopo qualche attimo e Kristal, iniziando a spogliarsi, chiosò: «Ecco una cosa scomoda. I vestiti esplodono, quando mutiamo, perciò è sempre meglio toglierseli prima.»

«Anche davanti ad altri?» esalò la giovane, avvampando di fronte al fisico asciutto e atletico della giovane.

«Sei nata nuda, no? Per noi è lo stesso. Nessun tabù… a meno che, ovviamente, non ci sia del tenero tra due lupi. Allora, un po’ di imbarazzo ci può essere, se i due non si sono dichiarati. Sai com’è… i maschi hanno un certo problemino in basso, se sono eccitati…»

Estelle scoppiò a ridere, di fronte a quell’esempio così diretto e Kristal, nell’accucciarsi, ammiccò e disse: «Non ti spaventare. La mutazione fa un po’ impressione, ma non fa male.»

Fu un tantino più cruento di ‘fa impressione’, ed Estelle dovette aggrapparsi al tronco della vicina quercia, per non crollare in terra ma, quando Kristal si rizzò sulle enormi zampe e la fissò con occhi color cielo, lei esalò: «Sei… splendida

Kristal si sedette sulle zampe posteriori, la lingua ciondoloni e la coda che spazzava il fogliame umido del sottobosco.

Lentamente, Estelle allungò una mano per affondare le dita nella folta gorgiera color fumo e, scoppiando a ridere per il nervosismo e l’eccitazione, esalò: «Oddio… sei veramente smoggy

La lupa sgranò i grandi occhi prima di esibirsi in una sorta di risata lupesca che, però, alle orecchie di Estelle parve piuttosto un assurdo tossicchiare.

Kristal assentì più volte col muso prima di darle un colpetto al fianco e indicarle di salire.

Estelle la guardò dubbiosa prima di notare il sopraggiungere della nebbia e, con un mezzo sorriso, mormorò: «Ti confonderai con l’ambiente, giusto?»

La lupa assentì e la giovane, balzandole in groppa, si strinse contro il petto gli abiti di Kristal ed esalò un sospirò di pura meraviglia, quando Kristal si eresse completamente sulle zampe.

«Non lascerai tracce, col tuo peso?»

Kristal allora scosse il capo e, calpestando il terreno intorno a loro, mostrò un altro prodigio legato al loro essere licantropi.

Semplicemente camminando sul sottobosco, venivano solo spostate le foglie, ma il peso del lupo non incideva sul terreno.

L’attimo dopo, Kristal usò gli artigli per scavare un solco nel terreno ma, anche in quel caso, si formò una buca, ma senza alcuna traccia di orme.

«E’ magia?» esalò Estelle.

La lupa scrollò il muso e la giovane, ridendo, chiosò: «E’ parte di voi.»

Kristal annuì e, con calma, si diresse nuovamente verso casa, mentre Estelle affondava la mano libera nel pelo caldo della lupa, assaporando quel lato di essere un licantropo.

Fu in un ambiente nebbioso e indistinto che Bright le vide tornare e, quando Estelle smontò dalla groppa di Kristal, lui la osservò abbracciare strettamente il collo della lupa prima di notare la sua presenza.

Sorridendole, il viso ancora rosso di eccitazione, Estelle lo raggiunse di corsa e, fermandosi a un paio di passi da lui, asserì: «Spero tu non ti sia preoccupato per me.»

«Krissy può avere un caratteraccio, ma non è cattiva. Mamma mi ha detto che, forse, hanno esagerato coi dettagli. Non ti sei spaventata, spero…»

Estelle ci pensò sopra un attimo prima di rispondere, ben decisa a essere onesta. Era inutile mentire su una cosa che, presto o tardi, sarebbe venuta a galla, perciò disse: «Sono in ansia perché non so se sarò una brava lupa, ma voglio mettercela tutta, perché non amo perdere. Purtroppo, sono molto competitiva.»

«I lupi, tendenzialmente, lo sono. Quindi, questa tua caratteristica verrà solo accentuata» le spiegò lui, sorridendole.

Ammiccando, lei allora disse: «Oh, bene. Allora, Kristal troverà un’ottima allieva, in me.»

«Darò una mano anch’io, quando Kristal sarà impegnata sul confine, e faremo di te una lupa degna di tale nome. Non ti abbandonerò a un destino che non hai chiesto» le promise lui, con decisione.

Estelle gli sorrise con dolcezza, mormorando: «Devi essere davvero un bravo capo, se tratti tutti i tuoi sottoposti con la stessa attenzione che mi stai tributando.»

«Spero sempre di far bene, ma con te mi sento anche responsabile, perciò mi impegnerò doppiamente… e, vista la nebbia che si è alzata, ti accompagnerò a casa» le disse lui, guardandosi intorno dubbioso.

«E tu?» domandò lei, prima di darsi una pacca sulla fronte e scoppiare a ridere. «Che sciocca… farai come smoggy

«Hai capito il duplice significato dei nostri nomignoli, eh?» ammiccò Bright.

«Il vostro carattere… e il vostro pelo» annuì Estelle.

Accompagnandola all’auto, Bright le disse: «I miei genitori vorrebbero essere presenti alla mutazione, se per te non è un problema. Vogliono essere d’aiuto.»

«Beh, per me non c’è alcun problema. Non credo che sarò un bello spettacolo, visto che sicuramente piangerò ma, se vogliono essere presenti, sarà un piacere.»

Ancora Bright si sentì rimordere la coscienza e, una volta che fu salito in auto per riaccompagnare Estelle a casa, strinse le mani sul volante e mormorò roco: «Farò di tutto perché le cose vadano nel migliore dei modi.»

Estelle non poté che sorridere, di fronte al suo evidente stato di prostrazione.

Le era più che chiaro il fatto che Bright si sentisse in colpa nei suoi confronti, e sentisse il bisogno di rassicurarla e proteggerla in ogni modo da ciò che stava per accaderle.

Non che lei non ne avesse paura – non era mai stata brava a sopportare il dolore – ma, messa di fronte alla famiglia di Bright e alla loro estrema gentilezza, non aveva potuto che sentirsi al sicuro e protetta.

Certo, vi sarebbero stati artigli e zanne, ma anche abbracci e parole di conforto. Non era solo un mondo in cui vigeva un rigoroso status sociale, ma anche uno dove potevi sentirti in piena condivisione con ciò che ti circondava.

«Domani ci aspetta l’università, foggy. Pensa a questo» gli disse lei, dandogli una pacca sulla spalla.

Lui non poté che affondare nel suo sguardo e abbeverarsi alla fonte della sua forza, che Estelle pensava di non possedere affatto. Se solo avesse saputo quanto, invece, stava affrontando con coraggio tutta quella situazione assurda!

Non poteva però parlargliene, dirle ciò che realmente pensava di lei, o avrebbe detto troppo, creandole solo confusione.

No, non era davvero il momento per aprire il proprio cuore.






 

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Capitolo 36
*** Reversal - Parte 4 (Estelle/Bright) 2003 ***


 
4.
 
 
 
Approssimarsi al plenilunio era stato, per lei, come affrontare il lento avvicinarsi di un esame difficilissimo, e di cui conosceva poco o nulla.

Ogni sera si era persa in contemplazione del cielo attraverso il suo telescopio e, a ogni nuovo spicchio di luna in più, Estelle si era sentita meno sicura in se stessa rispetto al giorno precedente.

Il fatto di dover tacere tutto ai suoi genitori non l’aveva certo aiutata, ma la presenza assidua di Bright nella sua vita, e l’appoggio di Kristal, l’avevano fatta sentire meno sola.

Il pomeriggio che avrebbe preceduto il plenilunio Kristal sarebbe passata a prenderla, concedendo a Estelle una scusa per uscire di casa senza destare troppi sospetti nei suoi genitori.

Vederla con una ragazza avrebbe permesso loro di dormire sonni tranquilli, sapendola via per l’intero week-end. Se si fosse presentato Bright alla porta, invece, avrebbero avuto pensieri ansiosi fino al suo ritorno, e forse anche in seguito.

Fu quindi con un sorriso di aspettativa e un segreto panico dentro di sé, che Estelle andò ad aprire la porta, quando udì lo squillo del campanello.

Vedere Kristal in maniche di camicia, jeans e stivali dal tacco alto, mentre i corti e morbidi capelli castani erano pettinati alla perfezione, esaltandone i riccioli i riccioli morbidi e brillanti, sorprese non poco Estelle.

In quei giorni, le era parsa più una persona da scarponi da trekking e zaino in spalla ma, di fronte ai genitori di Estelle, si presentò con la sua divisa migliore e con un sorriso allegro in viso.

Dopo essersi presentata e aver chiacchierato del più e del meno per una decina di minuti, dando sfoggio di una parlantina quasi stordente, si scusò infine con Anthony e Sandra Beauchamp nell’osservare spiacente l’orologio.

Questo disse a Estelle che il tempo era giunto; non potevano più attendere. Doveva prepararsi a diventare un licantropo.

Salutati perciò i genitori, la giovane uscì in fretta da casa assieme all’amica e, nel salire in auto, mormorò: «Sento un prurito fastidioso alle mani. Vuol dire qualcosa?»

«Senti la luna. Anche se sono solo le quattro del pomeriggio e la sua levata avverrà solo tra diverse ore, il mutamento sta già rimescolando il tuo sangue. Ma non temere, è solo un buon segno.»

«In che senso?» si informò Estelle.

«Se sei così sensibile al DNA di Bright, quando ancora mancano così tante ore alla levata lunare, significa che la lupa non avrà difficoltà a trovare la strada. Vuole uscire. Non ti creerà difficoltà. E’ assai raro, sai?» le spiegò Kristal, sorridendole orgogliosa. «Di solito, il prurito inizia solo pochi minuti prima della levata lunare, o per niente, se vogliamo essere onesti. Quelli, sono i casi peggiori.»

Arrossendo suo malgrado nel sentir parlare del DNA di Bright che, letteralmente, la stava cambiando dall’interno, Estelle mormorò: «Evidentemente, ho un lato animalesco che non sapevo di avere.»

Scoppiando a ridere, Krissy replicò: «Può essere. O magari, qualcuno dei tuoi antenati era uno di noi, o è stato un neutro, perciò il DNA di Bright non ha fatto altro che solleticare ciò che già avevi dentro di te. Forse, potremmo chiedere a Kate di curiosare nel tuo passato. La sua famiglia si occupa di alberi genealogici anche per questo.»

Estelle si scrutò le mani aperte e si domandò se Kristal aveva ragione. Era mai possibile che, tra i suoi avi, vi fosse qualcuno che era stato un lupo, e le aveva trasmesso il gene recessivo che, ora, le stava facendo percepire la luna?

Poteva avere un suo senso, a ben pensarci e, per qualche strano motivo, la cosa le diede la carica.

Se un suo antenato era stato un lupo, e aveva avuto dei figli che proseguissero la sua stirpe, allora lei aveva qualche speranza di farcela, di non essere un completo fallimento.

«Non fallirai. Te lo giuro su quanto ho di più caro» le promise Kristal, dandole una pacca sul braccio.

Estelle assentì, credendoci con tutta se stessa.

Non sarebbe stata un fiasco, come lupo. Se il DNA di Bright stava risuonando nel suo corpo, doveva pur voler dire qualcosa!
 
***

Non le era parso strano che Kristal l’avesse condotta a casa propria ma, quando lei e la sua famiglia la invitarono a prendere la via del bosco – dopo essersi opportunamente cambiata – Estelle se ne chiese i motivi.

Non che le spiacesse quella scampagnata imprevista. Novembre sapeva regalare colori bellissimi, e le foglie delle querce, così come dei carpini e delle betulle, avevano tinte che degradavano dal rosso fuoco al giallo paglierino.

Per quanto la Natura stesse per addormentarsi e riposare, sapeva essere comunque splendida e riservare sorprese e meraviglie.

Fu comunque Bright a spiegarle i motivi di quella passeggiata nel boschetto sito alle spalle dell’azienda agricola e che, di fatto, si trovava all’interno della loro proprietà.

«Il punto di maggior forza di un branco risiede nel Vigrond, e si trova sulla proprietà che, da secoli, appartiene alla mia famiglia. Il nostro Luogo di Potere, dove risiede la quercia sacra, è il luogo più sicuro in cui operare un cambiamento, poiché in quel posto vi sono linee energetiche molto forti.»

Estelle assentì, avendo erroneamente immaginato il Vigrond come un luogo più distante e isolato, quasi sperduto in un angolo remoto del territorio scozzese. Pensierosa, mormorò: «Sarà come trovarsi nel nucleo di una cellula.»

Bright le sorrise per diretta conseguenza, annuendo. «Sì, il Vigrond è il nostro nucleo, il nostro centro nevralgico.»

A quelle parole, Estelle si fece ancor più pensierosa e Bright, scrutandone il profilo chiaro e stagliato contro le ombre scure del bosco, si chiese cosa le stesse passando per la testa.

I suoi genitori, di qualche passo dinanzi a loro, li scrutarono curiosi per alcuni istanti, prima che Kristal attirasse la loro attenzione con delle sciocche e fatue chiacchiere.

Con un mezzo sorriso, Bright si appuntò mentalmente di ringraziarla.

Kristal aveva subodorato subito il suo interesse per Estelle e, con sua grande sorpresa, si era dichiarata ammirata dai suoi gusti in fatto di donne.

Se c’era una cosa su cui Krissy lo aveva sempre preso in giro, erano proprio le donne. Lui aveva sempre tentato di non farsi invischiare troppo da loro, esattamente come il giovane Duncan McKalister, Fenrir di Matlock.

Aveva sempre trovato che, data la sua condizione di capoclan, rimanere incastrato in una storia con una lupa, avrebbe portato più dolori che piaceri, perciò aveva sempre trovato il suo divertimento altrove, tra le umane.

Sempre, comunque, senza pensare di trovare tra loro qualcuna di veramente speciale a cui riservare il suo segreto più grande.

Con Estelle, invece, tutto era successo per puro caso. L’aveva notata alla fermata dell’autobus più di una volta, sempre in ritardo e sempre affannata per la corsa, in equilibrio sui suoi tacchi altissimi e sempre stupenda.

Di certo, era una femmina che sapeva attirare l’attenzione, ma non era stato questo a colpirlo quanto, piuttosto, il modo in cui la sua bellezza non aveva influito sulle sue amicizie.

Nessuno dei ragazzi di sua conoscenza l’aveva mai trattata con concupiscenza o desiderio, così come le ragazze non avevano mai provato invidia alcuna verso di lei.

Aveva un carisma raro, capace di convogliare su di sé attenzione senza, peraltro, scatenare odiose invidie o fastidiose ripicche.

Contrariamente a lui, poi, rideva e sorrideva spessissimo, tributando attenzioni a tutti coloro che la conoscevano.

Il modo con cui denigrava se stessa per i suoi cronici ritardi, o sul perché si ostinasse sempre a portare i tacchi quando, per la sua stessa salute, sarebbe stato meglio indossare sneakers, erano stati per lui momenti di assoluto divertimento.

«Sei un nucleolo» disse all’improvviso Estelle, rubandolo ai suoi pensieri.

«Come, prego?»

Lei gli sorrise divertita, e Bright sentì il suo povero cuore andare in mille pezzettini. Come avrebbe fatto, una volta divenuta lupa, a nasconderle ciò che provava? Davvero non lo sapeva.

Gesticolando con le mani, Estelle gli disse: «Sai, studiando chimica, ho a che fare spesso con cellule e quant’altro, così ho ripensato a ciò che mi hai detto dei licantropi, e mi è parso vi fossero molte attinenze con il comportamento delle cellule. Per questo ti ho definito nucleolo mentre Kristal, seguendo questo stesso discorso, sarebbe la membrana cellulare e, l’intero branco, il ribosoma.»

Scoppiando a ridere – e cogliendo così di sorpresa sia i genitori che la stessa sorella – Bright esalò: «Temo dovrai darmi ripetizioni, perché le mie conoscenze di scienze si fermano alle superiori, e ne ho ben poca memoria.»

«Se ti interessa, te lo spiegherò» gli promise lei prima di grattarsi un braccio e borbottare: «Hai un DNA parecchio dispettoso, sai?»

«Tu dici?» esalò lui, sollevando entrambe le sopracciglia per la sorpresa.

«In questo momento, vorrei essere un orso per avere la scusa di grattarmi impunemente contro una pianta» gli fece notare lei, sollevando ironica un sopracciglio biondo.

Lo aveva sorpreso sapere quanto Estelle stesse reagendo al suo DNA, soprattutto così tante ore prima del tempo previsto, e questo lo aveva reso irragionevolmente orgoglioso.

Naturalmente, Kristal lo aveva preso spudoratamente in giro e, quando Estelle era riapparsa al loro fianco dopo essere entrata in casa per salutare Mirabell e Bart, Bright aveva fissato irritato la sorella perché non aprisse bocca.

«Se desideri farlo, cara, noi non criticheremo di sicuro» intervenne a quel punto Johanna, volgendosi a mezzo per sorriderle.

«Ho ancora abbastanza amor proprio per non farlo ma, se tra qualche ora peggiorerà, sarò ben lieta di farlo» ironizzò Estelle, allungando una mano dietro la schiena per grattarsi tra le scapole.

Fu più forte di lui. Bright allungò istintivamente una mano per grattarle la schiena, e subito Estelle reclinò all’indietro il capo, esalando un sospiro di puro piacere e un ‘grazie’ pieno di godimento.

Kristal rise impunemente mentre William e Johanna tentavano di non imitare la figlia, il tutto mentre Bright arrossiva come un peperone ed Estelle si godeva semplicemente la grattatina.

“Mi sembra una ragazza che ha preso la cosa con molta praticità”, chiosò la madre di Bright, sussurrando nella testa del figlio.

“Cos’altro avrebbe dovuto fare? L’alternativa era impazzire, visto che le ho mostrato i miei artigli mentre sgusciavano dalla carne!”, brontolò per contro il giovane Fenrir.

“Sappiamo bene che vi sono stati casi in cui l’alternativa è stata l’isolamento sociale, se non peggio” sottolineò ora seriamente Johanna. “Prima dell’arrivo di Kate, non esistevano altri metodi per azzittire le voci di una mente debole e impreparata.”

“Lo so, e ringrazio gli dèi per averci portato Kate… ma rimango dell’idea che, anche se Estelle la sta prendendo così bene, io non debba considerarmi esente da colpe o da rimorsi.”

“Sei il solito, foggy… sempre a tormentarti” motteggiò la madre con calore misto a esasperazione.

“Mi hai partorito tu… di chi sarà la colpa?”

“No, mio caro, non dare a me la colpa del tuo carattere così uggioso. Comunque, mi ha fatto piacere sentirti ridere.”

“Non vederci del torbido, ma’…”

Johanna si limitò a sorridere da sopra una spalla e, svoltando verso destra sul sentiero che stavano percorrendo, disse: «Siamo quasi arrivati, cara.»
 
***

Pur se il prurito era aumentato a dismisura, l’attenzione di Estelle era tutta per la maestosa quercia che si stagliava come un’antica matrona dinanzi ai suoi occhi sgranati.

Le sue ampie fronde estendevano pesanti ombre tutt’attorno, e la radura circolare in cui cresceva sembrava avvolgerla come un abbraccio.

Sostenuta da diverse travi di sostegno, sistemate con attenzione sotto i rami più grandi, la quercia denotava i primi segni di cedimento ma, non di meno, appariva grandiosa e potente.

Lanciata un’occhiata a Bright, domandò: «Deve avere almeno seicento anni, vero?»

«Da quel che mi ha detto, ha già settecento anni» le spiegò lui, sorprendendola.

«Come… detto?!» gracchiò lei, lanciando occhiate alterne alla pianta e al giovane.

«Fenrir può parlare con la quercia sacra, che è depositaria dei nostri ricordi e di coloro che ivi sono stati lasciati a riposare. Il Vigrond è l’inizio e la fine di ogni lupo. Solo coloro che ci tradiscono non hanno il diritto di riposare nell’abbraccio della quercia» le spiegò lui, carezzando la corteccia rugosa della pianta come se fosse stata una sua vecchia, cara amica.

«Anche Kate può farlo, poiché le wiccan possiedono questo dono particolare che le lega non soltanto a noi, ma anche alle creature della Natura» aggiunse Kristal, sedendosi a gambe intrecciate tra le grandi radici della quercia. «A ogni buon conto, è bello starle vicino. Ti fa sentire protetto.»

Avvicinandosi a sua volta, Estelle la ammirò dal basso, ne scrutò le ombre scure all’interno della chioma, i rami nodosi e lunghissimi e mormorò: «Poiché è così anziana, perderà ogni ricordo, una volta che…?»

«… che ella morirà?» terminò per lei Bright, poggiandosi contro il tronco della quercia. «Non si offende, se ne parli. Lo sa. Infatti, stiamo già facendo crescere in serra una delle sue figlie, perché nulla vada perso. Quando sarà il tempo, Lei ci lascerà per abbracciare Madre e ogni più piccolo ramo, radice, foglia o pezzo di legno verrà suddiviso con il branco, perché possa rimanere all’interno del clan. Al suo posto, verrà piantata la nuova quercia, e ogni cosa proseguirà come è sempre stato in passato.»

Estelle ascoltò in silenzio la sua spiegazione e, nell’accucciarsi accanto a Kristal, poggiò le mani sulle radici all’esterno del terreno e mormorò: «Sei davvero molto bella. Mi spiace averti conosciuto solo adesso. Spero di poterti vedere ancora a lungo, prima del tuo trapasso.»

Bright sorrise a quel commento e le disse: «Ne è felice. Ora, sta brillando nel punto in cui sei poggiata.»

Rilassandosi gradatamente, Estelle assentì, sussurrando: «Lo sento. Mi sta calmando i pruriti. Immagino possa farlo perché il tuo DNA mi scorre dentro.»

«Può essere» buttò lì Bright, preferendo non pensare ai mille e più doppi sensi che, quell’innocua frase, aveva scatenato in lui.

Non riusciva davvero a capire se Estelle lo stesse facendo di proposito, o se il problema fosse solo suo. A ogni buon conto, Bright si ritrovò a fissare l’oscurità della foresta per nascondere agli occhi degli altri – ma non alle orecchie – il suo profondo imbarazzo.

“Davvero non capisco perché tu ti trattenga tanto, fratellone.”

“Pensi sul serio che sarebbe giusto dirle che mi piace, dopo quello che ho combinato?! Va ancora bene che Estelle la stia prendendo con filosofia. Non voglio darle altro a cui pensare!”

“Come vuoi tu, foggy…” motteggiò Kristal, lanciando un’occhiata a Estelle, completamente poggiata contro la quercia e preda di qualcosa di molto simile al piacere.

«Va meglio, Estelle?»

«Sì, Kristal. Non so cosa stia facendo di preciso la quercia, ma la ringrazierò per tutta la vita» mormorò la giovane, sospirando di puro sollievo.

Johanna sorrise divertita, ma disse con estrema serietà: «E’ anche possibile che, avendo il DNA di mio figlio al tuo interno, la quercia possa aiutarti a mutare.»

A quell’accenno, Bright fece tanto d’occhi e domandò: “E’ possibile, Madre?”

Lo sto già facendo…

“Come?” esalò sorpreso Bright, lanciando un’occhiata a Estelle, apparentemente rilassata e serena.

Ciò che la tua amica sta avvertendo non è altro che il Cambiamento. Lo sto agevolando perché posso agire su ciò che, di te, è in lei. La tua connessione con me mi unisce a lei, e questo favorisce il mutamento delle sue cellule, senza che esse vengano sollecitate con forza come avverrebbe solitamente con il richiamo della luna.

“Quindi, lei potrà…”

Quando vi sarà la levata lunare, la lupa uscirà senza che lei se ne accorga, e senza procurarle dolore. Ciò non vuol dire che non sarà spaventata, ma il suo corpo sarà già pronto, e non patirà il primo mutamento.

“Grazie, Madre…”

Dove posso aiutare, ben volentieri lo farò.

Tornando a sorridere con sicurezza, Bright scostò le mani dalla quercia e, raggiunta Estelle in un paio di passi, si accucciò dinanzi a lei e mormorò: «Non soffrirai. Ne ho la certezza.»

Lei sbatté le palpebre, sorpresa, e domandò: «Ma non hai detto che…»

«La quercia sta già operando il mutamento delle tue cellule, perché io sono dentro di te, e il nostro legame le consente di agire in tal senso. Quando sorgerà la luna, la lupa scaturirà come se tu lo avessi già fatto altre mille volte. Non dovrai averne paura.»

Ciò detto, le afferrò entrambe le mani e strinse forte per infonderle coraggio.

Estelle assentì alle sue parole e, nello scrutare le loro mani giunte, chiese: «Se strillerò di paura, però, voi non riderete, vero?»

William le sorrise comprensivo, asserendo: «Potrai urlare finché vuoi. Peggio di me che ho morso le foglie per tutto il tempo, o di Kristal che si rotolava nella neve, penso non potrai fare.»

«Ehi, faceva un male cane, papà…» brontolò la diretta interessata.

«Lo so, me lo ricordo bene. Perciò sono doppiamente felice che a Estelle sia risparmiato questo supplizio. Visto che non se l’è cercato, è il minimo che le potessero concedere.»

Quell’accenno fece tremare leggermente le mani di Bright, ma Estelle le strinse con maggiore forza, mormorando: «Va bene così. E se ti scuserai ancora una volta, giuro che ti darò un pizzicotto così forte da farti sanguinare.»

Ciò detto, allungò le dita per metter in evidenza le sue unghie laccate e lunghissime. «Non saranno artigli, ma fanno malissimo

Bright si lasciò sfuggire una risata sgangherata e, nel lasciarle le mani, replicò: «Ci credo. Davvero.»

«Bene» asserì lei, prima di ridacchiare e lanciare un’occhiata dietro di lei, in direzione della quercia. «Questo è stato interessante… grazie.»

La quercia brillò dinanzi a Bright che, imbarazzato, si scostò ulteriormente e borbottò: «Non voglio sapere i particolari, Madre, per favore…»

Ben sapendo che non si stava rivolgendo a sua madre Johanna, Estelle si coprì la bocca per coprire una risata sguaiata e, maliziosa, sussurrò: «Ti ha detto il perché del mio ringraziamento?»

«Sì» brontolò lui, allontanandosi a grandi passi verso il boschetto che circondava la radura.

I tre Cox rimasti osservarono dubbiosi Estelle che, scrollando le spalle, si limitò a dire: «Beh… i poteri della quercia hanno toccato una zona… intima… ed è stato assai gradevole. Scusate, non so in che altro modo dirlo…»

Kristal scoppiò a ridere al pari di William, mentre Johanna sorrideva comprensiva, asserendo: «Non devi scusarti di nulla, cara. Non abbiamo alcun tabù sessuale, nei branchi, e mio figlio fa solo il noioso perché si sente in colpa, tutto qui.»

«Smetterà mai?» si lagnò Estelle, fissando il punto in cui era svanito Bright. «So benissimo che non l’ha fatto apposta, ed è davvero assurdo avercela con qualcuno che non ha causato volontariamente un disagio a qualcun altro.»

«Cara, tutto ciò ti rende onore, ma Bright sa bene che la tua vita subirà molto più di qualche disagio. Come Fenrir, ha un elevato senso del dovere, e aver commesso un simile errore gli pesa molto» le spiegò Johanna, scrutando a sua volta verso il bosco.

«Beh… vedrò di convincerlo. Detesto le cose lasciate in sospeso» dichiarò convinta Estelle, prima di ripiegare all’indietro il capo e sospirare.

Kristal la sorresse prima di vederla crollare sdraiata in mezzo al fogliame e, ridacchiando, celiò: «Questo è il Cambiamento più divertente che si sia mai visto.»

«Se lo dici tu…» mormorò lei, arrossendo un poco.

«Sdraiati e appoggia la testa sulle mie gambe, prima di svenire in preda al piacere, ninfa dei boschi…» ironizzò a quel punto Kristal. «…tanto, prima della levata, mancano ancora più di tre ore.»

Estelle si lasciò quindi scivolare verso Kristal e, socchiudendo gli occhi, mormorò: «E’ come essere accarezzati da tante piume colorate…»

«Sicura di non esserti fatta di qualcosa, prima di uscire?» celiò Kristal, carezzandole i capelli.

«Piùùù che sicuraaa…» ciangottò a quel punto lei, sorridendole come se fosse ubriaca.

Lanciando uno sguardo preoccupato ai genitori, Kristal mormorò mentalmente: “A quanto pare, questo è un particolare del Cambiamento che non sapevamo. Sembra strafatta.”

William e Johanna si avvicinarono alle due, sedendosi loro accanto e, nell’accarezzare le caviglie della ragazza, i Cox si domandarono se tutto stesse procedendo per il verso giusto.

«Ti fa male da qualche parte, Estelle?» domandò William, continuando a carezzarle gentilmente la caviglia destra, mentre Johanna faceva lo stesso con la sinistra.

«No, signor Cox… va tutto meravigliosamente… e voi siete così gentili con me, tanto buoni… come potrei non voler diventare come voi?» mormorò Estelle, sollevando un braccio per carezzare il viso di Kristal.

“Bright, piantala di fare l’idiota e torna subito qui! Estelle ha qualcosa che non va, e noi non possiamo parlare con la quercia per sapere che succede!” sbottò a quel punto Krissy, richiamando all’ordine il fratello.

Neppure tre secondi dopo, Bright si ripresentò sotto forma di lupo ed Estelle, nel vederlo, sgranò gli occhi e disse: «Oooh, sei foggy… tuuutto bianco… e grosso… tanto grosso…»

“Che le succede? Perché sembra sotto l’effetto di qualche droga?” domandò subito Bright, preoccupatissimo.

Nel suo DNA si trovano tre ceppi diversi di creature mistiche, a quanto sembra. Lupi, wiccan e voluspe che, risvegliati dal tuo DNA, stanno facendo un po’ di confusione dentro di lei, portandola a straparlare, ma passerà tutto. Davvero.

Bright si accucciò a terra, sconcertato, e disse: “A quanto pare, il DNA di Estelle è un centrifugato di entità mistiche vissute in passato, e stanno chiacchierando tutti parecchio nella sua testa, al momento. In effetti, è come se fosse davvero drogata, ma è solo una cosa passeggera.”

“Beh, a quanto pare, anche se è stato un caso, questa ragazza aveva già le carte in regola per diventare una di noi” motteggiò il padre, dandogli una pacca sulla zampa.

«Sei un lupacchiotto…» disse Estelle, tutta sorridente. «… ma forse lupacchiotto non va bene. Sei un lupo GRAAANDEEE»

Kristal si esibì in un risolino, esalando: «Se non si ricorderà niente, io non spiffererò nulla, perché ho la netta sensazione che Estelle morirebbe d’imbarazzo, se sapesse ciò che sta facendo adesso.»

«Credo anch’io» convenne Johanna, carezzandola sul viso, e ottenendo per diretta conseguenza un sorriso pieno di rispetto e adorazione.

«Sei così bella, mamma di Bright…» ciangottò Estelle.

«Grazie, cara. Perché ora non riposi un po’? Ti sveglieremo noi più tardi.»

«Lo dicevo, io. Siete tutti così buoni…» sospirò Estelle, volgendosi su un fianco per accucciarsi meglio contro Kristal.

L’attimo seguente, stava già dormendo.

Con un sospiro collettivo, i Cox si rilassarono non poco e Johanna, sorridendo ai figli, chiosò: «Per lo meno, così, non rischierà di dire cose di cui potrebbe pentirsi, caso mai si ricordasse di qualcosa.»

«Bella pensata, mamma.»

«E ora, aspettiamo» chiosò William, lanciando uno sguardo al cielo sgombro di nubi. Ci sarebbe voluto ancora tempo, prima di poter scorgere la luna.
 
***

Estelle stava correndo nella foresta a piedi nudi, con il vento a schiacciarle il viso e scompigliare i capelli mentre Bright, al suo fianco, trottava allegro tra i cespugli, il suo corpo di lupo enorme e niveo che la sovrastava.

Lei rise e il lupo ululò, chiamandola vicino a sé. Sempre più vicino, sempre più…

Risvegliandosi di colpo, Estelle si drizzò a sedere, il volto pieno di meraviglia e le mani artigliate al terreno, quasi volesse essere certa di essere ancora viva, reale.

«Estelle, stai bene?» le domandò subito Johanna, preoccupata.

«Eh? Oh, sì, … stavo sognando e…» cominciò col dire lei, prima di fissare le sue mani e lanciare uno strillo di sorpresa e sgomento.

Subito, Bright rizzò le orecchie e si sollevò sulle zampe anteriori per scrutarla ansioso.

Estelle incrociò i suoi occhi di colomba, sgranò i propri e gracchiò: «Sto… sto…»

Il lupo annuì e la giovane, balzando in piedi, non fece in tempo a scostarsi dai suoi accompagnatori che il suo corpo andò letteralmente a pezzi, ricadendo sul fogliame della radura a quattro zampe, completa di coda e orecchie ritte sulla testa di lupo.

Kristal emise un fischio di pura meraviglia mentre William, aiutando Johanna a rialzarsi, esalava sorpreso: «Beh, la Mutazione più veloce e indolore della storia. Poco ma sicuro.»

«E tu badi a questo? Guardale il pelo!» gracchiò la figlia, mentre il muso di Estelle si spostava a destra e sinistra, pieno di meravigliato stupore, per ammirarsi e ammirare il mondo da quella nuova prospettiva.

Johanna le carezzò la schiena, affondando nel pelo morbido, e mormorò: «Erano secoli che non si vedeva un lupo dal pelo biondo oro.»

La lupa che era Estelle mosse i suoi primi passi su quelle enormi zampe e Bright, premuroso, le domandò: “Va tutto bene, lì dentro?”

“Oh… sei tu… è così strano sentirti a questo modo. La prospettiva è leggermente schiacciata, ma molto particolareggiata. E’ normale?”

“Tutto regolare. Senti qualcosa di strano?”

“A parte che ti parlo con la mente, sono un lupo e cammino su quattro zampe?” ironizzò Estelle, prima di sospirare. “Oddio… sono davvero un lupo. Cioè, sapevo che sarebbe successo, visto quello che mi hai detto, però…”

“Però, sentirlo sulla pelle è diverso” assentì Bright.

“Come mai sembrano sorpresi di vedere il mio pelo? Ha qualcosa che non va?”

“Affatto. E’ solo molto raro. Di solito, a parte noi Gerarchi, il pelo dei lupi si alterna tra il grigio e il marrone, con varie tonalità e combinazioni, ma il pelo dorato è assai raro, e con questo grado di purezza, poi, è praticamente una novità.”

“Assomiglia al colore dei miei capelli” ammise Estelle, scrutandosi la coda con infinita curiosità.

Bright la prevenne, dicendo: “Non mordertela. So che i primi tempi ti verrà l’istinto di farlo perché non sembra appartenerti, ma è meglio di no. Fa un male cane.”

Abbassando subito la coda, Estelle esalò: “Te la sei morsa?!”

“Ebbene sì. Come il novanta percento dei lupi di mia conoscenza. Viene spontaneo, ma è assai doloroso.”

Estelle, allora, si esibì in una risata di gola, che scaturì dalla sua bocca sotto forma di uno strano tossicchiare.

«Che ne dite di una corsetta?» propose a quel punto Kristal, già mettendo mano alla sua felpa.

Johanna, però, la bloccò e disse: «Lascia che sia tuo fratello a prendersi cura di lei, per stanotte. Ne ha bisogno.»

Krissy storse il naso ma assentì e Bright, dopo aver rivolto un cenno di ringraziamento alla madre, si rivolse a Estelle per dire: “Camminiamo un po’. Hai bisogno di prendere confidenza con il tuo corpo. Nel frattempo, i miei torneranno a casa per preparare qualcosa di buono da sgranocchiare. Ho idea che, tra qualche ora, sentirai una discreta fame.”

“Vorrei ringraziarli, però.”

“Va bene così, cara. Ci hai già ringraziati essendo ciò che sei” le disse Johanna, carezzandola tra le orecchie per poi darle un bacio sulla fronte. “Conosci te stessa, ora. Noi vi aspetteremo a casa.”

Ciò detto, i coniugi Cox e Kristal si allontanarono, lasciando che fosse Bright a prendersi cura di lei.

Così facendo, forse, Bright avrebbe potuto guarire i suoi sensi di colpa, e cancellare l’ansia dal suo cuore.






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Il sangue così particolare di Estelle (più precisamente, il suo bagaglio genetico) ha reagito a quello di Bright in un modo inaspettato e, anche grazie alla Quercia Sacra che ci ha messo del suo, direi che abbiamo avuto il Mutamento più strano di tutta la storia dei miei licantropi.

Spero che questa variazione sul tema vi abbia divertito. E se ve lo chiedeste, ciò che ha fatto la Quercia Sacra è possibile solo se colui che viene mutato ha subito una ferita da un Fenrir... e Madre decide di intervenire in tal senso. Quel che è successo a Estelle è un "di più". In caso di DNA normale, per così dire, Estelle avrebbe mutato senza provare dolore, ma non avrebbe avuto quella sorta di allucinazioni che invece ha avuto.

 


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Capitolo 37
*** Reversal - Parte 5 (Estelle/Bright) 2004 ***


 
5.
 
 
Campagne di Aberdeen – maggio 2004
 
 
Balzando abilmente lontano dalle zanne protese di Kristal, Estelle scartò di lato per attaccarla a un fianco, ma la sentinella non si fece prendere di sorpresa e, con un colpo di spalla, la gettò a terra.

Estelle ruzzolò sul terreno smosso e, sbuffando, si scrollò per liberarsi dal terriccio e borbottò: “La tua solita grazia. Un colpo del genere è degno di una palla da demolizione.”
“Che ci vuoi fare, ragazza? Sei stata brava a superare i primi tre combattimenti al primo sangue, ma non è detto che vada sempre così” ironizzò Kristal, sedendosi sulle zampe posteriori per poi scrutarla con aria furba.

Il battesimo del fuoco era avvenuto più di cinque mesi addietro quando, presentata da Bright e dai suoi Gerarchi, Estelle aveva ufficialmente iniziato a far parte del branco di Aberdeen.

mánagarmr di più alto lignaggio avevano preso parte alla riunione nel Vigrond e le avevano dato il benvenuto, chiedendole come si sentisse nelle sue nuove vesti.

Naturalmente, ligia alla promessa fatta a Bright, Estelle si era dichiarata entusiasta di aver chiesto a Fenrir di Aberdeen di poter diventare un licantropo.

Non che fosse una bugia, in effetti. Essere un lupo, a sorpresa, le piaceva molto, ed era soltanto il modo in cui erano avvenuti i fatti a essere un po’ distanti dalla verità che lei stessa aveva raccontato.

Kristal aveva immediatamente iniziato ad addestrarla, così che potesse battersi nel miglior modo possibile durante le battaglie al primo sangue.

Previste ogni novilunio in cui fossero stati chiesti incontri di tal genere, i contendenti dovevano combattere senza poter contare sul potere della luna, così da mettere in mostra solo le proprie capacità personali.

Quelle gare, inoltre, si svolgevano sempre nel Vigrond, così che la sicurezza degli incontri fosse totale.

Pur essendo appena arrivata, e non avendo ancora piena confidenza con il suo corpo di lupa, Estelle aveva preso di petto il problema, decidendo di partecipare subito ai primi incontri previsti.

Bright, naturalmente, non era stato d’accordo, ma Kristal lo aveva mandato al diavolo, promettendo a Estelle di renderla degna di quelle competizioni.

Così era stato e, dopo aver partecipato a sei combattimenti, Estelle era risultata essere la vincitrice in tre diverse competizioni.

Questo le aveva permesso di non essere più una lupa omega, e perciò relegata ai compiti più umili per un membro del branco.

Non che Estelle pensasse che, prendersi cura di anziani e bambini, fossero compiti disdicevoli, ma aveva ben presto capito che, per ottenere qualcosa da Bright, avrebbe dovuto impegnarsi. E molto.

La ritrosia nei suoi confronti era perdurata anche dopo il suo mutamento, e la strenua decisione di Bright di essere solo un amico, per lei, l’aveva indispettita, oltre che confusa.

Nessuno baciava una donna come lui aveva baciato lei, per poi dire “restiamo amici”.

Se Bright non aveva capito con le buone il suo interesse per lui, glielo avrebbe fatto capire divenendo la più potente mánagarmr donna all’interno del branco.

E se avesse dovuto impiegare altri sei mesi, o sei anni, non avrebbe avuto importanza.

“Piantala di pensare a Bright. Ti distrae e ti fa irritare… inoltre, non ho bisogno di vederlo con i tuoi occhi di lupa innamorata” brontolò Kristal, rimettendosi diritta.

Tra le poche a sapere ogni cosa, Kristal si era dichiarata disposta ad aiutarla ma, ovviamente, questo aveva anche voluto dire sottostare ai suoi rimbrotti e alle sue prese in giro. Notoriamente, Krissy non era molto propensa al romanticismo.

“Scusa tanto, ma tu non sbirciare, però. E’ maleducato, se non ti invito!”

“Tesoro, è difficile stare fuori dalla tua testa, quando sei circondata da cuoricini rosa e confetti di cioccolato…” la prese per i fondelli Kristal, sentendola ringhiare in risposta.

“Ti giuro, Krissy… quando troverai un uomo, ti massacrerò. Non ti lascerò stare un solo secondo.”

“Aspetta e spera, cara. Prima che un uomo mi riduca a questo modo, mi strapperò i peli della schiena a morsi.”

“Insensibile lupastra dei miei stivali” brontolò Estelle, tornando all’attacco.

Kristal rise, si scansò con agilità e le pestò la coda per puro dispetto, scatenando Estelle che, torcendosi come un serpente, le morse una zampa e sbottò: “Ti ho beccata!”

“Ahia! Stringi meno, goldy, altrimenti mi farai venire una vescica.”

“Parla quella che mi ha lasciato un marchio indelebile sul sedere!”

“Guarirà… col tempo, ma guarirà…” celiò Kristal, leccandosi la zampa contusa.

L’arrivo di Bright per la ronda serale interruppe la loro diatriba ed Estelle, ammirandolo in tutto il suo splendore niveo, si sentì sciogliere.

“Non fare il golden retriever, adesso…”

“Piantala, o giuro che metto in pratica adesso le minacce.”

“Golden retriever, golden retriever…” ciangottò per puro dispetto Kristal.

Per tutta risposta, Estelle raspò il terreno con una zampa posteriore, scaricandole addosso fogliame e terriccio e interrompendo di fatto quella burla antipatica.

Bright scoppiò a ridere di fronte al lupo argentato che tossicchiava e a quello dorato che, vittorioso, se la rideva gagliardo e, ironico, celiò: “Che ti ha fatto, Krissy?”

“Una cosa te me e lei… mi ha paragonata a un cane.”

“Davvero fastidioso” assentì Bright, scrollandosi tutto come se qualcosa di irritante gli avesse percorso il corpo. “Noi andiamo, Krissy. Se avete bisogno, ci trovate nel quadrante sud-est.”

“Addestrare Estelle come sentinella dopo soli cinque mesi dal suo battesimo, è una vera follia, Bright. Farai incazzare molte lupe, così. Sai che sono in tante a volere questo compito.”

“Chi è Fenrir?”

“Tu” bofonchiò Kristal.

“Estelle è brava e, anche se è una giovane lupa, ha ottime capacità deduttive, e in combattimento ci sa fare. Se ne faranno una ragione.”

Ciò detto, si incamminò verso il bosco assieme a Estelle, mentre il ghigno di Kristal cresceva a mano a mano che la coppia si allontanava.

“Sei fregato, fratellone, proprio fregato.”
 
***

Lo spicchio di luna alto in cielo era circondato da esuli cirri, che rendevano la sua luce più diafana e fioca, agli occhi dei due lupi.

L’aria frizzante della primavera spirava da sud, portando con sé gli odori della pianura e la presenza degli umani nelle città vicine.

Abituarsi agli aromi che la circondavano era stata, forse, la cosa più difficile da affrontare, in quei primi mesi. La sua rinascita come licantropa aveva portato indubbie novità positive, ma anche qualche scomodo particolare di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Affrontare l’università, la presenza degli esseri umani, dei gas di scarico, degli odori della mensa, tutto aveva cospirato per farla impazzire, e solo la presenza di Bright al suo fianco l’aveva salvata dal crollo.

Lui le aveva spiegato come compartimentalizzare ogni cosa, come creare degli schemi da seguire per non perdersi nel miasma di suoni e odori che la aggredivano e, poco alla volta, aveva trovato l’ordine nel caos.

Studiare chimica era divenuto immensamente facile, a quel punto. I costi della mensa erano quasi triplicati, invece.

Essere un lupo richiedeva molte energie e un uso smodato di proteine animali, tanto che sua madre era arrivata a chiederle dove mettesse tutto quel cibo, visto che non pareva ingrassare.

Il suo corpo, in effetti, si era asciugato, perdendo un poco le sue abituali linee morbide per acquisire in cambio più fibra e muscolo.

Era divenuta una donna che era anche lupa, agile e forte, con riflessi pronti e un traguardo fisso nella mente, per cui lei era disposta a fare di tutto.

“Sembri pensierosa. C’è qualcosa che non va?” le domandò Bright, strappandola ai suoi pensieri.

“No, va tutto bene. O meglio, andrebbe tutto benissimo se riuscissi a fare una cosa, ma non so come approcciare il problema.”

“Se posso aiutarti, dimmi pure. Sai che sono qui per te.”

“Davvero?” mormorò lei, bloccandosi a metà di un passo.

“Certo. Te l’ho detto. Farò di tutto perché questa tua vita da lupa mannara possa essere perfetta.”

Estelle, allora, si scostò da lui e, sotto gli occhi sorpresi e imbarazzati di Bright, mutò in donna, nuda e bellissima dinanzi a lui e completamente esposta al suo sguardo.

Fosse stata una qualsiasi altra donna del branco non avrebbe battuto ciglio, ma con lei… con Estelle non avrebbe mai potuto essere la stessa cosa.

Reclinando il muso, Bright distolse pudico lo sguardo ma Estelle sbottò dicendo: «Guardami, e affrontami. Sono stanca di camminare sulle uova perché tu non vuoi fare il primo passo!»

Sorpreso, Bright tornò a guardarla – rimanendo ostinatamente sul viso – e disse: “Estelle, io cerco solo di…”

«Sì, lo so, di essere una guida e bla, bla, bla… sei un ottimo amico, Bright, ma nessun amico mi avrebbe baciata come hai fatto tu! Ammettilo, e finiamo di prenderci in giro!»

L’irritazione di Estelle fomentò quella di Bright che, mutando a sua volta in uomo, replicò piccato: «Vuoi che sia onesto con te, dopo che ti ho ribaltato la vita per un mio stupido errore?!»

«Sì, maledizione! Sì!» gli urlò in faccia lei, sorprendendolo ulteriormente.

Ciò detto, annullò la distanza tra di loro, afferrò il viso di Bright con le proprie mani e lo baciò.

Non fu un bacio gentile, ma pieno di desiderio, di passione repressa troppo a lungo e sì, di un pizzico di rabbia per essere stata costretta a fare il primo passo.

Quella rabbia, però, scemò subito quando Bright mandò all’aria ogni controllo su se stesso e le avvolse la vita possessivo, sollevandola da terra e schiacciandola contro di sé.

Le divorò la bocca, affondando dentro di lei con una disperazione tale da portarlo ad ansimare ringhiare e, quando nessuno dei due ebbe più fiato, infine si scostarono.

Occhi negli occhi, Bright mormorò roco: «Perché con voi femmine è sempre così difficile?»

«Sennò che gusto ci sarebbe?» ironizzò Estelle.

Bright sorrise sghembo e, nel rimetterla a terra, poggiò la fronte contro quella della giovane, asserendo: «Sai che non sono un lupo come gli altri…»

«Come se non lo sapessi.»

«Io posso anche volerti, ma sai che dovrà esserci un’Ordalia. Le altre lupe del branco potranno mettere in discussione la mia decisione, se non ti riterranno una degna guida» le rammentò lui, carezzandole la lunga chioma bionda.

«Che ci provino. Tre, trenta o trecento, per me non farà differenza» replicò lei, scrollando le spalle. «Ti ho voluto prima ancora di conoscere chi fossi in realtà e, ora che so veramente chi sei, niente è cambiato, Bright. Mi affrontino pure. Troveranno una lupa disposta a tutto per tenersi il suo uomo. O lupo. Vedi tu.»

«Sono tuo, allora?» mormorò lui, sorridendole nel darle un bacio sul naso.

«Oh, …lo sarai. Puoi giurarci» gli promise lei, attirandolo a sé per baciarlo nuovamente.

Per quella notte, il confine non sarebbe stato controllato, almeno non nel loro settore, ma Estelle non pensò di scusarsi con il suo Fenrir neppure per un istante.

Aveva ben altro a cui pensare.
 
***

L’alba era ormai prossima, quando Estelle e Bright rientrarono a casa, e Russell li accolse con un uggiolio e una scodinzolata tutta contenta.

Ciò che era avvenuto nella foresta aveva lasciato entrambi muti quanto pieni di domande e, quando Bright prese tra le mani quelle di Estelle, i suoi occhi esprimevano amore, ma anche preoccupazione.

Lei tentò di dissipare la seconda con un sorriso, ma non funzionò granché.

Bright scosse il capo, la strinse a sé affondando il viso nei suoi capelli morbidi e profumati di foglie e, sconvolto, mormorò: «Non posso più ignorare ciò che provo per te… ma il branco non accetterà silenziosamente la mia scelta. E io non voglio vederti soffrire!»

Estelle gli avvolse la vita con le braccia, la fronte poggiata contro la spalla di lui e, sorridendo nell’oscurità ormai morente, replicò: «Soffrirei se tu non mi permettessi di battermi per averti.»

«Sei ancora giovane, Estelle, mo rionnag1, mentre alcune lupe tue coetanee sono tali da anni, e potrebbero sopraffarti con la loro semplice esperienza nei combattimenti. Non potrei accettare di doverti bandire – o peggio – se, durante l’Ordalia, tu perdessi» le rammentò lui, affranto.

«Una di loro diventerebbe tua compagna a vita?» domandò turbata lei.

«Prima Lupa, ma non mia compagna» scosse il capo Bright, lapidario. «Non accetterei mai nel mio letto una donna che non fossi tu ma, se perdessi l’Ordalia, non potrei neppure concederti il lusso di essere solo la mia metà. La lupa vincitrice avrebbe il diritto di scacciarti… o ucciderti

Estelle si irrigidì un poco, a quelle parole, ma assentì. Kristal glielo aveva ripetuto fino allo sfinimento, in quei mesi, e si era prodigata per allenarla proprio allo scopo di non vederle fare quella fine.

Anche Marla, su richiesta di Krissy, si era unita all’allenamento e, in quanto Sköll, aveva avuto un ruolo significativo nell’addestramento di Estelle.

Battersi contro un Gerarca era una delle cose più difficoltose – e pericolose – che potessero esistere, ed Estelle aveva imparato molto da lei e dai suoi consigli.

Naturalmente, Bright non ne era stato messo al corrente perché non interferisse, e Claus si era prestato più che volentieri ad aiutare il trio di donne, distraendo il proprio Fenrir da quell’addestramento segreto.

Ora, però, il tempo degli esami era giunto – non soltanto all’università – ed Estelle cominciava a sentire la pressione di quel duplice compito sulle spalle.

Conciliare le sue due vite era stato difficile, nel suo primo mese come licantropa, ma puntare al traguardo finale rappresentato da Bright, era stato un ottimo sprone per riuscire.

Come umana, dimostrandogli di essere in grado di sopportare e convivere con ciò che era diventata e, come lupa, mettendolo di fronte al suo amore per lui e alla sua decisione di abbattere qualsiasi ostacolo dinanzi al suo traguardo.

Sentirsi ricordare l’eventuale sconfitta, però, non le fece affatto piacere perché sapeva benissimo di avere poche possibilità, e tutte rette dal suo amore per Bright.

Sarebbe bastato, contro lupe degne del titolo di mánagarmr molto più di lei?

Certo, aveva vinto le sue battaglie e aveva risalito la gerarchia, ma rispetto a molte alfa di sua conoscenza, lei era ancora a metà strada, non ancora vicina alla vetta.

Il gap era evidente ai suoi occhi come a quelli di Bright che, pur lieto di essersi chiarito con lei, ora sentiva su di sé il peso di non essere libero da obblighi come avrebbe voluto.

Ciò nonostante, Estelle si scostò da lui, gli sorrise e disse: «Convoca l’Ordalia. Io sarò pronta, e ti avrò. Non esistono altre opzioni.»

Bright assentì, le baciò i dorsi delle mani e se ne andò in silenzio, affondando nell’oscurità soffusa dell’ora che precede il risveglio del sole.

Estelle attese di vederlo scomparire prima di salire in camera sua e, con un sospiro, si lasciò crollare sul letto per un riposino di qualche ora.

Non potevano esserci opzioni, nel suo piano. Nessuna scorciatoia. Nessuna indecisione.

Chiusi gli occhi, Estelle si coprì il capo con il cuscino, sospirò pesantemente e mormorò a se stessa: «Sei arrivata fino a qui, e ti sei messa in gioco con lui. Non puoi mollare in dirittura d’arrivo. Per una volta, devi essere in orario. Fare le cose al momento giusto.»

Sarebbe stato il colmo se la sua cronica mania di arrivare tardi, la facesse tardare anche in quel caso.

Doveva essere perfetta al momento giusto, non un secondo più tardi. Ma, soprattutto, doveva far comprendere al branco quanto tenesse a Bright, e quanto le sue intenzioni di essere una brava Prima Lupa fossero dirette anche a loro, e non soltanto al loro capo.

Aveva ormai capito più che bene che, diventare la compagna di Bright, non avrebbe significato soltanto essere la sua metà, il suo astro.

Significava anche e soprattutto essere d’appoggio al branco, supportare le decisioni di Fenrir e occuparsi delle anime dei loro lupi con l’aiuto di Kate.

Non voluto dire essere solo una fidanzata, ma la madre di tutti loro, dal più piccolo membro del clan al più grande e vegliardo.

Rigirandosi nel letto, Estelle sospirò sulla fodera del cuscino di piuma, si schiacciò il volto contro quella superficie morbida e profumata e borbottò: «Per ottenere lui, dovrò fare la mamma… un po’ prima di quanto avrei immaginato, e con un tantino troppi figli tutti in una volta, ma nessuno è perfetto.»

Un sorriso divertito le scaturì sul volto, al pensiero di alcuni robusti e orgogliosi lupi nelle vesti di suoi figli e, non potendoselo impedire, abbracciò il cuscino e mormorò: «Dopotutto, forse, sarà anche divertente.»
 
***

Estelle sorrise garbata a Melissa, madre di Kate e depositaria delle regole e delle divinazioni di Casa Alexander, una delle più antiche casate di wiccan di tutta la Gran Bretagna.

Invitata a entrare nella piccola casa vittoriana sita a poche miglia di distanza da Rickarton, Estelle si diresse assieme alla donna in direzione del salotto e lì, dopo essersi scusata, andò in cerca della figlia.

Accomodandosi sul divanetto dai cuscini fiorati, la giovane si guardò intorno curiosa e, con interesse, notò i bei centrini ricamati su mobili chippendale di squisita fattura.

La mano che aveva confezionato quelle opere a uncinetto doveva avere ben più pazienza di lei e, soprattutto, un gusto artistico davvero raro.

Non appena udì dei passi avvicinarsi alla stanza, però, Estelle lasciò perdere il suo attento esame per volgersi verso la porta e, sorridendo non appena vide Kate, esordì dicendo: «Ehi, ciao!»

«Ciao, Estelle. Come mai da queste parti? Non hai gli esami in questi giorni?» le domandò la giovane, sedendosi su una poltroncina dinanzi all’amica.

«Il prossimo è tra dodici giorni, perciò mi sono presa un momento per riposare la mente» scrollò le spalle Estelle, sorridendole.

La garbata ritrosia ai legami di Kate aveva innescato, in Estelle, un’autentica corsa agli armamenti, per così dire.

Se già in passato aveva sempre desiderato fare amicizia con le persone, essendo un animale sociale per natura, da quando era diventata un licantropo la cosa aveva preso proporzioni quasi imbarazzanti.

I baci e gli abbracci, per lei, erano diventati come l’aria e persino alcuni licantropi si erano ritrovati ad arrossire di fronte al suo entusiastico approccio.

Il vecchio Fenrir, di fronte a tanta passione, si era messo persino a ridere dichiarando che, se mai vi fosse stata donna umana adatta a diventare lupa, quella era sicuramente lei.

Estelle, quindi, si era presa carico di spezzare le barriere difensive di Kate una alla volta, se necessario e, nel frattempo, l’avrebbe abituata così tanto alla sua presenza da non farle notare i suoi tentativi di conquistarla.

Del tutto inconsapevole – forse – di essere al centro dei pensieri della lupa, Kate accavallò le gambe e disse: «Marla mi ha chiamato per dirmi del tuo progetto. Sei davvero sicura di voler affrontare un’Ordalia a sì e no sei mesi dal tuo battesimo?»

«Sarebbe sciocco far finta che Bright non mi interessa, o che io non interessi a lui, e soltanto per darmi il tempo di maturare come lupa» replicò Estelle, intrecciando le mani in grembo. «Non riesco a mentire fino a questo punto e, visto ciò che è successo con Bright, dubito che neppure lui potrebbe mentire, una volta di fronte a tutti.»

Arrossendo un poco, Kate mormorò: «Io non sarei mai riuscita a fare ciò che hai fatto tu.»

«Tu sei molto più precisa e puntuale di me perciò, come vedi, ognuno di noi ha pro e contro» chiosò Estelle, ammiccando. «Comunque, volevo sapere se sarai presente anche tu, all’Ordalia.»

«Di norma, una wicca dovrebbe essere presente, ma Bright preferirebbe che io non partecipassi» ammise Kate, sospirando e scuotendo il capo per l’esasperazione.

Accigliandosi leggermente, Estelle mormorò cauta: «Pensa che potrebbe essere troppo… brutale?»

«Quanto ti ha raccontato, di me, Bright?» le domandò per tutta risposta Kate, innervosendola un poco.

Estelle non voleva che Kate fosse costretta a raccontarle il suo passato. Soprattutto, non a causa di una decisione che lei aveva preso, ma Kate parlò comunque, di fronte al suo silenzio teso.

«Immagino ti abbia accennato a qualche atto di bullismo, o qualcosa di simile, vero?»

Estelle assentì, sempre più nervosa e Kate, sorridendole comprensiva, aggiunse: «Gli atti di bullismo ci sono stati, e molti. Gli inglesi sono ancora un po’ pedanti, sulla faccenda dei capelli rossi, e possono essere davvero indisponenti, quando vogliono. Ma non fu questo a… a lasciare il segno.»2

«Non mi devi dire niente, Kate. Se Bright ritiene che sia meglio così, io sono d’accordo con lui a prescindere» la bloccò Estelle, levando le mani come a fermarla.

Kate, però, replicò: «Quando sarai Prima Lupa, dovrai sapere…»

«Quando? Non, se?» cercò di ironizzare Estelle.

La wicca accennò un sorrisino, ma proseguì dicendo: «Sarà compito tuo prenderti cura delle anime del branco, mentre Bright si occuperà della loro salvaguardia. Sarete i due punti saldi del clan, mentre Claus e Marla saranno le spalle cui vi potrete aggrappare in caso di bisogno. Questo, deve essere una Prima Lupa per il suo popolo, così come Fenrir, Hati e Sköll.»

Estelle assentì grave e Kate, nel lasciarsi andare contro lo schienale della poltrona, quasi fosse stata schiacciata dai suoi stessi ricordi, mise a voce il suo personale incubo, la sua personale croce da portare sulle spalle.

La giovane lupa ascoltò inorridita ciò che le compagne di classe di Kate le avevano fatto, all’età di quattordici anni, e a ciò che ne era seguito per la wicca.

L’ospedale, il recupero dalle ferite da ustione, la denuncia alle ragazzine coinvolte, il lungo, estenuante processo e la condanna delle interessate a essere condotte in diversi carceri minorili.

«Brucia, strega… bruciate tu e i tuoi capelli da strega…» mormorò Kate, gli occhi azzurri persi nei ricordi e nell’orrore di quei momenti. «Mi urlavano questo, mentre mi gettavano addosso la benzina.»

«Oh, mio Dio…» esalò Estelle, rammentando finalmente quel particolare caso di cronaca e la sua protagonista.

Era stato scioccante, all’epoca ma, anche grazie all’intervento di avvocati compiacenti pagati dalla famiglia di una delle ragazze colpevoli, il tutto era stato messo a tacere molto in fretta.

Sui giornali si era parlato poco o niente dell’incidente e, come sempre avveniva, a quella tragedia se ne erano sommate altre, che avevano cancellato le precedenti.

«Credo che un paio di quelle ragazze siano in dirittura d’arrivo… non ricordo neppure bene quanti anni dovessero scontare» sussurrò Kate, gli avambracci allungati sulle cosce. «Non ottennero il massimo della pena solo perché io non morii, e venni salvata prima che la mia pelle potesse subire danni permanenti. Ho qualche cicatrice qua e là, sulle gambe, ma fortunatamente non ho subito altri danni gravi.»

«E’ già troppo» soffiò tra i denti Estelle, irritata.

«Fu un licantropo a salvarmi. Il richiamo del mio potere, sollecitato dalla paura, lo chiamò a me perché mi aiutasse e, solo grazie a lui, evitai il peggio» terminò di spiegare Kate, accennando finalmente un sorriso. «Il poveretto dovette portare per mesi e mesi delle fasciature su mani e braccia per simulare delle bruciature che non aveva affatto, ma alla fine mi fu di enorme aiuto anche sul piano giuridico.»

«Perché ti attaccarono? Erano figlie di Cacciatori?» esalò sgomenta Estelle.

«No. Erano solo sciocche, e se la presero con la ragazzina sola e isolata da tutti. La parte più ironica di tutto fu che, dopo questo episodio, cominciarono a chiamarmi Torcia Umana. Tre anni di scuole superiori a dover sentire quel nome, mi ha fatto odiare il fumetto dei Fantastici 4. E dire che li ho sempre adorati» chiosò Kate, cercando di fare dell’ironia.

Estelle impiegò un attimo per ricollegare la Torcia Umana ai fumetti sui Fantastici 4 e, con un risolino, Estelle esalò: «Povero Stan Lee… lui non ne ha di certo colpa.»

«Lo so… e neppure Jack Kirby, ma ancora fatico a riprendere in mano uno di quei fumetti» ironizzò Kate, passandosi le mani sul volto, colta da grande stanchezza. «Bright non vuole che io venga colta dal panico, vedendo sangue e dolore.»

«Ha perfettamente ragione. Anche se sai già come andrà a finire, perché vincerò io…» celiò Estelle, facendola ridere. «… preferisco anch’io che tu non sia presente. Ti racconterò io ciò che è avvenuto, ma in maniera edulcorata.»

«Mi sta bene. Ma devi vincere per forza, altrimenti nessuna delle altre contendenti ti permetterà di sopravvivere. Noteranno subito che Bright ha occhi solo per te, e non accetteranno mai di dividerlo con qualcuno che non sia una di loro. Per quanto le regole prevedano la doppia investitura a Prima Lupa e Prima Compagna, nessuna lupa accetterà questa condivisione di potere. Non siamo più nel secolo scorso.»

«Lo immaginavo, anche se Bright ha cercato di indorarmi la pillola» sospirò Estelle, scuotendo il capo.

«Vinci, Estelle. Così potrai raccontarmi il tuo combattimento» la pregò allora Kate, arrischiandosi ad allungarsi per stringerle con forza una mano.

La giovane lupa immaginò senza sforzi quanto fosse costato alla wicca quel gesto di comunione.

Per Kate era difficile fidarsi, e ancor di più cercare un contatto con le persone. Quella stretta di mano, perciò, era al pari con il caldo e focoso abbraccio che una persona avrebbe potuto mai ottenere.

«Non vi deluderò» le promise Estelle, ben decisa a non far soffrire né Bright né, tanto meno, Kate.






 

1: mo rionnag à (gaelico scozzese) mia stella

2: mi rifaccio a fatti realmente accaduti una decina di anni fa, quando un’intera famiglia della campagna inglese del sud fu costretta a emigrare in un altro paese perché i figli, entrambi rossi di capelli, rischiarono di morire a causa del brutale bullismo di cui erano stati vittime per anni, e proprio a causa del fatto di essere ginger.


 

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Capitolo 38
*** Reversal - Parte 6 (Estelle/Bright) 2004 ***


6.



 
Come previsto, l'apertura di un'Ordalia per permettere a Estelle di divenire la Prima Lupa di Bright, surriscaldò gli animi dell'intero branco.

Le lupe di Aberdeen, Stonehaven e Newtonhill furono messe al corrente dell'Ordalia perché ognuna di esse potesse vagliare, in tutta coscienza, l'opportunità di un'eventuale sfida.

Per un'intera settimana, Bright, Claus e Marla non fecero altro che rispondere a telefonate piene di curiosità, così come cariche di domande e, a volte, di insulti più o meno velati nei confronti della Prescelta.

Bright dovette sopportare in silenzio questi ultimi ma, alla fine, intervenne Claus a sedare i rimostranti più riottosi, sottolineando quanto, la giovane età mannara di Estelle, poco contasse ai fini pratici.

La notte di plenilunio stabilita per l’Ordalia, quindi, i mánagarmr più alti in grado, i Gerarchi, Freki e Geri si presentarono al Vigrond per ottemperare ai doveri legati a quel combattimento all’ultimo sangue.

Bright ripeté dinanzi ai presenti la sua decisione di prendere Estelle come Prima Lupa e, al tempo stesso, diede inizio alla sfida, accettando la richiesta di tre lupe di poter combattere contro la Prescelta.

Nello scostarsi dal centro della radura, illuminata soltanto dalla diafana luce lunare, Bright afferrò un braccio di Estelle, la attirò vicina e le sussurrò all'orecchio, con nient'altro che un alito di voce: «Ti amo.»

«Lo so» ammiccò lei, allontanandosi subito dopo per raggiungere il campo di battaglia e la sua prima sfidante.

Alta più o meno quanto lei, Julianna Greystar era più grande di Estelle di tre anni, oltre a essere una mannara nativa, e perciò ben più che abituata ai combattimenti.

Come Kristal, inoltre, era una sentinella del branco e, tra le mánagarmr donne, non aveva rivali nel corpo a corpo, pur se non era la prima nella gerarchia femminile.

Salutatala con un cenno, Julianna le domandò: «Poiché sei giovane, lascio a te la scelta. Preferisci lottare come donne o come lupe?»

Estelle si guardò intorno per un attimo, si tastò la lunga chioma dorata e infine celiò: «Sarò dispettosa, ma non credo di voler concedere a questi uomini la visione di due donne che si accapigliano a terra e si prendono per i capelli, mentre urlano come aquile spennate.»

Suo malgrado, Julianna rise e ammise: «Sì, temo che il risultato sarebbe questo, anche se mi ripugna ammetterlo. Non abbiamo voci profonde e roche, tali da emettere grugniti degni di tale nome. Saremmo assai ridicole, pur mettendoci tutto il nostro impegno.»

«Credo anch'io. Scusate in anticipo» asserì Estelle, inchinandosi poi leggermente ai presenti, che ridacchiarono nonostante la serietà del momento.

«E lupa sia, cucciola. Non avrò pietà alcuna, ovviamente, o non ti porterei il rispetto che meriti per aver tentato questa impresa» le ricordò Julianna, sfilandosi la felpa che indossava sopra a comodi pantaloni da ginnastica.

«Non chiedo niente di meno. Non voglio vincere barando» dichiarò per contro Estelle, facendo sollevare qualche fischio divertito e alcuni cori ammirati.

Julianna, da parte sua, sollevò un sopracciglio con aria interessata e chiosò: «E' chiaro che il nostro Fenrir tiene a te e, se ti dimostrerai degna, potrei concederti il ruolo di Prima Compagna per non ferire lui... ma la Prima Lupa sarò io.»

«Lo vedremo» si limitò a dire Estelle, togliendosi lo chemisier che indossava con nonchalance, misto a un pizzico di classe tutta femminile.

Julianna rise di fronte al suo corpo nudo e alle sue movenze naturalmente eleganti, e celiò: «Piccola sfacciata... mi spiace quasi l'idea di lasciare dei segni su un corpo così bello.»

«Non il naso, per carità... è la parte che mi piace di più» ironizzò Estelle, lasciando il suo abito a Kristal prima di accucciarsi per mutare. «Tutto il resto potrei sopportarlo, ma non un naso storto.»

Julianna non disse nulla, si limitò a imitarla e, sotto gli occhi terrorizzati di Bright, le due donne mutarono in lupe.

La barriera di contenimento delle auree venne elevata dai mánagarmr quando la trasformazione fu completata e, mentre Marla afferrava un braccio del suo Fenrir per trattenerlo, la battaglia ebbe inizio.

Ricordando più che bene gli insegnamenti di Kristal, Estelle cercò di puntare tutto sulla velocità e sul ritmo.

Non poteva permettersi di protrarre troppo a lungo i combattimenti, o si sarebbe sfiancata prima di terminare il terzo atto di quella sfida che, già dal primo colpo inferto, le sembrò subito quasi impraticabile.

Scrutare il volto turbato di Bright, però, le diede lo sprone giusto per non abbattersi e tenere conto di ciò che sapeva dei lupi mannari.

Erano creature altamente feroci quanto orgogliose e, nella loro forma animale, gli istinti primari avevano spesso il sopravvento sulla logica, se portati agli estremi.

Il tutto stava nel giocare d'anticipo e, se possibile, d'astuzia.

Julianna l'avrebbe sicuramente battuta, sul lungo periodo, vista la sua esperienza nei combattimenti, perciò doveva coglierla di sorpresa e pensare in modo anticonvenzionale.

Avrebbe dovuto comportarsi come un linfocita T αβ, assemblando ciò che conosceva del suo avversario per predisporre un attacco ad hoc per ciascuna lupa.

Fu per questo che, invece di attaccare a testa bassa e con forza come stava facendo Julianna, si lasciò avvicinare pericolosamente, senza dare l'idea di essere in grado di fermarla.

Vi furono molti gridolini spaventati e qualche fischio eccitato ma, quello che quasi la distrasse dal suo compito ultimo, fu l'urlo mentale di Bright, terrorizzato da ciò che stava vedendo.

"Scusa se ti sto spaventando tanto..." riuscì a dire lei, prima di farsi atterrare volontariamente da Julianna.

Ancora grida, qualche incitamento alla lotta e, proprio mentre Julianna stava per affondare vittoriosa i denti nella sua gola, Estelle spinse sullo stomaco della lupa con tutte e quattro le zampe, sbalzandola lontano.

La sorpresa e la speranza, mista al disappunto, si levarono tra i presenti mentre Estelle, rialzandosi in fretta, accorreva da una stordita Julianna – ruzzolata malamente a terra dopo quel colpo imprevisto – per approfittare della situazione.

Era chiaro quanto poco si fosse aspettata una sua replica, e questo l'aveva resa impreparata alla caduta, che le aveva causato una distorsione alla caviglia posteriore destra.

Spiazzata da quel colpo e irritata per la propria superficialità, Julianna snudò i denti per attenderla al varco, ma ancora Estelle mancò l'appuntamento, limitandosi a scavalcarla all'ultimo secondo per poi atterrare dietro di lei.

L'avversaria non fece in tempo a volgersi per attaccare nuovamente, rallentata dal dolore alla caviglia, ed Estelle ne approfittò per afferrare la coda di Julianna, affondando i denti con violenza.

Il guaito di Julianna riverberò nel Vigrond, mentre la sua aura ferita rimbalzava contro le pareti della barriera contenitiva.

Estelle affondò ulteriormente i denti e, con una zampa, artigliò la coscia di Julianna per bloccarla a terra.

La lupa cercò di morderla per allontanare la zampa, ma quella posizione di sudditanza non le permise di essere efficace, straziata com'era dal dolore alla coda.

Estelle, a quel punto, affondò gli artigli nella coscia con maggiore forza e, nella mente dell'avversaria, urlò: "Arrenditi! Non voglio amputarti la coda, ma lo farò, se non smetterai di opporti!"

"Cedo! Hai la mia parola!" le urlò per diretta conseguenza Julianna, atterrita all'idea di perdere quell'arto così prezioso per qualsiasi quadrupede.

Estelle allora si allontanò immediatamente e, in barba a tutte le regole di condotta, iniziò a leccare le ferite procurate a Julianna, sorprendendo quasi tutti i presenti.

Kristal e i Gerarchi, però, non vi trovarono nulla di strano, avendo ormai imparato a conoscere Estelle e il suo dolce carattere.

La ragazza non avrebbe mai coscientemente fatto del male a nessuno, perciò non era strano che volesse occuparsi di Julianna pur se, fino a un attimo prima, avevano combattuto.

Julianna la lasciò fare – a sua volta sorpresa da quel trattamento – fin quando, rimettendosi in piedi a fatica, le diede un colpetto col muso e la leccò dietro l'orecchio.

In un mormorio, le disse: "Sei stata scaltra. Hai usato la mia forza e la mia foga contro di me. Ma non funzionerà con Melanie e Susan. Presta attenzione. Mel ha un problema all'occhio destro, ma è molto veloce, mentre Susan è abile negli spostamenti laterali, ma non è molto forte fisicamente. Non più di te, per lo meno."

Sorpresa da quei suggerimenti non richiesti, Estelle replicò grata: "Sei gentile ad aiutarmi... e mi scuso se ti ho fatto male. Non era davvero mia intenzione."

"Bright avrà il suo bel daffare, con te, se vincerai. Sei dolce e carina, ma hai anche fegato da vendere, e non ami chi ti vuole mettere i piedi in testa. Se presterai attenzione alle tue avversarie, diverrai un'ottima Prima Lupa" le disse per contro Julianna, andandosene dal campo di lotta con passo claudicante e il pelo intriso di sangue.

Estelle la scrutò spiacente ma, ben sapendo che non era ancora finita, lasciò il suo dolore per un secondo momento, così da potersi concentrare sulle sue prossime avversarie.

Fu Melanie a presentarsi sul campo di scontro, già debitamente mutata in lupo e, dopo un cenno del muso, le disse: "Hai combattuto bene, te lo concedo. Ma l'astuzia non vince su tutto."

"Ne sono consapevole" assentì Estelle, raspando a terra con fare quasi distratto.

"Se per te va bene, possiamo cominciare. O preferisci risposare un poco?"

Estelle scosse il muso, continuando a raspare il terreno smosso dal precedente combattimento.

"In questo momento, vorrei sdraiarmi su un divano e dormire per una settimana, ma penso non si possa, vero?" replicò con una certa ironia Estelle, all'indirizzo di Melanie.

"Temo di no ma, se Susan è d'accordo, potremmo concederti un'ora di tempo per riposarti. Dopotutto, sei solo una cucciola, nel nostro mondo."

Il tono sincero e per nulla derisorio di Melanie portò Estelle a domandarle: "Perché ti batti contro di me?"

"Per il bene del branco. Non ho nessuna animosità nei tuoi confronti, bambina, ma devo essere certa che tu vada bene per noi, non solo per Bright. Quello, mi è già evidente da come ti guarda, ma in ballo c'è molto di più di un bel giovanotto."

Estelle assentì seria, a quelle parole e, guardandosi intorno, incrociò gli occhi di coloro che stavano osservando con attenzione e interesse l'Ordalia.

No, non c'era solo Bright, in gioco. C'era davvero molto di più. Ognuna delle persone presenti rappresentava altrettanti lupi che non erano potuti intervenire, e che dipendevano tutti da Bright e dalle sue decisioni.

Loro sarebbero divenuti i suoi figli, la sua incombenza, se avesse vinto. Non doveva dimenticarlo neppure per un istante.

Fu per questo che, sussurrando uno 'scusa' all'indirizzo di Melanie, Estelle diede una forte zampata al terreno smosso, sollevando un gran polverone di terra ed erba fresca.

Impreparata a un simile trucco, Melanie cercò come poté di proteggere l'occhio più debole da quella nuvola di polvere, ma tutto fu vano.

Tossendo e sputando e starnutendo, Melanie indietreggiò di alcuni passi per portarsi a distanza di sicurezza dai denti di Estelle, ma lei non attaccò affatto.

Tornò donna sotto gli occhi sorpresi e increduli di tutti e, a grandi passi, raggiunse Melanie per poi montarle a cavalcioni e stringere le braccia attorno alla sua gorgiera in una presa ferrea.

Melanie si ritrovò così Estelle sulla schiena, le sue gambe strette attorno al torso e le braccia avvolte al collo in una sorta di cappio sempre più stretto, sempre più soffocante.

«Cedi, cedi, cedi...» mormorò Estelle alle sue orecchie, strizzando gli occhi a causa dello stress. Mantenere quella posizione di dominanza, nonostante i tentativi di Melanie di sbalzarla dalla sua schiena, era più complicato di quanto avesse immaginato quando aveva ideato quel piano di attacco.

Melanie non le dette ascolto e come ultimo, disperato tentativo, si gettò a terra su un fianco, sperando che il colpo scuotesse a sufficienza Estelle, in modo tale da allontanarla da sé.

Ciò, però, non avvenne e Melanie, ancora stretta nella sua morsa, borbottò nella sua mente: "Come diavolo ti è venuta in mente una mossa del genere?"

"Julianna mi ha parlato del tuo occhio. Scusa, è stata una cosa sporca, nel vero senso della parola, ma non posso concedere nulla a nessuno" replicò nella mente dell'avversaria Estelle.

Melanie, allora, smise di dimenarsi, scoppiò a ridere e asserì: "E così, quella chiacchierona di July ti ha detto del mio occhio? Ma tu guarda... beh, puoi allontanarti, cucciola. Per me abbiamo finito. Cedo."

"Come?" esalò Estelle, non del tutto convinta.

"Se Julianna si è spinta a darti una dritta per vincere, significa che vuole fidarsi di te. Io, a mia volta, mi fido del giudizio di Julianna, perciò, fai i tuoi debiti conti."

Lentamente, Estelle lasciò quindi la presa e Melanie, scivolando via dalla sua presa, si rimise diritta sulle zampe, le leccò il viso un paio di volte per liberarla dalla polvere e aggiunse: "Sei stata abile e, al tempo stesso, umile. Inoltre, non hai colpito il mio punto debole con violenza, limitandoti ad approfittarne senza procurarmi ulteriori danni. Questo, denota bontà d'animo. Il punto, ora, è un altro."

"E quale?" domandò Estelle, cercando di rimettersi in piedi, ma senza successo.

L'attimo seguente, complice la diminuzione dell'adrenalina – fin lì incanalata nel suo corpo a causa del combattimento – Estelle emise un singulto strozzato che, al secondo tentativo, divenne un urlo di dolore straziante.

Nel cadere su un fianco, il corpo massiccio di Melanie aveva spezzato la tibia e il perone destro di Estelle che, ora, premevano contro la carne, spezzati di netto ma non esposti all'aria.

Subito, Bright si mosse per raggiungerla ma Melanie gli ringhiò contro, sbottando: "Non un passo in più, Fenrir! Sai che non puoi aiutarla!"

Bright la fissò malissimo, ma Claus intervenne lesto per bloccare il suo Fenrir prima che commettesse qualche idiozia dettata dall'amore.

Trascinandolo indietro quasi di peso, Hati borbottò al suo orecchio: «Vuoi mandare all'aria gli sforzi di Estelle? Stai buono al tuo posto, per tutti gli dèi!»

«Ma è ferita!» sbottò inviperito Bright, divincolandosi.

«Lo sappiamo bene, ma non spetta a te intervenire» gli rammentò Marla, prima di aggiungere: «Inoltre, non ce n'è proprio bisogno. Guarda.»

Bright smise di divincolarsi giusto per comprendere cosa volesse dire la sua Sköll e, sotto i suoi occhi sorpresi quanto increduli, Melanie e Julianna – in forma umana – aiutarono Estelle a distendersi a terra.

A quel punto, Melanie la tenne bloccata per le spalle mentre Julianna, dopo aver tastato delicatamente l'arto rotto, lo afferrò con decisione e lo tirò per riallinearlo.

Il grido di dolore che si levò nel Vigrond fu così feroce che molti lupi impallidirono, mentre altri si fecero velocemente il segno della croce, come se un simile scongiuro potesse servire a Estelle.

Lacrime feroci discesero sulle gote di Estelle mentre Julianna controllava alla bell'e meglio che le ossa si fossero riallineate correttamente.

Melanie carezzò gentilmente il viso contratto dal dolore di Estelle, tergendole le lacrime e sussurrandole parole di conforto, mentre Susan osservava l'intera scena nel più completo silenzio.

Non si era mossa per aiutare, ma neppure aveva protestato per quell'interruzione dell'Ordalia e, in quel momento, stava scrutando le tre donne nel mezzo del Vigrond con occhi imperscrutabili.

«Le ossa sembrano ben allineate, Estelle, e ora provvederò a steccarti l'arto perché non si muovano, ma non puoi combattere così. Devi cedere» le disse spiacente Julianna, afferrando da uno dei lupi una provvidenziale cassetta di pronto soccorso.

Estelle, però, non la ascoltò e, con tutta l'ironia che le riuscì di trovare, gracchiò: «A quanto pare, siete attrezzati.»

«Mai uscire senza, se sai che dovrai azzuffarti» chiosò Julianna, sistemandole alcune stecche di resina attorno alla gamba per poi fasciarle strettamente. «Se rimarrai ferma, la gamba si salderà nelle prossime ventiquattro ore, e tu potrai tornare a camminare come se niente fosse ma, se combattessi...»

«... rimarresti storpia, come minimo, o potresti anche lacerare qualche vaso sanguigno e morire dissanguata» aggiunse Melanie, tenendola bloccata a terra.

«Ma io devo continuare» protestò Estelle, pur sentendosi prossima allo svenimento. Il dolore era così lancinante da farle vedere le stelle, ma non voleva rinunciare.

Aveva messo tutta se stessa, in quell'Ordalia, e non voleva rinunciarvi proprio ora che era a un passo dal suo compimento.

«Estelle, ascolta. Potrai nuovamente tentare. Io non avrei nulla da ridire, e non credo che neppure Melanie o Susan avrebbero...» iniziò col dire Julianna, prima di venire interrotta.

«Non parlare per me, Julianna» sbottò Susan, avanzando verso di loro con passo tranquillo. «Inoltre, non credo che Estelle sia così codarda da attendere la prossima luna piena, per replicare questi scontri. Siete voi due, piuttosto, che mi date da pensare.»

«Non fare la stronza, Susan. Non vedi che non può combattere? Rischierebbe la vita sapendo di perdere per manifesta inferiorità fisica!» le ringhiò contro Melanie.

Susan, allora, sorrise derisoria a Melanie e replicò: «Questa lupetta vi ha fatto il lavaggio del cervello? O siete diventate dei pan di spagna tutto di colpo?»

«Abbiamo un cuore, ed Estelle ha dimostrato di essere degna! Non dirmi che vorresti davvero combattere contro di lei, così com'è ora?!» le ringhiò a sua volta contro Julianna, levandosi in piedi per proteggere Estelle col proprio corpo.

Susan rise di gusto, di fronte a un tale comportamento. Estelle, per contro, allungò una mano per sfiorare la caviglia di Julianna e disse: «Ti prego, non scontrarti con lei. E' compito mio.»

«Ascoltala, July, se non vuoi che ti metta col culo a terra in un paio di mosse» soggiunse Susan, tornando mortalmente seria prima di accucciarsi accanto a Estelle.

Il Vigrond era immerso nel più completo silenzio, nessuno aveva idea di ciò che sarebbe avvenuto, né se Susan avrebbe approfittato della menomazione di Estelle per vincere su di lei.

Bright era trattenuto a forza dai suoi compagni, impossibilitato a intervenire e straziato dal dolore che sentiva provenire dal corpo di Estelle.

"Smettila di lagnarti, fratello, e ammira la sua forza di volontà. Non ha bisogno del tuo dolore, ma della tua fiducia" lo rabberciò Kristal, fissandolo gelida all'altro capo del Vigrond.

"Non sai cosa vuol dire vederla in quello stato!"

"Pensi che il tuo amore valga più di quello degli altri?! La amo come una sorella, e soffro per lei e con lei, ma non le farò mai capire quanto io stia patendo nel vederla così. Togliti quell'espressione tirata dal viso e sii orgoglioso, maledizione!"

Bright la fissò malamente per alcuni istanti ma, suo malgrado, fece come consigliatogli da Kristal.

Aveva dannatamente ragione, pur se gli si rivoltava lo stomaco al solo pensarci.

Non poteva mostrarsi debole, o farle percepire quanto – quell'Ordalia – lo stesse facendo impazzire, poiché era vitale che lei lo vedesse forte, quanto orgoglioso di lei. Avrebbe avuto tutto il tempo in seguito, per crollare, ma in quel momento doveva essere la roccia a cui lei poteva aggrapparsi.

"Ora va un po' meglio."

"Krissy, giuro che ti sculaccerò ben bene, più tardi" la minacciò Bright, pur se con un mezzo sorriso stampato in viso.

"Dovresti riuscire a prendermi... e non è del tutto scontato."

Bright la lasciò perdere, preferendo concentrarsi su Susan e sulle sue mosse successive.

Da quando si era accucciata accanto a Estelle non aveva più detto una parola, limitandosi a guardarla con uno sguardo che metteva i brividi.

Di tutte le lupe del branco, Susan era la più dura, la più coriacea e, quando aveva saputo che avrebbe partecipato all'Ordalia, se n'era preoccupato immediatamente.

Combattere contro di lei sarebbe stato difficile anche per un maschio mánagarmr, figurarsi per una femmina ferita e reduce da due precedenti scontri.

«Sei disposta a lasciarmi entrare?» chiese a sorpresa Susan, lasciando tutti senza parole.

Estelle sbatté le palpebre, vagamente confusa, e replicò: «Nella mia mente? Sì, certo.»

«E tu sei disposta a entrare nella mia?» le domandò ancora Susan.

Melanie impallidì visibilmente, a quella richiesta, e fissò Susan con il panico negli occhi, ma quest'ultima non tornò sui suoi passi e, poggiata una mano sulla fronte di Estelle, ripeté: «Posso entrare, Estelle?»

Lei assentì e, allungata una mano, la poggiò sulla fronte di Susan.

A quel punto, un vuoto siderale la accolse, facendola precipitare in un freddo dirupo che la portò a gridare istintivamente di paura.

Ormai, però, era bloccata nella mente di Susan grazie alla sua volontà ferrea e, anno dopo anno, inverno dopo inverno, Estelle precipitò nel passato oscuro della donna.

Quando finalmente quell'interminabile caduta ebbe termine, Estelle si ritrovò immersa in un mondo di depravazioni e dolore inimmaginabili.

Tutto ciò che la circondava non aveva senso, eppure era reale. Erano i veri pensieri di Susan, il suo passato terribile e violento, la sua vita ricolma di odio e di risentimento.

Aveva conosciuto ragazzi con padri violenti o scellerati, ma ciò che aveva di fronte rasentava la follia pura.

Il corpo di Estelle venne come percorso da una scossa elettrica quando la sua consapevolezza divenne totale e Melanie, rendendosene conto, mormorò: «Susan, falla uscire. E' troppo, per lei.»

«Deve resistere. Se vuole essere la Prima Lupa, deve affrontare anche questo» replicò la donna, tergendosi una lacrima dal viso con fare stizzito.

La mano di Estelle si rattrappì, ferendo la fronte di Susan con gli artigli esposti, ma la donna non vi badò.

Aveva osservato a sufficienza quella femmina per ritenerla degna di camminare al fianco di Bright, ma doveva sapere quanta forza vi fosse in lei, per avere la conferma definitiva.

Una Prima Lupa doveva affrontare simili orrori, nelle eventualità peggiori, perché suo compito era salvare le anime dei lupi, mentre Fenrir pensava a salvarne i corpi.

Quella tenera bambina aveva vissuto una vita splendida, fatta di luce, amicizia e amore e, nonostante tutto, non era divenuta vacua o sciocca.

Certo, le piacevano le cose belle, come lei sapeva di essere bella, ma ciò non la rendeva una stupida o una farfallina senza cervello.

La sua mente era un concentrato di bontà mista a determinazione, ove trovava spazio anche una tenera insicurezza dovuta alle sensazioni provate durante i combattimenti. Non era sicura di farcela, pur avendo raggiunto ottimi traguardi.

«Sei più forte di quanto pensi, cucciola...» mormorò Susan. «...ma devi combattere ancora un po'.»

«Lasciala, Susan... penso abbia lottato a sufficienza» le ritorse contro Julianna, trattenendo le gambe di Estelle perché non muovesse l'arto fratturato.

Era però difficile trattenere un corpo scosso da violenti tremori, ed Estelle non sembrava ancora in grado di sfuggire alle maglie dei ricordi di Susan.

Quello che successe l'attimo seguente, perciò, colpì tutti di sorpresa, Susan per prima. Sgranando gli occhi color pece, vide Estelle inarcarsi come un arco, riemergere dai suoi ricordi con un grido e gettarsi su di lei a braccia spalancate.

L'attimo seguente, tra cori di stupore e sgomento, Susan si ritrovò stretta nell'abbraccio più caloroso e forte della sua vita, mentre una furente Estelle mormorava contro la sua spalla: «Lo ucciderò... lo ucciderò... lo ucciderò...»

Susan, allora, replicò all'abbraccio con una stretta più delicata, sorrise contro i suoi capelli arruffati e mormorò per contro: «Ci ho già pensato io. Ma grazie, mia Prima Lupa.»

Estelle sgranò gli occhi, nell'udire quelle parole e, scostandosi dalla sua avversaria, la fissò stranita, non comprendendo appieno cosa stesse succedendo.

Susan, allora, si limitò a sfiorarle il viso con una carezza per lei inusuale e, delicatamente, le baciò la pelle appena dietro l'orecchio.

Melanie e Julianna, a quel punto, la imitarono e, una dopo l'altra, dichiararono chiusa l'Ordalia, ritenendosi sconfitte da Estelle.

Fu solo a quel punto che Bright poté correre accanto a Estelle per abbracciarla e lei, letteralmente sollevata di peso da terra, esalò: «Piano! Mi fa male la gamba.»

Lui rise, si scusò e la prese delicatamente in braccio per condurla via ma Estelle, allungando una mano verso Susan, disse: «Devo fare ancora una cosa, Bright.»

«Puoi rimandare a dopo il giudizio finale. Ora devi farti medicare per bene la gamba» replicò lui, già propenso ad allontanarsi.

Estelle, però, scosse il capo e replicò: «Voglio che Susan, Melanie e Julianna diventino le mie consigliere private. E' possibile?»

«Come?» esalò Bright, colto di sorpresa.

«Io sono giovane, e conosco poco il mondo dei lupi, ma voglio essere degna di tutti voi. Sarebbero perfette per consigliarmi, e mi fido di loro e della loro lealtà. Ognuna di loro me lo ha dimostrato a modo proprio, durante l'Ordalia, perciò credo che allontanarle dal branco sarebbe non solo uno sbaglio, ma una perdita enorme.»

Bright le sorrise con un orgoglio tale da far arrossire Estelle e, annuendo, dichiarò: «Accetto la tua richiesta, Prima Lupa, poiché è tuo diritto scegliere del loro futuro in quanto vincitrice dell'Ordalia.»

mánagarmr si inchinarono di fronte a tali parole ed Estelle, stringendo le mani delle tre donne che l'avrebbero aiutata di lì in avanti, celiò: «Sarete i miei Gerarchi... non è fico?»

Le tre donne si guardarono divertite prima di assentire ed Estelle, ormai priva di forze ma soddisfatta, mormorò: «Ora portami pure dove vuoi. Dormirò per una settimana, a questo punto.»

Il Vigrond si sciolse in una risata e, mentre Bright si allontanava con una Estelle quasi assopita tra le sue braccia, le sue tre prescelte li seguirono appresso.

Non avrebbero mai abbandonato la loro Prima Lupa. Non dopo quello che lei aveva loro appena dimostrato.

 


__________________________________

Siamo quasi al termine di questa breve storia su Estelle e Bright, ma spero di avervi divertito con questa piccola avventura.
A breve affronteremo una storia su Joshua e sui suoi ricordi del passato, dopodiché passeremo alla long di cui avevo accennato, e che riguarderà i lupi americani.

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Capitolo 39
*** Reversal - Epilogo (Estelle/Bright) 2004 ***


Epilogo

 

 

 

Sbadigliando nel risvegliarsi dopo un lungo e pesante sonno, Estelle si stiracchiò indolente prima di rendersi conto di essere letteralmente circondata da soffice, caldo e profumato… pelo di lupo.

Sbattendo le palpebre con espressione confusa, la giovane si sollevò poggiando le mani a terra – era sdraiata sulla paglia? – e, dubbiosa, si domandò perché quei licantropi si trovassero attorno a lei.

«Ehi, ti sei svegliata» disse una voce maschile, poco lontana.

Quel dolce suono la fece sorridere spontaneamente ma, quando tentò di alzarsi in piedi, Bright le fece cenno di non muoversi e avanzò all’interno della stalla ove si trovavano entrambi.

«La gamba ha bisogno di qualche ora ancora» le spiegò lui, appoggiandosi alla staccionata che delimitava il fienile per poi sorridere fiero. «Non finirai mai di stupirmi, vero?»

Lentamente, i ricordi dell’Ordalia le tornarono alla mente e, con sempre maggiore consapevolezza, Estelle si rese conto di una cosa.

Era la Prima Lupa. La compagna di Bright. La madre dei lupi del loro branco.

Accarezzando istintivamente le schiene dei licantropi a lei più vicini, sorrise nel riconoscere l’aura di Susan – la lupa marrone alla sua destra – e quella di Matt, una delle sentinelle più giovani del branco.

Poco più in là riposavano Kristal, Melanie e Julianna, la cui coda era ancora fasciata a memoria del loro scontro di poche ore prima.

«Perché si trovano tutti qui?» domandò a quel punto Estelle.

«Per onorare la loro madre» le spiegò Bright. «Ho dovuto rimandare a casa un bel po’ di lupi che volevano vegliare sul tuo riposo, o avrei riempito il fienile di mio padre di cani randagi…»

A quel commento irriverente, Estelle ridacchiò e subito Susan rizzò le orecchie, sollevò l’enorme muso e scrutò dubbiosa la giovane, ritrovandosi per diretta conseguenza abbracciata e baciata con calore.

«Grazie per avermi vegliata, Susan» mormorò Estelle, dispendandole il tartufo umido di tanti baci, tanto che la lupa dovette scostarsi per non rimanere stordita da tutto quell’affetto.

Bright allora rise, si accucciò accanto alla sorella – in fase di risveglio a sua volta – e disse: «Dovrai abituarti, Susan. Estelle dispensa amore come i fiori il loro profumo.»

“Ho notato” dichiarò la lupa, scrollando il muso prima di dare una leccata al viso della sua Prima Lupa e allontanarsi con un balzello.

Matt, Julianna e Melanie si risvegliarono al pari di Kristal e, mentre Bright prendeva il posto di Susan accanto a Estelle, i lupi abbaiarono felici prima di allontanarsi per lasciarli soli.

Estelle si ripromise di ringraziarli tutti personalmente ma, quando venne avvolta dall’abbraccio di Bright, tutto passò in secondo piano.

Il branco, i lupi fuori dal fienile che la attendevano, Kate, i genitori di Bright… ogni cosa parve insignificante, per alcuni istanti.

Tutto iniziava e finiva con Bright.

Non sarebbe stato così per sempre, solo per qualche attimo – aveva accettato di essere madre e guida, non solo compagna, nel momento stesso in cui aveva messo piede al Vigrond – però era bello godersi Bright e pensare unicamente a lui.

«Sei una delle poche persone che Susan abbia avvicinato a questo modo, e a cui abbia permesso di affondare tanto in lei. Se non è devozione questa…» mormorò affascinato Bright, carezzandole i lunghi capelli d’oro.

«Spero soltanto che la mia vita possa averle donato un po’ di luce» disse Estelle, rafforzando la stretta attorno al suo amato. «Avrei tanto voluto vendicarla ma, per come stanno le cose, mi impegnerò anima e corpo per fare in modo che il resto della sua esistenza non sia più così triste e solitario.»

«E’ per questo che Susan non ha combattuto contro di te» le spiegò a quel punto Bright. «Mi ha detto di averti osservata con attenzione, di aver colto il cambiamento di atteggiamento nelle tue avversarie e in me, e questo le ha fatto capire che, per comprendere se saresti stata una buona Prima Lupa, non sarebbe servito a nulla battersi con te. Doveva capire altro

Estelle assentì e, con l’aiuto di Bright, si rimise diritta e scrutò la sua gamba steccata. Rispetto alla notte precedente, quando il sangue le aveva gonfiato il punto in cui le ossa si erano rotte, ora appariva praticamente perfetta.

Era davvero strabiliante cosa potessero fare i corpi dei licantropi!

«Pensi che prenderle al mio fianco possa aver dato fastidio agli altri lupi? Non vorrei davvero aver infastidito qualcuno, con la mia scelta» si informò Estelle, mordendosi pensierosa il labbro inferiore.

«Quando li vedrai, capirai quanto siano infondate queste paure. Hai dimostrato di essere coraggiosa, scaltra e forte ma, più di tutto, amorevole, e sono cose che un licantropo tiene in debito conto. Una Prima Lupa deve dimostrare carattere e, a volte, essere spietata, ma rimane pur sempre una madre, e la tua scelta ha denotato oculatezza e amore.»

Ciò detto, la baciò con tenerezza e aggiunse: «Ora sarà meglio rassicurare Kate. E’ stata avvisata della tua vittoria ma, ahimè, anche della tua gamba, così è corsa qui per assicurarsi che stessi bene.»

«Portami da lei, allora. Non voglio che stia in ansia» sgranò gli occhi Estelle, afferrando ansiosa le braccia di Bright.

«Immaginavo che l’avresti detto» sorrise lui, prendendola in braccio per condurla fuori dal fienile.

Lei si limitò a sorridere a quelle parole, compiaciuta dal fatto che Bright fosse diventato – in così breve tempo – un grande conoscitore del suo animo.

Nulla sarebbe stato facile, lo sapeva, ma con un compagno simile al fianco, avrebbe potuto affrontare qualsiasi sfida.

Nel vedere le persone all’esterno, tutte preoccupate per lei ma fiere della loro Prima Lupa, si disse anche che, con un branco simile, nessuno avrebbe potuto infierire sulla loro vita.

Fu con questa fiducia che abbracciò Kate, la baciò sulle guance bagnate di lacrime e, omettendo le parti più cruente, le raccontò della sua Ordalia, e di come avesse preso al suo fianco le sue avversarie.

Kate ascoltò avida ogni parola, sorrise di fronte ai suoi sorrisi e rise con lei a ogni sua battuta, il tutto tenendole la mano, senza mai abbandonare il contatto con Estelle.

Di questo, la Prima Lupa fu felice. Ci sarebbe voluto ancora molto per togliere le paure a Kate, perché ciò che aveva passato era mostruoso, ma quello era il primo passo verso il successo.

A ben vedere, era il primo passo per un sacco di nuove avventure.

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N.d.A.: E con questo capitolo terminiamo la breve storia del passato di Estelle e Bright! Spero vi sia piaciuta questa breve digressione, e che abbiate potuto apprezzare meglio personaggi che, gioco forza, ho potuto solo accennare.

Come promesso, con l'anno nuovo posterò una breve storia su Joshua (richiesta a gran voce su più fronti) e in seguito, finalmente, daremo il  via all'avventura americana dei nostri lupi!

Vi auguro un bellissimo fine anno e un inizio ancora più stupefacente. Come autrice, io sono già contenta di avere voi come lettori/trici.

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 40
*** Past and Future (Joshua) - Cap. 1 - 2012/2007 ***


(Breve riassunto dei personaggi meno noti):

Liam e Colin sono i figli di Pascal (hanno 13 e 11 anni, all'epoca dei fatti)

Eirwyn è la Prima Lupa del clan di Talgarth

Cedrik è il Capo del Consiglio di Talgarth

Bleidd è il fratello muto di Eirwyn

Soren è il gemello francese – alto – e fa parte nel Consiglio di Talgarth

Marvin è il gemello francece – basso – e fa parte del Consiglio di Talgarth

 

 

 

Futuro prossimo (giugno 2012)

 

 

 

L’invito spedito ai clan per la consueta Riunione Annuale era giunto tramite e-mail a ogni branco.

Per quell’anno, si sarebbe tenuta nell’ultima settimana di giugno, presso il Vigrond del clan di Matlock.

Quest’uso della tecnologia, poco in sincrono con la loro natura mitologica, non aveva comunque sminuito l’importanza di quell’appuntamento, che attendevano tutti da mesi con impazienza.

Ufficiosamente, il neonato clan di Talgarth si era incontrato con la Triade di Matlock e quella di Cardiff, loro diretti vicini, già nel settembre dell’anno precedente. Presenziare alla Riunione avrebbe però avuto tutt’altro peso politico al novello branco.

In primo luogo, il gruppo di Talgarth avrebbe incontrato tutti i clan dell’isola britannica ma, cosa più importante, il loro neonato Consiglio sarebbe stato riconosciuto come guida del branco che essi avevano costituito.

Come annunciato da Brianna stessa, la nascita di Fenrir e Hati, i due graziosi figlioletti di Eirwyn, aveva richiamato in seno al branco i lupi giusti – e l’umano giusto – per fortificare le difese del clan.

Branson, su delega di Duncan, si era occupato della cattura dei corvi da addestrare per il futuro Geri del branco, e Bess, che ne era stata l’allieva, si era presa cura di loro in attesa della persona adatta a tale ruolo.

L’arrivo di Sosuke Samada a Talgarth era perciò stato visto come il segno della svolta.

Giapponese per parte di padre ma di madre gallese, Sosuke era giunto a Talgarth durante un viaggio itinerante lungo le strade del Galles.

Nel sostare nel bar di Bess per una bevanda calda, Sosuke era rimasto colpito dalla giovane e dai suoi strani ospiti alati. Incuriosito, l’aveva osservata armeggiare con una delle gabbie dei corvi – che teneva nel patio sul retro del bar – e si era subito offerto di darle una mano.

Non appena uno dei corvi lo aveva fissato negli occhi, aveva reclinato la testolina nera e lucida, emettendo un lungo e basso gorgoglio. A Bess non erano servite altre indicazioni; Branson, infatti, l’aveva avvisata riguardo a ciò che avrebbe scorto, in presenza di un Geri.

Nessuno dei due corvi si era mai inchinato a nessuno, neppure al loro addestratore, o a Bess.

In fretta, si era quindi messa in comunicazione con Branson per comunicargli la novità e, nel frattempo, si era informata con falsa casualità su Sosuke e i suoi spostamenti.

Il ragazzo si era sì e no interessato alle domande, troppo preso nel dare confidenza ai due enormi corvi imperiali dalle sericee penne nere, per domandarsi il perché di quel terzo grado ben poco mascherato.

Questo aveva dato la conferma definitiva a Bess. Neppure con lei, quei due uccellacci erano mai stati così carini e disponibili, nonostante avesse sempre dato loro tutte le sue attenzioni.

Convincere infine Sosuke a rimanere e, soprattutto, spiegargliene i motivi, non era stato difficile come Bess aveva in un primo momento creduto.

Non soltanto Sosuke proveniva da una famiglia di neutri – consapevoli di esserlo –, ma aveva già udito parlare del neonato branco di Talgarth lungo le vie di Cardiff.

Quel viaggio in quell’angolo di Galles era nato soprattutto dal suo desiderio di emancipazione e di scoperta di se stesso.

Ben deciso ad avere un ruolo attivo all’interno del proprio branco, pur essendo un neutro, Sosuke aveva sperato di poter avvicinare il neonato clan di Talgarth per mettersi alla prova.

A Cardiff, infatti, le maggiori cariche all’interno del branco – anche tra i neutri –  erano già state occupate, e non vi era nulla che lui avrebbe potuto fare per rendersi utile al proprio Fenrir, a parte essere un bravo cittadino.

Per Sosuke, però, questo non era parso sufficiente, e la speranza di poter mettersi alla prova e dare il massimo delle sue capacità, lo aveva spinto in quella direzione.

Eirwyn aveva quindi telefonato a Fenrir di Cardiff per metterlo al corrente della situazione. La donna, infatti, aveva ritenuto giusto avvertire il Fenrir del ragazzo, prima di prendere qualsiasi decisione.

Venuto a conoscenza della notizia, Pascal si era dichiarato entusiasta di sapere che, un suo neutro, fosse risultato essere anche il futuro Geri per il loro nuovo branco.

Da lì all’iniziazione di Sosuke come Geri del clan di Talgarth, era passato poco tempo.

Scortata da Branson, Brianna si era perciò presentata in quell’angolo di Galles dopo soli tre giorni, in una pallida domenica di settembre, e aveva presenziato al Vigrond per l’investitura.

Sosuke aveva preso pieno possesso del suo dono grazie ai poteri combinati di Brianna e della giovane quercia sacra del Vigrond e, da quel momento, lui e i suoi corvi erano stati inseparabili.

Allo stesso modo, all’alba delle festività natalizie, colei che sarebbe diventata la loro Freki si era presentata a Talgarth per chiedere di poter essere annoverata tra i nuovi membri del clan.

La richiesta, ovviamente, era stata esposta al Consiglio riunito perché venisse o meno accettata.

Portando con sé i gemellini appena nati, Eyrwin si era presentata alla riunione assieme al marito, già ben disposti verso la nuova arrivata. Era piacevole sapere che dei lupi giovani e intraprendenti intendevano mettere radici nel loro territorio.

Soren, infreddolito dal raffreddore, aveva acconsentito all’entrata del nuovo membro tra uno stranuto e l’altro, mentre Marvin aveva dato il suo appoggio canzonando nel frattempo il fratello per il suo naso rosso.

Gli unici a mancare all’appello erano stati Bleidd e suo padre, pur se per buonissimi motivi. I due si erano infatti recati sull’Isola di Man per festeggiare la nascita del figlio di un loro carissimo amico.

Sookie Prantice, la futura Freki, si era perciò accontentata di quel Consiglio incompleto per portare avanti la sua richiesta, quando la piccola Hope – prossima Fenrir di Talgarth – aveva allungato con frenesia le braccia dalla culla per salutarla.

Allo stesso modo, aveva fatto il suo gemello Ross, unendo al gesto anche dei gridolini di protesta, quando non fu subito accontentato.

Immediatamente, Eirwyn aveva cercato di calmarli, ma nulla era valso allo scopo… almeno, non fino a quando Sookie si era avvicinata alla culla, sfiorando quelle mani protese.

I bambini si erano azzittiti subito, a quel tocco gentile, e Hope aveva sorriso a Sookie, stringendole con forza unicamente la mano destra, tra le due protese verso di lei.

La mano del guerriero.

A Cedrik era bastato questo, per prendere la sua decisione.

Aveva annuito orgoglioso alla donna, nominandola Freki grazie al riconoscimento ottenuto dalla figlia, che sarebbe stata la sua Fenrir una volta adulta.

Quanto a Sköll, tutti loro sapevano che avrebbero dovuto attendere anni, per conoscerne l’identità. Fino a quel momento, infatti, né Eirwyn, né le altre völur presenti in Gran Bretagna avevano dato un responso in tal senso.

Nessuno di loro, però, era preoccupato da questa temporanea mancanza. I gemelli erano ancora in fasce, perciò il loro tempo per governare sarebbe giunto dopo molti anni.

Sköll aveva tutto il tempo di apparire alla loro porta.

***

Brianna accolse con calore il clan di Talgarth al loro arrivo a Matlock, invitando il gruppo per un drink tra le amene pareti di casa, mentre attendevano il sopraggiungere degli altri invitati.

Eirwyn e Cedrik, assieme ai gemellini e a Sosuke e Sookie, trovarono ad attenderli anche il clan di Cardiff al gran completo, oltre a quello di Bradford.

Quando Pascal vide giungere i nuovi arrivati, si sollevò dalla poltrona in cui era accomodato e strinse con forza la mano di Cedrik prima di baciare Eirwyn sulle guance.

“Benarrivati” esordì Fenrir di Cardiff. “Sosuke, allora… com’è essere Geri? Ne sei soddisfatto?”

Il giovane sorrise, grato per le attenzioni tutte paterne del suo ex Fenrir, e assentì con vigore.

“Mi trovo molto bene, grazie, Fenrir.”

Pascal annuì soddisfatto, asserendo: “I tuoi genitori volevano assolutamente saperlo, così mi sono offerto di fare da intermediario. Eppure, mi sembra che lassù non ti tengano prigioniero, no? O hanno tagliato i cavi del telefono?”

Ciò detto, strizzò l’occhio a Cedrik, che rise di cuore nello scuotere il capo.

Sosuke sorrise imbarazzato e scosse a sua volta il capo, prima di ammettere: “Mia madre vorrebbe che fossi in due posti contemporaneamente, ma non ho ancora imparato il teletrasporto, purtroppo.”

“Neppure io ho doti di teleporter, credimi…” ironizzò Brianna, entrando nel salotto con un vassoio di panini e bibite. “… anche se, a volte, lo vorrei davvero.”

“Si abitueranno a sapermi lontano… forse…” celiò a quel punto Sosuke, scrollando le spalle.

“E tu, Sookie, come te la cavi? Hai già avuto dei grattacapi?” domandò Duncan, entrando a sua volta nel salotto con del vino per gli adulti, e dei succhi di frutta per i più giovani.

“Per il momento è tutto tranquillo, Fenrir. Grazie per l’interessamento” mormorò la giovane, reclinando ossequiosa il capo.

Alec rise di fronte a quel gesto così deferente e, con ironia, dichiarò: “Non essere troppo educata nei modi, Freki. Quel lupastro non merita tanta benevolenza.”

Pascal e Duncan si guardarono divertiti e Alec, nel sollevarsi dalla sedia ove era rimasto seduto fino a quel momento, si avvicinò a Cedrick per dire: “Alec Dawson. Tanto piacere. Questi due pagliacci mi hanno parlato molto bene di te e del tuo gruppo.”

“Il piacere è nostro, Fenrir” replicò Cedrik, serafico.

Brianna diede di gomito a Sookie, rimasta un po’ perplessa dall’uscita a sorpresa di Alec, oltre che dai suoi modi piuttosto spicci, e chiosò: “Non ascoltare quel che ti dice questo Fenrir. La metà delle volte, vorrà prenderti in giro.”

“E l’altra metà, Lady Fenrir?” domandò sospettosa Sookie.

“A te l’onore di scoprirlo” ironizzò Brianna, facendola sorridere per diretta conseguenza.

“Tu parli sempre troppo, streghetta” mugugnò Alec, prima di curiosare i due gemelli in braccio ai rispettivi genitori. “Gli eredi del clan, eh?”

“Hope sarà Fenrir, mentre Hati sarà suo fratello Ross” assentì Eirwyn, orgogliosa.

Annuendo con fare grave e stranamente serio, Alec sfiorò con lo sguardo i due cuccioli prima di mormorare con voce roca al piccolo in braccio a Cedrick: “Dovrai essere doppiamente forte per lei, Ross, perché sarà la tua Fenrir, oltre che tua sorella, che dovrai difendere.”

Lanciata poi un’occhiata a Pascal, borbottò torvo: “Dovrà essere il tuo Hati ad addestrarlo, altrimenti invierò William, a farlo.”

Ben più che abituato ai modi da cavernicolo di Alec, Pascal non se la prese per quell’ordine implicito – che qualsiasi altro Fenrir avrebbe reputato un’onta – e dichiarò serafico: “Non c’erano dubbi in merito, Alec, ma grazie per avermelo suggerito. Non so cosa farei, senza i tuoi consigli.”

“Devo farlo, visto che sono stati gli uccellacci della streghetta, ad accorgersi di loro, e non i tuoi. Dove aveva la testa, in quel periodo, il tuo Geri?”

Imponendosi una certa dose di calma, mentre Brianna sghignazzava e la Prima Famiglia di Talgarth li osservava con la sorpresa negli occhi, Pascal borbottò: “Chiedo ancora scusa, Alec, ma in quel periodo eravamo un tantinello presi, tra l’investitura del mio primogenito a nuovo Hati, la malattia del mio secondogenito, che ha avuto la brillante idea di finire all’ospedale con tre ossa rotte, e una lite tra quattro mie sentinelle per motivi sentimentali. Il mio Geri, invece, ha dovuto occuparsi della sua lupa incinta. Ti bastano come giustificazioni?”

“D’accordo, d’accordo, sei scusato” borbottò dopo qualche attimo Alec, scatenando così la risata di Duncan e lo sconcerto di Pascal, che scosse il capo, pieno di esasperazione.

“Grazie tante! Mi lusinga molto, la tua comprensione” gracchiò Fenrir di Cardiff, indeciso se tirare un destro all’amico o lasciar perdere.

L’arrivo in salotto di Erin, la compagna di Alec, mise fine alle smargiassate dell’uomo che, nel vederla, sollevò le mani con fare penitente e disse subito: “Non ho fatto niente. Giuro.”

“E perché Duncan sta rischiando la vita per il troppo ridere, Brianna non sa come fare per trattenere le lacrime, Pascal è scuro in viso e i nostri ospiti ti guardano come se avessi due teste e una coda di serpente?” ironizzò a quel punto Erin, pacifica, piazzandoglisi dinanzi con espressione ironica.

“Mai avuto la presunzione di sapere cosa pensano gli altri” dichiarò con una flemma olimpica Alec, scrollando le spalle.

Erin sospirò, si volse verso i nuovi arrivati e disse esasperata: “Scusatelo. Non ci sa fare con i rapporti interpersonali. Io, comunque, sono Erin, sua moglie e il suo dog-sitter.”

Alec non disse nulla, evitando commenti sulla sua ultima parola e limitandosi a darle una pacca sul sedere per poi uscire dalla stanza - ormai troppo affollata - in compagnia di William e Spike, i suoi luogotenenti.

Erin sospirò nuovamente, scosse il capo e borbottò: “Dovrò lavorare ancora molto, prima che sia realmente pronto a stare in mezzo agli altri.”

“Credimi, è molto migliorato, Erin” replicò Pascal, ammiccando all’indirizzo della donna.

“Tremo sempre al pensiero di come fosse prima di conoscere Brianna” rabbrividì Erin sorridendo poi all’amica, che fece spallucce in tal senso.

“Meglio non rivangare il passato. Di solito, non porta mai a niente di buono. E’ meglio goderci il presente, visto che è così roseo” asserì a quel punto Eirwyn.

“Ben detto” annuì Erin, prendendola sottobraccio. “Posso rubarvela? Vorrei che noi signore ci si potesse conoscere meglio, senza l’assillo di voi maschietti al seguito. Vieni anche tu, Brie. Possono fare a meno di Lady Fenrir per mezz’ora.”

“Penso proprio di sì” acconsentì la giovane, prendendo a sua volta sottobraccio Eirwyn, conducendola così fuori di casa.

Sookie fece un cenno a Cedrik per prendere il piccolo Ross e seguì la sua Prima Lupa, così che nel salotto non rimasero che soli uomini.

“Dite che stiamo loro antipatici, per averci mollati qui come pacchi postali?” ironizzò Pascal, facendo ridere i presenti.

“Per la verità, sono contento che Eirwyn si faccia delle amiche lupe. Per ora, se si toglie Sookie, ci sono pochissime lupe della sua età, ed è un peccato che non possa interagire con sue simili quanto vorrebbe” dichiarò Cedrik, lanciando un’occhiata al punto in cui, fino ad alcuni istanti prima, si era trovata la moglie.

“A quante unità ammonta, per ora, il tuo branco?” gli domandò a quel punto Pascal.

“Siamo un centinaio di elementi, per lo più sfuggiti alle grinfie del clan di Sebastian Sheperd. Ci sono diversi maschi in età da combattimento, a cui ho delegato il controllo del territorio, e molte coppie sui cinquanta, sessant’anni, i cui figli sono dispersi per altri clan, o sono rimasti sull’Isola di Man per aiutare la ricostruzione del branco. Quello che mancano, per l’appunto, sono le giovani femmine” gli spiegò Cedrik.

Pascal assentì pensieroso e, rivolto a Duncan, domandò: “Sai nulla della situazione sull’Isola di Man? Come va il passaggio di potere?”

“Sono tornato circa un mese fa da Douglas e Pardick Swanson, il capo del Consiglio temporaneo, mi ha assicurato che tutto va per il meglio. L’erede di Sebastian è un giovanotto con la testa sulle spalle e, ora che non è più costretto a sottostare al giogo folle del suo predecessore, ha alcune buone idee per far risorgere il clan. Di sicuro, hanno preso una bella batosta perché, tra la morte del loro Fenrir e l’esautorazione di Hati e Sköll, devono ripartire da zero con una Triade assai giovane – Hati ha solo diciassette anni – ma, da quel che ho capito, il Consiglio ad interim è molto ben disposto verso questi tre ragazzi, e si daranno da fare per aiutarli” spiegò loro Duncan, con tono soddisfatto.

“Molto bene. Una grana in meno a cui pensare” dichiarò Pascal, con un sospiro di sollievo. “Sai se verranno anche loro? Mi piacerebbe vederli.”

“Forse parteciperà Sherry, la Sköll del branco, assieme al loro Freki, Roger. Theo, il nuovo Fenrir, non vuole abbandonare l’isola perché desidera concentrarsi unicamente sul riordino del branco. Non mi sembra una cattiva idea, visto il mezzo disastro che si è lasciato alle spalle Sebastian” li mise al corrente Duncan.

“Dimostra di essere coscienzioso. E’ un buon segno” assentì Cedrik, e Alec si dichiarò d’accordo.

Nell’udire il suono di un’auto raggiungere il cortile di casa McAlister, Duncan sorrise e disse: “Vieni con noi, Cedrik. Voglio presentarti il nuovo arrivato. E’ Joshua, il capo del clan di Londra. A tutt’oggi, conta il branco più numeroso dell’isola. Sono settantaduemila elementi circa, tra lupi, umani e neutri.”

Cedrik fischiò ammirato, esalando: “Un bell’impegno.”

“Decisamente” assentirono in toto i Fenrir presenti.

***

Tenendo in braccio Hope mentre Ross era tra le braccia della madre, Brianna sorrise nel vedere i più importanti membri dei vari clan inglesi raccolti nel loro Vigrond.

Grazie al cielo, il tempo si era mantenuto sereno e la temperatura piacevole, consentendo loro di poter organizzare una riunione non funestata dalla pioggia.

Quella sera, poi, la brezza era gradevolmente tiepida e le stelle brillavano alte in un cielo sgombro di nubi.

Il cicaleggio che si poteva ascoltare nel luogo di culto dei licantropi di Matlock era paragonabile a quello presente in uno stadio e, a dirla tutta, le persone presenti erano molte.

Alcuni lupi – soprattutto gli Hati – avevano preferito mantenere la loro forma animale, in quel frangente, e Brianna ne comprendeva bene le motivazioni.

Quel luogo non era solo un concentrato di potere più unico che raro, ma anche un potenziale viatico per dispute tra Fenrir, che potevano anche sfociare in scontri fisici.

Erano esseri umani, ma anche e soprattutto animali, e la componente ferina presente nel loro sangue era molto alta.

Anche se non vi erano nemici, tra i presenti, e i clan erano in pace tra loro, una lite era sempre possibile, con tutto quel testosterone presente.

“E’ tutto così sereno e tranquillo, qui, nonostante ci sia il potenziale per un disastro biblico…” mormorò divertita Eirwyn sorridendo a Brianna, ferma al suo fianco. “… è un bel cambiamento, rispetto agli anni di prigionia sotto il giogo di Sebastian.”

“Io lo incontrai poche volte e, in quelle rare occasioni, avemmo sempre molti motivi di scontro. Non so quanto, delle sue parole, fossero dettate da Hel - che risiedeva dentro di lui - e quanto fossero farina del suo sacco ma, da quello che ho capito avendo un’anima divina dentro di me, è che parte della colpa è stata interamente sua. Un’anima non può comandare il corpo che la ospita. Può parlargli, istigarlo, ma non può farsi obbedire.”

Annuendo, Eirwyn mormorò torva: “I suoi occhi sono sempre stati malvagi, lo ricordo bene, e non mi dispiace che sia lui che la sua anima abbiano fatto una brutta fine. Non sono così pia da provare rimorso, o da volerlo perdonare così facilmente per ciò che ha fatto.”

“Non lo farei neppure io” chiosò Brianna, facendo spallucce. “C’è un limite oltre il quale la pazienza finisce. Anche nelle persone più buone.”

“E tu, Lady Fenrir, come gestisci la tua pazienza? Immagino che non debba essere facile, visto ciò che porti dentro di te” si informò Eirwyn, curiosando nei suoi occhi d’ambra.

“Mi ricordo sempre che non posso infuriarmi se un idiota mi taglia la strada mentre guido, o che non devo pensare troppo male di certe persone. Posso concedermi solo un po’ di rabbia, ma non più di quel tanto” ammiccò Brie, facendola sorridere.

Sei molto brava, in questo, sappilo, intervenne la voce di Fenrir.

“Grazie. Troppo gentile” rispose divertita lei.

Eirwyn mi piace. La sua anima è purissima, pur se non ha connotati divini. Deve aver vissuto molte vite in persone dal comportamento irreprensibile.

“Le anime normali, per così dire, possono essere plasmate dalle vite passate?” domandò sorpresa Brianna.

In parte, sì. Se alcune anime, già di per sé luminose, incontrano persone che conducono una vita degna e positiva, allora possono salire di grado, per così dire.

“Ed è valido anche il contrario, immagino.”

Yin e Yang, mia cara. Rigira la frittata come vuoi, usa gli esempi che più ti piacciono, ma l’equilibrio del cosmo si ottiene bilanciando luce e tenebra. Ormai dovresti averlo capito.

“Più di quanto voglia soffermarmi a pensare, credimi” sorrise Brianna, lanciando un’occhiatina divertita a Eirwyn, che aveva seguito l’intera conversazione.

Con occhi vagamente sgranati, la donna esalò: “E’ davvero… potente. E molto più gentile di quanto non avrei immaginato. Pur conoscendo ormai più che bene la sua storia, lo immaginavo più scorbutico.”

“Va a giornate” ironizzò Brie, prima di borbottare un’imprecazione e passarsi un dito in mezzo alla fronte.

Eirwyn rise sommessamente, mormorando: “Sì è vendicato?”

“E’ dispettoso, ogni tanto. E’ come se facesse suonare un gong nella mia testa, quando dico qualcosa che non gli garba. E’ il suo modo poco gentile di rispondermi” sbuffò la giovane wicca, prima di notare un cenno di Duncan. “Cominciamo, a quanto pare.”

Eirwyn le sorrise e, assieme a Brianna, si avviò verso il centro del Vigrond per l’inizio ufficiale della Riunione dei Clan.

N.d.A. Non vi preoccupate per la temporanea assenza di Joshua. Avrà tutto il suo spazio nel prossimo capitolo ma, per il momento, dovevo creare un incipit con i personaggi di Talgarth, che avranno un ruolo alla fine della storia, e daranno il 'la' per l'avvio dei lupi americani.

La narrazione si svolgerà prima nel 2012 e poi nel 2007, al quale si riferiscono i ricordi di Joshua. (piccola nota a margine: Colin può finire all'ospedale perché, all'epoca, non è ancora un licantropo - visto che ha 11 anni - perciò il suo corpo è ancora totalmente umano e può essere visitato e curato in ospedale)

Buona lettura!


 

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Capitolo 41
*** Past and Future (Joshua)- Cap.2 - 2012/2007 ***


2.

 

 

 

 

 

Quando a parlare fu Sherry, Sköll dell’Isola di Man, i lupi presenti al Vigrond ebbero un istintivo moto di protezione nei suoi confronti.

Appena diciannovenne dal fisico esile quanto alto, Sheridan MacCurry era parte di ciò che rimaneva del branco guidato da Sebastian Sheperd. Anche su di lei, come su ogni membro di quel clan, si potevano notare i segni della follia del vecchio Fenrir.

Ben evidente sul suo collo – ora libero dal foulard che soleva portare – era evidente una profonda cicatrice da artiglio, che partiva dall’orecchio destro e raggiungeva la clavicola. Solo per pura fortuna Sherry non era morta dissanguata, e unicamente per aver protetto la sorella minore dalle mire di un lupo di Sebastian.

Roger, protettivo quanto lo sarebbe stato un Hati, pur essendo un Freki, era a un passo di distanza da lei e, anche se non visibile, anche sul suo corpo erano presenti i segni del pesante maglio di Sebastian.

Nessuno, in quello sventurato branco, si era salvato, ma solo ora se ne potevano scorgere gli effettivi riflessi. Solo ora, tutti ne erano reali testimoni.

“… perciò, Theo vi è enormemente grato per l’aiuto che avete offerto a lui e al nostro branco in questi mesi” terminò di dire Sherry, poggiando una mano sul cuore, piena di emozione. “Il tradimento perpetrato dal nostro precedente Fenrir ha lasciato cicatrici indelebili nel cuore di noi tutti, lo so, ma speriamo davvero di avere finalmente messo la parola ‘fine’ alle sue follie.”

Un coro di applausi si levò tra i presenti e Joshua, lanciando uno sguardo a Gretchen, strinse la sua mano per non perdere il contatto con la realtà.

Come Duncan era stato tradito dal suo Fenrir, Alec aveva dovuto uccidere il proprio per liberare il suo clan, e Sheridan aveva subito la sferza di Sebastian prima di vedere la libertà, anche lui sapeva bene cosa volesse dire essere sferzati dalla lama del tradimento.

Certo, lui non aveva dovuto subire lo scorno di un trattamento indegno da parte della propria guida, ma aveva assaggiato il taglio ferale dell’inganno da ben altra fonte.

T.J. era stato un amico, un fratello, la sua fida spalla. Ma anche un doppiogiochista, un falso e un maledetto traditore.

Sentire le parole di Hel, su Niflheimr, e tornare a riaffrontare quel brutto momento della sua vita, aveva rischiato di spezzarlo. Solo la presenza dei suoi amici lo aveva salvato dal circolo vizioso dell’odio e del rimorso che aveva tentato, ancora una volta, di risorgere dalle ceneri per divorarlo.

Non certo rimorso per ciò che era avvenuto – di quello, non si sarebbe mai pentito – ma per non essersi reso conto della doppiezza di T.J.

In questo, era stato sciocco e superficiale – come lo era stato per molte altre cose, all’inizio del suo mandato come Fenrir – e, a causa di questa sua leggerezza, aveva messo a rischio le vite di tutto il suo branco.

Fu più forte di lui, non poté impedirselo. Complici le parole di Sherry, la sua mente tornò a quel periodo, a quella pia illusione che i licantropi fossero migliori degli esseri umani, a un altro Theo che lo aveva ferito nel modo più laido possibile.

Quanto era stato sciocco a credere di sapere ogni cosa!

***

T.J. stava controllando il movimento dei Cacciatori all’interno del Norbury Park, dannatamente vicini ai confini del territorio privato dei conti Walford e, tra le altre cose, al loro Vigrond.

Avere il proprio Luogo di Potere all’interno di una tenuta di caccia di proprietà di un Pari del Regno era qualcosa che, non di rado, faceva sorridere divertito Joshua.

Non era molto interessato a ciò che faceva la monarchia, o a quante volte i volti della famiglia reale finissero sui tabloid, ma trovava ironico che uno dei suoi lupi dialogasse settimanalmente con la regina.

Colton Andrews, sesto conte Walford e attuale detentore della carica di capo-sentinella del settore occidentale del branco, era un habitué della Corte e grande amico di molti titolati del Regno.

Non di rado presenziava ai banchetti officiati dalla regina e, spesso e volentieri, lui ne decantava le doti di oratrice così come di buona ascoltatrice.

Colton era un amante del mondo degli umani e non disdegnava di passare con loro molto del suo tempo cosa che, invece, Joshua trovava un po’ fastidioso.

Forse a causa del suo albinismo, e dei conseguenti atti di bullismo di cui era stato vittima in fase pre-trans, o forse proprio perché si era sempre sentito diverso da loro, Joshua non aveva mai fatto amicizia con nessun umano.

Poiché costretto dalla società civile a trascorrere parte della sua vita nelle scuole degli umani, così da apparire come loro, Joshua aveva subito scorni di ogni genere.

Per anni aveva sperato con tutto se stesso che la licantropia si risvegliasse nel suo corpo sottile ed efebico e, allo stesso modo, era successo per il suo migliore amico, Theodor Jonas Crowford.

Nato da una coppia mista – una neutra e un lupo – T.J. era stato iscritto alla sua stessa scuola nella zona di Camden Town e, complice la loro potenziale doppia natura, erano divenuti subito amici.

Soli in mezzo a un branco di umani non consapevoli – all’epoca, il branco londinese aveva contato solo un migliaio di lupi o poco più – la coppia di ragazzini aveva fatto fronte comune contro il bullismo.

La trasformazione in lupo aveva perciò permesso a Joshua prima, e a T.J. in seguito, di sfuggire alle maglie di quella gabbia di insulti e maldicenze creata attorno a loro dai compagni di scuola.

Divenire lupi aveva permesso loro di irrobustirsi e di diventare molto più forti e, pur dovendo mantenere il segreto, avevano utilizzato quelle nuove armi per non essere più asserviti agli scherzi dei loro aguzzini.

Pur consapevole di avere un futuro diverso da quello di T.J. – che era risultato essere un comune licantropo – Joshua lo aveva sempre tenuto al suo fianco, enumerandolo tra i suoi più fidi consiglieri, al pari dei Gerarchi.

T.J. era quindi diventato un elemento rispettato e temuto, all’interno del branco, venerato quasi al pari della Triade di Potere.

Da parte sua, comunque, T.J. si era elevato socialmente, combattimento dopo combattimento, senza mai approfittarsi della sua amicizia con Joshua.

Anche per questo, era ben voluto dai licantropi del branco.

“Si stanno avvicinando ai margini esterni” mormorò T.J., strappando ai suoi pensieri Joshua, che assentì cauto e si avvicinò all’amico con passo silenzioso.

Raggiuntolo, fece un cenno alle altre sentinelle presenti dopodiché, balzando agilmente sul ramo del carpino a lui più vicino, mormorò due parole al suo Hati e infine disse: “Tu e io, T.J., andremo a sud. Michael raggiungerà Colton da est, e Steph e Jordan proseguiranno per coprire il versante nord.”

“Non ti chiedo chi li stia aspettando a ovest” ironizzò T.J., ghignando all’indirizzo dell’amico.

“Keath vuole lavorare da solo, lo sai” chiosò Joshua, avviandosi con passo felpato e subito avvicinato dall’amico.

“Il tuo Freki ha un caratteraccio. Mi domando come Colton possa sopportare di essere il suo vice. Vuoi mettere se avessimo Sarah, al suo posto?”

Scoppiando a ridere nel pensare alla zia di Duncan McAlister, Fenrir di Matlock, Joshua assentì e replicò: “Il problema, con Sarah, è che rimani fregato dal suo sorriso e dalla sua bellezza… ma è letale quanto Keath. E, forse, ben più lunatica.”

“E’ l’idea, che conta, non tanto il risultato. Sarebbe sicuramente tutto un altro guardare” celiò T.J., sorridendo divertito.

“Ma come? Keath non ti piace?” ironizzò Joshua.

“Non sono come lui, a cui va bene tutto, purché sia consenziente. A me piacciono le donne, amico mio e, a proposito di donne, quand’è che ti deciderai a uscire con Gretchen? Per quanto tempo la terrai ancora sulle spine?” gli domandò T.J., balzando oltre un piccolo canaletto con un agile movimento di gambe.

Joshua lo seguì a ruota, scrutando l’oscurità del bosco e annusando l’aria tutt’attorno.

La presenza di insediamenti umani nelle vicinanze rendeva molto difficile distinguere gli odori recenti dalle semplici scie dei turisti, ma non potevano permettersi di perdere nessun tipo di segnale odoroso.

Sbuffando poi all’indirizzo dell’amico, Joshua replicò: “Sei talmente fissato con Gretchen che mi chiedo come mai tu non ti decida a chiamarla per un drink.”

T.J. sghignazzò, cercando di non ridere – non era il caso di fare troppo rumore – e, scrollando le spalle, asserì: “Se avessi subodorato anche un minimo interesse da parte sua, l’avrei fatto, ma quella lupa stravede per te, caro il mio bel snowy.”

Nonostante tutto, Joshua arrossì, maledicendo la sua pelle naturalmente diafana e rivelatrice e, in un borbottio contrariato, disse: “Ti inventi le cose, amico mio. Gretchen è troppo bella e intelligente, per volere uno come me.”

“Ti sottovaluti troppo, amico…” sottolineò T.J. prima di scartare a destra, bloccarsi di colpo e aggiungere contrariato. “… ma su una cosa hai ragione. Lei, sicuramente, è più intelligente di te. E anche di me, a quanto pare.”

“Che cosa?” esalò Joshua, bloccandosi subito dopo per guardarlo con aria stranita.

T.J. gli sorrise spiacente e, indicando a poca distanza da loro, borbottò: “A quanto pare, i Cacciatori ci hanno gabbato alla grande. Guarda.”

Joshua lanciò un’occhiata all’indirizzo del punto indicato dall’amico e, non poco contrariato, ammise tra sé la sconfitta.

Erano stati depistati alla grande, e nel modo più banale possibile.

Appesi a un ramo d’albero si trovavano i resti di una giacca mimetica, unitamente ad alcune gocce di sangue umano e abbastanza fresco. Non potevano essere passate più di sei, otto ore al massimo.

“Deve essersi ferito con le trappole che abbiamo disseminato lungo il perimetro esterno del Vigrond, e così è tornato indietro, lasciando per noi e le sentinelle di Colton una bella scia odorosa da seguire” brontolò T.J. “Mi meraviglia soltanto il fatto che Colton non si sia accorto dell’inganno. Dov’erano, i suoi sottoposti, per non essersi resi conto di questo sconfinamento?”

Accigliandosi, Joshua infilò indispettito le mani in tasca e replicò piccato: “Sarà una cosa di cui chiederò conto, poco ma sicuro. Nel frattempo, torniamo pure indietro. Qui non abbiamo più niente da fare.”

“Vuoi che gli parli io?” si informò T.J, correndo al suo fianco con passo più tranquillo rispetto all’andata.

“No. Per quanto mi spiaccia avere un diverbio con lui, non è una cosa che io possa delegare. Forse, potrei dirlo a Fergus, in qualità di Sköll, ma no… preferisco essere io ad andare in fondo alla cosa.”

“Inimicarti un personaggio valoroso come Colton, però, sarebbe controproducente per la tua leadership, Jo…” replicò conciliante T.J. “… quindi, forse, potrei tastare io il terreno per te. In via del tutto informale, ovviamente.”

Joshua lo squadrò da sopra la spalla, gli sorrise emettendo un profondo respiro e infine disse: “Sempre a preoccuparti per la mia testa. Cosa farei senza di te?”

“La testa del mio Fenrir è molto importante, così come la salute del branco. Perciò, chiama Gretchen ed esci con lei” ironizzò T.J., dandogli una pacca sulla spalla.

Joshua rise di quell’ultimo commento e, vagamente meno irritato, accelerò il passo per tornarsene all’auto e, da lì, a Londra.

Purtroppo per lui, aveva mille altre cose da fare, oltre a pensare ai suoi confini e ai Cacciatori indisciplinati.

***

Come Fenrir di un branco cittadino come il suo – Bryan delle Orcadi aveva sicuramente meno problemi con gli umani, rispetto a lui – Joshua aveva spesso a che fare con lamentele e guai legati al rapporto interspecie.

Non a caso, per dirimere simili noie, erano stati istituiti a suo tempo ad hoc degli incontri settimanali con i membri del branco non abbastanza potenti per presenziare al Vigrond.

E, ovviamente, anche per coloro i quali – a causa del loro status di neutro o umano – non avrebbero mai potuto mettervi piede.

Non che trovasse quegli incontri particolarmente interessanti, ma sapeva bene di non poter mettere a tacere le parole dei suoi lupi, così come di coloro che non lo erano.

In questo, avrebbe dovuto prendere esempio da Duncan McAlister che, pur detestando gli umani, era comunque più che disponibile con tutti i membri non mannari del suo branco.

Le poche volte che lo aveva visto in loro presenza, si era sempre comportato con il massimo della gentilezza e della comprensione.

Sfogliando svogliatamente una carpetta, in cui erano contenute le richieste e gli appuntamenti di quel giorno, i suoi occhi si acuirono immediatamente non appena egli vide il nome di Gretchen Stewart tra essi.

Perché aveva chiesto udienza, quando era una mánagarmr abbastanza potente da poter presenziare al Vigrond?

Cosa doveva dirgli di così privato da non poter essere ascoltato entro quei sacri confini?

Immediatamente la sua mente lo tradì, facendo riemergere le parole di T.J. e la sua allusione a un interesse della lupa nei suoi confronti.

Possibile che volesse invitarlo fuori, o qualcosa del genere?

Scuotendo il capo, Joshua scacciò quel pensiero e si diede dell’idiota per essersi spinto a fare dei sogni a occhi aperti su di lei.

Doveva pensare a quel dannatissimo pomeriggio in compagnia dei problemi dei suoi sottoposti, non bighellonare con la fantasia sui begli occhi grigi di Gretchen, o sulla sua castana chioma di riccioli.

“Ed ecco che ci sono ricascato…” brontolò Joshua. “Maledetto te e le tue battute, T.J.”

Pigiando sull’interfono per parlare con la sua segretaria, Joshua disse: “Fai pure entrare il primo appuntamento, Kelly.”

“Subito, Fenrir” mormorò allegramente la donna.

Dieci appuntamenti dopo, la voce di Kelly risultava ancora allegra e pimpante, attraverso l’interfono, ma non quella di Joshua, ormai ridotta a un brontolio sommesso.

Come poteva spiegare ai suoi lupi che no, non si poteva staccare la testa a morsi il vicino, se lasciava la radio accesa anche di notte e no, non si poteva mangiarlo perché usava troppo peperoncino nei piatti?

La convivenza pacifica era, gioco forza, un imperativo, se si voleva avere accesso alle indubbie comodità del mondo umano. L’alternativa, infatti, era regredire allo status di lupi selvaggi e tornare a vagare per le campagne e i boschi come i loro simili.

La loro magia li preservava dall’essere scoperti dalle persone comuni – non lasciare tracce visibili sul terreno, tornava utile – ma divenire lupi solitari poteva significare finire preda dei Cacciatori.

Quanti lupi erano morti, per questo desiderio di tornare alla natura primordiale? Quanti figli aveva dovuto dichiarare morti di fronte alle loro madri in lacrime? Quante volte aveva dovuto dire a Keath di scovare i Cacciatori più violenti, così che vendicasse le uccisioni da loro perpetrate?

Il branco poteva essere limitante per alcuni, certo, ma dava anche maggiori sicurezze a livello di protezione personale rispetto a una vita di solitudine.

Il prezzo da pagare era sopportare le inevitabili intemperanze umane, di cui però non potevano certo essere ritenuti responsabili, in quanto non conoscitori della verità.

Facesse o meno piacere ammetterlo, era altro discorso.

“E’ arrivata miss Stewart, assieme a una giovane ospite” mormorò Kelly all’interfono.

“Falle pure entrare” asserì Joshua, chiedendosi chi fosse venuto assieme alla donna.

Alcuni attimi più tardi, la porta insonorizzata venne aperta e, di fronte a Fenrir fece la sua apparizione l’alta e longilinea figura di Gretchen.

Indossava un maglioncino di cotone a coste color cielo, jeans schiariti e un paio di sandali dal tacco alto, che ne esaltavano la postura eretta e l’eleganza.

Joshua non poté esimersi dal considerarla bellissima, ma si impose di contenere la sua aura per non metterla in imbarazzo.

Lei gli sorrise appena e, scostandosi un po’, fece entrare a sua volta una giovane umana in fase puberale. Doveva avere quattordici o quindici anni, a giudicare dalla struttura fisica, ma non poteva esserne del tutto certo.

Joshua non si riteneva un grande conoscitore degli umani, perciò poteva tranquillamente essere più giovane, come più vecchia.

Chiusasi la porta alle spalle, Gretchen tenne un braccio attorno alle spalle della giovane umana – chiaramente figlia di membri del branco – ed esordì dicendo: “Ti ringrazio, Fenrir, per averci accolto. Giungo qui con una notizia assai preoccupante.”

Accigliandosi leggermente, Joshua strinse le mani sulla scrivania e disse: “Sedetevi pure, e parlate liberamente.”

Gretchen assentì e accompagnò la giovane al divano, chiaramente tesa e in ansia. Il suo battito cardiaco sembrava il battito d’ali di un colibrì, alle orecchie di Joshua e, suo malgrado, si lasciò andare a un sorriso.

Era raro che umani così giovani si presentassero al suo cospetto e, anche solo per questo, quella giovane meritava che lui non la guardasse come una preda da mangiare.

Anche se era stanco, e aveva il solo desiderio di prepararsi una bella bistecca alla griglia e riposare sul suo comodo divano.

Al cenno di incoraggiamento di Gretchen, la ragazzina deglutì a fatica – le sue fauci erano secche come il Sahara – e, lappandosi le labbra, mormorò: “B-Buonasera, Fenrir. Io sono Sarah. Sarah Ellison. Sono la figlia di Emily Thomas e Greg Ellison.”

Accigliandosi leggermente nel tentativo di ricordare la coppia, Joshua si esibì in un mezzo sorriso quando disse: “Oh. Ricordo. Il nostro lupo ha chiesto il permesso di poter sposare tua madre e adottare te. Due anni fa, se non ricordo male.”

La ragazzina si illuminò in viso, annuendo con fervore e, reclinando la testa di biondi capelli lisci e sottili, mormorò ossequiosa: “Vi ringrazio per esservi ricordata di me, Fenrir.”

Vagamente imbarazzato di fronte a tanta devozione, Joshua si ritrovò a sollevarsi in piedi per raggiungerle e, gentilmente, si inginocchiò dinanzi al divano, mormorando: “Il vostro caso è più unico che raro, Sarah. Anche uno smemorato come me lo ricorda.”

Lei risollevò il capo e sorrise con la bella bocca a cuore, oltre che con gli occhi verde bottiglia e, più sicura di sé, disse: “Mi sono rivolta alla mia insegnante perché ritengo che un membro del branco vi tradisca, Fenrir.”

Aggrottando immediatamente la fronte, Joshua lanciò uno sguardo interrogativo all’indizio di Gretchen che, annuendo, aggiunse: “Sono la sua insegnante di matematica.”

“Dimmi cos’hai visto o sentito, Sarah” ordinò con gentilezza Joshua.

Lappandosi nuovamente le labbra, la ragazzina estrasse il suo cellulare dalla tasca e, storcendo la bocca, mormorò: “So che il signor Crowford è vostro amico, però…”

Interrompendola subito, Joshua replicò: “Se si tratta di T.J., ti sei sicuramente sbagliata. Lui non può…”

Gretchen non lo lasciò terminare e, lapidaria, disse: “Ascoltala, Fenrir. Merita il tuo tempo, così come la tua obiettività. Non tutti gli umani del branco si sarebbero arrischiati a venire da te per parlartene, vista l’amicizia che vi lega, e lo sai bene.”

Joshua fu sul punto di farle notare che, in quanto Fenrir, lui poteva decidere arbitrariamente cosa fare, o cosa ascoltare, ma non disse nulla.

Ciò che Gretchen gli aveva riversato addosso con una certa dose di acredine, rispondeva al vero.

Lui doveva essere super partes, anche quando si trattava di ascoltare una piccola umana mentre accusava il suo migliore amico di qualche genere di nefandezza.

Annuendo cautamente, Joshua si limitò a dire: “Ascolterò. Ma dubito vi sia del vero in tutta questa faccenda. Si tratterà sicuramente di un fraintendimento che potremo spiegare.”

Sarah, allora, gli porse il cellulare e disse: “Non volevo causarvi disturbo, Fenrir, ma mi è parso davvero strano vedere il signor Crowford a scuola, visto che papà mi ha detto che lui lavora in uno studio di avvocati.”

“A scuola? Da te?” esalò Joshua, giustamente confuso.

La ragazzina assentì e, dopo un istante, fece partire il video che aveva fatto.

Esso appariva un po’ sgranato, e il sonoro era praticamente era pessimo, ma udibile abbastanza bene, per un licantropo.

L’uomo che si poteva intravedere nel video era effettivamente T.J., non v’era alcun dubbio, e stava parlando con una donna che, all’apparenza, dava l’idea di essere un’inserviente, o la dipendente di una cooperativa.

Il video durava circa un minuto e, in alcuni punti, era mosso a causa dei tentativi di Sarah di non essere vista, ma era ugualmente una prova schiacciante di colpevolezza.

Soltanto, Joshua doveva accettare che quel video fosse reale.

Quando il filmato si interruppe, Joshua si piegò in avanti, sopraffatto dal dolore, dalla rabbia e dalla frustrazione provati e, coprendosi il viso con le mani, borbottò un’imprecazione tra i denti.

Né Gretchen né Sarah parlarono, lasciando che la verità giungesse a ogni sua sinapsi perché egli accettasse il tutto.

Il ticchettio sommesso dell’orologio a muro fu l’unico rumore presente nella stanza per diversi attimi, attimi in cui Joshua pensò a cosa dire, a cosa fare… a come espiare.

Perché era chiaro come il sole che, non solo il suo migliore amico lo stava tradendo, ma che il tradimento stava toccando i loro peggiori nemici. I Cacciatori.

Quando finalmente riuscì a liberarsi dalle catene del circolo vizioso in cui era caduto, Joshua si risollevò, andò alla scrivania e pregò Keath di raggiungerlo, dopodiché si appoggiò al ripiano con una mano e mormorò: “Vi pregherei di rimanere ancora un po’.”

Gretchen assentì. “Sono d’accordo con sua madre che mi sarei presa cura io, di lei.”

“E io, di voi… ma, a quanto pare, non l’ho fatto” replicò Joshua, passandosi una mano sul viso contratto dall’ira. “Puoi dirmi come ti sei accorta di lui, Sarah? Raccontarmi com’è andata?”

La ragazzina assentì lesta, e lo osservò vagamente preoccupata mentre il suo Fenrir si lasciava scivolare a terra, la schiena poggiata svogliatamente contro la scrivania. Sembrava davvero provato.

“Vidi alcune fotografie del signor Crowford assieme a mio padre, mentre erano al Vigrond. Fu lui a spiegarmi chi fosse, e a dirmi quanto foste legati” cominciò col dire la giovane, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. “Così, gli chiesi di più e papà mi disse che era un avvocato e che, in quando serviva, era lui a occuparsi dei casi in cui i lupi si cacciavano nei guai con la legge degli umani.”

Joshua annuì meccanicamente, sapendo che tutto ciò corrispondeva a verità. T.J. aveva letteralmente salvato il culo a un sacco di lupi, nel corso di quegli anni.

Anche per questo, trovava inaccettabile che lui avesse tramato contro il suo stesso branco, e proprio con gli odiati Cacciatori.

“Trovai strano vederlo in scuola, visto il lavoro che fa, perciò lo seguii. Pensai che fosse venuto per vedere miss Stewart, così mi posi l’imperativo di dirgli che quel giorno non era presente a scuola ma, quando svoltai l’angolo e lo vidi con miss Grey, mi nascosi.”

Si lasciò andare a un sorrisino imbarazzato, e aggiunse: “Pensavo che avessero una tresca, così fui tentata di allontanarmi.”

Lasciandosi andare a un mezzo sorriso, Joshua assentì e disse: “Sì, sarebbe da T.J. trovarsi una donna umana, così per cambiare un po’. Cosa ti trattenne lì?”

“Sentii il vostro nome, e mi parve strano, visto che a pronunciarlo fu miss Grey. Ero abbastanza sicura che non facesse parte del branco, visto che miss Stewart mi aveva detto chiaramente chi facesse parte del clan, all’interno della scuola. Fu la prima cosa che mi venne insegnata, dopo la mia iscrizione a scuola.”

Joshua assentì ancora, stupendosi ulteriormente della grande capacità di osservazione di quella ragazzina.

Per quanto umana, e quindi limitata nelle capacità come nei sensi, era riuscita a essere lesta di pensiero a sufficienza per cogliere particolari che forse, anche un giovane licantropo, non avrebbe notato.

E dire che Joshua si considerava così superiore a loro!

Ridendo di se stesso, Fenrir sospirò e disse: “Mai pensato di entrare in polizia? O sei troppo giovane?”

Sarah sorrise timida e replicò: “Ho quindici anni, Fenrir. E’ ancora un po’ presto, temo.”

“Magari potresti tenere compagnia alla mia Geri. E’ appena stata elevata a tale incarico, e credo che si senta un po’ sopraffatta, al momento. Forse, chiacchierare con chi ha un occhio così acuto, potrebbe divertirla e rasserenarla un poco” disse Joshua, pensando a Gwen e al momento in cui l’aveva insignita del titolo.

Le era sembrata così desiderosa di fare del suo meglio, così pronta a spingersi al limite… ma anche molto insicura di se stessa, nonostante Joshua avesse visto in lei le indubbie doti di un Geri.

Forse, essere la guida di una ragazzina dall’acume così pronto, le avrebbe reso le cose più facili. E l’avrebbe fatta sentire meno sola in quel ruolo così duro da portare avanti.

Chissà… a quanto pareva, non era un bravo conoscitore dell’animo delle persone, altrimenti si sarebbe accorto del doppiogioco di T.J.

Sarah, comunque, lo distrasse a sufficienza con il suo rossore e la sua emozione dirompente, tanto che lo strappò alla sua iniziale inedia, portandolo a sorridere.

“Sarei davvero onorata di conoscere la Geri del branco, anche se non mi reputo all’altezza di esserle di qualche aiuto” mormorò emozionata Sarah, reclinando ossequiosa il capo.

Gretchen le sorrise comprensiva e Joshua ne scrutò il profilo, scoprendovi un amore disinteressato verso la ragazza e molto, tantissimo orgoglio rivolto verso quella piccola umana.

Era chiaro quanto tenesse alla sua allieva, e quanto il fatto che lei fosse umana non le importasse nulla.

In questo, lui aveva molto da imparare.

Lui si era ritenuto a torto superiore agli umani, in quanto beneficiato da una forza superiore e dal passato ancestrale. A quanto pareva, invece, aveva peccato di ingenuità e superficialità al pari di qualsiasi altro essere, e ora ne scontava il fio.

Sopra a ogni altra cosa, una giovane ragazzina lo aveva messo dinanzi alle sue mancanze e, invece di fargliele pesare, si riteneva onorata dalla sua attenzione e dalle sue premure.

Era davvero il colmo!

Rialzandosi in piedi a fatica – la verità pesava ancora su di lui come un macigno, rendendogli pesante anche il solo camminare – Joshua la raggiunse, le si inginocchiò nuovamente dinanzi e strinse le sue mani tra le proprie.

Con gentilezza ne baciò i palmi, sorprendendo la stessa Gretchen, e disse con profonda contrizione: “Forse non ti rendi neppure conto dell’enormità del tuo gesto, Sarah, ma sappi che hai reso un grande servizio al tuo Fenrir e al branco tutto.”

“Anche se vi ho reso triste?” mormorò la giovane, ormai paonazza in viso per l’emozione.

Lui sorrise e annuì. “La tristezza nasce dalla consapevolezza che la mia superbia ha messo in pericolo il mio branco. Ho messo al di sopra di qualsiasi sospetto una persona a cui tengo molto, dimenticandomi che non posso permettermi di essere parziale. Sono la vostra guida, il vostro faro e la vostra protezione… ma ho fallito.”

“Papà mi ha detto che nessuno è infallibile… neppure un lupo. E’ per questo che dobbiamo sempre avere qualcuno che ci guardi le spalle” gli sorrise Sarah.

“Tuo padre ha dimostrato molta saggezza, nel dirtelo. E dimmi, Sarah… hai pensato alla possibilità di essere trasformata, o preferisci rimanere umana?”

“Papà mi ha spiegato tutte le possibilità, così come ha fatto con mamma ma, da quel che so, mamma ha deciso di aspettare per dare un figlio a papà adesso” gli spiegò Sarah. “Quanto a me, desidero ultimare gli studi da umana e poi tentare la Mutazione.”

Joshua assentì, mormorando: “Saresti più forte come umana, e meno suscettibile agli sbalzi ormonali. E’ una buona cosa.”

“Ho pensato di sì” assentì Sarah, prima di sobbalzare leggermente quando udì bussare con una certa violenza alla porta.

Joshua si rialzò e, adombrandosi in viso, borbottò: “E’ arrivato Keath.”

N.d.A.: La bomba è stata lanciata e si è scoperto chi abbia tradito la fiducia di Joshua. Immagino abbiate notato quanto, rispetto al Joshua che conosciamo noi, questo sia più superbo, specialmente riguardo agli esseri umani. Beh, è proprio in questa occasione che capirà la sua superficialità e migliorerà se stesso.

Scopriamo anche che rapporto lo leghi - o meglio, non lo leghi ancora - a Gretchen, che non sembra affatto intimidita da lui. E' donna capace di tenergli testa, perciò vedremo come e se Joshua si comporterà con lei.

Alla prossima!

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Capitolo 42
*** Past and Future (Joshua)- Cap.3 - 2012/2007 ***


3.

 

 

 

 

Il Freki del branco entrò all’assenso del suo Fenrir e, nel notare le persone presenti all’interno del suo ufficio, annusò per un istante l’aria e borbottò: “Uhm… la figlia di Greg. Come mai la sua cucciola adottiva è qui?”

Joshua non si sorprese che Keath la conoscesse. In quanto sicario del branco, aveva una memoria infallibile al pari del corvo Muninn, che aiutava Geri nel suo lavoro di controllo e ricerca.

“Mi ha portato all’attenzione un fatto molto grave, e di cui mi reputo in gran parte responsabile” mormorò Joshua, sorprendendo non poco Keath, che sollevò turbato un sopracciglio.

Era raro che il suo Freki si lasciasse andare ad espressioni facciali che non riguardassero la sfera della rabbia, perciò quell’espressione confusa fu un’autentica novità, per Joshua.

“E la femmina? E’ qui per proteggerla?” borbottò Keath, squadrando con un certo interesse Gretchen “Oppure è qui per una motivazione che non c’entra nulla con la cucciola umana?”

Sia Joshua che Gretchen arrossirono loro malgrado e quest’ultima, fulminando con lo sguardo il Freki, borbottò irritata: “Sarai anche il sicario del branco, Keath, ma vedi di farti gli affaracci tuoi!”

A quel punto, il Freki sorprese davvero tutti esplodendo in una calda risata di gola, cui fece seguire un commento davvero inaspettato.

“Calmati, Gretch… non mordo, davvero.”

“Detto da te, è davvero credibile!” sbottò la donna, irritandosi ancora di più.

Sarah sorrise divertita da quel battibecco e Joshua, scrollando le spalle, ammiccò al suo indirizzo e le disse: “Non stiamo facendo una gran figura, vero?”

“Immagino che, in quanto Freki, sia un imperativo indagare quando una cosa non quadra con i suoi standard di sicurezza, o di equilibrio interno del clan” chiosò la giovane, scatenando un’altra rara reazione sul volto di Keath. L’ammirazione.

“Questa ragazzina mi piace. E sì, è mio dovere essere sospettoso. A che proposito, mi domando, però?”

Joshua, a quel punto, tornò serio e gli mostrò il filmato di Sarah, lasciando che il suo sicario giudicasse da solo il dialogo tra le due parti.

Non v’era motivo di ingannarsi, in ogni caso. Miss Grey aveva esplicitamente chiesto a T.J. come aggirare le trappole attorno al Vigrond. Così facendo, avrebbero attaccato a riunione iniziata, colpendo in tal modo i lupi più potenti del branco con aconito e argento.

T.J. aveva spiegato dove trovare le trappole e come disinnescarle ma, cosa più grave di tutte, come mascherare il proprio odore per non insospettire i lupi.

“E’ chiaro che il nostro amico sapeva perfettamente che, quel giorno, Gretchen non sarebbe stata a scuola, o non si sarebbe mai arrischiato a vedere la Cacciatrice così allo scoperto” borbottò a mezza voce Keath, restituendo il cellulare a Sarah. “Sei stata brava, cucciola. E mi hai risparmiato mesi di appostamenti ben più che difficoltosi da mettere in pratica.”

“Cosa?” esalarono i tre, fissandolo basiti.

Keath sospirò, chiaramente dispiaciuto, e ammise: “Mi spiace dirtelo, Fenrir, ma già da un po’ sospettavo che T.J. stesse facendo qualcosa di non troppo chiaro… o legale. Fin da quando disse di essere tornato da quel viaggio a Montecarlo. Che non è andato esattamente come ci ha raccontato, tra l’altro.”

La sorpresa di Joshua salì alle stelle, così a Keath non restò altro che spiegare al suo Fenrir dei sospetti covati e della sua ricerca di prove nel Principato. Di tutto ciò che T.J. aveva raccontato a Joshua e ai suoi amici più stretti, nulla era corrisposto a verità.

Questo lo aveva spinto a delle ricerche più approfondite – il tutto all’insaputa di Joshua – ma complicate dal fatto che il licantropo non era facile da pedinare.

Scrollando le spalle, Keath ammise: “E’ maledettamente evasivo, e non volevo invischiare nella cosa anche Gwen, visto che lei sarebbe corsa a dirtelo da brava cagnolina obbediente quale sa essere.”

Joshua ghignò, replicando: “Se ti sentisse, ti taglierebbe le…”

Il leggero tossicchiare di Gretchen bloccò appena in tempo Joshua che, lanciando un’occhiata a una divertita Sarah, mormorò: “Ops…”

“Ho sentito di peggio. Davvero” ammise la ragazza.

“Beh, è comunque il caso che mi ricordi di non smoccolare davanti a te” sottolineò Fenrir, tornando a guardare il suo Freki per poi aggiungere: “Quindi, cos’hai scoperto?”

“Nulla di concreto. Evidentemente, avrei dovuto usare come spie dei cuccioli umani, così che il loro odore non lo rendesse sospettoso come invece è con l’odore dei lupi” chiosò Keath, scrollando le spalle.

Joshua assentì, ma gli domandò: “Cosa ti ha fatto pensare che fosse sospetto? E perché non me l’hai detto subito?”

“Posso dirti che, a dispetto di ciò che raccontava, il suo corpo diceva ben altro. T.J. è un mánagarmr di prim’ordine e il suo controllo dell’aura è eccezionale, perciò non mi stupisce che nessuno si sia accorto di nulla. Ma sai bene che io non mi baso solo su quello.”

Fenrir assentì grave, sapendo bene cosa intendeva. I Freki non si basavano solo sulle prove fisiche – anche l’aura veniva considerata una prova fisica – ma anche sugli aspetti inconsci trasmessi dal corpo.

Se, per la polizia, esistevano l’analisi comportamentale e la cinesica, tra i lupi si parlava di tanngrisnir1. Era un’abilità ormai rara, e solo alcuni Freki ne erano in possesso in epoca moderna, ed era utilissima per scovare la menzogna travestita da verità.

Il dono del tanngrisnir era simile alla capacità delle wiccan di riconoscere una bugia laddove veniva esposta, pur se non aveva la stessa portata, ed era limitato all’aspetto esteriore delle persone, e non alle loro parole.

“Cos’hai scoperto, a Montecarlo?” volle quindi sapere Joshua.

“Che ha perso ingenti somme ai tavoli da gioco, almeno a giudicare da come erano infuriati i gestori di un paio di casinò, che si sono ritrovati con una stanza d’albergo vuota e i conti da pagare” scrollò le spalle Keath. “A quanto pare, aveva dato dei falsi nominativi.”

Sbuffando, Joshua imprecò tra i denti. Usare documenti falsi era l’estrema ratio, per un lupo, e appoggiarsi alle associazioni criminali o pseudo tali che se ne occupavano era sempre cosa da farsi dopo averne parlato con Fenrir.

Cosa che, ovviamente, non era avvenuta.

“Non so dirti se è stata una semplice vacanza sfortunata, o se la cosa si è reiterata nel tempo, perché indagare su di lui non è affatto facile… ma potrebbe essere un buon motivo per tradire” terminò di dire Keath.

“Per soldi?” dichiarò disgustato Joshua.

Scrollando le spalle, Keath assentì prima di dire: “Non sarebbe il primo che si fa fregare per una motivazione simile. Quindi, cosa pensi di fare, a questo punto? Vado a prenderlo?”

“Lasciamoli avvicinare. Daremo loro una dimostrazione di cosa vuol dire essere lupi… alla fine, giudicherò T.J.”

Keath annuì senza problemi e, dopo un momento di indecisione, allungò una mano in direzione di Sarah, dicendo: “Grazie, cucciola umana. Mi hai davvero tolto dall’impiccio. A buon rendere. Se qualche ragazzo fa il bullo con te, lo sgozzerò volentieri.”

Gretchen sbuffò esasperata, replicando: “Basta parlarci, con la gente, Keath.”

“Tu fai l’insegnante, Gretch. Io sono un buttafuori. Secondo te io ci parlo, con la gente?” ghignò il lupo, prima di arruffare la chioma bionda di Sarah con la mano per poi andarsene a grandi passi, esattamente come era arrivato.

La ragazza fissò senza parole la porta oltre la quale era scomparso il licantropo e, nel lanciare un’occhiata dubbiosa al suo Fenrir, domandò: “Scherzava, vero?”

“Non ne sono del tutto sicuro ma, evidentemente, lo hai colpito. E’ davvero raro che Keath ringrazi qualcuno e, soprattutto, che si comporti con gentilezza” le sorrise benevolo Joshua. “Saprò ringraziarti anch’io… e senza spargimenti di sangue, promesso. Per ora, lascia che Gretchen ti scorti a casa, e porta con te i miei ossequi, cucciola del branco.”

“E’ stato un onore essere d’aiuto” mormorò Sarah, reclinando cortesemente il capo prima di recuperare la sua cartella dal divano.

Gretchen ringraziò a sua volta, ma Joshua la bloccò gentilmente a un braccio, mormorando: “Fai in modo che una sentinella vigili sulla sua casa. Starei più tranquillo.”

“Sarà fatto” annuì lei, avviandosi poi assieme alla ragazza per uscire dall’ufficio.

Una volta rimasto solo, Joshua chiamò il suo Sköll e disse: “Abbiamo un problema. Raggiungimi qui assieme a Michael.”

***

Fergus si grattò la zazzera di rossi capelli, tagliati in modo marziale e che attorniavano un viso pallido e ricco di efelidi, sbuffò sonoramente e infine disse: “Beh, di sicuro non abbiamo fatto una gran figura, di fronte a questa cucciola.”

Joshua assentì, torvo in viso, replicando: “Me ne assumo la colpa, visto che T.J. è mio amico e, volente o nolente, ho sempre parteggiato per lui, se così vogliamo vederla.”

Michael annuì lentamente, pensieroso non meno del suo Fenrir e, stiracchiandosi le braccia nerborute, afferrò il suo cappello da poliziotto – che aveva abbandonato nervosamente sul divano al suo arrivo – e chiosò: “Per me la faccenda è semplice. Facciamoli fuori tutti ed eliminiamo il problema alla radice.”

“Mick, non possiamo semplicemente far sparire dalla faccia della Terra una dozzina o più di Cacciatori. Dobbiamo prima di tutto pensare a come gestire la cosa a livello burocratico. Mi meraviglia che tu, un poliziotto, non pensi a cose come queste” brontolò in risposta Joshua.

Michael imprecò per diretta conseguenza e sbottò dicendo: “Cristo santo, lo so benissimo, ma mi fa girare le palle il fatto che quelli possano muoversi come vogliono, mentre noi dobbiamo girare con i piedi sui carboni ardenti a ogni nostro minimo starnuto.”

“Siamo in minoranza, Mich, e siamo all’apice della catena alimentare. In quanto predatori, dobbiamo essere noi per primi a salvaguardare il sistema, e questo non prevede lasciare scie di cadaveri nella tenuta di un nobile inglese” sottolineò con un mezzo sorriso Joshua.

“Colton inorridirebbe al solo pensiero, lo so” sbuffò Michael, pur ghignando. “Lui adora gli umani e, se fosse per lui, li salverebbe tutti.”

“Conosce benissimo la differenza tra un umano indifeso e un Cacciatore…” precisò Joshua, scuotendo il capo. “… e poi, se proprio vogliamo essere onesti, è lui a essere più corretto di noi, in questo ambito.”

Nel dirlo, Joshua sospirò e, con la mente, tornò alla telefonata fatta proprio a Colton pochi minuti prima dell’arrivo dei suoi Gerarchi.

Memore dell’incidente accaduto nei pressi del Vigrond, e per cui T.J. aveva accusato Colton di negligenza per poi prendersi l’impegno di parlargli – così da non far intervenire direttamente Fenrir nella disputa – Joshua aveva chiamato per chiedere lumi.

Aveva così scoperto che, non solo Colton non aveva visto né sentito T.J., in quegli ultimi giorni, ma che quella zona era stata battuta proprio da Theo per togliere un peso a Doris, una delle sentinelle, perché potesse occuparsi del figlio malato.

Questo aveva messo il coperchio sulla bara ove Joshua aveva infilato l’amicizia con T.J. e, con tono contrito, si era scusato con il suo sottoposto prima di chiudere la chiamata.

Menzogne su menzogne, e ancora Joshua non sapeva quante altre T.J. ne aveva inventate, pur di coprirsi le spalle.

Nel dargli una pacca sulla spalla, Fergus asserì: “Sappiamo tutti bene, a parole, che dobbiamo mantenere una salda collaborazione con gli umani inconsapevoli, e che dobbiamo proteggere con solerzia i nostri cuccioli umani e i neutri, ma so cosa vuoi dire… è difficile non pensare a tutti gli assassini a sangue freddo che cercano ogni volta di ucciderci.”

“Sarah e il suo gesto mi hanno fatto capire quanto, in verità, non abbiamo tenuto fede a questo precetto. Finora ho ignorato la parte non mannara del mio branco, limitandomi a tollerarla, ma è dannatamente sbagliato pensarla così” ammise Joshua, lanciando un’occhiata irritata al suo riflesso nel vetro di un quadro.

Era a malapena visibile, ma poteva scorgere anche troppo, di sé, e ciò che vedeva non lo inorgogliva affatto.

Si era fatto vanto di non aver avuto alle spalle un passato tragico da affrontare, di aver avuto un passaggio di potere tra i più pacifici che la storia dei lupi ricordasse e, non da ultimo, di avere un branco forte e coeso.

Non aveva però fatto i conti con la parte più meschina di sé, quella che tollerava a stento gli umani e che, di fatto, avrebbe preferito non avere all’interno del suo branco delle simili zavorre.

Sarebbero stati più forti, senza quegli anelli deboli della catena. Eppure, proprio da lì era giunto un aiuto insperato, e contro un nemico che lui non avrebbe mai immaginato di avere.

Il suo migliore amico. T.J.

Reclinando colpevole il viso, Joshua mormorò: “Farò ammenda per la mia supponenza e per la mia superficialità, ma ora dobbiamo pensare a come eliminare i Cacciatori e la loro minaccia.”

Michael e Fergus assentirono torvi e a Joshua non rimase altro che afferrare il suo telefono per ammettere, con un altro Fenrir, di aver bisogno di aiuto.

***

Bright Cox rispose al terzo squillo del cellulare, sorpreso dalla chiamata di Fenrir di Londra e, a mezza voce, domandò: “Ehi, Joshua, qual buon vento?”

“Vento di tempesta, temo.”

Accigliandosi immediatamente, Bright lanciò un’occhiata a Estelle e Kate – impegnate in una difficilissima partita a Fallout 3 – e queste, interrompendo subito il videogioco, attesero le sue mosse.

Subito, Bright si avvicinò alle due per far loro ascoltare la telefonata e, di seguito, disse: “Parla pure, amico. Ci sono Estelle e Kate, con me.”

“Benissimo, perché ho giusto bisogno dell’aiuto della tua wicca, per risolvere il mio guaio, ma so già di chiedere molto” asserì spiacente Joshua.

Da sempre, Bright era stato iperprotettivo e molto possessivo con la sua wicca e, ben di rado, Fenrir di Aberdeen aveva lasciato che Kate uscisse dal suo territorio per avventurarsi in branchi vicini.

Non ne conosceva esattamente i motivi ma, a giudicare da come anche Estelle e le sue tre hábrók2 ne vegliavano ogni passo, qualcosa di estremamente oscuro doveva averla colpita in passato.

Vista la sua situazione, però, doveva almeno tentare.

Bright si fece cauto e domandò: “In cosa, la mia wicca, può esserti utile?”

“Purtroppo siamo stati vittima di un tradimento, Bright. Immagino che ricorderai T.J.”

L’uomo fece tanto d’occhi, a quell’accenno, e così pure Estelle che, scioccata, esalò: “Ma… è sempre stato tuo amico, da quel che avevo capito.”

“Così pensavo, Prima Lupa, ma mi sono grandemente ingannato, e devo questa scoperta al coraggio di una delle mie cucciole umane” ammise suo malgrado Joshua.

Lo stupore crebbe nel trio e Bright, sbalordito, mormorò: “Questa faccenda si fa sempre più oscura, amico mio. Ma, se già sai che T.J. è un traditore, in cosa può aiutarti Kate?”

“T.J. è in combutta con dei Cacciatori, Bright. Attaccheranno il nostro Vigrond al prossimo Novilunio, quando terrò una riunione tra alfa, e in quel momento tenteranno di distruggerci” gli spiegò Fenrir di Londra, aborrendo ogni singola parola proferita.

Quella notte non aveva dormito, ripensando alle parole di Sarah e a ciò che aveva a sua volta scoperto Keath.

Tutte le sue certezze erano cadute in un baratro senza fondo, ma da cui lui aveva tutta l’intenzione di risorgere. Anche a costo si farsi strada a colpi di zanna.

A Bright sfuggì un’imprecazione e Kate, nel sorridere al proprio Fenrir, disse sommessamente: “Non dubito che Fenrir di Londra e i suoi lupi riusciranno nell’intento di fermarli, ma capisco le sue richieste non ancora poste. Se attaccheranno in forze, non potranno di certo ucciderli, ti pare?”

“La tua perspicacia mi irrita, Kate, ma so dove vuoi andare a parare, e perché Joshua abbia bisogno di te” sbuffò contrariato Bright.

Estelle sorrise a entrambi e disse: “Immagino che uccidere così tanti umani sarebbe un problema. Dove farli sparire senza mettere in allarme il mondo degli umani?”

“Saggia deduzione, Prima Lupa” dichiarò Joshua.

“Il modo più pratico per ovviare al problema è catturare i Cacciatori e cancellare loro la memoria e, laddove necessario, lasciare che l’artiglio di Freki colpisca con metodo chirurgico” dichiarò pensierosa Kate, tamburellandosi un dito sul mento.

“Sarebbe uno sforzo immane, Kate” brontolò irritato Bright, ben deciso a proteggere la sua wicca a ogni costo.

“Beh, conto sul fatto che Fenrir di Londra mi offrirà un pasto caldo e un letto in cui dormire, in seguito al mio intervento” ironizzò a quel punto la ragazza, inclinando il capo di ricci capelli ramati.

“Tutto ciò di cui avrai necessità, e anche ciò che vorrai per semplice sfizio, ti sarà servito su un piatto d’argento” le garantì a quel punto Joshua, ora un po’ più speranzoso.

“Sei sicura?” sottolineò ancora Bright.

A quel punto, Kate sorrise a Estelle e mormorò: “Non è dolcissimo, il nostro Bright?”

“L’ho voluto anche per questo” assentì la Prima Lupa, mentre il suo Fenrir arrossiva come un peperone.

Joshua non poté che sorridere, di fronte a quello scambio di carinerie – di cui, era sicuro, Bright si stava vergognando a morte – e, tra sé, si chiese cosa volesse dire avere un rapporto simile con la propria lupa.

Subito, l’immagine di Gretchen balenò nella sua mente, turbandolo.

Non era proprio il momento per pensare a belle lupe dai riccioli fluenti, e occhi che sapevano tagliare in due una persona, ma gli venne spontaneo.

“Prima che queste due mi mettano ancor più in imbarazzo…” iniziò col dire Bright, tossicchiando nervosamente. “…acconsento a che Kate venga da te, ma manderò con lei Susan Walker per proteggerla.”

“Una delle hábrók di tua moglie? Pensi davvero che non basterebbero i miei lupi, a tenerla al sicuro?” protestò debolmente Joshua, vagamente piccato. Per chi lo aveva preso?!

Bright scoppiò a ridere, e replicò: “Mi hai frainteso, Joshua. Mando Susan assieme a lei perché, se così non facessi, quelle tre donne dispotiche potrebbero fare il culo a strisce al sottoscritto. Non posso mandare in giro la loro pupilla senza una degna protezione.”

Estelle e Kate risero sommessamente di quella confessione e Joshua, vagamente sorpreso, esalò: “E tu… le lasceresti fare?”

“Temo che Estelle mi terrebbe in ostaggio, aiutato da Krissy e mia madre, se succedesse qualcosa a Kate. Sono circondato da donne selvagge” si lagnò ironicamente Bright, guadagnandosi uno schiaffetto sul braccio da parte della moglie.

Joshua rise nonostante tutto e disse seriamente: “Sono in debito con te, Fenrir di Aberdeen.”

Tornando serio, Bright replicò: “Tieni al sicuro la nostra Kate, e il debito sarà annullato.”

“Lo farei in ogni caso. La luna ti protegga, amico.”

“E guidi il tuo passo nella notte, amico mio. Buona fortuna e, se vuoi, richiamami, dopo questa sciagurata storia” ci tenne a dire Bright.

Non dubitava che, una volta portata a termine la missione, Joshua avrebbe avuto una discreta dose di demoni da affrontare, e non voleva lasciare solo un amico a confrontarsi con simili nemici.

Joshua attese qualche attimo prima di rispondere e, dopo aver salutato il trio, chiuse la comunicazione e si lasciò scivolare stancamente sul divano.

La notte imperava, sulla città della regina, e il traffico non sembrava abbandonare mai le strade, rendendole simili a immense scie luminose sempre diverse, sempre in movimento, sempre mutevoli.

L’uomo si accoppiava con la donna, il ragazzo correva per raggiungere la metro, la lupa varcava la soglia di casa dopo il lungo lavoro, il tutto in un continuo e perpetuo susseguirsi di corpi, azioni, decisioni.

La sua, di decisione, era ormai stata presa, e non sarebbe tornato indietro.

Aveva sbagliato, e grandemente, ma avrebbe fatto ammenda per questo e, di sicuro, avrebbe tentato di non commettere più quello stesso, tragico sbaglio.

Afferrato nuovamente il telefono, perciò, chiamò Fergus perché gli organizzasse un incontro con il rappresentante umano del suo branco, dopodiché uscì.

Non voleva rimanere a casa, quella sera, e girovagare per le vie di Londra gli sembrava un ottimo metodo per non pensare a ciò che tanto lo arrovellava.

T.J. lo aveva tradito – avrebbe scoperto a ogni costo perché – e, cosa ancora più grave, aveva venduto il segreto del Vigrond ai loro odiati nemici.

Anche solo per questo, avrebbe ricevuto la punizione peggiore possibile ma, prima di ogni altra cosa, avrebbe fatto capire a Theodor quanto avesse sbagliato nell’allearsi col nemico.

Non gli avrebbe però permesso di comprendere quanto, il suo tradimento, lo avesse ferito, poiché non meritava neppure questo, da parte sua.

“Fenrir…” mormorò una voce alle sue spalle, sorpresa e preoccupata assieme.

Joshua si volse a mezzo, a sua volta sorpreso, e scrutò con desiderio e struggimento assieme il viso candido di Gretchen, in quel momento avvolto dai suoi riccioli castano dorati.

Il lungo cappotto di lana le raggiungeva i polpacci, coprendo quasi interamente il lungo corpo longilineo e perfetto, ma Joshua non aveva bisogno di vederla per sapere com’era fatta.

Fin da quando Gretchen era giunta nel suo branco, più di due anni addietro, chiedendo di poterne fare parte, lui aveva smesso di dedicarsi ai diletti di una notte, troppo preso da lei, da tutta quanta lei.

Trasferitasi da una piccola scuola nelle campagne del Wessex, Gretchen si era detta entusiasta di poter finalmente far parte di un branco. Nel suo paese di origine si era ritrovata a crescere da sola, senza amici lupi con cui condividere il segreto.

Joshua si era dichiarato ben disposto ad accoglierla – così come ad accogliere i suoi genitori, se mai lo avessero desiderato – e, da quella prima volta al Vigrond, aveva tenuto discretamente sott’occhio la sua vita di lupa e di donna.

L’aveva sorpreso notare quanto poco si fosse interessata a fare conoscenze in campo sentimentale ma, dopo aver scoperto quanto tenesse ai suoi allievi, aveva infine compreso.

Tutto il suo impegno andava alla scuola, ai suoi cuccioli da svezzare e far crescere. Per il resto, vi sarebbe stato tempo.

Una donna seria, una lupa forte… e ora si trovava dinanzi a lui, dubbiosa e protesa verso di lui con l’aura incerta a sfiorarlo delicatamente.

Joshua non attese oltre.

Annullò la distanza che li separava e, avvolto un braccio attorno alla sua vita, la schiacciò contro di sé e fece sua la bocca di Gretchen che, ben lungi dal voler allontanarsi, affondò una mano nei suoi capelli per attirarlo maggiormente a sé.

Si baciarono così, nel mezzo di quel tranquillo marciapiede, illuminati parzialmente dai lampioni mentre le macchine sfrecciavano a lato, come se non dovessero scorgere l’alba del giorno seguente.

Solo dopo un tempo indefinibile Joshua la lasciò – o fu lei a permetterglielo? – e, per nulla turbato da ciò che aveva fatto, mormorò: “Ho tardato. Scusa.”

“Sei indaffarato” si limitò a dire lei, sorridendo con le labbra tumide.

Lui le sorrise di rimando, si scostò da lei per offrirle la mano e, passeggiando lungo il marciapiede, le domandò: “Come mai ti trovavi nei paraggi? Non abiti nei pressi di Fitzrovia?”

Annuendo, Gretchen si limitò a dire: “Desideravo sapere come stavi, dopo la bomba lanciata da Sarah. Ma così è meglio.”

Joshua rise nonostante l’assurdità della situazione e, mestamente, ammise: “T.J. mi aveva detto di farmi avanti con te, a dir la verità.”

“Per quanto mi spiaccia dirlo, avresti dovuto ascoltarlo ma, come dicevo prima, so che sei indaffarato” replicò lei, scrollando le spalle. “Avete deciso cosa fare?”

“Farò intervenire la wicca di Aberdeen… e coinvolgerò gli umani del branco” le fece sapere lui, sorprendendola.

“Ma… anche loro?”

Fermandosi a metà di un passo, Joshua assentì e disse contrito: “E’ tempo che io sia più umile, e loro più addentro alla vita del branco. Mi sono comportato da idiota, finora, ma non è detto che non possa migliorare. Ti pare?”

Lei si limitò a sorridergli e, annuendo, chiosò: “Sarò della partita, se me lo permetterai.”

“Ne sarei felice” assentì lui, poggiando la fronte contro quella di Gretchen prima di sospirare e domandarle: “Come ho potuto essere così cieco?”

“Lo amavi, Fenrir. L’amore ci fa commettere sciocchezze, a volte, e non sempre finiscono bene.”

Lui sorrise, tornò a baciarla e infine le domandò: “Ti va di una passeggiata notturna al Regent’s Park?”

“Molto volentieri” annuì lei.

L’indomani mattina avrebbe incontrato il suo rappresentante umano del branco ma, per quella sera, poteva concedersi qualche ora solo per Gretchen.

 

 

 

 

N.d.A.

1: tanngrisnir: significato letterale “che fa stridere i denti”. Era una delle bestie mitiche che trainavano il carro da guerra di Thor. Ho usato il significato letterale per indicare qualcosa che non combacia con la realtà e, perciò, fa stridere i denti per il sospetto. (o storcere il naso)

2: habrók: citato da Snorri Sturluson in Gylfaginning (prima parte dell’Edda in Prosa), era il “migliore tra i falchi”. Si sa poco o nulla di questa creatura, tranne le sue grandi abilità nella caccia e nella predazione. Ho pensato potesse essere un buon nome per il titolo che Estelle ha dato alle sue protettrici.

 

 

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Joshua si ritrova davvero in una brutta situazione, aggravata dal fatto che, a mettere a rischio il branco, è proprio il suo migliore amico. La presenza di Gretchen, però, gli da un minimo di conforto.

Cosa avverrà, quindi, al traditore? E quale sarà la decisione di Joshua?

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Capitolo 43
*** Past and Future (Joshua)- Cap.4 - 2012/2007 ***


 

4.

 

 

 

L’ultimo appuntamento della serata, per quel giorno, non sarebbe stato con un post-trauma di qualche genere, o un’attempata signora con la schiena dolente, ma con Fausto Rinaldi, il rappresentante degli umani del suo branco.

Figlio di un italiano immigrato nella prima metà degli anni cinquanta, Fausto era venuto in contatto con il mondo dei licantropi per merito – o a causa – delle scelte dell’allora figlia sedicenne.

Infatuatasi di uno dei membri più giovani del branco, Clarissa, o Clary come la chiamavano tutti, aveva passato tre anni assieme al reticente lupo, prima che la verità venisse sviscerata.

A quel punto la ragazza, ormai maggiorenne, aveva preso la decisione di continuare il suo rapporto con il lupo e, in seguito, di essere trasformata, ma con l’opzione di poterlo dire ai genitori.

Il predecessore di Joshua aveva dato esito positivo alle sue richieste, dopo aver conosciuto i genitori di Clary. In fondo, era stato suo figlio a farla entrare nel mondo dei lupi, e lui si era ritenuto in dovere di essere reso partecipe dell’intero percorso.

A questo modo, Fausto e sua moglie Evelyn erano entrati a far parte – prima come spettatori meravigliati, e in seguito con sempre maggiore impegno – della loro grande famiglia mannara.

Era venuta a Fausto, in effetti, l’idea di creare un collettivo dove umani e neutri potessero dialogare e, in seguito, esporre le proprie idee a Fenrir, così da non importunarlo con domande inopportune o questioni insolvibili.

Il vecchio Fenrir gli aveva dato il benestare a procedere e, con l’inizio del nuovo millennio, Fausto era divenuto il rappresentante umano all’interno del branco.

L’amicizia tra il precedente Fenrir e Fausto aveva fatto il resto.

Quando udì bussare, Joshua non chiese neppure chi fosse. Il profumo di zucchero a velo e miele lo precedeva.

Fausto, infatti, era uno dei pasticceri più rinomati della città.

Quando l’uomo robusto e dai capelli sale e pepe entrò nello studio privato di fisioterapia della famiglia Ridley, Joshua disse: “Ben arrivato, Fausto.”

“Joshua” mormorò l’uomo, guardandosi intorno con curiosità. “Tuo padre non c’è? Gli avevo portato le madeleine che mi aveva chiesto.”

Ah, ecco il motivo del profumo!, pensò tra sé Joshua prima di dire: “Gliele porterò io. E’ dovuto scappare di corsa perché una sua cliente è rimasta bloccata con la schiena.”

Fausto emise un gemito di dispiacere, forse avendone a sua volta sofferto, e borbottò: “Non la invidio per niente.”

“Neppure io, soprattutto visto che ha tre figli indemoniati che la fanno diventare matta, e il marito fa sempre il turno di notte, perciò non può aiutarla, adesso” sorrise Joshua, invitandolo nel suo ambulatorio privato.

Fausto lo seguì e, al cenno della mano di Joshua, si accomodò su una comoda poltrona ergonomica in pelle nera.

Poggiate poi le due confezioni di madeleine sulla scrivania, Fausto domandò: “In cosa posso esserti utile? E’ forse successo qualcosa?”

“Più di una cosa, a dire la verità, e in parte per colpa mia” sospirò Joshua, intrecciando le mani sul sottobraccio della sua scrivania. “Abbiamo scoperto un traditore nel branco, e grazie a una delle nostre cucciole umane. Sarah Ellison, per l’esattezza.”

Fausto sgranò gli occhi per la sorpresa ed esalò: “La piccola Sarah? E come ci è finita in mezzo?”

Joshua, così, fu costretto ad ammettere chi fosse il traditore, e come la giovane umana si fosse resa protagonista di un gesto estremamente coraggioso.

Fausto ascoltò il tutto nel più severo silenzio e solo alla fine si permise di dire: “Mi spiace molto, Fenrir. Davvero.”

Joshua si lasciò andare a un risolino nervoso, ammettendo: “Pensavo di avere più discernimento di così, ma evidentemente mi sono sopravvalutato.”

Fausto, però, si esibì in una scrollata di spalle e replicò: “Se dovessimo valutare le persone soltanto per i loro errori, rimarrebbero in vita in pochi. Si è fallibili, ma l’importante è ammettere di poter sbagliare, e poi prodigarsi per sistemare le cose.”

“Se io sbaglio, però, metto a rischio la sicurezza della mia gente” sottolineò colpevole Joshua.

“Anche un dottore che opera mette a rischio il paziente, se non è attento ma, se rinunciasse al primo errore, nessuno opererebbe più, e allora sì che saremmo nei guai. Si impara anche – e soprattutto – dai propri inciampi” gli sorrise Fausto, serafico. “Hai enormi responsabilità, è indubbio, e non riesco neppure a capire come tu riesca a dormire di notte al solo pensiero di dover controllare così tante anime, ma è chiaro a tutti quanto tu sia un bravo leader, esattamente come Randolf, il tuo predecessore.”

“Pur se non sono stato obiettivo? Neppure con voi?” ci tenne a sapere Joshua.

Fausto, a quel punto, sorrise divertito e replicò: “Vuoi sapere qual è stata la prima cosa che mi ha detto Randolf, quando gli ho proposto l’idea del Comitato Interspecie? Mi ha riso in faccia, dicendo che poteva benissimo gestire le cose come aveva sempre fatto.”

Ciò detto, mimò il vecchio alfa mentre intrecciava borioso le braccia sul petto e metteva un broncio pauroso.

Joshua ammiccò divertito e ammise: “Sì, ce lo vedo a rispondere una cosa del genere. Noi lupi siamo assai orgogliosi, oltre che testardi.”

“E avete zanne da far paura, ma siete anche in grado di vedere oltre il vostro orgoglio di animali fieri e potenti, quando la necessità lo richiede” asserì a quel punto Fausto. “Discutemmo per circa tre ore, quella volta ma, alla fine, ammise che, di certe cose, proprio non avrebbe saputo come occuparsi, così capì che il mio aiuto gli serviva.”

“E di quali cose si è ritenuto così inesperto, se posso chiedere?” domandò curioso Joshua.

“Le crisi d’identità dei neutri. Noi umani possiamo avere la possibilità di mutare, se lo vogliamo, ma loro non potranno mai, pur desiderandolo con tutto il loro cuore, e molti ne soffrono grandemente” ammise il pasticcere, intrecciando le mani in grembo. “Per un lupo, è un concetto astratto, perché voi conoscete solo un tipo di realtà. Per noi è più semplice perché ne comprendiamo meglio le limitazioni, specialmente se decidiamo di non trasformarci come ho fatto io, per esempio.”

Annuendo grave, Joshua ammise: “Sì, in effetti, un licantropo passa al massimo tredici anni in forma umana e, di quel periodo, ricorda ben poco, se non lo stretto necessario, perciò ci risulta difficile e complesso il percorso psicologico dei neutri. Coscientemente posso anche provare a comprendere, ma è difficile a livello inconscio e profondo.”

“Esatto. Perciò, istituire dei centri di ascolto guidati da personale umano e/o neutro, è stato un enorme passo avanti. Si sono evitati un sacco di guai e, lo ammetto, anche qualche suicidio” convenne Fausto, serio in viso.

Joshua ne era a sua volta consapevole. Non era una novità per nessuno che diversi neutri si fossero suicidati a causa della loro natura ibrida. Se non attentamente coadiuvati, potevano sviluppare dei sensi di inferiorità notevoli.

“Cosa ti proponi di fare, quindi?” chiese a quel punto Fausto, tornando all’argomento principale del loro discorso.

“I Cacciatori attaccheranno al Novilunio, con l’idea di bloccarci con aconito e reti in argento. Da quel che ho capito, pensano di fare scendiletto di molti di noi. Forse, non hanno ancora capito che, alla morte, torniamo umani. O forse, ci vogliono scuoiare da vivi... chissà.” ghignò irritato Joshua. “Se siete d’accordo, vorrei che presenziaste al Vigrond in vece dei miei mánagarmr, che attenderanno i Cacciatori a poca distanza dal nostro Luogo di Potere. Umani e neutri indosseranno abiti appartenenti ai lupi, così da confondere l’olfatto di T.J.”

Annuendo, Fausto mormorò pensieroso: “Lui avvertirà l’odore dei lupi, sia di quelli reali che dei ragazzi camuffati da licantropi, e non si stupirà dell’odore umano, visto che sarà in compagnia dei Cacciatori. Può funzionare. Il punto è un altro, però. Come la mettiamo coi neutri?”

“Potranno avvicinarsi. Durante il Novilunio, il potere del Vigrond è così esiguo che non causerà loro alcun danno. Il peggio che potranno avvertire sarà un po’ di emicrania” lo rassicurò Joshua. “Per ogni eventualità, verranno dotati di giubbotti antiproiettile, ma dubito fortemente che spareranno. Vogliono la nostra pelliccia, perciò non la rovineranno con i proiettili... varrebbe la pena farsi ammazzare anche solo per vedere la loro faccia sconvolta quando scopriranno che torniamo alle nostre sembianze umane. Ma non mi offrirò di certo volontario per questo esperimento culturale.”

Nel dirlo, sbuffò disgustato e Fausto, scuotendo il capo, borbottò: “Certa gente non imparerà mai.”

“Io spero di aver imparato, per lo meno” si limitò a dire Joshua.

Il pasticcere sorrise, annuendo, e domandò: “Di quanti uomini hai bisogno?”

“Una dozzina, direi. Solitamente, le riunioni del Novilunio contano soltanto i capi-sentinella e pochi altri alfa” lo informò Joshua.

Fausto assentì una sola volta, si alzò e dichiarò: “Mi metterò in contatto io con le persone giuste, poi ti manderò l’elenco via e-mail, va bene?”

“E’ perfetto. E grazie.”

“Siamo qui per essere d’aiuto, Fenrir. Non dimentichiamo mai che le sentinelle proteggono anche noi” si limitò a dire l’uomo, allungando una mano nella sua direzione.

Joshua la strinse pieno di gratitudine e di contrizione e, quando infine uscì a sua volta dallo studio – circa mezz’ora dopo la partenza di Fausto – trovò Gretchen ad attenderlo.

Era splendida nel cappotto bianco, stretto sui fianchi, che lasciava libera allo sguardo una gonna al ginocchio e gli alti stivali di pelle nera.

I capelli, intrecciati sulle tempie e la nuca, risplendevano alla luce dei lampioni e Joshua, annusando l’aria, mormorò: “Sei stata dalla parrucchiera.”

Lei annuì, sfiorandosi l’acconciatura elaborata, e ammise: “Colpita e affondata. Ti piacciono?”

“Sarebbe più facile dire cosa non mi piace di te” scrollò le spalle lui, offrendole il braccio.

“E cioè?” si interessò lei, curiosa.

“Devo ancora scoprirlo.”

Gretchen rise per un attimo, prima di tornare seria e domandargli: “Com’è andata?”

Joshua le raccontò del suo incontro con Fausto, e di come lui si fosse non solo offerto di aiutare, ma anche di come l’avesse ascoltato nel suo personale stillicidio.

La donna annuì più volte al suo racconto e, mentre si allontanavano camminando lungo il marciapiede, la sua aura avvolse quella del suo Fenrir, così da farlo sentire protetto e amato.

Comprendeva bene quanto si sentisse affranto e dispiaciuto, in quel momento, perché aveva sofferto a sua volta quando si era trasferita lì a suo tempo.

L’uomo di cui si era creduta innamorata l’aveva tradita con un’altra donna – vuoi per la sua spregiudicatezza, o per la sua posizione sociale – così quell’allontanamento le era servito per molteplici motivi.

Alla fine, era stato un bene non aver ammesso nulla del suo segreto con Benjamin e, forse, il suo subconscio aveva capito la realtà dei fatti molto prima del suo cuore.

Scoprire un nuovo equilibrio e vivere in mezzo a persone come lei era stato catartico, oltre che un’avventura mai sperimentata prima di allora.

Innamorarsi di Joshua era successo poco alla volta. Memore delle precedenti batoste sentimentali, aveva atteso molto prima di capire cosa fosse nato nel suo cuore per il prestante Fenrir di quel branco.

Ben sapendo di dover agire con molta cautela – la compagna di Fenrir non era una lupa qualunque – non aveva espresso i suoi sentimenti, ma aveva fatto in modo di conoscere meglio Joshua, e di farsi conoscere.

Il gesto della sera precedente, perciò, l’aveva sì sorpresa, ma anche riempita di gioia pur se sapeva che, se le cose si fossero protratte per lungo tempo, avrebbe dovuto fare i conti con tutto il branco.

Fenrir poteva concedersi tutte le storie che voleva, e anche scappatelle con chiunque ma, se desiderava veramente una donna – o un uomo – per sé, allora doveva essere interpellato l’intero clan.

E l’Ordalia era quasi un fatto certo, viste le forze in campo.

Non erano certo a quel punto – non era sicura di nulla in quel momento, se non di ciò che sentiva nello stare con Joshua – ma doveva tener conto del fatto che, prima o poi, avrebbe potuto mettere in gioco tutta se stessa, per lui.

Quando, però, Joshua le sorrise e ammiccò con i suoi curiosi occhi rosso scuro, non ebbe dubbi; per lui, avrebbe smosso montagne e scoperchiato vulcani.

***

Joshua non sapeva se vi fossero precedenti in tal senso, perché onestamente non si era informato in merito, ma fu davvero strano accompagnare costi tanti umani e neutri nel Vigrond.

L’atmosfera era satura di odori autunnali. La terra umida e calda, i funghi appena nati che spargevano le loro spore nell’aria, le foglie in decomposizione nel sottobosco.

Ogni cosa riportava al significato più ancestrale di vita, morte e rinascita e Joshua, nel pensarci, fu certo che anche quella notte avrebbero toccato ogni punto di quella lista.

T.J. non sarebbe sopravvissuto a quella retata e, anche grazie a Kate Alexander, i Cacciatori non sarebbero stati un problema.

Scrutando la giovane e minuta wicca, ritta al fianco della sua guardia del corpo personale, Joshua mormorò: “Tutto bene?”

Lei assentì e Susan, sfiorandole una spalla con la mano, le fece capire senza parlare che nessuno, quella notte, si sarebbe permesso di toccarla.

Michael e Fergus, in piedi accanto alla quercia sacra, stavano curiosando l’oscurità del bosco con i loro sguardi attenti mentre, nel mezzo del Vigrond, umani e neutri parlavano di confini e di segnalazioni.

Se T.J. si fosse arrischiato ad ascoltare, avrebbe sentito solo ciò che ci si aspettava da loro.

Colton, infine, si avvicinò a lui e, dopo essersi guardato intorno pieno di letizia, disse: “Questa cosa dovremo segnarla sul calendario. Mai visti così tanti senza pelliccia nel Vigrond.”

Joshua sorrise a mezzo, annuendo, e chiosò: “Potremmo farla diventare una cosa abituale. Il Novilunio, dopotutto, è un momento ideale per far partecipare tutti alla vita del branco.”

Colton si illuminò in viso al solo pensiero e asserì: “Potremmo far intervenire dei rappresentanti eletti, o fare a turno, così che nessuno si senta escluso. Inoltre…”

Joshua rise sommessamente e gli tappò la bocca, replicando: “Calmati, Martin Luther King… ogni cosa a suo tempo. Ora, risolviamo questa grana. Dopo, penseremo ai neutri e agli umani del branco.”

I have a dream… mi piace come idea” annuì Colton, tornando serio per poi andare a sistemarsi accanto agli altri due Gerarchi.

Kate, avvicinandosi a sua volta alla quercia, ne sfiorò la ruvida callosità della corteccia e mormorò: “Puoi esserci d’aiuto, Madre?”

Sono vicino, figlia mia… e con essi è presente un figlio della luna.

Annuendo a Joshua, Kate sussurrò: “Manca poco.”

Lui annusò l’aria per diretta conseguenza, ma non percepì nulla, se non gli odori classici del bosco e quello degli animali in lontananza.

Ghignando, borbottò: “Camuffamento sensoriale. Hanno usato dei feromoni specifici. Sono stati furbi e attenti a tutto. Chissà quanto altro avrà detto loro, quel bastardo?”

“Glielo chiederemo” lo rincuorò Fergus, aprendosi in un sorriso diabolico.

“Sembri Keath” lo prese in giro Joshua.

“Mi ci sento molto, stanotte” ammise Sköll, adombrandosi in viso. “Mi stupisce che abbia accettato di stare nella retroguardia.”

“Mi ha detto che vuole fare un’entrata a effetto” scrollò le spalle Joshua, tornando poi a scrutare il bosco dinanzi a lui.

Quei bastardi dovevano aver calcolato anche il vento, prima di partire, poiché non riusciva ad avvertire neppure la traccia odorosa di T.J. Oppure, anche lui aveva camuffato il suo odore per non essere percepibile.

Chissà. In ogni caso, lo avrebbe scoperto ben presto. Insieme ad altre cose a cui non voleva pensare, ma che sapeva bene lo avrebbero reso cieco di rabbia e di dolore.

Perché T.J. lo aveva tradito a quel modo?

***

Una cosa andava detta, dei Cacciatori. Avevano fegato da vendere, oltre a un’ottima conoscenza di tattica e chimica molecolare.

Non soltanto attaccarono con precisione chirurgica, lasciando intendere una preparazione militare di primordine, ma misero in difficoltà anche i pochi licantropi presenti al Vigrond, che ebbero i loro seri problemi a evitare aconito e reti.

Queste ultime, infatti, non furono lanciate a mano come presagito dai lupi, ma sparate. Ciò impedì di fatto un primo corpo a corpo frontale, che favorì i Cacciatori e costrinse umani e neutri a intervenire per intercettare le reti prima che colpissero i veri lupi.

Qualcuno doveva aver speso fior di quattrini al mercato delle armi, per dotarsi di apparecchiature di prim’ordine, e questo li spiazzò.

In ogni caso, anche grazie all’intraprendenza di neutri e umani e alla mancanza del fattore sorpresa, in breve i Cacciatori vennero surclassati e T.J. catturato da Keath, che aveva guidato l’orda di licantropi nascosti a poca distanza dal Vigrond.

Stesi a terra e legati mani e piedi con fascette di plastica – mentre T.J. era tenuto sotto tiro da Keath che, per l’occasione, aveva chiesto in prestito una delle pistole di Gwen – i Cacciatori erano circondati da coloro i quali erano venuti per uccidere.

Sporchi di aconito ma ben soddisfatti di poter essere stati d’aiuto, umani e neutri si tenevano a debita distanza dai lupi per non causare accidentali svenimenti ma, al tempo stesso, erano pronti a intervenire nuovamente, se necessario.

Dai loro occhi era chiaro quanto, quel coinvolgimento in una missione mannara, li avesse galvanizzati e, al tempo stesso, resi più consapevoli del loro ruolo all’interno del branco.

Di questo, Joshua fu soddisfatto ma, al tempo stesso, lo rese ancor più consapevole del proprio errore. Era stato superficiale a sottostimare il loro apporto nella vita del clan.

Lasciando però quel pensiero a un secondo momento, Joshua lanciò uno sguardo grato a Gretchen – in quel momento impegnata a proteggere il fianco di Kate – e si avvicinò infine a T.J.

Appariva tutto sommato spavaldo, pur se il suo viso era pallido e teso. Forse, la canna di pistola puntata alla sua fronte non lo rendeva poi così tranquillo.

“Ebbene, amico mio? A cosa devo questa comparsata imprevista?”

“Non è come pensi. Davvero. Li ho condotti qui perché poteste ucciderli e…” dichiarò T.J., subito raggelato dall’occhiata ferale di Fenrir.

“Non costringermi a utilizzare la Voce con te, Theo. Non mi va di usarla a sproposito ma, se non mi dirai la verità, non ti risparmierò nulla” lo mise in guardia Joshua, arcuandosi minacciosamente verso di lui.

Il pallore di T.J., allora, divenne divenne fiamma che riscaldò le sue gote di orgoglio ferito e, come ultimo tentativo disperato di salvarsi la vita, ringhiò: “Mi hanno costretto. Minacciavano la mia famiglia, e così…”

“Razza di schifoso bugiardo!” gli urlò contro uno dei cacciatori, il volto livido e furioso schiacciato contro il fogliame secco del sottobosco.

Joshua lasciò temporaneamente perdere T.J. per avvicinarsi all’umano che aveva parlato e, accucciandosi dinanzi a lui, domandò: “Puoi dirmi tu cosa è veramente successo?”

“E’ presto detto, animale… il tuo amico ti ha tradito per soldi. Solo per questo” gli sputò in faccia il Cacciatore, scoppiando a ridere. “E’ talmente indebitato con degli strozzini che ha finito con il tradirsi con gli usurai sbagliati, così gli abbiamo proposto un patto. Noi avremmo pensato a salvargli il culo da quelli che volevano fargli la pelle, e lui ci avrebbe portato da voi.”

“Non è vero! Sono tutte menzogne!” gridò T.J., tornando a impallidire visibilmente.

Keath lanciò un’occhiata di assenso a Joshua, ben consapevole della sua menzogna grazie ai gesti incontrollati del suo volto e, a sua volta, Kate disse: “Mente, Fenrir.”

“A quanto pare, i suoi debiti non si limitavano solo a Montecarlo” dichiarò a quel punto Keath.

“No, no, no…” continuò a mugugnare T.J., ricoperto da un velo di sudore e con gli occhi sgranati per l’incertezza. Ora, la spavalderia era del tutto scomparsa.

Il Cacciatore rise sprezzante, replicando: “Montecarlo? Quell’idiota si è indebitato con la mafia cinese. Peccato che, a quanto pare, non siano così ben disposti verso i debitori recidivi.”

Joshua assentì, non sapendo come sentirsi. Era disgustato, ma c’era anche altro, oltre al malessere. C’era la certezza di aver sbagliato a leggere l’animo dell’amico, e la sicurezza di aver dato la propria amicizia alla persona più indegna di tutte.

“Vi credete tanto superiori a noi, ma siete solo feccia” ringhiò l’umano, fissandolo con odio malcelato.

“Puoi pensare a loro, mia cara? Io devo occuparmi del mio sottoposto” disse a quel punto Joshua, ignorando le ultime offese dell’umano e dando una pacca sulla spalla a quest’ultimo. “In virtù della tua onestà, non verrete uccisi. Consideralo un regalo di Natale anticipato.”

“Vi verremo a cercare, ora che sappiamo dove trovarvi, e stavolta agiremo in maniera più…” iniziò col dire l’uomo, prima di bloccarsi a metà della frase, fissare intontito la donna dinanzi a lui e infine crollare in un sonno profondo.

Le urla degli altri uomini presenti si levarono subito verso il cielo, ma nessuno li ascoltò e, aiutata dal potere di Hati e Sköll – oltre che dalla presenza della quercia sacra – Kate dilavò i ricordi del Cacciatore, riportandolo a prima della sua conoscenza con T.J.

Scrutando per alcuni istanti Kate e il suo lavorio costante sulla mente del Cacciatore, Joshua tornò ben presto a occuparsi di T.J. e, con la sua suadente quanto rara Voce del Comando, mormorò: “Ora dimmi perché non ti sei rivolto a me.”

T.J. rabbrividì nell’udire il suono candido ma raggelante del suo Fenrir e, piegandosi in avanti come colpito da violenti crampi, gracchiò: “Non volevo… non volevo essere ancor più succube di te, … più di quanto già non lo fossi. Mi hai tenuto nella tua ombra per tutta la vita! Sono sempre e solo stato ‘l’amico di Fenrir’, mai soltanto T.J., ed è tutta colpa tua!”

“Gran bell’ingrato” ringhiò Keath, snudando le zanne prominenti.

Fenrir lo bloccò con un’occhiata e, dopo essersi piegato in avanti per sussurrare all’orecchio di Theo, mormorò: “Non mi prenderò mai la colpa di averti amato come un fratello. Se vi hai visto della malignità, in questo, è solo un problema tuo. E tu solo sarai il responsabile della tua caduta.”

T.J., allora, risollevò il volto per scrutarlo gli occhi chiari pieni di rabbia e disprezzo e, con le ultime forze che gli rimanevano, gridò: “Meritavo di più, da te! Tu avevi già ricevuto la livrea! Dovevi dividere il potere con me! Sono più forte di loro, e tu lo sai! Dovevo essere io uno dei Gerarchi, e tu avresti dovuto capirlo!”

Ciò detto, fisso disgustato Hati e Sköll prima di sputare in terra un grumo di sangue.

Joshua si risollevò sprezzante, a quelle ultime parole e, atono, replicò: “Il potere va conquistato con armi nobili, non con gli agganci politici o le amicizie altolocate. Te l’ho sempre detto. Inoltre, la livrea viene data da Madre. Ti ritieni dunque migliore di Lei? Non meritavi di più, è chiaro dalle tue stesse parole… e io ti ho dato troppo, di me, a quanto pare.”

Ciò detto, gli volse le spalle e aggiunse: “Keath. Sai cosa fare. Scegli pure tu il modo.”

“Sei solo un ipocrita che si nasconde dietro il titolo di Fenrir, ma che non ammette di essere debole, senza il suo amichetto al fianco!” gli spuntò contro T.J., sollevato a forza da Keath per essere allontanato dal Vigrond.

Joshua non lo ascoltò affatto e, raggiungendo Kate – già visibilmente pallida in viso e provata – si accucciò accanto a lei e mormorò: “Usa la mia energia, per favore. Non sfinirti.”

Lei lo guardò preoccupata, e non si sorprese affatto nel vedere le lacrime inumidire quegli strani occhi di fuoco cupo.

Fenrir di Londra non era uomo insensibile e, a dispetto delle parole intrise di veleno di colui che Joshua aveva considerato un amico fidato, lui era una persona dotata di immensa forza e di grande cuore. Cuore che, in quel momento, stava sanguinando proprio dinanzi a lei.

Annuendo di fronte a quel gesto di generosità estrema, Kate afferrò quindi una sua mano per attingere più velocemente alla sua enorme energia di Fenrir e, sfiorando l’ennesima mente umana, mormorò: “Mi spiace molto per te, Fenrir. E, se può valere qualcosa, io non credo tu sia debole.”

Joshua si limitò a sorriderle grato e, chiusi gli occhi, lasciò che due sole lacrime solcassero il suo viso.

Non avrebbe dato altro, di sé, a Theo.

Qualche attimo dopo, si udì un colpo di pistola, che rimbombò nel bosco silente e Michael, poggiando le mani sui fianchi, chiosò: “Curioso che gli abbia sparato.”

Fergus, dal canto suo, replicò: “Era una vita che voleva usare quelle cazzo di pistole. E’ stato accontentato.”

 

 

 

N.d.A.: T.J. ha infine mostrato il suo vero volto, distruggendo tutto ciò che lo legava a Joshua.

Da tanto dolore, però, il nostro Fenrir ha comunque ricavato qualcosa, e cioè l’amore di Gretchen e il rispetto e la rinnovata fiducia da parte dei neutri e degli umani del suo branco.

Rimane solo da scoprire cosa succederà al corpo di T.J. (per chi non lo ricordasse, i lupi morti che hanno sempre onorato il clan vengono cremati, e le loro ceneri vengono sparse al Vigrond, perché le loro memorie vengano assorbite dalla quercia sacra. I traditori non hanno questo onore, e la loro fine dipende dalle decisioni di Fenrir)


 

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Capitolo 44
*** Past and Future (Joshua)- Cap.5 - 2012/2007 ***


5.

 

 

 

 

Joshua sedeva stremato accanto alla possente quercia sacra del Vigrond e, a un passo da lui, anche Kate stava tentando di riprendersi dall’uso smodato del suo potere.

Dilavare le menti dei Cacciatori non era stato difficile come processo in sé – Kate aveva spiegato a Joshua che era semplice trovare le tracce dei licantropi nelle loro menti umane.  Era come cercare un faro in una notte buia. Balzava subito all’occhio.

Quello che le aveva prosciugato le forze, era stato ripetere quel procedimento per ogni membro della banda di malfattori.

Aver potuto attingere ai poteri enormi di Fenrir, però, le aveva impedito di cedere, pur se questo aveva quasi ridotto allo svenimento la guida del branco di Londra.

In quel momento, infatti, Kate stava assorbendo le energie che tanto generosamente le stava offrendo la quercia, mentre Joshua era al suo sesto energy drink, condito da ottimi hamburger e snack al cioccolato.

Sarebbe stato impensabile spostarli dal Vigrond, in quel momento. Un solo movimento li avrebbe fatti collassare del tutto. Era necessario attendere che le loro condizioni si stabilizzassero, prima di condurli a Walford Manor.

“Come ti senti, Fenrir?” domandò Kate a un certo punto, reclinando il capo di riccioli ramati per scrutarlo con curiosità.

“Diciamo che comincio a risentire le gambe. Prima, credevo che me le avessero tagliate di netto” ironizzò lui, ingollando la sua settima lattina di red bull. “Tu come stai?”

La giovane wicca si passò una mano nella massa di riccioli che le ricadevano disordinatamente sulle spalle e, con un sospiro, ammise: “Non ho mai prelevato così tanta energia, da un licantropo e, onestamente, temevo di averti fatto del male. Perché non hai voluto farti dare il cambio da Hati e Sköll? Erano ancora in forze, quando sei intervenuto tu.”

“Diciamo che era mio dovere farlo, visto che il guaio l’ho causato io” si limitò a dire Joshua, lanciando uno sguardo verso l’alto, dove il primi lampi di luce del sole nascente stavano tingendo il cielo di giallo e rosso. L’alba era giunta.

Kate sorrise comprensiva, a quelle parole, e mormorò: “Mia madre e mio padre si sono presi la colpa per anni, per ciò che mi successe dicendomi che, se fossero stati più accorti, si sarebbero resi conto della stupidità delle mie compagne di classe. Ma come avrebbero potuto, mi dico?”

Joshua sapeva a grandi linee che Kate era stata vittima di bullismo, durante l’adolescenza, e che la sua ritrosia ai rapporti umani dipendeva da questo. Ma non era al corrente di tutta la verità.

Tirandosi le ginocchia al petto, Kate aggiunse: “Forse pensarono che, bruciandomi viva, avrebbero risolto i miei problemi, … chissà. Mi dissero che le persone coi i miei capelli non meritavano che di bruciare e, per anni, li ho odiati. I miei capelli, intendo.”

Joshua capiva bene quel problema. Essendo nato albino, il bullismo aveva fatto parte della sua vita fin dalla tenera età e, per anni, aveva chiesto ai genitori perché l’avessero fatto nascere così.

Solo con la Mutazione e l’età adulta era venuto a patti con la sua unicità fisica, perciò sapeva a cosa si stesse riferendo Kate. Per quanto i capelli rossi fossero molto meno rari degli albini, rimanevano comune un elemento fisico poco comune e, come sempre, questo scatenava la rabbia assurda di persone dalla mentalità chiusa e cieca.

“Alla fine, capii che era sciocco addossarmi colpe che non avevo, anche se è difficile passare sopra all'assoluta mancanza di pietà che può albergare nelle persone. Inoltre, anche il principe Harry ha i capelli rossi, eppure è amatissimo!” sorrise divertita Kate, ammiccando con i dolci occhi di giada.

“Io pensavo di tingermeli di verde… tanto per cambiare un poco” dichiarò a quel punto Joshua, sfiorandosi una ciocca con le mani.

“Sarebbe un’idea divertente. Dopotutto, hai una tavolozza unica su cui lavorare” annuì Kate, ammiccando complice.

Lui le sorrise e, allungando una mano per sfiorarle il viso con una carezza, mormorò: “Grazie, wicca, per i tuoi servigi e le tue parole.”

Kate sorrise appena, a quel tocco, ma non resistette molto e, con un cenno di scuse, si scostò. Joshua, però, non se la prese, comprendendo bene i motivi di quel disagio.

Quanto doveva essere difficile, per lei, lasciar avvicinare le persone che poco conosceva, foss’anche un lupo del calibro di un Fenrir?

Joshua ritirò quindi la mano per riporla in grembo e, con lo sguardo, osservò gli umani e i neutri che erano rimasti al Vigrond per non lasciarli soli nel bosco.

Era stato inutile dire loro che non sarebbe successo nulla.

Avevano semplicemente scelto un punto in cui sdraiarsi mentre Hati, Sköll e gli altri licantropo presenti si erano trasformati e posizionati accanto a loro per tenerli al caldo.

Quel cerchio di licantropi, al cui interno si trovavano degli umani, era davvero bizzarro ma, al tempo stesso, condensava bene l’immagine che avrebbe desiderato vedere per il suo branco.

Niente più divisioni, niente più creature di serie A e serie B. Erano tutti parimenti suoi figli, sia che mettessero su pelo o meno.

Il cinguettio di alcuni uccellini segnò definitivamente l’inizio della giornata e, a quel dolce suono bucolico, alcuni iniziarono a risvegliarsi.

Stiracchiandosi, uno dei neutri scrutò divertito la barriera lupesca che li aveva protetti dal freddo notturno e, alzandosi lentamente, si apprestò a scavalcarla, pur se a fatica.

A quel punto, avvicinandosi a grandi passi alla quercia, il neutro si inginocchiò accanto al suo Fenrir e a Kate e domandò: “Come state? Vi siete ripresi?”

“Credo che ora sarà possibile spostarci” ammise Joshua, allungando una mano verso il neutro, che la afferrò per aiutarlo ad alzarsi.

Sorreggendo il proprio Fenrir, il neutro quindi chiese: “Come sentite le gambe, Fenrir?”

“Un po’ indolenzite, ma reggono” annuì lui, provando a rimanere in piedi da solo.

Kate provò a sollevarsi da sola ma, nel farlo, provocò il risveglio immediato di Susan – o la lupa non aveva affatto dormito, pur di vegliarla? – che, trottando veloce verso di lei, mugugnò una protesta al suo indirizzo.

La giovane wicca allora rise, si aggrappò alla gorgiera della lupa e, grazie alle sole forze della licantropa, si eresse senza problemi.

“Okay… direi che non sverrò” mormorò dopo alcuni secondi Kate, sollevando il pollice verso l’alto.

Nel frattempo, anche il resto del gruppo si destava dopo quella notte di intense e contrastanti emozioni.

Portare fuori dalla foresta i Cacciatori era stata la parte più laboriosa e scomoda di tutte, poiché aveva richiesto un sacco di tempo e un via vai continuo dal Vigrond al luogo in cui si trovavano le auto degli umani.

Alla fine, comunque, avevano condotto in un luogo terzo ogni membro della banda – in modo tale che non potessero risalire al bosco del Luogo di Potere – e, a quel punto, tutti avevano deciso di riposarsi.

Proprio in quel momento, giungendo di corsa e perfettamente sbarbato – ma quando mai Colton non era perfettamente in ordine? – il giovane padrone della tenuta li salutò e disse: “Oh, bene! Vedo che siete tutti più in forze, stamani. Spero abbiate fame e vogliate ristorarvi un poco, perché ho preparato un banchetto alla villa degno di tale nome. Gretchen stava appunto preparando un cestino per portarvelo ma, se potete spostarvi, le dico di aspettare alla villa.”

“Preparato? Hai preparato tu il banchetto?” ironizzò Joshua.

Arrossendo, Colton replicò: “Beh, fatto preparare. Ammetto candidamente che, se doveste mangiare con quel che so io di cucina, dovreste accontentarvi di un uovo al tegamino e poco altro.”

Battendogli una mano sulla spalla, Joshua asserì per contro: “Io vivo di pizza e cibi pronti, lo sai. Non sono esattamente un mago dei fornelli.”

“Se lo sapesse Estelle, correrebbe qui per insegnarvi tutti i segreti della cucina” ironizzò a sua volta Kate, salendo in groppa a Susan. “Oserei dire che Bright è anche ingrassato, da quando stanno insieme. Il che la dice lunga, su quanto sia brava.”

Joshua sollevò divertito un sopracciglio, ben sapendo quanto il metabolismo dei lupi fosse accelerato e famelico di calorie.

“Beh, non so se ingrasserete o meno, stamattina, ma penso che non rimarrete delusi” si limitò a dire Colton, mentre inviava un messaggio al cellulare di Gretchen perché non partisse da Walford Manor con i viveri per Fenrir e Kate.

Ciò fatto, lanciò un’occhiata agli umani e ai neutri presenti al Vigrond e sorrise divertito.

“Direi che dovremo fare servizio taxi, stamattina.”

Fenrir assentì con un sorriso e, di comune accordo, Susan avrebbe riaccompagnato alla villa dei Waldorf Kate e Joshua, mentre il resto dei licantropi avrebbe offerto il proprio dorso al resto dei presenti.

Quando tutti furono pronti, perciò, quella stravagante processione ebbe inizio e, per Joshua, fu uno dei momenti più esilaranti della sua vita.

Avrebbe anche ricordato con piacere quell’evento, vedendolo come il primo passo per una convivenza più equa se non fosse stato che, alla fin fine, doveva ancora occuparsi di Theo.

Seguendo le sue istruzioni, Keath lo aveva ucciso e, per evitare di assaggiare anche per errore il sangue di un traditore, Freki aveva preferito usare una delle pistole di Geri.

La pallottola gli aveva sventrato il cervello, lasciando abbastanza ioduro d’argento al suo passaggio perché il sangue ne venisse contaminato, e la riparazione cellulare risultasse impossibile.

Quei dannati proiettili erano un’invenzione del Geri di Bryan delle Isole Orcadi. Chimico di professione, aveva messo a punto un proiettile a espansione che rilasciava ioduro d’argento liquido a contatto con le pareti carnose dei lupi.

Il risultato era stato devastante e, per quanto Keath avesse aborrito il gesto di Theo, il suo corpo riverso sul sottobosco lo aveva lasciato senza fiato per diversi secondi.

Il pensiero che Gwen possedesse un simile concentrato di potenza, insieme alle sue micidiali armi bianche in argento puro, aveva fatto nascere nel Freki più di un pensiero, e nessuno di essi era stato allegro.

A rigor di logica, ogni membro mannaro di qualsiasi branco sapeva che i Geri erano armati fino ai denti al solo scopo di fermare i lupi ma, un conto era saperlo, un conto era vederlo.

Pur se lui era un Freki, quella realtà dei fatti lo aveva lasciato vagamente stordito.

Non sapendo però di che farsene del corpo, Keath lo aveva avvoltolato nel suo giaccone e lo aveva portato fino alle ghiacciaie del palazzo dei Waldorf, in attesa di una decisione di Fenrir.

Fenrir che, in quel momento, doveva decidere se disfarsi definitivamente del cadavere, bruciandolo, o se gettarlo in una fossa comune all’insaputa degli umani ignari.

Qualsiasi cosa avesse scelto, in ogni caso, ne avrebbe portato il peso sul cuore per il resto della sua vita.

Non era stato in grado di vedere la verità negli occhi del suo migliore amico e, cosa forse ancora peggiore, non aveva avuto il coraggio di dargli il colpo di grazia, delegando il tutto al suo Freki.

Che fosse o meno la norma, per lui era lo stesso. Era stato un codardo, e non se lo sarebbe mai perdonato.

***

I cuochi della villa dei conti Walford avevano dato il meglio di loro, preparando un buffet davvero degno della regina.

Le pietanze si sprecavano, e ogni ben di dio era stato posizionato su enormi tavoli perché potessero essere agevolmente raggiunti da qualsiasi angolazione possibile.

Ritto accanto alla finestra mentre sbocconcellava una tartina di frutta, Joshua si riscosse dal suo momentaneo torpore quando vide avvicinarsi Keath.

Il panino al prosciutto e maionese che stava divorando aveva le dimensioni di un piatto di portata ma, per la fame che avevano tutti, era quasi uno stuzzichino.

“Se ti vedo ancora con quella faccia da funerale nei prossimi trenta secondi, giuro che ti prendo a calci nel culo, anche se sei il mio Fenrir” esordì Keath, crollando a sedere su una vicina poltrona per poi guardare Joshua in cagnesco.

“La tua regalità ti precede, Keath. Quella poltrona deve essere del settecento, e tu ti ci sei buttato sopra come un caterpillar” gli fece notare Fenrir, sviando il commento del suo Freki.

Freki che, però, non si fece fregare e replicò caustico: “Non sviare l’argomento, Joshua. Quel che è successo può capitare, e può anche capitare che un Fenrir sbagli. Io e Geri esistiamo anche per questo, sai?!”

“Avrei potuto farvi ammazzare tutti, per un mio errore” gli ringhiò contro a quel punto Fenrir, irritandosi.

Keath, allora, in barba a qualsiasi istinto di conservazione, si alzò di scatto dalla poltrona e afferrò al collo Joshua, spingendolo poi contro il muro con fare rabbioso.

Immediatamente, Hati fu su di lui, le zanne ben in evidenza e gli artigli a un soffio dalla sua gola esposta.

“Non un movimento di più, Keath, se non vuoi che ti squarci la gola” sibilò Michael, gli occhi già mutati nel suo caldo coloro nocciola di lupo.

“Rinfodera gli artigli, idiota. Non gli farei mai del male, ma questo cretino deve capire che non è un dio, e perciò è fallibile tanto come qualsiasi altra creatura vivente” ringhiò per contro Keath, senza mai lasciare lo sguardo del suo Fenrir.

Joshua scrutò a sua volta quelle iridi scure e pregne di qualcosa che sembrava molto simile alla compassione. Curioso che il suo Freki fosse in grado di provare un simile sentimento.

Dopo un istante, quindi, mormorò: “Chetati, mio Hati. Questo imbecille deve avere le fregole, ecco perché non riesce a star fermo.”

Quella frase fece scoppiare a ridere Keath che, mollando la presa, esclamò: “Mi ti farei anche, Fenrir, ma dubito che Gretchen sarebbe d’accordo. Mi sa un tantino possessiva, la tua nuova ragazza.”

Michael sbuffò un’imprecazione tra i denti e tutti, nel salone, tirarono un sospiro di sollievo, già pronti a essere testimoni di una rissa in grande stile.

I corpi di tutti si rilassarono e molti dei presenti, poggiando le mani sulla prima superficie piana utile, mormorarono uno scongiuro per lo scampato pericolo.

Veder combattere tre lupi non era cosa da tutti i giorni; vedere uno scontro tra un Freki, un Fenrir e un Hati, era un evento biblico.

“Sei un vero stronzo, Keath… ma ho capito cosa volevi dire” borbottò Joshua, massaggiandosi il collo indolenzito.

“Sembra che con te funzionino solo le maniere forti…” celiò Freki, scrollando le spalle. “…perciò, vista la tua testa dura, ho pensato che sbattertela contro il muro potesse servire.”

Colton scelse quel momento per tossicchiare e dire: “Muro che, ovviamente, tu ripagherai… vero, Keath?”

Freki fissò senza capire il giovane nobile che, sorridendo con un certo divertimento, indicò il muro in questione e la notevole conca che si era formata a seguito della zuccata di Joshua.

“Oh” gracchiò Keah, notando anche la carta da parati rovinata e ormai irrecuperabile. “Quanto diavolo costa questa roba?”

“Beh, la carta da parati è in seta italiana e prodotta nel Sud Italia. Se non erro, da qualche parte dovrei avere anche i campioni per gli ordini” chiosò il nobiluomo, tamburellandosi il mento con un dito.

Keath impallidì leggermente nel sentir parlare di ‘seta italiana’ perché, a suo modo di vedere, tutto ciò che proveniva da quel Paese, era di qualità e perciò molto, molto costoso.

Michael batté una mano sulla spalla di Keath e, sardonico, celiò: “Vedi cosa succede a fare i cazzoni?”

“Quanto sei simpatico” brontolò per contro Freki, snudando per un attimo i denti.

L’arrivo di Gretchen dalle cucine impedì a Michael di rincarare la dose e, quando la donna notò il muro rovinato e il sangue fresco che macchiava il colletto della felpa di Joshua, esalò: “Cosa mi sono persa, nei due minuti in cui sono stata in cucina?”

“Io che mi sbatto il tuo uomo” scrollò le spalle Keath, andandosene verso il tavolo dei rinfreschi come se niente fosse e scatenando le risate collettive dei presenti.

Gretchen fissò senza parole Joshua e Michael e quest’ultimo, ammiccando al suo Fenrir, dichiarò: “Beh, sbattuto, ti ha sbattuto, in effetti…”

“Vai a mangiare, Mich… hai bisogno di cibo, sennò dici scemenze” brontolò Joshua, sorridendo poi a Gretchen, che si avvicinò con aria a metà tra il confuso e il divertito.

Lanciata poi un’occhiata al muro, la donna mormorò: “Immagino che sia stato un rapporto molto violento. Hai ammaccato il muro…”

“Non ti ci mettere anche tu, Gretch…” brontolò Joshua, tastandosi la ferita sulla testa e già in via di guarigione. Bruciava un po’, ma era sopportabile.

Lei gli sorrise con dolcezza e replicò: “A parte la tua testa ammaccata, stai bene?”

Joshua tornò serio, a quelle parole e, annuendo, la prese sottobraccio e la condusse fuori dal salone, subito seguito dal fischio irriverente di Keath e dal ‘buona fortuna, capo!’ di Fergus.

Fenrir non si prese neanche la briga di mandarli al diavolo e, dopo avere scortato Gretchen in un salottino adiacente, chiuse la porta alle loro spalle e mormorò: “E’ morto, Gretch… non c’è più.”

Lei si limitò a stringerlo in un abbraccio, abbraccio che Joshua replicò con forza, l’enorme corpo tremante e prossimo al crollo.

Non si lasciò andare alle lacrime – non ne aveva, per T.J. – ma gracchiò disperato: “Come ho potuto essere così sciocco da credergli? Da non accorgermi di ciò che stava succedendo? Di ciò che stava diventando?”

Carezzandogli la schiena, i corti capelli di neve e le ampie spalle, Gretchen gli sussurrò contro il torace: “Joshua, tu lo amavi. Era come un fratello, per te. Il tuo cuore non ha mentito. Ma non puoi farti carico delle sue menzogne e dei suoi errori.”

“E se veramente io lo avessi soffocato con la mia presenza?” sussurrò per contro lui, reclinando il viso fino a poggiare la fronte contro la spalla di Gretchen.

Lei si irrigidì un istante, a quelle parole e, gelida, replicò: “Chiunque appartenga a un branco, sa che non potrà esservi nessuno più importante di Fenrir. Così come tutti sanno che i Gerarchi sono tre, e tre soli. E’ noto a tutti. Se non lo ha accettato, non è un problema tuo.”

Tutti dovrebbero essere importanti” replicò Joshua. “Noi ci siamo salvati grazie all’aiuto di una cucciola umana.”

Sospirando, Gretchen assentì ma ribadì con fermezza: “E’ verissimo, ogni vita è importante, Joshua, ma in un branco vige una legge piramidale che non conosce eccezioni. Se non fosse così, l’intero sistema collasserebbe. Gli uomini che sono venuti con te per proteggere il branco, lo hanno fatto perché hanno avuto fiducia in te, e tu in loro. E’ questo, ciò che fa un leader. A volte potrai sentirti solo, lassù al vertice, ma qualcuno deve farlo. E sì, la tua vita è più importante delle altre perché, senza di te, nessun altro vivrebbe, nel branco. La gerarchia è vitale, in un clan di licantropi. Non a caso, i Consigli sono visti per la maggiore con sospetto e, di solito, durano molto poco.”

“Quello di Duncan…” replicò Joshua, interrompendola.

“Non mi pregio di conoscere bene Fenrir di Matlock come lo conosci tu ma, in tutta onestà, ove c’è un Fenrir, non dovrebbe esserci un Consiglio, a meno che il Fenrir in questione non sia un ragazzino. E Duncan McAlister non mi sembra un bambino da accudire” sottolineò Gretchen.

“C’è stato un rimpasto di potere, a suo tempo, e Duncan ha preferito che intervenisse il Consiglio…” iniziò col dire Joshua, azzittito però da un bacio di Gretchen.

“Non mi interessa come lui gestisce il suo branco, ma come tu gestisci il tuo e, come lo stai facendo, secondo me va bene. Credo che interagire maggiormente con umani e neutri sia stato fantastico, e sono certa che questo renderà il tuo branco ancor più forte e coeso” sottolineò la donna, scostandosi da lui per prendergli le mani. “Ora, dimmi di Theodor.”

Lui assentì e le spiegò le decisioni di Keath riguardo al concedere a lui l’onore, e l’onere, di scegliere la fine del traditore.

Solitamente, Freki prendeva in autonomia questo genere di decisioni ma, trattandosi di T.J., aveva preferito chiedere il parere di Joshua.

“Portami da lui” dichiarò alla fine Gretchen. “Sarò con te, quando deciderai.”

Joshua si limitò ad annuire e, mano nella mano, si avviarono verso i piani inferiori di Walford Manor per raggiungere le antiche ghiacciaie e il luogo in cui si trovava il corpo di T.J.

Forse, insieme a lei, sarebbe stato più semplice scoprire in che modo porre fine al viaggio sulla Terra della persona che lui aveva creduto essere un amico sincero e fidato.

***

Il corpo di T.J. era stato gentilmente composto su una riolite dai colori perlacei, intagliata per formare un parallelepipedo perfetto.

Forse, in passato, era stata usata per la lavorazione delle carni da sistemare nelle celle ricolme di neve ma, in quel momento, era solo un’ara su cui era posto il corpo morto del licantropo.

Keath aveva preventivamente coperto il volto di Theo – onde evitare che qualcuno vedesse ciò che il proiettile aveva lasciato – ma, a giudicare dal sangue che inzuppava il telo di cotone, i danni erano più che chiari.

La morte doveva essere stata istantanea.

Poco a lato del corpo, Keath aveva inoltre sistemato gli effetti personali di T.J. e Joshua, nel sollevarne il cellulare, lo accese e notò la presenza di una password.

“Potresti darlo a Michael. Lavorando in polizia, potrebbe sapere come aprirlo” lo consigliò Gretchen, ma Joshua stava già digitando un numero di quattro cifre, che risultò essere esatto.

Sorpresa, lei lo guardò dubbiosa e lui, scrollando le spalle, mormorò: “E’ la data in cui T.J. mi ha battuto in una gara di corsa. Evidentemente, si sentiva davvero prevaricato dalla mia presenza, o dall’ingiustizia di non aver ricevuto lui stesso la livrea.”

“E tu, perché te lo ricordavi?”

“Perché è stata la prima volta in cui T.J. mi ha detto che avrei dovuto farmi avanti con te” ammise lui, sorridendole.

“Oh. Davvero?” mugugnò Gretchen, lanciando un’occhiata veloce al cadavere prima di tornare a scrutare in viso Joshua. “E questo, quand’è successo?”

“L’anno scorso, a luglio” asserì Joshua, facendola sorridere per un istante.

“Piuttosto duro di comprendonio, allora” chiosò lei.

“Abbastanza” mormorò lui, scorrendo le foto all’interno del telefono. Nulla che valesse la pena di salvare. Soltanto dei selfie e poco altro.

Non un parente a cui affidare il corpo, o una donna da avvisare. T.J. si era ridotto a essere solo, e ad avere come ultima compagnia dei Cacciatori.

Lui, le carte e null’altro.

“Ma perché ti sei ridotto così?” mormorò Joshua, spegnendo il cellulare.

“Avrebbe potuto andare in un centro di recupero per la ludopatia spacciandosi come un comune umano, se avesse voluto. Oppure, avrebbe potuto chiedere a Mr Rinaldi. Secondo me, avrebbe ottenuto tutto l’aiuto possibile” sottolineò Gretchen, stringendogli una mano per dargli forza. “O anche, molto semplicemente, avrebbe potuto chiedere a te, il suo amico. Ma non l’ha fatto, perciò non è colpa di nessuno, se non sua. Mettitelo in testa. Non si può salvare qualcuno che non vuole essere salvato. Puoi tentare, ma non raggiungere l’impossibile. Quello, è vietato a chiunque.”

“Forse… ma mi viene sempre il dubbio di non essermi accorto di nulla perché non volevo accorgermi di nulla.”

“In che senso?” volle sapere Gretchen.

“Ho sempre fatto finta che gli umani e i neutri non ci fossero, che dovevo prendermene cura, ma che non fossero realmente un mio problema, e ho rischiato di pagare carissimo questa mia superficialità” le fece notare lui, sentendosi male al solo pensiero di essere stato così ipocrita. “Allo stesso modo, forse ho cancellato dalla mia mente i difetti di T.J., dipingendolo migliore di quanto in realtà non fosse.”

“Anche quanto, ti saresti comportato come una persona qualsiasi, ma capisco cosa intendi dire” assentì Gretchen. “Un Fenrir deve essere più accorto e non affidarsi soltanto alle sensazioni superficiali.”

“Esatto. E in questo ho fallito clamorosamente” sospirò Joshua.

“Gli uomini ai piani superiori dicono il contrario” sottolineò per contro la donna. “Hai la loro fiducia e il loro rispetto, e non credo possa esservi soddisfazione più grande, per un capo. Quanto all’aver mal giudicato Theo, può capitare. Come tutti ti stanno ripetendo fino allo sfinimento, non sei infallibile, e devi iniziare ad accettarlo.”

“Non mi sbatterai al muro per convincermi?” ironizzò Joshua per spezzare il senso di smarrimento che provava.

Tutti loro avevano ragione, in teoria, ma nella pratica era difficile crederci.

Lei allora gli sorrise, lo strinse in un abbraccio e mormorò: “Lascio le maniere forti a Keath. Lui è più esperto di me in questo genere di… approcci.”

A quelle parole, Joshua sollevò un sopracciglio con interesse e Gretchen, scoppiando a ridere, chiosò: “Ehi, non avrai mica pensato che, in due anni e più nel tuo branco, non abbia mai fatto sesso per mero divertimento?”

Nonostante tutto, Joshua rise e, scuotendo il capo, esalò: “Dovevo saperlo che Keath non ti avrebbe mai lasciata stare senza un assaggio.”

“Oh, ci siamo assaggiati a vicenda, se è per questo, ed è stato divertente, ma la cosa è nata e morta lì” scrollò le spalle con divertimento lei, prima di tornare seria e aggiungere: “C’era qualcun altro che volevo, e lo sai bene.”

“Già” annuì lui, poggiando la fronte contro la sua. “Cosa devo fare, Gretch?”

“Vuoi piangerlo in un luogo fisico, quando avrai volontà di farlo? Oppure, non desideri più vedere nulla che lo rappresenti?” gli domandò semplicemente lei.

I passi – ma ancor prima l’aura e l’aroma ferino – di Keath risuonarono nella cantina umida e profumata di vino, salumi e formaggi e, quando si avvicinò a Gretchen e Joshua, mormorò: “Ehi, capo. Come siamo messi?”

“Stavo per l’appunto decidendo” disse Joshua, sbuffando nervosamente.

Freki assentì ma, estraendo il suo cellulare, borbottò: “Prima di farlo, però, forse dovresti dare un’occhiata a queste. Ho mandato uno dei miei a controllare l’appartamento di T.J. per essere certi che non avesse spifferato ad altri il nostro segreto e, beh… è saltato fuori questo.”

Ciò detto, allungò il telefono a Joshua che, afferratolo con mano tremante, sfogliò le fotografie e osservò i filmati fatti da una delle sentinelle del branco.

Le ricevute di pagamento inevase si sprecavano, così come i messaggi in segreteria, che erano uno peggio dell’altro, il seguente più minaccioso del precedente.

C’erano fotografie effettuate a T.J. in bische di dubbia fama – inviategli, con tutta evidenza, per incastrarlo e metterlo di fronte ai suoi peccati – o con prostitute d’alto bordo adescate in locali che, evidentemente, non poteva permettersi.

“Ma chi diavolo eri, T.J.?” mormorò sgomento Joshua, restituendo il cellulare a Keath.

“E’ chiaro che è finito in un circolo vizioso da cui non è più riuscito a uscire, e i Cacciatori ne hanno approfittato non appena lo hanno smascherato per quello che era” dichiarò Keath, scrollando le spalle. “Di sicuro, per tenere il branco all’oscuro di tutto, ha dimostrato una tempra mentale che ben pochi potrebbero vantare, ma è l’unico complimento che mi sento di fargli.”

Joshua assentì e, lanciato uno sguardo al corpo inerme di T.J., ringhiò: “Brucialo. Non voglio più avere a che fare con lui.”

Ciò detto, si scusò con entrambi e, quasi di corsa, fuggì dalla cantina, desideroso di rimanere da solo e inspirare l’aria del bosco, di qualcosa che lo facesse sentire al sicuro e non divorato dall’odio.

Rimasti soli, i due licantropi si studiarono vicendevolmente per diversi secondi ma, alla fine, fu Gretchen a parlare.

“Cosa non gli hai detto?”

“Sei un po’ troppo intuitiva, per i miei gusti, femmina” sbuffò Keath, infilando le mani nel suo giubbotto di pelle nera.

“Hai distolto lo sguardo da Joshua, quando hai parlato del lato oscuro di T.J. Tu non abbassi mai lo sguardo, Keath” sottolineò Gretchen, scrollando le spalle con noncuranza.

A quel punto, Freki si esibì in un ghigno e disse: “C’era un motivo se mi era piaciuto ruzzolarmi con te… hai un cervello, oltre a un bel faccino.”

Suo malgrado, Gretchen rise di quello che, forse, poteva essere considerato un complimento e, annuendo affabile, asserì: “Troppo gentile, grazie. Ma torniamo a noi. Cosa hai nascosto?”

“Se te lo dico, dovrai nasconderglielo per tutta la vita. Vuoi davvero questo peso, Gretch?” replicò Freki, tornando serio.

La donna, allora, sgranò leggermente gli occhi ed esalò: “Cos’avete trovato?”

“La sentinella che ho inviato là era Freddie Johnson. E tu sai che lavoro fa, no?”

Gretchen aggrottò la fronte e assentì. Freddie era un noto psichiatra londinese e, non di rado, veniva assoldato dalla polizia per delle perizie su feroci criminali.

“Freddie ha trovato dei diari, infilati sotto un’asse del parquet, dove c’era praticamente di tutto. Appunti sui soldi che doveva a tizio e caio, commenti su locali e baldracche ma, quello che più lo ha preoccupato, è stato il diario più recente.”

Lei assentì, desiderosa di sapere pur se la paura le faceva tremare le mani. Fino a dove si era spinta la follia di T.J.?

“Freddie crede che fosse affetto da disturbo delirante, e che questo lo abbia spinto ad affondare nei vizi per smarcarsi da ciò che credeva il male. Nel caso specifico, Joshua” le spiegò Keath. “Da quel che ha scritto in quel cavolo di diario, T.J. pensava che Joshua avesse ricevuto tutto, dalla vita, mentre lui niente e, questi suoi tentativi di ottenere ricchezza e potere che credeva gli spettassero di diritto, lo hanno logorato fino a consumarlo.”

“Ma perché?” ansimò sgomenta Gretchen.

“Joshua viene da una famiglia benestante, con due genitori che lo amano, mentre T.J. no. Suo padre è un bevitore incallito, e lo sa il cielo quante volte Michael lo ha tirato fuori dai guai. Sua madre, invece, li ha lasciati quando lui aveva quattordici anni. Ha resistito fino a quando il figlio ha superato la face pre-trans e poi si è data alla macchia.”

Avvicinandosi al corpo esanime di T.J., Keath aggiunse: “Per sbarcare il lunario, T.J. faceva dei lavoretti presso i vicini, e i genitori di Joshua spesso lo ospitavano a casa sua, provvedendo ai suoi bisogni. Forse, questo ha scatenato in lui un senso di competizione e di inferiorità che lo hanno portato a impazzire.”

“Non lo giustifica, però” sottolineò Gretchen, avvicinandosi a Freki.

“No, per conto mio, un traditore è un traditore, ma almeno sappiamo da cosa è nato tutto. Se Joshua sapesse che il suo amore lo ha portato a un odio così sconfinato, però, non so proprio come la prenderebbe, per questo dovrai tacere.”

Quelle parole furono seguite da uno sguardo ferale e Gretchen, sorridendogli nonostante la velata minaccia appena ricevuta, mormorò: “Gli sei davvero fedele.”

“E’ ovvio, femmina. Joshua è un buon Fenrir, e non meritava una grana simile. Dovrai avere buona cura di lui.”

“Buona cura?” ripeté dubbiosa Gretchen, ma lui ghignò per diretta conseguenza.

“Non mi inganni, femmina. Seguiresti quell’uomo anche in capo al mondo, perciò vedi di allenarti, o non sarai pronta per l’Ordalia” dichiarò Keath, dandole una pacca sulla spalla prima di aggiungere: “Ora vai. Non credo che tu voglia assistere a quello che farò tra poco.”

Lei si limitò a un assenso e, dopo un’ultima occhiata a Keath, tornò a i piani superiori di Walford Manor.

 

 

 

N.d.A.: grazie alle accurate indagini di Keath, scopriamo fino a dove T.J. si sia spinto, e quanto Freki desideri preservare la salute mentale del suo Fenrir, negli anni a venire. Che dire? Gretchen riuscirà a mantenere la promessa, o sarà onesta fino in fondo con Joshua?

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Capitolo 45
*** Past and Future (Joshua)- Epilogo - 2012/2007 ***


 

Epilogo

 

 

 

 “… Jo… mi senti?” domandò per la terza volta Gretchen, scuotendo leggermente il braccio del marito.

Riprendendosi da quel ricordo condiviso, lui le sorrise a mezzo, ancora un po’ frastornato e la donna, stringendo un poco la mano sul suo braccio, mormorò: “Pensavi a Theo? Per questo hai curiosato anche nella mia testa?”

Annuendo, Joshua scrutò la giovane Sherry, ancora impegnata a rispondere alle domande di alcuni lupi, e mormorò: “Sentir parlare del suo Theo, ha riportato alla memoria il mio.”

“Non mi stupisce. E’ stata una storia maledettamente triste, e se Keath sapesse che ti ho raccontato tutto, mi staccherebbe la testa a morsi” ammise Gretchen, facendo sorridere Joshua per diretta conseguenza.

“Keath non sa cosa voglia dire condividere l’aura, l’anima e la mente con una lupa, perciò non ha idea di quanto profondamente le due persone siano interconnesse. Sarebbe stato assurdo mentirmi, perché lo avrei scoperto al nostro primo amplesso… e sarebbe stato dannatamente peggio” replicò Joshua. “Inoltre, come già dissi a Theo, non mi pentirò mai di averlo amato, ma non mi prenderò neppure carico dei suoi disagi, perché niente è stato fatto perché lui si sentisse inferiore a me.”

“Lo so. Ma Keath ti vuole bene, e voleva proteggerti” chiosò Gretchen, intrecciando un braccio a quello del marito.

“Quella canaglia…” ghignò Joshua. “…fa tanto il gradasso, ma poi è peggio di una chioccia con un unico pulcino.”

La sola idea di Keath nei panni in una gallina paffuta con il suo piccolo pulcino al seguito fece scoppiare a ridere Gretchen e, dopo un istante, Joshua si unì a lei.

Era inutile rivangare il passato. T.J. era stato suo amico e, finché era durata, era stato bello averlo al suo fianco, ma non aveva dubbi sulla sua decisione finale.

Un traditore di tal fatta poteva essere punito in un unico modo. Anche se dalla sua aveva sempre avuto l’amicizia di Fenrir.

***

Eirwyn sorrise divertita nel vedere Gretchen scoppiare a ridere di gusto, subito seguita dal marito.

Le loro espressioni corrucciate l’avevano portata a pensare che la coppia avesse qualche grave problema da affrontare, ma vederli nuovamente sereni la rese felice.

Quella prima riunione tra clan stava andando a meraviglia, e desiderava che proseguisse così fino al suo completamento.

Brianna colse quel momento per avvicinarsi a lei e, sfiorandole il braccio con la mano, esordì dicendo: “Allora, come ti sembra fino a qui…”

La giovane wicca non terminò mai la frase e, al pari di Eirwyn, sgranò gli occhi e si lasciò andare a una visione potente quanto imprevista.

Fluenti capelli biondo platino, una cascata d’immane bellezza, un uomo dai capelli scuri, bellissimo e imponente, e una bambina.

Il tutto durò solo qualche secondo, fu un’apparizione velocissima ma chiara e portò entrambe le donne a guardarsi confuse e chiedersi curiose cosa fosse successo.

“Ehm… cos’abbiamo visto, esattamente?” biascicò Brianna, sbattendo freneticamente le palpebre.

“Una visione del futuro, immagino, perché non ho mai visto i volti che ci sono apparsi nella mente. Hai riconosciuto qualcuno, per caso?” ammise Eirwyn, sbuffando per la sorpresa e scuotendo il capo come se avesse bevuto troppo, e l’equilibrio le fosse manchevole.

A volte, con visioni particolarmente forti, le capitava.

“No, nessuno. E anche il paesaggio che ho intravisto non mi dice nulla. Molto bello e suggestivo, ma del tutto sconosciuto. A occhio e croce, però, non sembra inglese. Non abbiamo montagne così alte e impervie, in Gran Bretagna, né cascate del genere.”

“In effetti, non sembrava un paesaggio nostrano” assentì Eirwyn, ancora un po’ scombussolata.

“Comunque, non mi è parsa una visione pericolosa… insomma, ne ho avute altre dove ho rischiato di lasciarci le penne, e la sensazione di disagio qui non c’era” sottolineò a quel punto la wicca, pensierosa.

“No, non sembrava affatto una minaccia. Può darsi che queste persone verranno in contatto con te, in qualche modo” si limitò a dire la donna, sorridendole più sicura.

“Una donna bionda, un gran bell’uomo – cosa che farà felicissimo Duncan – …” ironizzò Brianna a quel punto, facendo ridere Eirwyn. “… e una bambina dai capelli neri. Vedrò di tenere a mente i loro volti, e Fenrir farà lo stesso. Lui ha più tempo di me per badare ai volti che incrocio giornalmente.”

Non sono un detective, e neppure una videocamera, tengo a precisarlo.

“Ma sei molto bravo a farlo, sappilo” celiò Brianna.

Eirwyn sorrise mesta a quelle battute e, con un leggero sospiro, mormorò: “Volesse il cielo che avessi avuto a suo tempo visioni su ciò che Sebastian aveva in mente. Forse, ti saresti evitata un sacco di problemi, e il tuo amico sarebbe ancora vivo.”

Il pensiero di Leon procurò a Brianna un brivido, ma lei lo scacciò con decisione.

Era già venuta a patti con la sua morte a suo tempo, e pur sapendo che almeno un po’ si sarebbe sempre sentita in colpa per la sua fine tragica, sapeva anche che lui le aveva dimostrato il suo affetto, seguendola.

Avrebbe ricordato questo, di Leon, e il dolore – alla lunga – si sarebbe annebbiato nei suoi ricordi, facendole rammentare solo cose belle.

Con un mezzo sorriso, Brie asserì: “Ho imparato a mie spese, e nel modo più doloroso possibile, che certe cose sono inevitabili, e che non si può essere infallibili. Anche con i poteri che abbiamo. Hel era potente e sfuggente come il padre, perciò non fa specie che tu non l’abbia vista. Loki si nascondeva a sua volta, facendo prendere decisioni ad altri, così che le mie amiche völur non potessero scorgerlo, o avessero visioni confuse e imprecise.”

Eirwyn assentì, carezzando distrattamente i capelli rossicci di Hope, che teneva tra le braccia.

“Forse, se mettessimo nero su bianco ciò che abbiamo visto, potremmo ampliare il nostro raggio di azione e permettere a questi futuri visitatori un nostro appoggio più immediato” ragionò la donna, sorridendo dubbiosa a Brianna, che però assentì entusiasta.

“E’ un’ottima idea. Non sapendo quando potranno comparire nelle nostre vite, sarebbe anche difficile avvertire chi di dovere perché presti attenzione. Potremmo sfruttare la presenza dei Fenrir di ogni branco per estendere la nostra richiesta, così da poter essere avvisati di un eventuale incontro” dichiarò sorridente la wicca.

“Conosci qualcuno che sappia disegnare bene?” si informò allora Eirwyn.

Annuendo, Brianna le disse di seguirla e, assieme, si avviarono verso Beverly e Thor, völva e stregone del clan di Bradford.

***

Thor terminò di tracciare le ultime linee del disegno che aveva appena creato, mentre Beverly stava osservando soddisfatta il proprio, ammirandolo sotto la luce artificiale di una torcia elettrica.

Alec e Duncan, al pari degli altri Fenrir presenti – che avevano accerchiato i due improvvisati artisti per ammirarne le gesta – si guardarono dubbiosi e il padrone di casa, storcendo il naso, mormorò: “Così bello, Beverly?”

Le donne presenti risero divertite e la völva, assentendo, dichiarò: “La visione di Brianna era chiarissima. Mi spiace, Duncan.”

Brie sorrise spiacente al marito, che si limitò a una scrollata di spalle, asserendo: “Gli farò i complimenti, ma solo dopo essermi accertato che non abbia mire verso qualcuna delle mie lupe. Sono geloso del mio branco.”

Alec ghignò a quel commento, replicando: “Tu sei geloso della tua streghetta… ma credo non ci siano pericoli in merito. Inoltre, pare che arriverà qui scortato da una bella biondina e, a quanto pare, da una bambina. Forse, la figlia di entrambi, o di uno di loro.”

“E’ possibile” ammise Duncan, preferendo soprassedere sulla battuta dell’amico. “Ciò che mi chiedo è… perché? Cosa vorranno da noi? Ci sono un sacco di lupi errabondi che viaggiano in giro per il globo, eppure non mi sembra che nessuna di voi abbia mai avuto visioni del genere, su di loro.”

Eirwyn scosse spiacente il capo, così come Elspeth – che si era unita al gruppo di Glasgow per raggiungere Matlock e rivedere Brianna.

Beverly, dopo uno sguardo d’intesa con Thor, disse: “Ciò che ho percepito nello scrutare i ricordi della loro visione condivisa, mi dice che queste persone proverranno da molto lontano. Non hanno intenzioni bellicose, ma sono piene di domande e, forse, di sorprese. Non so dirvi altro.”

Thor si dichiarò d’accordo e, nel porgere il proprio disegno a Duncan, aggiunse: “Io ne farei delle copie, così che le sentinelle di ogni branco siano a conoscenza dei loro volti e possano, un domani, essere pronti a riconoscerli. Da lì in poi, ci faremo guidare dalle loro parole e valuteremo di conseguenza.”

Duncan assentì e, nello scrutare il volto della bellezza bionda disegnata con mirabile maestria da Thor, disse dubbioso: “Non pare essere in salute. E’ molto magra.”

“Forse, necessitano del nostro aiuto in campo medico. Dopotutto, i Santuari non abbondano, né qui né in Scandinavia e, immagino, neppure da dove provengono loro” chiosò Alec, facendo spallucce.

Vi furono molti assensi e Brianna, nel lanciare un’occhiata pensierosa ai due ritratti, mormorò tra sé: “Tu che ne pensi, Fenrir?”

Tutto è possibile, Brianna ma, se avete avuto questa visione congiunta, non saranno di sicuro visitatori qualunque. Avete comunque scelto per il meglio. Essere pronti è sempre la risposta giusta al dubbio che può nascere in noi.

“Spero soltanto non portino guai. Ne abbiamo già avuti a sufficienza per due vite.”

Casualità ed equilibrio, Brianna, lo sai.

“Una volta o l’altra te le farò mangiare, queste parole” brontolò Brianna, prima di prestare nuovamente attenzione ai suoi ospiti.

A ben pensarci, era però vero che la casualità e l’equilibrio avevano giocato un ruolo molto importante, in quel particolare frangente.

Se lei ed Eirwyn non si fossero trovate nello stesso posto e nello stesso momento, forse la visione non avrebbe avuto luogo. Se non vi fosse stata la riunione tra clan, inoltre, non avrebbero potuto neppure ricevere l’aiuto di Beverly e Thor così tempestivamente, o affidare subito ai vari Fenrir i ritratti estrapolati dalla visione.

Fenrir rise sommessamente nel seguire i suoi pensieri e Brianna, con un borbottio, lasciò perdere per dedicarsi completamente alle persone presenti.

Quando – e se – i visitatori fossero giunti, loro sarebbero stati pronti. Quanto al dare soddisfazione a Fenrir, era un altro discorso.

Joshua le sorrise, forse avendo avvertito il battibecco mentale con Fenrir e, studiando i ritratti con espressione meditabonda, disse: “Il novantacinque percento dei lupi errabondi arriva a Londra tramite aereo o attraverso il tunnel sotto la Manica. Terrò d’occhio la situazione grazie ai miei lupi e alle mie spie umane. Vedrai che qualcosa salterà fuori.”

“Incrociamo le dita e speriamo bene. Non possiamo fare altro, mi pare. Non dipende da noi, ciò che faranno queste persone” gli sorrise lei, dandogli di gomito.

“Già, non dipende da noi. Quel che possiamo fare, è solo impegnarci al massimo.”

“Come sempre” chiosò Brianna.

 

 

 

=======================

N.d.A.: e qui termina la storia su Joshua e il suo passato.

Come avrete intuito, le persone che si intravedono nella visione avranno a che fare con la long fic che andrò a postare dalla prossima settimana, e che avrà come titolo “Claire de Lune”.

Ci trasferiremo in Canada, nelle terre delle tribù dei Piedi Neri, e avremo a che fare con lupi che non sanno nulla del proprio passato, ma sono ben intenzionati a scoprire tutto di se stessi.

A presto, e grazie per avermi seguito fino a qui!

P.S.: la cartella delle OS rimarrà aperta per future, nuove storie. Non si sa mai cosa possa venirmi in mente.

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Capitolo 46
*** Beauty and the Beast -1 -(Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***


N.d.A: prima di cominciare questa storia su Freki di Londra, il famoso Keath che tante lupe ha "sciupato" durante la sua carriera, vorrei chiarire che si tratta di una storia a Bollino Rosso, visto il personaggio di cui andrò a parlare. Giusto per essere sicuri che siate pronte alle scene che seguiranno. (niente di scabroso, ma sicuramente più "spinto" del solito)
Buona lettura.
 





Beauty and the Beast
(Keath – Freki di Londra)
 
 
Londra – Novembre 2018
 
La musica, quella sera, era davvero insopportabile.

Non che la band intenta a suonare sul palco per allietare i ragazzi stipati come sardine nel locale, non ci sapesse fare. Era proprio il genere a risultargli indigesto.

Neppure sapeva di preciso cosa fosse. Grunge? Punk Rock? Alternative Grunge?

Keath Harford, Freki di Londra e, in quel momento, buttafuori per la Basing House, era annoiato a morte e con le orecchie demolite da una musica che non apprezzava. Neppure i tappi per le orecchie servivano a molto, visto che le vibrazioni poteva sentirle più che bene, e non gli trasmettevano niente di buono.

Come se non bastasse, quella sera sembravano tutti compiti damerini, nel ballare, e nessuno aveva bevuto a sufficienza per diventare abbastanza idiota da finire, per diretta conseguenza, tra le sue grinfie.

Sbuffando per la milionesima volta quando un paio di ragazzine glitterate – e chiaramente in fregola – gli passarono accanto sventolando le loro ciglia finte, Keath scrutò il suo orologio da polso e borbottò: «Cristo… solo le tre del mattino? Non finiremo mai, di questo passo.»

Di nero vestito, coi capelli castani stretti in una coda di cavallo e lo sguardo d’acciaio puntato sulla folla danzante e promiscua, Keath appariva freddo e glaciale, ma anche dannatamente affascinante.

La sua statura vicina ai due metri attirava gli sguardi di tutti, così come le sue ampie spalle, il portamento fiero e una buona dose di muscoli a gonfiare i suoi abiti su misura.

Anche per questo, era il buttafuori preferito dalle donne, nel locale e, spesso e volentieri, era il gentil sesso a creargli maggiori problemi, non tanto gli uomini alticci e insolenti.

Il fatto di essere un licantropo era parte del problema. La sua natura di origine divina gli aveva conferito un fisico statuario e un volto assai piacente, anche se spesso solcato da smorfie disgustate o cipigli neri come pece. La sua aura ferina, poi, faceva il resto, attirando come le falene con la fiamma coloro le quali erano particolarmente sensibili a certi messaggi subliminali.

Testosterone a tonnellate, in pratica.

Ovviamente, Keath ne aveva approfittato il giusto, ma solo con le lupe, mai con le umane. Detestava mescolarsi con loro, poiché non accettava di doversi limitare.

Amava fare sesso, anche in modo piuttosto spinto, e farlo con un’umana avrebbe voluto chiaramente dire ucciderla. E lui non era bastardo fino a questo punto.

Inoltre, lui amava copulare in forma di lupo, il che escludeva a prescindere qualsiasi umana di sua conoscenza.

A ben vedere, non aveva mai sperimentato con nessuna l’altra opzione; semplicemente, il suo lupo era predominante, in faccende come queste, e a lui non spiaceva per nulla.

Un’unghia laccata di nero strisciò maliziosa sulla sua maglia, strappandolo ai suoi pensieri e riportandolo al presente… e alla proprietaria dell’unghia in questione.

Abbassando lo sguardo, Keath scrutò l’umana che, senza alcun problema, gli si era avvicinata per fare la smorfiosa e, tra sé, imprecò.

Con tutti i maschi umani disponibili presenti in quella sala – e ce n’erano fin troppi, per il suo naso sensibile – doveva proprio rompere le palle a lui?

«Come mai un bell’uomo come te è così accigliato? Non vorresti un po’ di compagnia? Tanto, stasera sono tutti tranquilli» mormorò la donna, strusciandosi volutamente contro il suo inguine per invogliarlo a una reazione. «Potrai pur prenderti cinque minuti di pausa…»

Keath, però, rimase impassibile e, scuotendo il capo, replicò con educazione: «Sono in servizio, m’am. Non posso davvero accettare il suo invito.»

Scostandosi come se l’avesse schiaffeggiata, la donna lo fissò al colmo della stizza e sibilò: «M’am? Mi hai dato… della signora?! Quanti anni pensi che io abbia?!»

Ciò detto, si defilò irritata, sventolando i suoi fianchi generosi e strizzati in una minigonna di latex nero.

Sospirando, Keath scosse il capo e borbottò tra sé: «Almeno la mia età, mia cara, e con troppo silicone sotto pelle, temo.»

Non che si sentisse vecchio, a trentasei anni. Per un licantropo dalla discendenza quasi pura come lui, non solo era ancora un giovincello, ma avrebbe potuto contare – incidenti permettendo – ancora su altri ottanta o novant’anni di vita serena e tranquilla.

O meglio, serena forse sì, tranquilla sperava davvero di no.

Non aveva decisamente il carattere per sopportare una vita tediosa e monotona.
 
***

Studiare alla Sorbonne di Parigi le era piaciuto e, nei suoi anni passati in Francia e nella caotica capitale francese, si era divertita e aveva assaporato a piene mani la joie de vivre dei loro vicini di mare.

Le sue due lauree in Storia dell’Arte e Archeologia erano ben chiuse nel cassetto della scrivania, così come le fotografie legate a quei meravigliosi anni passati all’estero.

Non poteva certo lamentarsi delle esperienze fatte, né dei risultati conseguiti o delle persone che via via aveva conosciuto, e con cui aveva intessuto rapporti più o meno profondi.

I suoi genitori l’avevano lasciata libera di scegliere della sua vita, così come dei suoi studi e, ora che aveva conseguito ciò che aveva sempre desiderato, si sentiva realizzata.

Era altresì pronta a iniziare il suo nuovo lavoro al Natural Museum lì a Londra, che si prospettava pieno di novità e di altri traguardi da raggiungere.

Si sentiva, però, anche dannatamente demotivata, e non ne comprendeva esattamente i motivi.

Era come se qualcosa, dentro di lei, mordesse il freno per ottenere altro, ma non le desse indicazioni riguardo a cosa fosse, questo altro. E lei odiava non capire le cose.

Sarah Ellison, membro umano del branco di licantropi di Londra e novella dottoressa in Storia dell’Arte e Archeologia, si sentiva dannatamente frustrata, e non capiva perché.

Aveva avuto una giovinezza lieta, una crescita ricca e piena di esperienze più o meno positive, ma che lei aveva immagazzinato dentro di sé come preziose lezioni di vita.

Forse, dipendeva dal fatto che la decisione più importante della sua esistenza – mutare in lupo, o rimanere umana – non era ancora stata presa, e neppure aveva idea di quando prenderla, né in che direzione virare?

Vedeva bene come, sia sua madre che suo padre, combattessero giornalmente con il mondo che li circondava e che li tratteneva dall’essere ciò che erano.

Suo fratello Jasper, di nove anni, era ancora troppo piccolo per comprendere la complessità di quella battaglia e trovava soltanto divertente l’idea, un giorno, di poter essere un licantropo.

Suo malgrado, Sarah vedeva invece anche i lati negativi e le privazioni a cui i mannari, giorno dopo giorno, dovevano sottostare, e questo la metteva a disagio.

Sarebbe stata in grado di accettare simili restrizioni, se mai un giorno avesse accettato di mutare?

Le libertà concesse a un umano erano immensamente superiori a quelle di cui, gioco forza, poteva contare un licantropo. Loro non potevano camminare per il mondo con la loro seconda natura in bella vista, né mostrare la loro reale forza o le loro immense potenzialità.

Questo la disturbava, poiché il solo pensiero di doversi autocensurare la metteva a disagio.

D’altro canto, il pensiero di poter essere forte e potente quanto mamma o le sue amiche licantrope, o poter contare sui sensi sviluppati di un mannaro, la eccitavano e la portavano a desiderare la mutazione.

«Ahhh, se fossi un po’ meno titubante!» si lagnò tra sé, dirigendosi a passo lesto verso il bancone del bar del Basing House per prendere un altro drink.

La musica non era delle sue preferite, ma la compagnia era invece ottima, perciò Sarah si era prestata a uscire con le sue amiche per un rendez-vous post laurea.

Era rientrata solo da un paio di mesi, da Parigi, perciò doveva rimettersi in pari con i pettegolezzi e le novità riguardanti il branco.

Pur se era sempre rimasta in contatto coi genitori e le sue amiche londinesi – ed era tornata a casa ogni qualvolta le era stato possibile – ascoltare le novità faccia a faccia era ciò che preferiva.

Inoltre, se il tutto era fatto divertendosi e passando una bella serata, era preferibile a una chiacchierata su Skype.

Sarah non fece in tempo a ultimare quel pensiero che un uomo la urtò con violenza, mandandola a sbattere contro il bancone di marmo nero del bar e rischiando così di far cadere il suo bicchiere.

Stordita da quel colpo improvviso, Sarah afferrò come meglio poté il ripiano del bancone per tenersi in piedi e, nel frattempo, affrontò con lo sguardo l’uomo brillo che l’aveva colpita.

«Ehi, dico! Stia più attento!» lo richiamò lei, levando a sufficienza la voce perché il tipo potesse udirla nonostante il volume assordante della musica.

Il tizio, in maniche di camicia e jeans stazzonati, la fissò con aria annebbiata, ghignò malignamente e replicò: «Che vuoi, puttanella? Eri tu sulla mia traiettoria.»

Sarah si infervorò immediatamente – gli insulti gratuiti la facevano infuriare come poche altre cose al mondo – e, dopo aver poggiato il suo bicchiere per non romperlo, si spinse verso l’uomo per sbottare: «Modera i toni, cafone che non sei altro!»

Alcuni avventori del bar, invece di darle una mano, si limitarono a spostarsi per non dover subire colpi di riflesso, ma lei non vi badò.

Era abituata a difendersi fin da quando aveva sedici anni e, anche se il tizio ubriaco era un po’ troppo grosso, per i suoi gusti, sapeva dove colpire per metterlo al tappeto.

L’uomo le rise in faccia, disgustandola con il suo alito pestilenziale al sapor di vodka e, con una gran manata alla spalla, la spinse via gorgogliando: «Oh, fai anche la bizzosa, adesso! Credo che ti darò una ripassatina, così capirai chi comanda!»

«Provaci, se ne hai il coraggio» gli rinfacciò Sarah, già pronta a scaricargli un calcio nei gioielli di famiglia.

L’uomo rise ancora, si tirò su le maniche per mostrare le braccia nerborute ma, prima ancora di fare un passo in direzione di Sarah, una mano dalla pelle bronzea lo afferrò alla spalla, spedendolo direttamente contro il bancone del bar.

Alla mano seguì un volto scuro e accigliato che, puntandosi naso contro naso sull’uomo alticcio, ringhiò e disse: «Leva ancora una mano su quella ragazza, e te la strappo a morsi. E ora, fuori di qui! Non vogliamo casinisti nel locale!»

Ciò detto, trascinò l’uomo smoccolante verso l’uscita, insensibile alle sue minacce così come ai suoi insulti meschini o ai suoi tentativi di malmenare il buttafuori.

Keath non impiegò più di cinque secondi a sbatterlo fuori dall’uscita secondaria del locale e, dopo aver ammiccato all’indirizzo di un suo collega, chiosò: «Lo dicevo che, prima della chiusura, avrei buttato fuori la spazzatura.»

«Di coglioni è pieno il mondo. Vinci facile» celiò il collega, battendogli il cinque.

Keath gli strizzò l’occhio, lo salutò e tornò alla sua postazione nei pressi della pista.

Lì, si assicurò che la ragazza in difficoltà fosse a posto ma, quando si vide puntare addosso due occhi color dei lapislazzuli che conosceva molto bene, il suo cervello divenne iperattivo.

Essendo Freki, conosceva vita, morte e miracoli di ogni membro del branco del suo Fenrir – era suo compito, visto che avrebbe potuto anche predarli – perciò non faticò a trovare il nome della padrona di questi fantastici occhi.

Fu comunque una sorpresa trovarsela dinanzi, visto e considerato che non gli era mai capitato di vederla in quel locale. Sorpreso, quindi, gracchiò: «Sarah? Sei Sarah, vero?»

«Keath…» mormorò la giovane, squadrando l’alto Freki come se quasi non lo riconoscesse.

Erano passati undici anni dalla prima volta in cui si erano parlati – pur se lei sapeva della sua esistenza da molto prima – e ancora rammentava il suo tocco, la sua carezza e il suo sorriso.

Il suo colloquio con Fenrir di Londra l’aveva resa nervosa ma, complice anche la presenza della sua insegnante, Gretchen Stewart, aveva parlato di ciò che aveva scoperto e che, in seguito, aveva portato a grandi cambiamenti nel branco.

Le sue informazioni avevano ferito grandemente Joshua Ridley, il loro Fenrir, ma avevano reso possibile l’eliminazione di una minaccia per il clan e di un traditore di primo livello.

Questo le aveva permesso di conoscere anche il Freki del branco, il famigerato e temuto Keath Harford che però, con lei, si era comportato in maniera cortese, anche se un po’ estrema.

«Non… non lo hai ucciso, vero?» tentennò Sarah, memore della promessa che l’uomo le aveva fatto anni addietro.

Keath strabuzzò gli occhi grigio fumo per un attimo prima di ricollegare i fatti e, a sorpresa, scoppiare a ridere.

Per Sarah fu come un fulmine a ciel sereno. Il viso cupo e pericoloso di Keath si trasfigurò, con quel sorriso e, come se nella sua testa vi fosse stato un immenso puzzle incompleto, l’ultima tessera finì al suo posto, mostrandole il risultato finale.

«Nessun cadavere, tranquilla. Tu stai bene, però?» la rassicurò lui, scrutandola con attenzione.

Riscuotendosi subito, lasciò da parte ciò che la sua mente aveva composto per lei – e che ora le stava creando non poche difficoltà ad apparire sana di mente – e assentì con vigore.

«Ero già pronta a dargli un calcio nelle… beh, là sotto, ma grazie per averci pensato tu.»

Keath si coprì il proprio inguine al solo pensiero e, ghignando beffardo, asserì: «Buon per te, se sai difenderti, ragazza. Mi fa piacere che te l’abbiano insegnato, ma fammi un favore… non parlare di simili cose con un maschio. Ci sentiamo presi tutti in causa. Cattivi e non.»

Sarah si ritrovò a ridere divertita di fronte a quella battuta e annuì, prima di dirgli: «Grazie per avermi difesa. Hai evitato che mi rovinassi gli stivali.»

Keath scrutò verso il basso, inquadrando un paio di stivali dal tacco chilometrico in pelle nera e, annuendo dubbioso, chiosò: «Neppure so come tu faccia a camminarci, ma prego.»

Ciò detto, risalì con lo sguardo e, stavolta, la guardò davvero, non si limitò a controllarne la salute fisica e, ciò che vide, lo stupì non poco.

Ricordava Sarah come una ragazzina magrolina e timida, dai lunghi e mossi capelli biondo-rossi e candidi occhi di lapislazzulo, mentre ora era una donna voluttuosa e bella, dallo sguardo sicuro di sé e la grinta di una guerriera.

Assottigliando un poco gli occhi fumosi, Keath dichiarò con tono più roco e profondo: «Una bella ragazza come te deve prestare attenzione a chi gli sta intorno. Hai qualcosa di più efficace di quegli ammazza-piedi, per difenderti?»

Sorpresa da quella domanda ma, soprattutto, dal complimento imprevisto in essa contenuto, Sarah sbatté confusa le palpebre per qualche istante prima di dire: «Beh, conosco l’autodifesa, se è questo che vuoi sapere.»

Lui si accigliò profondamente, a quella risposta e, scuotendo il capo, borbottò: «Non basta. In giro ci sono un sacco di bastardi palle-muniti che non aspetteranno che un momento utile per darti fastidio… e io preferirei evitarlo.»

Ciò detto, si volse verso il bancone del bar, schioccò le dita in direzione del barista per dirgli due parole e, dopo alcuni istanti, questo si ripresentò da Keath con una scatoletta cromata di nero e un mezzo sorriso a corollario.

Keath, però, lo gelò con una sola occhiata e, subito dopo, si volse verso Sarah per aggiungere: «Devi portare con te uno spray al peperoncino, come minimo… e poi ti procurerò anche un tirapugni e un taser.»

Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, Sarah non poté che aprirsi in un sorriso divertito e, pur accettando la bomboletta di spray al peperoncino che lui estrasse dalla scatoletta cromata, replicò: «Credo che questo possa bastare e avanzare. Inoltre, tirapugni e taser sono illegali.»

«Non per me» ghignò mefistofelico Keath prima di chinarsi sul suo orecchio e aggiungere: «C’è brutta gente, in giro. Ricordalo.»

Quel contatto pelle contro pelle fece infiammare Sarah che, grata della presenza di così tante persone nel locale, sperò con tutta se stessa che bastassero per nascondere al licantropo la sua reazione.

Certo, lui era un uomo davvero affascinante, e il suo profumo di maschio e di sottobosco la intrigava, ma non era la prima volta che un maschio la avvicinava. Era mai possibile che fosse così sensibile alla sua presenza?

Sì, le disse una vocetta maliziosa nella mente.

Quando infine lui si scostò, i suoi occhi si erano fatti scuri e ribollenti, quasi stessero per mutare nei più chiari e verdi occhi di lupo, che Sarah sapeva essere nascosti dietro a quelli grigio fumo di uomo.

Suo padre una volta le aveva detto che, pur non essendo un Gerarca, Keath era un lupo davvero possente e, anche grazie al suo manto interamente color argento, incuteva reverenziale timore sulla maggioranza dei lupi.

Era una rarità, per un lupo che non facesse parte della Triade di Potere, avere un pelo dal colore puro come il suo. In tutta la Gran Bretagna, gli unici lupi ad averlo così, erano lui ed Estelle Beauchamp, la moglie di Fenrir di Aberdeen, che poteva vantare un meraviglioso manto dorato.

Sarah desiderò poterlo vedere in quelle vesti e, per un istante, fu tentata di chiederglielo ma l’arrivo di Maurinne al suo fianco la fece desistere.

Vagamente preoccupata, la lupa scrutò dubbiosa l’alto e possente Freki prima di domandare: «Va tutto bene, qui?»

«Non preoccuparti, Maurinne, la tua amica sta benissimo. Solo, controlla che non esca da sola. Non mi fido del tizio che ho buttato fuori poco fa, e non vorrei la aspettasse al varco» le ordinò lui prima di allungare una mano verso Sarah e, inaspettatamente, darle un buffetto sulla guancia.

Ciò fatto, se ne tornò al suo posto e Maurinne, fissando l’amica con occhi sgranati, gracchiò: «E da quando in qua, Freki è così… cordiale

Sarah non gli rispose, troppo impegnata a tenere a bada il suo corpo e il fuoco che stava divampando nel punto in cui il licantropo l’aveva toccata.

Il famoso altro di cui stava cercando di scoprire la natura, era finalmente saltato fuori. Peccato che si trattasse del licantropo più scontroso e solitario sulla faccia della Terra.
 
***

Sbadigliando sonoramente, Sarah sorrise grata a Maurinne, impegnata alla guida della sua Seat Ibiza. Alle cinque e mezza del mattino, sembrava fresca come una rosa, e non di ritorno da una festa in discoteca a base di shottini e birra.

Lei, al contrario, era stanchissima – almeno a livello fisico – mentre la sua mente continuava a galoppare frenetica, ritornando sempre al momento in cui Keath l’aveva salutata per tornare al lavoro.

Non voleva dire nulla, era ovvio. Lui era un uomo fatto e finito, con tantissime storie alle spalle e tutte, nessuna esclusa, vissute con lupe mannare dannatamente attraenti.

Non si era mai sentito che Keath avesse avuto, anche solo una volta, una preferenza per una umana e, da quel poco che aveva saputo su di lui, a ben d’onde non si era mai rivolto a nessuna di loro.

Keath era in tutto e per tutto un lupo che, solo per puro caso, aveva le sembianze di un uomo. Era quindi chiaro perché non avesse mai avuto interessi amorosi nella sfera delle umane. Un loro eventuale amplesso avrebbe significato la morte della poverina.

E adesso perché penso a lui che fa sesso?, pensò sgomenta Sarah, avvampando per diretta conseguenza.

L’idea maliziosa, però, non se ne andò e anzi, rimase ben sedimentata nella sua mente tanto che Maurinne, quando fermò l’auto dinanzi al palazzo dove abitava Sarah, fu costretta a scuoterla mentre, con un risolino, le diceva: «Fila a letto. Sembri davvero esausta. Non ti sei neanche accorta che siamo arrivate.»

Volesse il cielo che fosse per quello, se sembro rimbambita!, mugugnò nella sua mente Sarah, dandosi dell’idiota per aver indugiato in simili e lascivi pensieri.

«Ah… grazie per avermi accompagnata. A buon rendere» mormorò poi la ragazza, afferrando il suo cappotto e la borsetta per scendere dall’auto.

«Ti avrei accompagnata comunque ma, visto che c’era di mezzo Freki, ho pensato di non disobbedire» ironizzò Maurinne, ammiccando maliziosa. «Non sapevo che lo conoscessi così bene

«Per la verità, l’ultima volta che ci siamo visti – e parlati – per più di dieci minuti, è stata undici anni fa. Per il resto, credo di averlo intravisto due o tre volte al Vigrond, per gli incontri al Novilunio con Fenrir» borbottò la giovane, aprendo la portiera e sapendo di mentire. Tutte le volte che le era stato possibile partecipare alle riunioni al Novilunio, vi aveva partecipato e, ahilei, soprattutto per vedere Freki.

Il fatto che avesse tenuto ben più che segreta questa sua passione, era indice di quanto si sentisse idiota ad aver fantasticato su di lui e, a quanto pareva, la sua mente era ancora ben radicata su quella cotta adolescenziale.

«Beh, a quanto pare, lui si ricorda bene di te. Avrei voluto che quel buffetto lo avesse dato a me» sospirò dolente Maurinne, portando Sarah a sorridere divertita.

«Tra dieci anni, quando mi ricapiterà di parlargli, glielo dirò» ironizzò Sarah, uscendo e salutando Maurinne, che ripartì per raggiungere casa sua.

Sarah la osservò allontanarsi nella notte e, con passo caracollante e stanco, si diresse verso il portone d’ingresso del palazzo dove viveva da quando era tornata da Parigi.

Frugando nella borsetta per trovare le chiavi, imprecò quando queste caddero a terra con un tintinnio fastidioso e che, nel silenzio della notte, parve assordante.

«Come nel più pessimo film dell’orrore» brontolò tra sé Sarah, piegandosi per raccoglierle.

«Già, davvero come nel più pessimo dei film» disse una voce a poca distanza.

Sarah si irrigidì al solo udirla e, raddrizzandosi alla svelta, scrutò sul fondo delle scale che portavano alla strada. Inorridita, vide l’uomo che l’aveva infastidita al locale e che, chiaramente ubriaco, la stava scrutando con una lascivia oltremodo preoccupante.

Evidentemente, Keath aveva avuto tutte le ragioni del mondo per metterla in guardia; quel tizio le aveva tenute d’occhio alla loro uscita dal locale e doveva averle seguite in auto per scoprire dove abitasse.

«Te l’avevo detto che ti avrei dato una ripassatina» ghignò l’uomo, iniziando a risalire lentamente le scale.

Sarah strinse forte la mano nella sua borsetta, afferrò lo spray al peperoncino che Keath le aveva dato e, per nulla intenzionata a darsela a gambe, si preparò a menare le mani.


 



P.s.: per chi non si ricordasse di Sarah Ellison, vi rimando alla storia che ho dedicato a Joshua. Lei compare lì.

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Capitolo 47
*** Beauty and The Beast - 2 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***


 

2.

 

 

 

 

Si sentiva un completo idiota al pensiero di essersi messo a seguire la traccia odorosa di una lupa, e solo per arrivare a scoprire dove abitasse un’umana.

Eppure, tant’era. Alla chiusura del locale, si era spinto fuori in fretta e furia per tenere d’occhio Maurinne e Sarah e, dopo averle viste andarsene sane e salve, aveva tirato un sospiro di sollievo, subito seguito da un dubbio.

Quel dubbio era divenuto ansia nel breve decorrere di qualche minuto e, in barba a tutto, si era infilato lungo Kingland Road seguendo l’odore residuo degli scarichi dell’auto di Maurinne.

Era stato decisamente meno piacevole che annusare l’aroma di una lupa in calore, e molto più frustrante, ma in qualche modo aveva tenuto le tracce fino a svoltare su Whinston Road.

Lì, si era guardato intorno con attenzione, notando solo alti palazzi ricolmi di appartamenti e una miriade di auto posteggiate per la notte sui lati della strada.

Ripresa la pista, si era avvicinato con passo sempre più veloce e, nel frattempo, si era dato dell’imbecille.

Smise di farlo solo quando sentì i rumori inconfondibili di una colluttazione, e il grugnito inconfondibile di un uomo.

Messe le ali ai piedi, Keath sfoderò le zanne senza quasi rendersene conto e, quando infine raggiunse il punto da cui provenivano i rumori, tale fu la sua sorpresa che il suo intero corpo si bloccò in contemplazione.

Sarah non soltanto sembrava padrona della situazione, ma aveva usato con sapienza la sua bomboletta di spray al peperoncino e ora teneva un braccio del malcapitato ripiegato dietro la schiena dell’uomo e un tacco premuto contro il suo sedere.

Il presunto aggressore e semi disteso sui gradini dell’ingresso, chiaramente reduce da un incontro all’ultimo spruzzo con lo spray urticante di Sarah e, a quanto pareva, con i suoi corsi di autodifesa.

«Se ti dovessi rivedere di fronte a casa mia, stai pur sicura che non sarò altrettanto gentile» lo stava nel frattempo minacciando Sarah, mentre l’uomo si lagnava per il dolore al braccio.

Nell’udire quel tono sicuro di sé, ma che nascondeva un brivido interiore che lui seppe immediatamente cogliere, Keath decise di intervenire e, afferrato il cellulare dalla tasca dei pantaloni, chiamò Michael – Sköll del branco – e disse: «Ehi, sei già di turno, stamattina?»

«Amico, ciao… sono montato venti minuti fa. Che c’è? Grane al locale?» rispose l’uomo, curioso.

Sarah volse lo sguardo non appena udì la sua voce familiare e lui, strizzandole l’occhio, proseguì dicendo: «Ho un problema con un uomo. Avrei bisogno che lo strapazzassi un po’, visto che ha tentato di violentare una ragazza. Che ne dici di mandare una pattuglia al 57 di Whinston Road?»

«Cristo! Lei sta bene? Mando un’ambulanza?» esclamò subito Michael.

Ghignando, Keath replicò: «Puoi mandarla per il tizio, se vuoi. La ragazza gli ha dato il ben servito, ma non penso che basti, come punizione. Merita qualcosa di peggio.»

Michael attese qualche attimo prima di parlare ma, quando lo fece, fu con molta cautela. Era raro che Keath si preoccupasse per qualcuno che non fosse Joshua o la sua Prima Lupa ma, parlando di un Freki, Michael non ci aveva mai visto nulla di strano.

I sicari del branco erano votati anima e corpo al proprio Fenrir.

La voce che era appena scaturita dalla gola di Keath, però, gli era parsa dannatamente minacciosa e protettiva, e questo suonava alle orecchie del lupo come una cosa del tutto inusuale.

«Chi è la ragazza, Keath?»

«Manda la pattuglia» si limitò a dire l’uomo, mettendo giù.

Ciò fatto, Keath si avvicinò, si accigliò leggermente nel vedere la gonna di Sarah strappata sull’orlo ma, lasciando il terzo grado a dopo, si chinò sull’uomo immobilizzato e disse: «Lascialo pure, Sarah. Ci penso io, a lui, finché non arriva la polizia.»

Lei annuì, lasciando andare il braccio e allontanandosi fino a raggiungere l’androne coperto sull’entrata e, con occhi sgranati e braccia stretta al petto, osservò il volto di Keath farsi nero di rabbia a stento trattenuta.

«Ti avevo avvisato al locale, ma vedo che sei duro d’orecchi. Ora spiegherai alla polizia come uno scricciolo di donna ti ha messo al tappeto, ma voglio che prima di tutto ti focalizzi su un particolare» cominciò col dire Keath, prendendolo per i capelli perché lo guardasse per bene in viso.

L’uomo deglutì, chiaramente in ansia, e assentì nervoso.

«Prova anche solo a farti sfiorare dall’idea di toccare ancora questa ragazza, e giuro su quanto ho di più caro che, non solo ti troverò, ma che ti farò a pezzettini così piccoli che neppure con la lente d’ingrandimento potranno trovarti. E non ti sognare di dire niente alla polizia. Loro odiano gli stupratori, e non saranno teneri con te. Stai zitto e ammetti le tue colpe, e forse vedrai che te la caverai» lo minacciò Keath con fredda determinazione.

L’uomo gorgogliò un assenso e il Freki, lasciatolo andare, si tolse la giacca di pelle imbottita e la avvolse attorno alle spalle tremanti di Sarah, mormorando: «Se vuoi entrare in casa, ti chiamerò solo quando sarà arrivata la polizia.»

Lei però scosse il capo, si strinse nella giacca di Keath e mormorò grata: «Grazie per essere venuto a salvarmi.»

«Ho fatto ben poco» chiosò lui, osservando arcigno l’uomo steso a terra. Quest’ultimo si era guardato bene dal muoversi, e osservava Keath come se fosse stato il diavolo redivivo. Era chiaro che la sua stazza, così come il furore nei suoi occhi, lo mettevano alquanto in ansia.

«Fa comunque piacere il fatto che fossi nei paraggi» replicò lei, lanciandogli un’occhiata guardinga.

La sua attenzione era tutta per l’uomo che aveva cercato di farle del male e, da quel poco che poteva capire dal palpito frenetico sulla sua guancia, il lupo fremeva per uscire e uccidere.

Doveva essere un’autentica faticaccia tenere a bada tanta furia e, in cuor suo, per un attimo desiderò vederlo aggredire l’uomo con le sue fauci di licantropo, il tutto al solo scopo di proteggere lei.

L’attimo seguente, però, sgranò gli occhi sgomenta, di fronte a quel pensiero. Keath non avrebbe mai ucciso per un motivo così futile e, soprattutto, non certo per lei. Era sciocco anche il solo pensarlo.

***

Il disbrigo delle pratiche con la polizia durò ben poco. Sarah non volle sporgere denuncia, ma pregò i poliziotti di spiegare un paio di cose all’uomo in questione, e loro si prestarono più che volentieri ad accontentarla.

Keath rimase al suo fianco in ogni momento, una mano sulla sua spalla e uno sguardo accigliato puntato sull’uomo in manette e, quando uno dei due poliziotti intervenuti si arrischiò a domandargli chi fosse, lui si limitò a grugnire due semplici parole.

Un amico.

Il sorriso tranquillo di Sarah fornì più certezze al poliziotto piuttosto che quella frase smozzicata tra i denti e, quando infine la pattuglia se ne andò con il suo carico prezioso, la ragazza disse: «Ora che è tutto a posto, puoi andare. Ormai sono le sei passate. Vorrai riposare un po’.»

Keath la squadrò dubbioso, i suoi occhi tornarono all’orlo strappato della gonna e, non volute, le zanne spuntarono rabbiose, splendendo ferali alla luce dei lampioncini d’entrata.

Sarah, allora, ne seguì lo sguardo, si accorse del danno e ammise: «Colpa mia. La gonna è troppo stretta per un calcio piazzato, così ho rovinato l’orlo.»

«Sei stata precisa?» gli domandò allora lui, infischiandosene dell’involontario dolore all’inguine che colpiva ogni uomo, al solo pensiero di un calcio nelle palle.

«Credo di sì. E’ stramazzato a terra subito, tutto dolorante, così ho avuto vita facile» asserì lei, stringendosi la giacca di Keath addosso nel tentativo di scacciare i tremori che, dopo l’allontanamento dei poliziotti, erano tornati a infastidirla.

Era riuscita a trattenerli agevolmente fin quando non aveva visto la volante sparire lungo la via e ora, di fronte allo sguardo inquisitorio di Keath, non riusciva più a trattenersi.

Lui, allora, le si avvicinò di un passo, allungò una mano verso di lei e, afferrata la mano che tratteneva la borsetta, la sollevò lentamente.

Sarah ne seguì i movimenti come in trance, ma fu solo quando lo vide con la chiave del suo appartamento in mano, che si riscosse.

Spalancando gli occhi, esalò: «Ma… che fai?»

«Stai per crollare. L’adrenalina nel tuo sangue sta scemando a una velocità preoccupante e i tuoi tremori sono aumentati. Avrai un crollo nervoso nei prossimi cinque minuti, e io non ho nessuna intenzione di lasciarti da sola ad affrontarlo» le spiegò lui, avvolgendole le spalle con un braccio per condurla verso la porta a vetri dell’entrata del palazzo.

Lì, aprì dopo aver tentato con un paio di chiavi e, nel condurla all’interno, domandò roco: «Il numero dell’appartamento?»

«Ah… seicentodue» mormorò lei, imbambolata.

Lui si limitò a un rapido assenso e la spinse gentilmente su un ascensore dopodiché, pigiato che ebbe il numero sei, attese in silenzio di raggiungere con lei il piano desiderato.

Sarah lo imitò, non parlando per tutto il tempo e, al tempo stesso, chiedendosi cosa diavolo sarebbe successo di lì a qualche minuto.

Non era per niente illibata. Si era fatta le sue esperienze, all’università, e aveva avuto anche un paio di ragazzi fissi, per un paio d’anni, ma non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire avere a che fare con un licantropo.

Certo, suo padre era stato con sua madre quando lei ancora era umana, perciò sapeva che era una cosa fattibilissima, ma conosceva anche la nomea del lupo al suo fianco.

E poi, perché cavolo doveva pensare che lui la stesse accompagnando al suo appartamento per quello?

Perché sei infoiata?, le domandò la sua coscienza, irritandola non poco.

Le porte dell’ascensore si aprirono su quel pensiero tutt’altro che edificante e Keath, nell’uscire con lei, si diresse verso la porta blindata con il numero dorato ‘602’ stampigliato sopra.

Lì, afferrò con sicurezza la chiave più grossa, la infilò nella toppa e, dopo aver girato, aprì il battente piuttosto pesante e, tra sé, approvò.

Era una porta salda, che avrebbe tenuto fuori con facilità qualsiasi umano. Almeno di quello, non doveva preoccuparsi.

Dopo aver acceso la luce, sospinse delicatamente all’interno Sarah e si chiuse la porta alle spalle, guardandosi poi intorno per studiare il perimetro.

Le finestre erano chiuse da tapparelle rinforzate, il che era un bene, visto che Londra era tutt’altro che una città sicura, checché ne dicessero le agenzie di viaggi.

«Ah… grazie per avermi accompagnata, ma ora sto bene. Puoi andare» si arrischiò a dire Sarah, togliendosi la sua giacca per consegnargliela a malincuore.

Adorava il suo profumo di muschio e, ora che le sue narici lo avevano imparato a memoria, ben difficilmente avrebbe dormito senza pensare a lui.

Keath accettò la giacca, ma la lanciò sul vicino divano e replicò: «Non stavo scherzando. Crollerai tra poco e, a giudicare dal tuo tremore, prima ancora di quanto avevo pronosticato.»

«Ma che vai…» iniziò col dire lei, prima di sollevare le mani tremanti e terminare sgomenta: «… dicendo? Oddio!»

«Per l’appunto» chiosò lui, iniziando a togliersi la maglia di dosso.

Subito, Sarah indietreggiò di un passo e, a metà tra lo spaventato e lo speranzoso, esalò: «Ma che fai?!»

«Mi spoglio. Non vorrai mica che mi trasformi distruggendo tutti i miei abiti, spero? Come ne esco da casa tua, poi?» replicò lui, del tutto tranquillo, e fissandola con una certa esasperazione.

«Oh… ah… è vero…» gracidò lei, frastornata da quella spiegazione del tutto accettabile, prima di domandare dubbiosa: «Perché ti vuoi trasformare?»

«E’ meglio per te, se divento un lupo» si limitò a dire Keath, terminando di togliersi la maglia e mettendo così in mostra a una strabiliata Sarah un corollario di muscoli degno dei più grandi scultori dell’antichità.

Da storica dell’arte quale era, non poté che paragonarlo a un Bronzo di Riace, o al Discobolo di Mirone. Ma lui era ben lungi dall’essere una statua, e quei muscoli dorati guizzavano come serpi… ed erano altrettanto sinuosi e tentatori.

Distogliendo in fretta lo sguardo, puntò il dito verso il bagno e borbottò: «Muta nella vasca, o trasformerai il soggiorno in una piscina. Io, nel frattempo, mi metto il pigiama.»

«Andata» dichiarò lui, camminando con passo sicuro di sé e lasciando al suo posto un profumo di maschio e di bosco che fece tremare Sarah. Ma non per la paura.

Scuotendo il capo, la ragazza si affrettò a raggiungere la sua stanza e, nel chiudervisi dentro, borbottò: «Tu guarda cosa doveva capitarmi…»

***

Quando ebbe il coraggio di mettere il naso fuori dalla sua camera, Sarah fu attirata dal rumore della doccia in funzione e, turbata, si domandò per un istante se Keath non si stesse facendo un bagno.

Il solo pensiero la mandò in confusione e, cercando di scacciare l’immagine di quel petto deplorevolmente bello e bagnato d’acqua bollente, si arrischiò a raggiungere il bagno per bussare.

«Tutto bene, lì dentro?» domandò lei, socchiudendo la porta per sbirciare.

Un manto argenteo si presentò dinanzi a lei e, sorpresa, la ragazza aprì il battente per meglio comprendere cosa i suoi occhi avessero intravisto.

Keath stava ripulendo la vasca da bagno tenendo tra le zanne il soffione della doccia, il tutto con una competenza così straordinaria da rendere quella scena ai limiti del paradossale.

«Ma non serviva, … davvero!» si ritrovò a dire Sarah, attirandone così l’attenzione.

Keath si volse istintivamente per guardarle, nell’udirla parlare e, così facendo, la inzuppò d’acqua prima di ritirare in fretta il soffione e chiudere l’acqua con una zampa.

Lo sconcerto fu tale che Sarah non riuscì neppure a imprecare e, guardandosi con occhi dolenti il pigiama fradicio e i capelli zuppi che le scivolavano sulle spalle, si chiese come dovesse apparire ai suoi occhi.

Occhi che, in quel momento, erano verdi come smeraldi e la stavano studiando con un misto tra interesse e sorpresa.

«Cazzo… dovrò cambiarmi ancora» brontolò lei, già pronta per tornare in camera.

Keath, però, la bloccò con il suo corpo, passandole accanto e strofinandosi contro di lei con il pelo morbido e straordinariamente caldo.

Non potendo impedirselo, lei affondò una mano in quel folto manto e, dubbiosa, domandò: «Mi asciugherai tu?»

Lui annuì col muso e, dopo aver terminato di passare attraverso la porta – e averla strusciata per bene in tutta la sua lunghezza – si andò ad accoccolare su un morbido tappeto nei pressi del divano.

La visione di quell’enorme lupo argenteo nella sua casa, era qualcosa che travalicava qualsiasi esperienza da lei fatta. Inoltre, il pensiero stesso di poter stare accanto a Keath a quel modo, la esaltava in modi che non voleva esaminare per niente al mondo.

Non voleva chiedersi nulla, sapere nulla. Voleva soltanto godersi quei momenti così strani e così eccitanti, senza porsi alcun limite e alcuna domanda.

Per quelle, ci sarebbe stato tempo al loro risveglio. Per qualche ora, voleva sognare.

Non avendo nient’altro a tenerla ancora ferma sul bordo del bagno, si diresse verso di lui e, dopo essersi seduta a terra, poggiò il capo contro la sua spalla morbida e caldissima e domandò: «Va bene così?»

Lui annuì ancora col muso, lo poggiò sul tappeto e chiuse gli occhi, sospirando e lasciando che i muscoli si rilassassero.

Conoscendo più che bene i comportamenti dei lupi, Sarah si commosse non poco e, arrischiandosi a voltarsi su un fianco per affondare le mani nella sua gorgiera, chiuse gli occhi e mormorò: «Grazie.»

Le luci temporizzate dell’appartamento fecero il resto. Dopo una decina di secondi si spensero, immergendoli nell’oscurità e Sarah, sorridendo nell’addormentarsi accanto a Keath, si sentì la donna più fortunata della Terra.

***

Che accidenti gli era preso, quando aveva deciso di accompagnarla nel suo appartamento e rimanere con lei fino al suo risveglio?

Non aveva resistito, era stato più forte di lui. Vederla tremare a quel modo, sentire le sue difese crollare l’una dopo l’altra, lo aveva colpito più di quanto volesse ammettere anche con se stesso.

Ora, immerso nell’oscurità dell’appartamento di Sarah, inondato dal suo profumo e avvolto dal suo corpicino – non fisicamente, ma metaforicamente – si sentiva strano e maledettamente insicuro.

Il che, per lui, equivaleva a un’ecatombe zombie, o qualcosa del genere.

Perché quella ragazzina gli faceva quell’effetto?

Già al loro primo incontro, la sua sagacia e la sua intelligenza lo avevano colpito, portandolo a fare qualcosa che, di solito, non si arrischiava mai a compiere; un complimento.

E aveva persino riso, di fronte a lei!

Nel corso degli anni, ne aveva seguito con un interesse pacato le avventure e i traguardi – suo padre, Greg, ne andava così fiero, e ne parlava così tanto, che era stato impossibile non rimanere informati – e, durante le visite al Vigrond, ne aveva studiato le reazioni.

Si era sempre mostrata affascinata dal mondo dei lupi, così come dalle parole dei Gerarchi e, per quanto molti altri umani e neutri si fossero mostrati interessati ad approfondire domande e questioni varie, lei gli era sempre rimasta impressa.

Era stato come osservare una tempesta in formazione, sempre più estesa, sempre più potente e dirompente.

Quando, però, se l’era ritrovata davanti in discoteca, scarmigliata ma pronta a dare battaglia e, soprattutto, bellissima e carica di una sensualità che non era riuscito a far coincidere con il ricordo della piccola Sarah. Si era ritrovato la testa piena di domande e di altre cose molto meno gestibili.

E aveva agito di conseguenza.

Si era preoccupato per lei, l’aveva seguita fino a casa e, non fosse stato per quello stronzo che l’aveva aggredita, avrebbe probabilmente stazionato sotto il suo appartamento come uno stalker.

Il tutto, unicamente perché rivederla adulta e donna, lo aveva confuso.

Aveva preferito di gran lunga rimanere con lei nelle sue forme di lupo, in cui si sentiva maggiormente a suo agio, per evitare di metterle le mani addosso e fare cose di cui, probabilmente, si sarebbe poi pentito.

Non voleva discutere con Greg, e teneva a quella ragazza – no, donna – perciò aveva preferito giocare d’anticipo e tenere le mani a posto.

Sentire il suo respiro sul pelo della gorgiera e il battito calmo del suo cuore, però, non lo stava aiutando a prendere sonno quanto, piuttosto, a rimanere ben desto. In ogni sua parte, purtroppo.

Agitandosi leggermente per trovare una posizione migliore per riposare, Keath si bloccò non appena vide Sarah accigliarsi nel sonno e, tra sé, si diede dell’idiota per essersi cacciato in quel guaio colossale.

Lei era un’umana, e lui un lupo. Un lupo che ne aveva combinate di cotte e di crude, con le sue amanti e Sarah, di certo, non aveva bisogno delle sue attenzioni dozzinali. Doveva darsi una maledetta calmata.

***

Un mugolio la risvegliò e, nel riaprire gli occhi, si ritrovò distesa sul petto ampio e bronzeo di un uomo, la cui sottile peluria bionda le solleticava il viso.

Sbattendo le palpebre in preda alla confusione più nera, Sarah si chiese cosa diavolo stesse succedendo quando, di colpo, si ritrovò distesa di schiena sul tappeto di casa sua, le spalle bloccate da due mani calde e ruvide.

L’istante successivo, l’uomo sopra di lei – no, il licantropo sopra di lei! – si chinò assonnato verso il suo viso. Indolente e sensuale, la baciò sulla bocca con una maestria che mai avrebbe immaginato di trovare in un lupo abituato ad amplessi in forma animale.

L’attimo seguente, Sarah lasciò perdere quel pensiero e sollevò una mano per trattenere il viso di Keath e approfondire quel bacio.

Quel tocco, però, fece riprendere l’uomo da quel mezzo risveglio dettato solo dal suo mero desiderio carnale, che lo aveva trasformato stranamente di nuovo in un umano. Con la forza che era in lui, si scostò di colpo e si posizionò a cavalcioni sopra Sarah, guardingo e confuso e tenendo entrambe le mani ben lontane dalla sua pelle morbida e calda.

«Cazzo! Scusa, io…» gracchiò lui, guardando lei, guardando se stesso e infine imprecando nuovamente quando lo sguardo gli cadde sui calzoni.

Sarah non fece in tempo a seguirne lo sguardo che Keath balzò in piedi neanche fosse stato un bambolotto a molla e, le mani a coppa sull’inguine, si volse verso le finestre per darle le spalle.

Ancora sdraiata sul tappeto, Sarah si poggiò sui gomiti e si beò la vista delle ampie spalle di Keath e dei suoi muscoli più che sviluppati, trovando l’intera situazione surreale ma molto, molto piacevole.

«Ehm… scusa, Sarah… è chiaro che non sono abituato a simili situazioni, e … beh, sono stato un cafone matricolato, dopo quello che è successo stanotte, e …» balbettò Keath, prima di imprecare tra i denti e azzittirsi.

Sarah trovò quelle scuse stentate, e non certo da lui, la cosa più dolce e suadente del mondo e, nel rialzarsi da terra, lo avvicinò cauta e disse: «Credo di non aver mai ricevuto buongiorno migliore.»

«Come, scusa?!» sbottò lui, volgendosi a mezzo per scrutarla con espressione confusa e sì, un po’ infastidita.

Ridacchiando nonostante tutto, Sarah sfiorò la sua schiena con dita leggere e, sorridendo soddisfatta, godette nel vederlo rabbrividire al suo tocco. Evidentemente, anche l’uomo era sensibile a certi tocchi delicati, non solo il lupo.

«Piantala, ragazzina, se non vuoi cacciarti nei guai» ringhiò lui, fissandola con occhi che passarono dal grigio al verde con inquietante velocità. «E poi, che intendevi dire, prima?»

«Ho idea che qualcuno mi creda ancora una fragile ragazzina di quindici anni, timida e insicura, seduta accanto a Gretchen nello studio di Fenrir» chiosò lei, aggirandolo per portarsi dinanzi a lui.

Keath si adombrò in viso ma non negò l’accusa e Sarah, accentuando il suo sorriso, aggiunse: «Quel bacio non mi è affatto dispiaciuto, Keath. Te lo devo forse scrivere, perché sia più chiaro?»

«Sei umana» la accusò lui, come se questo bastasse a spiegare il suo disagio.

«Ebbene?» domandò lei, stringendogli i polsi per spostare le sue mani e vedere fino a che punto fosse giunto il danno.

Keath non glielo permise, ma solo per qualche istante. Quando gli occhi di lapislazzulo di lei si fissarono nei suoi, le sue mani cedettero e Sarah le scostò per capire fino a che punto l’uomo fosse sconvolto da ciò che era successo.

Sgranando gli occhi, alla ragazza sfuggì un ‘cavoli!’ più che eloquente e Keath, distogliendo lo sguardo da lei, ringhiò: «Devi allontanarti, ragazzina, o potrei farti male. Molto male.»

Lei, però, si limitò a dire con serietà: «Keath. Guardami.»

Come se fosse stato lo stesso Joshua a imporgli un comando, l’uomo volse lo sguardo per incatenarlo nuovamente a quello della giovane e Sarah, senza alcuna paura, disse: «Non sono una ragazzina. Sono una donna. Una donna che vuole ancora un bacio da te.»

Quelle ultime parole scatenarono all’interno di Keath un autentico tsunami che, travolgendolo con forza inusitata, lo portarono a spingere Sarah contro il muro, sollevarla da terra e schiacciarle le labbra in un bacio dominante e feroce.

Lei lo accettò senza risparmiarsi, avvolgendo una gamba attorno alla vita di lui per tenersi in equilibrio e, ansimando contro la sua bocca esperta, mormorò: «Oh, dio, grazie…»

Keath ghignò contro le sue labbra e, senza più freni inibitori, si schiacciò contro i suoi seni e premette il membro eccitato contro il suo stomaco, mormorando roco: «Non dovevi istigarmi…»

Lei rise per diretta conseguenza e, quando la mano destra di Keath si infilò sotto i pantaloni del pigiama per afferrarle una natica, Sarah si sentì potente e forte come una dea.

Keath, che mai aveva sfiorato in vita sua un’umana, ora sembrava completamente fuori controllo… e per lei!

Galvanizzata da un simile traguardo e per nulla preoccupata dalle possibili conseguenze, si inarcò contro di lui per godere appieno della sua passione, già pronta a ricevere il pieno vigore della sua possanza maschile dentro di sé.

Fu forse questo a cogliere in fallo Keath, o forse fu la totale disconnessione con il cervello ma, quando la sentì pronta per lui, preda della stessa frenesia e passione, agì d’istinto… e morse.

Sarah impiegò qualche istante prima di avvertire il dolore alla spalla, ma avrebbe anche sopportato stoicamente, se Keath non si fosse scostato da lei con un ringhio disperato, lasciandola così crollare a terra priva di forze e sgomenta.

Gli occhi puntati sulla spalla nuda e bagnata del sangue di lei, mentre quello stesso sangue stava scivolando come vino pregiato nella sua gola, Keath si portò le mani tremanti al volto e crollò in ginocchio, disgustato da se stesso.

Messasi carponi, Sarah fece per avvicinarlo, chiaramente preoccupata dal suo crollo emotivo ma lui, con un ringhio, la tenne lontana da sé e sibilò: «No, non farlo! Non toccarmi!»

«Ma keath…» tentennò lei, chiedendosi spaventata se la considerasse un mostro, per averlo tentato a quel modo per poi farlo cadere nell’errore.

Lui si allontanò ulteriormente fino a terminare la sua ritirata contro il muro e, con il viso percorso dallo shock, esalò: «Sono un mostro… non puoi toccarmi…»

«Cosa?!» esalò a quel punto lei, completamente disorientata dalle sue parole. Ma lei aveva pensato che…

Levandosi in piedi con una rabbia quasi palpabile, Keath afferrò la sua giacca dal divano e, guardandola pieno di vergogna per alcuni istanti, fuggì poi via dall’appartamento lasciando sola e inappagata.

A memoria del suo passaggio, restarono soltanto la sua maglietta, abbandonata sul tavolino del salotto, e il morso sulla spalla di Sarah, che entro la prossima luna l’avrebbe mutata in un lupo.


 

 


 

N.d.A.: okay... qualcuno ha perso la testa? Direi che Keath ha appena visto rotolare via la sua.  Nel suo piccolo, Sarah lo ha davvero sconvolto!

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Capitolo 48
*** Beauty and The Beast - 3 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***


 
3.
 
 
 
 
Joshua avrebbe dovuto castrarlo, o peggio. Avrebbe dovuto tagliargli la testa e consegnarla su un piatto dorato a Greg e sua moglie, come pegno per aver trasformato la loro dolce figlioletta in una mannara, e senza il suo consenso.

Questo pensò freneticamente Keath mentre, con un diavolo per capello e già pronto a darsi la morte per la stronzata galattica che aveva appena commesso, stava dirigendosi verso il loft di Fenrir per parlargli.

Era vietato in qualsiasi clan mordere un umano senza il consenso del diretto interessato, e Joshua avrebbe potuto comminargli qualsiasi tipo di punizione, per questo.

Lui avrebbe accettato stoicamente qualsiasi ammenda ma, prima di subirla, avrebbe chiesto umile perdono alla famiglia Ellison per il suo errore grossolano.

E dire che si era sempre ritenuto immune da certe scemenze! Aveva sempre irriso i lupi che sbavavano dietro alle femmine, neanche fossero stati deprivati di qualsiasi volontà.

Keath si era sempre divertito con il gentil sesso, ne aveva goduto a piene mani e aveva lasciato appagate e soddisfatte le sue compagne di una notte, certe che quelle sgroppate tra i boschi non le avrebbero legate in alcun modo a lui.

Certo, qualcuna aveva tentato di cambiare lo stato delle cose, tra di loro, ma lui era stato categorico ogni volta. Educato, ma glaciale e perentorio.

Non voleva nessuna lupa nella sua vita. Voleva essere libero di fare quel che più gli piaceva, … ovviamente, nei limiti delle leggi del branco, ma godendone a piene mani.

Invece, con Sarah, aveva mandato all’aria tutto quanto, si era lasciato riempire dal suo profumo di umana e di donna e ogni cosa era andata a catafascio, finendo con il fargli commettere quell’errore abnorme.

No, Joshua doveva ammazzarlo di sua mano, a quel punto. Non avrebbe accettato una punizione diversa. Lo doveva a Sarah e alla sua famiglia.

Guardandosi le mani che l’avevano avvolta, che avevano sentito sotto di sé il suo calore, la sua morbidezza, la sua vita, si sentì male al pensiero di ciò che le aveva quasi fatto, e tremò.

Con la sua irruenza avrebbe potuto ammazzarla, ridurla in pezzi semplicemente unendosi a lei carnalmente.

«Che gran pezzo di merda che sono» mormorò tra sé, osservando torvo il palazzo dove abitava Joshua assieme a Gretchen.

Lasciando perdere qualsiasi reticenza, salì gli scalini del palazzo tre a tre – odiava gli ascensori perché lo facevano sentire un damerino – e, quando infine si ritrovò dinanzi alla porta in mogano del suo loft, bussò un paio di volte.

Il suo odore serviva anche da biglietto da visita, perciò Joshua non si sorprese tanto nel vedere Keath alla sua porta. Piuttosto, lo stupì la sua aria sconvolta e abbattuta.

«Posso entrare?» esordì Keath, passandosi nervosamente una mano tra i capelli lunghi e scarmigliati.

Joshua assentì con un cenno del capo e, nel vederlo quasi caracollare verso il divano prima di buttarvisi sopra stremato, Fenrir mormorò: «Ma che ti è successo, Keath? Sembra che tu abbia visto un fantasma!»

«Magari fosse quello, il problema!» sbottò il licantropo prima di notare Gretchen sulla porta della cucina. «Prima Lupa…»

La donna lo fissò assai preoccupata e, avanzando verso di lui, lanciò un’occhiata a Joshua prima di mormorare: «Puoi lasciarci soli per un po’, Jo?»

Arcuando un sopracciglio con evidente sorpresa, Fenrir assentì suo malgrado e, nel dirigersi verso il suo studio, lanciò solo un’ultima occhiata al suo sottoposto prima di sparire alla loro vista.

«Come hai capito?» borbottò Keath, reclinando il viso per poi nasconderlo con le mani alla vista di Gretchen.

Sedendosi accanto a lui sul divano, Gretchen gli sfiorò una spalla con la mano, asserendo: «Sono la Prima Lupa. Mi occupo delle anime disperate dei miei lupi, no?»

«Odio questa cazzo di sensibilità tutta femminile» si lagnò Keath, sorridendole triste nel liberarsi dalla protezione offerta dalle mani.

«Ne sono sicura, conoscendoti. Per questo sono anche molto in ansia per te. Non hai mai mostrato motivi di crollo, prima d’ora, mentre adesso sembri… spezzato» dichiarò turbata Gretchen, accentuando la stretta sulla sua spalla.

«Ho commesso un crimine orribile, Gretch, e contro la persona più dolce e gentile del mondo, che proprio non meritava di incontrarmi… di incrociare il mio sguardo…» gracchiò Keath, stringendo le mani a pugno sulle cosce fino a sbiancarsi le nocche.

Gretchen ascoltò quelle parole con il dubbio nel cuore e, turbata, domandò: «Cos’è successo, Keath?»

«Ho morso Sarah. Sarah Ellison» ammise senza remore il licantropo, sconvolgendo non poco Gretchen.

«Sarah? Ma come… perché?» esalò la Prima Lupa, trovando inconcepibili quelle parole.

Keath non si immischiava mai nella vita delle umane, figurarsi quelle del branco, che erano sacralmente protette da Fenrir.

Inoltre, anche se i due si erano conosciuti anni addietro e Freki ne aveva plaudito le doti, non le era mai parso che tra i due potesse esservi qualche affinità. O che fosse nata un’amicizia stretta tra di loro.

Quindi, perché si erano incontrati? E cosa l’aveva portato a perdere così tanto il controllo?

Keath scosse il capo, alla domanda della sua Prima Lupa e, contrito, mormorò: «L’ho seguita fino a casa perché un idiota, in discoteca, l’aveva disturbata. L’ho trovata davanti a casa sua mentre gli dava il benservito, così ho chiamato Michael perché se ne occupasse.»

Gretchen assentì curiosa e confusa insieme. Perché Keath si era preoccupato tanto? Certo, era un gesto molto nobile, ma anche molto strano, da parte sua.

«Visto che era ai limiti del crollo, l’ho accompagnata in casa e sono rimasto con lei, in forma di lupo, per farla calmare. Pensavo davvero che sarebbe andato tutto bene, invece…»

Interrompendosi nella narrazione, Keath prese fiato per continuare e, roso dal risentimento verso se stesso, aggiunse rabbioso: «Le sono saltato addosso come se non avessi mai visto una donna… e l’ho morsa.»

Sgranando gli occhi, Gretchen si sorprese non poco di quell’affermazione ma, soprattutto, dell’atteggiamento sconvolto e contrito di Keath.

Era risaputo quanto, la compagnia femminile, gli interessasse soltanto a livello fisico e quanto, le umane, fossero bandite dal suo carnet.

Se c’era qualcuno che garantiva nessun coinvolgimento emotivo ma solo del sano, piacevole sesso, era Keath.

Cosa era successo, quindi, con Sarah? Cosa lo aveva spinto a venire meno a tutti i suoi precetti in fatto di sesso femminile? E perché, ora, era così sconvolto?

Se non gliene fosse importato, avrebbe chiesto semplicemente perdono a Joshua per l’errore e poco altro ma, di fronte a Gretchen, stava un uomo divorato dal livore verso se stesso, dilaniato dalla contrizione e dal terrore per aver fatto del male a…

«Keath… cosa ti ha detto, Sarah, dopo che l’hai morsa?» domandò Gretchen, ormai più che sospettosa.

«Non ha importanza quello che ha detto. Le ho fatto del male, e merito la punizione più esemplare che Joshua vorrà comminarmi. La accetterò qualsiasi essa sia» dichiarò lui, levandosi in piedi come se fosse pronto a camminare verso il patibolo.

Gretchen lo osservò ansiosa, non sapendo cosa aspettarsi da un licantropo così divorato dal dolore e, nel levarsi in piedi a sua volta, lo prese per le spalle e disse: «Ne parlerò con Jo, ma vorrei anche sentire l’opinione di Sarah in merito.»

Keath si imbestialì al solo pensiero e, nero in viso, ringhiò: «Tu non la turberai con delle domande su ciò che è successo! E’ una cosa che riguarda solo me

Ciò detto, si allontanò dalla sua Prima Lupa, raggiunse la porta e, nell’afferrare la maniglia, mormorò roco: «Mi troverai dai miei. Ho bisogno di recuperare il controllo, e la città non aiuta.»

Gretchen annuì seria e Keath, nell’inchinarsi brevemente a lei, fuggì quasi dall’appartamento senza null’altro dire.

A quel punto, la donna sospirò, si avviò verso lo studio di Jo e lì, nel trovarlo seduto alla sua scrivania e con l’aria di uno prossimo a un attacco di nervi, disse: «Abbiamo un bel guaio da risolvere.»

Sorpreso, Joshua si levò immediatamente dalla sedia e raggiunse la moglie. Lei lo abbracciò e, contro la sua spalla, aggiunse: «Non so bene per quale motivo, ma Keath ha ferito… no, ha morso Sarah Ellison, e ora vuole morire per mano tua, da quel che ho capito.»

«Cosa?!» gracchiò Joshua, sgomentandosi.

Gretchen assentì, scostandosi dal marito per ammettere: «Non l’ho mai visto così sconvolto, Jo. Keath non è mai stato una persona dedita all’altruismo spicciolo, né si è mai preoccupato per le umane. Ora, invece, non solo è pieno di rimorsi per quello che è successo, ma sembra che il solo pensiero di aver ferito Sarah lo abbia sconvolto al punto tale da desiderare la morte.»

Joshua imprecò, passandosi una mano tra i capelli color neve e, passeggiando nervosamente nel suo studio, borbottò contrariato: «Ma che diavolo gli è saltato in mente?! Lui non se la fa con le umane… e poi, crollare a quel modo…»

«Lo so, sembra tutto assurdo» annuì Gretchen, non sapendo davvero che dirgli. «Aspetterà la tua punizione a casa dei suoi. Così mi ha detto. Aveva bisogno di quiete attorno.»

«Devo parlarne con Sarah, prima di fare qualsiasi cosa, e…» iniziò col dire Joshua, subito interrotto dalla moglie.

«Lui non vuole. Si reputa colpevole senza alcun dubbio, e non desidera che tu la importuni.»

«Beh, questo è il colmo!» sbottò Joshua prima di annusare l’aria al pari di Gretchen e fissare confuso la porta d’entrata del loft. «Ma che succede, stamattina?»
 
***

Sapeva che gli uomini potevano comportarsi da idioti, ma addirittura mollarla lì e farla sentire la povera verginella – che non era! – maltrattata dall’uomo crudele e feroce, proprio non lo accettava!

Keath avrebbe imparato a proprie spese che lei non era affatto una fanciullina delicata e fragile come il vetro né, tanto meno, una che si spaventata con poco.

Certo, lui aveva perso il controllo e l’aveva morsa e certo, lei aveva in programma di aspettare un annetto o due prima di mutare… ma mai lo avrebbe incolpato per ciò che aveva fatto!

Si era sentita finalmente appagata e piena di passione irrefrenabile, tra le sue braccia, donna come nessun uomo era mai riuscita a farla sentire e lui, con le sue maledette idee preconcette, aveva rovinato tutto piantandola in asso.

Poteva capire la sua ritrosia nell’unirsi a lei – sapeva che tra donne e lupi poteva essere pericoloso – ma avrebbero potuto parlarne assieme, da adulti consenzienti e sani di mente.

Ora, invece, stava correndo come una forsennata verso la casa del suo Fenrir dove, al novantanove percento, quello sciagurato di un Freki doveva essere andato per autodenunciarsi.

Cosa che lei trovava assurda a prescindere. Anche quanto, avrebbe dovuto chiedere a lei, cosa ne pensasse al riguardo, non dare per scontato che fosse traumatizzata o che.

Quando infine raggiunse il palazzo dove si trovava Fenrir, Sarah si guardò vagamente accigliata – indossare un cappotto e le scarpe da ginnastica sopra al pigiama, non era il massimo dell’eleganza – ma salì ugualmente, prendendo l’ascensore.

Non aveva assolutamente voglia di scodellarsi una marea di scalini e, finché non fosse diventata una lupa, avrebbe evitato come la peste.

Il solo pensiero le scaldò le gote, facendola arrossire. Nel suo sangue scorreva il DNA di Keath, la sua forza dirompente, la sua selvaggia libertà, e lei ne era felicissima.

Nessun altro lupo sarebbe stato altrettanto perfetto, per lei, e l’idea di mutare grazie a lui la faceva sentire davvero potente, invincibile.

Peccato che il lupo che l’aveva marchiata non ne fosse altrettanto entusiasta.

Nel veder aprirsi le porte dell’ascensore, ne uscì quindi a passo di carica e, dopo aver tentennato un attimo, bussò e attese che qualcuno le venisse ad aprire.

Attese solo alcuni attimi e, quando vide Gretchen alla porta e il suo sguardo preoccupato a scrutarla, lei sbuffò e domandò: «Keath è stato qui, vero?»

«Già. Vuoi entrare?»

Sarah assentì e penetrò nel loft trovandovi anche Fenrir, in piedi accanto ai divani e con l’aria di uno a cui servivano un sacco di spiegazioni.

Lei lo salutò con un elegante cenno del capo dopodiché, aprendo il cappotto per mostrare la sua medicazione sulla spalla, borbottò: «Voglio subito chiarire che ero più che consenziente.»

Gretchen e Joshua, allora, si guardarono confusi e Sarah, nel richiudere il cappotto, mormorò confusa: «Oh… non vi ha detto quella parte

Joshua si passò una mano sul volto con espressione esasperata e borbottò: «Senza scendere in particolari scabrosi, vuoi forse dirci che tu e Keath eravate in intimità, quando è successo?»

Pur avvampando al solo ricordo di come l’avesse afferrata e schiacciata contro il suo intero corpo divorato dalla passione, lei assentì e precisò: «Volevo essere baciata, e gliel’ho chiesto, così lui mi ha accontentata. La cosa è un tantino sfuggita di mano a entrambi, lo ammetto, ma non dovete pensare che lui mi abbia fatto del male, o che altro.»

«E’ quello che pensa lui» sottolineò Gretchen, vedendola sbuffare per diretta conseguenza.

«Perché è un maledetto idiota!» sbottò Sarah, sgomentandoli non poco. «Ho il sospetto che lui continui a confondersi con la me stessa quindicenne, quando mi conobbe… ma non sono più quella ragazzina

«E’ più che evidente» chiosò Joshua, scrutando quella donna volitiva, per nulla spaventata dalla situazione in cui era finita e che sembrava, in tutta onestà, ben decisa ad avere il lupo che l’aveva marchiata. «Cosa vorresti che facessi, Sarah?»

«Con tutto il rispetto, Fenrir, un bel niente. Voglio sbrigarmela io, con quel dannatissimo lupo. Voglio che capisca che sono una donna fatta e finita, e che voglio che lui mi veda così!»

«Un bel po’ di ‘voglio’…» ironizzò Fenrir. «… sei sicura di riuscire a metterli tutti in pratica?»

Sospirando, Sarah ammise: «Ho sempre ammirato Keath, Fenrir, e già dalla prima volta in cui lo conobbi, mi affascinò. Gli studi all’estero mi hanno tenuta lontana dal branco per molto tempo, ma questo non ha diminuito il fascino che lui aveva su di me. Tutte le volte che ho potuto vederlo durante le riunioni del Novilunio, i miei occhi erano solo per lui e, quando riuscivo a parlare con Keath, ero sempre felicissima, così… beh…»

Arrossendo, si interruppe e Gretchen, sorridendole comprensiva, le sfiorò il viso dove era più che evidente il rossore prodotto da una barba incolta. Tutto il suo corpo, a ben vedere – e sentire – riportava in modo evidente l’odore di Keath, così come il suo desiderio di uomo e di lupo.

Non l’aveva marchiata solo sulla spalla con il suo morso, ma anche con il suo odore. Quell’aroma muschiato avrebbe tenuto lontano da Sarah qualsiasi licantropo intenzionato a farle qualche avance. Nessuno si sarebbe arrischiato a toccarla.

«Aver a che fare con certi lupi, è difficile. Quando l’animale è la parte predominante, i conflitti con la sua parte umana sono più frequenti, e questo può creare squilibrio. Sei certa di volere nella tua vita un licantropo così?» le domandò Gretchen.

«Non si tratta di volerlo o meno, Prima Lupa. Io lo vorrei anche. So di essere abbastanza forte da gestirlo. Ma è lui a non volere me, perché … beh, il perché non lo so, e glielo chiederei volentieri se fosse obbligato a rimanere fermo ad ascoltarmi per…»

Di colpo, Sarah si volse verso Joshua, sorrise compita e domandò: «Potresti tenerlo bloccato per me, Fenrir? Con la Voce del Comando, intendo. So che non è molto corretto da chiedere, però, se non facessi così, lui continuerebbe a scappare da me, senza ascoltarmi.»

Joshua la fissò per alcuni istanti prima di scoppiare a ridere e, annuendo, esalò: «Keath si è davvero cacciato in un guaio colossale. Mettersi contro una donna simile!»

«Già. Non sa in che casino si è infilato» annuì determinata Sarah.

Non voleva né la sua pietà, né tantomeno irretirlo in qualcosa che lui non desiderava. Ma, cascasse il mondo, l’avrebbe ascoltata e si sarebbe fatto passare le sue fisime da lupo idiota.
 
***

La cittadina di Linford, nei pressi dell’estuario del Tamigi, si trovava in una zona rurale tranquilla e isolata, dove le case erano rade e ben distanti tra loro.

Ogni acro di terreno era composto da prati incolti, campi a riposo e interminabili siepi e muretti di cinta, che davano al tutto un aspetto bucolico e antico, da romanzi alla Austen.

Lungo Muckingford Road, dove i suoi genitori abitavano e si prendevano cura di una piccola azienda agricola dedita alla coltivazione di cereali, il traffico era quasi inesistente. I soli rumori presenti erano dati dal cinguettio di rari uccelletti, e dal tintinnare delle campane a vento sulla veranda.

A novembre inoltrato, con i campi a riposo e nulla da fare se non godersi il caldo del camino nel salotto e bersi un buon brandy, la quiete della campagna era ancor più evidente.

Keath aveva sempre odiato quel posto. Troppo tranquillo per i suoi gusti, troppo isolato e distante da una civiltà che, pur se non amava, raffreddava e teneva sotto controllo molti dei suoi istinti primari.

Passare gran parte del suo tempo a folleggiare con le lupe, o tenere a bada sfrenati umani, aiutava il suo lupo a chetarsi, a prendere un respiro di sollievo.

La quiete bucolica di quei luoghi risvegliava più di quanto desiderasse il suo lupo, invece, rendendolo ancor più restio a trattenersi, a controllarsi in un mondo in cui non potevano viaggiare a testa alta e nelle loro forme primigenie.

In quel frangente, però, stremato com’era e divorato dal senso di colpa, il suo lupo piagnucolava infelice, e la campagna contribuiva a renderlo languido e triste. L’ideale, per massacrarsi a dovere.

«Tesoro, vuoi un caffè? O è meglio una tisana, visto quanto sei nervoso?» mormorò la madre, strappando il figlio ai suoi pensieri errabondi.

Keath si volse a mezzo per scrutare l’alta licantropa che l’aveva allevato da sola, dopo che il compagno era scappato da lei e dai suoi doveri di padre e marito.

Trisha Harford era una donna di sessantasei anni dal fisico slanciato e forte, i capelli rossi come il fuoco e gli occhi grigi al pari del figlio. Nulla, in lei, denotava la sua età, e il suo sguardo d’acciaio scoraggiava i più dal vederla come una donna indifesa, …almeno tra coloro che non ne conoscevano la vera natura.

Trentenne e con un bambino in fasce da crescere, Trisha aveva conosciuto Karl Huckerman – il suo attuale marito – durante una passeggiata solitaria lungo i campi.

Tranquillo agricoltore di Linford che, da solo, stava tentando di salvare la vecchia azienda di famiglia dal fallimento, Karl si era avvicinato per fare due complimenti al piccolo Keath e, da lì, era iniziata la loro amicizia.

Essendo sempre stata isolata dal resto degli esseri umani in quanto licantropa e madre single, Trisha aveva trovato curioso che quel pacifico uomo si fosse arrischiato a rivolgerle la parola.

Gli altri compaesani, forse istigati da mogli gelose o inorridite dalla sua gravidanza senza un marito appresso, si erano sempre tenuti ben distanti da casa sua. Non Karl, però.

Non essendosi mai interessata di agricoltura, ma avendo ereditato dalla famiglia un discreto appezzamento di terreno – confinante per l’appunto con gli Huckerman – Trisha aveva accettato di parlare con l’uomo riguardo ai suoi campi.

Karl le aveva chiesto di poterli usare in cambio di una rendita annuale. Non potendo lasciare il piccolo Keath con una balia umana, Trisha aveva colto l’occasione al balzo. Quel denaro le avrebbe garantito di poter allevare il figlio e di farlo crescere con i giusti precetti… e divieti.

Questo, inoltre, le aveva permesso di scoprire le insospettate doti di agricoltore di Karl, oltre alla sua caparbia ostinazione nel voler salvare ciò che i genitori avevano costruito, ma non avevano potuto godere a causa di una morte prematura per malattia.

Keath era quindi cresciuto vedendo quell’umano alto e dinoccolato che si prendeva cura dei campi, gli regalava mele rosse per merenda e parlava con la mamma dal suo trattore acceso.

Trisha aveva impiegato dieci anni, prima di convincersi che Karl avrebbe potuto accettarla interamente per quel che era. Quando infine gli aveva accennato alla verità, lui si era limitato a sorriderle.

Il fatto che lei fosse più forte, o più agile di lui, lo aveva reso felice, dandogli la certezza che nessuno avrebbe potuto farle alcun male, grazie a questo suo dono così speciale.

Keath aveva trovato quelle parole assai sorprendenti e, con naturalezza, era passato dal chiamarlo Karl a ‘papà’ con la stessa facilità con cui l’uomo li aveva accettati.

Per lui esisteva Karl, come padre. Non gli interessava sapere chi lo avesse concepito. Anche per questo – e soprattutto tenendo conto delle parole di suo padre – si sentiva così male al pensiero di aver fatto un simile sgarbo a Sarah, che era la quintessenza della bontà.

Sospirando, Keath scosse il capo all’indirizzo della madre che, nel lanciare uno sguardo a Karl, non seppe che dire.

Vederlo comparire a sorpresa era stata ovviamente una gioia – Keath si allontanava raramente dal suo Fenrir – ma, quando i genitori avevano scorto dolore e contrizione sul suo viso, si erano istantaneamente preoccupati.

Il figlio non si era voluto sbilanciare con loro in merito alla sua visita improvvisa, ma era chiaro a entrambi quanto, il motivo che lo aveva spinto fin lì, fosse grave. Almeno agli occhi di Keath.

L’arrivo di un’altra auto non li sorprese più di tanto, a quel punto e, mentre Karl si dirigeva alla porta per salutare i nuovi venuti, Trisha domandò al figlio: «C’è niente che ci vuoi dire, prima che i nostri ospiti entrino in casa?»

«Vorrei soltanto che vi ricordaste di me come di un bravo figlio» si limitò a dire Keath, mettendola in allarme.

Facendo tanto d’occhi, la madre si avvicinò per stringergli una mano sul braccio – trovandolo tremante – e mormorò sconvolta: «Cos’è mai successo, tesoro, per farti parlare a questo modo?!»

«Ve ne parlerà Fenrir» dichiarò Keath, prima di accigliarsi e mormorare contrariato: «Ma che diavolo…»

Mentre il suo cervello impazziva alla ricerca di una spiegazione logica agli odori che stava percependo, la porta d’entrata si aprì per lasciare entrare Fenrir di Londra e la sua accompagnatrice.

Karl li accompagnò verso il salotto con un’espressione più che mai confusa dipinta sul volto e, quando infine il trio si presentò dinanzi a Trisha e Keath, quest’ultimo distolse lo sguardo, sentendosi più che pronto alla morte.

Lo sguardo di Sarah era tranquillo, pur se vagamente tinteggiato di rabbia e, quando vide la madre di Keath, si esibì subito in un sorriso, presentandosi con cordialità.

La donna rispose al saluto con una stretta di mano dopodiché la licantropa, fissando dubbiosa Fenrir di Londra, domandò: «Mio figlio parla per enigmi, Fenrir, e dubito di aver capito cosa volesse dirmi. Puoi dunque spiegarmi cosa tanto teme?»

Lanciata un’occhiata a Sarah, che assentì vigorosa, Joshua si limitò a dire: «Credo che, alla fin fine, abbia timore solo di questa giovane e del suo giudizio. Se per voi non è un problema, utilizzerei il vostro salotto per un confronto diretto, visto che il primo tentativo di chiarimento pare non sia riuscito molto bene.»

Sia Karl che Trisha fissarono dubbiosi la giovane prima di annusare l’aria e fissare palesemente confusi il figlio, che ancora si rifiutava testardamente di guardare Sarah.

«Sì, mi ha morsa» dichiarò Sarah, prima che potessero avventurarsi in mille ipotesi diverse. «Ma vorrei chiarire con voi, e con lui, che la cosa non mi turba minimamente.»

Queste parole fecero scatenare la ferocia di Keath che, ribellandosi come un leone tenuto per troppo tempo in gabbia, la fissò livido in volto e ringhiò: «Come puoi dire una menzogna simile?! Ti ho prevaricata, senza chiederti nulla, e…»

Joshua si limitò a un suadente ‘ora basta, Keath’ e il licantropo, azzittendosi di colpo, fissò sbigottito il suo Fenrir in cerca di spiegazioni.

Trisha rabbrividì al suono della Voce del Comando di Joshua e Karl, passandosi una mano tra i corti capelli grigi, borbottò: «Neppure era diretta a noi, ma fa uno strano effetto lo stesso. Vi lasciamo soli, a questo punto. Da quel poco che ho capito, la signorina ha bisogno di dare una ripassata a nostro figlio.»

«Un po’» ammise Sarah, sorridendo spiacente alla coppia.

Trisha le passò accanto, dandole una pacca sulla spalla, e asserì: «Purtroppo è venuto su un tantino testone. Dovrai essere chiara, se vorrai farti capire. E’ un lupo, prima di essere un uomo, perciò ci vorrà polso.»

«Ne avevo avuto il sospetto, ma grazie per il consiglio» si limitò a dire Sarah, osservandoli mentre, senza null’altro dire, uscivano dalla stanza.

Joshua, a quel punto, fissò uno sconcertato – e immobilizzato – Keath per dire con tono esasperato: «Sono sicuro che lo hai fatto per un tuo distorto senso dell’onore, amico, ma mollare una signorina così, senza spiegazioni, è davvero scortese. Ora rimarrai immobilizzato finché non l’avrai ascoltata, e sappi fin da subito che Sarah non vuole che io ti punisca, perciò non ti venisse in mente di chiederlo a qualcun altro. Ho vietato a tutti di toccarti.»

Accigliandosi, Keath fece per parlare ma la coercizione lo tenne avvinto come un cappio al collo fin troppo stretto. Accigliandosi, Joshua aggiunse: «Hai omesso dei particolari dal tuo racconto, e questo mi porta a chiederti una cosa. Perché mi hai deliberatamente mentito, amico mio? Sai che non amo le bugie.»

Ciò detto, schioccò le dita per annullare la coercizione e permettergli di parlare.

«Non ti ho mentito! Le ho fatto del male, e se lei non vuole capirlo, dimostra soltanto di aver compreso appieno la portata del mio errore!» sbottò Keath, guardando unicamente il suo Fenrir.

Joshua allora sospirò, replicando: «Non si scappa dai confronti, Keath. Dovresti saperlo. Noi lupi li affrontiamo a testa alta, e con coraggio.»

«Lei non è un lupo» sottolineò Keath, accigliandosi.

«Beh, sta dimostrando di esserlo più di te, in questo momento, visto che tu sei scappato, mentre lei no» ribatté Joshua, tornando a imporgli il silenzio e l’immobilità prima di sorridere a Sarah e aggiungere: «Mi troverai in cucina assieme a Trisha e Karl, casomai ti servisse qualche altra imposizione.»

«Grazie, Fenrir» sorrise la giovane, lanciando poi un’occhiata gelida a Keath.

Joshua scosse il capo, uscì chiudendosi la porta alle spalle e, a quel punto, Sarah scaricò un pugno in faccia a Keath, ottenendo un gran male all’articolazione ma un sano sbigottimento sul volto del licantropo.

Saltellando e tenendosi una mano per il dolore mentre smoccolava senza gran ritegno, Sarah fissò il centro del suo interesse e borbottò: «Ma tu guarda se devo arrivare a disturbare i tuoi genitori e Fenrir, per farti capire che una donna può apprezzare il genere di attenzioni che mi hai tributato!»

Keath tentò nuovamente di parlare, ma la Voce del Comando lo tenne bloccato e imbavagliato, così Sarah proseguì dicendo: «Ne avevo già parlato a suo tempo anche con Fenrir, ma non era un mistero per nessuno che io avrei voluto mutare, prima o poi. Il fatto che sia avvenuto così, senza preavviso, non mi preoccupa affatto, lo vuoi capire?!»

Il licantropo scosse il capo e Sarah, imprecando nuovamente, si avvicinò a Keath e gli poggiò le mani sul torace, sentendolo subito tendersi come una corda di violino.

Ora più calma, la giovane mormorò: «Mi affascinasti fin dall’inizio, quando ti incontrai nell’ufficio di Fenrir. Quando poi Joshua ci permise di visitare il Vigrond al Novilunio, io partecipai volentieri ogni volta perché potevo vedere te e parlare con te. Sapevo che tu apprezzavi solo la compagnia delle lupe, perciò mi limitai a godere delle volte in cui mi concedevi la parola, beandomi della tua forza, del tuo senso dell’onore nei confronti di Fenrir e del branco.»

Ciò detto, mise mano alla camicia di Keath e cominciò a sbottonarla pian piano, notando con una certa soddisfazione come, quel semplice gesto, lo stesse innervosendo non poco.

«Vivere a Parigi e studiare lì mi ha tenuta lontana da te e dalle dinamiche del branco per quasi sette anni e, in quel periodo, ho fatto le mie esperienze e sono diventata più forte grazie alle vittorie e alle sconfitte. Niente di tutto ciò che ho provato, però, mi è rimasto impresso quanto te.»

Levando lo sguardo verso di lui, Sarah si levò in punta di piedi – era alta, ma Keath sfiorava i due metri – e, avvoltogli il collo con le braccia, mormorò sulle sue labbra: «Ho fatto sesso con diversi ragazzi, ma nessuno mi ha fatto provare neppure lontanamente il trasporto emotivo di questa mattina. Mi hai colpito moltissimo, quando ti sei trasformato in lupo per me per proteggermi dalle mie paure, così come mi hai colpito quando volevi farmi tua.»

Keath cercò di muoversi, di allontanarsi, di urlarle quanto le sue parole fossero inutili e fin troppo gentili, rispetto all’errore che lui aveva compiuto, ma Sarah non aveva ancora finito.

Lo baciò con tenerezza, giocando delicatamente con le sue labbra e Keath, suo malgrado, si ritrovò ancora una volta a rispondere a quel bacio, a quel corpo, a quel calore umano. Curioso come, se non tentava di sfuggirle, la coercizione saltasse automaticamente.

Non contenta, Sarah scivolò con la bocca sul collo di Keath, dispensandolo di piccoli baci e morsi, mentre la sua mano destra indugiava sulla natica di lui.

Fu a quel punto che Keath comprese. Sarah stava ripetendo i suo gesti, le mosse di quella sventurata mattina e, a giudicare dal suo aroma speziato e dal battere furioso del suo cuore, non soltanto era eccitata, ma lo bramava.

Il morso giunse inaspettato, cogliendolo di sorpresa e, subito dopo, Sarah si spostò su un capezzolo, titillandolo tra i denti e scatenando in lui un desiderio tale da spezzarlo quasi in due.

Mugolò, ormai fuori controllo ma impossibilitato a fare qualsiasi cosa – oltre al gettarsi addosso a lei – a causa della Voce del Comando di Joshua. Sorridendogli con occhi resi vacui dalla passione, Sarah gli afferrò il viso con le mani e lo baciò di nuovo.

«Desidero che tu faccia quello che ho fatto io a te, che termini quello che hai iniziato perché ti voglio nella mia vita, e non come amico, ma come amante. Lascia libero ciò che trattieni con tanta ferocia. La coercizione di Joshua ti ha lasciato fare solo ciò che bramavi, impedendoti di fare ciò la paura ti diceva di fare» ammise a sorpresa Sarah, sgomentandolo.

La giovane lasciò a Keath il tempo di digerire quella verità, dopodiché aggiunse: «Se però non mi reputi all’altezza perché sono ancora un’umana, e non vuoi dare ascolto al tuo istinto più primordiale, non venire da me neppure dopo la mia mutazione, perché non ti vorrò. Mi hai desiderata da umana, e con una forza che – immagino – ha spaventato anche te. Accetta di avere qualcosa, dentro di te, che ti spinge da me ora, e allora parleremo assieme. Diversamente, stammi lontano per sempre, e io cercherò di farmi passare ciò che provo per te.»

A quel punto, Sarah lo lasciò andare e una lacrima ribelle scivolò sulla sua gota prima che ella sparisse dietro la porta del salotto.

Keath rimase immobilizzato per un minuto buono, non sapendo che fare – o dire – finché il rumore dell’auto con cui Sarah e Joshua erano giunti non lo riportò al presente.

Senza attendere oltre, il licantropo corse fuori quasi abbattendo le porte che lo dividevano da Sarah ma, quando finalmente raggiunse il cortile, l’auto era lontana e, con lei, la donna che aveva saputo metterlo al tappeto.

Sulla porta di casa, Trisha chiosò: «Spero tu abbia abbastanza sale in zucca per capire che una donna simile non devi perderla, o giuro che ti affogherò nel Tamigi, perché vuol dire che non ti ho insegnato abbastanza bene per essere un uomo con le palle.»

«Dio, mamma, ti prego!» gracchiò Keath, fissandola esasperato e leggermente in imbarazzo.

Aveva trentasei anni, non tre mesi, e lo urtava non poco sentirla parlare a quel modo, come se fosse un povero imbecille senza cervello!

Non che avesse dimostrato di averne molto, in quelle ultime ventiquattr’ore ma, ehi, mica si poteva essere sempre al meglio, no?

Karl diede una pacca sulla spalla alla moglie, le sorrise e celiò: «Magari nostro figlio vuole un po’ di privacy, che dici?»

«E’ un lupo. Sa che la privacy è un lusso che ben difficilmente possiamo concederci» brontolò Trisha, prima di ammiccare al figlio e aggiungere maliziosa: «A quanto pare, le tue scappatelle con le lupe di mezza isola non ti hanno insegnato niente sulle donne, ragazzo.»

Avvampando come uno stoppino a quell’accenno, Keath distolse lo sguardo da una madre ridente che, tirandosi dietro il marito, rientrò lasciando fuori di casa il figlio, perso nei suoi dubbi e nel suo sbigottimento.

Che diavolo doveva fare, a quel punto?




 
(Ci tengo a sottolineare che il comportamento dei lupi NON E' uguale al comportamento degli esseri umani e, ciò che per noi potrebbe essere visto come prevaricazione, non lo è per i lupi. Il comportamento di Sarah si allinea a quello dei lupi, per essere chiari)

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Capitolo 49
*** Beauty and The Beast - 4 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***


4.
 
 
 
 
Lasciata Sarah a casa sua con un gran sorriso e la promessa di essere al suo fianco, in quella sgangherata situazione, Joshua se ne andò con la certezza che nulla, in quella faccenda, sarebbe stato facile.

Si era quasi slogato la faccia, per sfoderare un sorriso convincente, ma dubitava che Sarah vi fosse cascata.

Dopo ciò che era successo, non poteva pensare che lei fosse una qualsiasi ragazza infatuata e persa nel suo sogno. Era una donna che sapeva cosa voleva, e il lupo che voleva le stava facendo vedere i sorci verdi.

Niente di strano se, quando era scesa dall’auto, le avesse visto il dolore cocente negli occhi.

Non poteva però fare altro. Era tutto nelle mani di Keath, ormai. La decisione spettava a lui.
 
***

Sarah salì lentamente fino al suo appartamento. Il passo strascicato e l’aria stanca, aprì la porta di casa come se pesasse cento chili e lì, nell’osservare la maglietta di Keath sul divano, pianse.

Si era sentita molto coraggiosa a porre quell’ultimatum a Keath, ma non era affatto sicura di sapere se esistesse un modo per smettere di sentire ciò che aveva dentro.

Poteva davvero pensare di riuscire a cancellarlo dalla sua vita, di non posare più lo sguardo su di lui, di non avere la possibilità di scoprire come fosse, oltre la facciata di Freki?

Lei voleva conoscerlo, stare al suo fianco, amarlo, ma era possibile avverare tutto questo, con lui che era convinto unicamente di averle fatto del male?

Perché non poteva accettare i suoi sentimenti? Perché non voleva provare a conoscerla come donna?

Stringendosi la maglietta al volto e inspirando il suo profumo di lupo e di uomo, Sarah crollò sul divano e lasciò che le lacrime che aveva fin lì trattenuto sgorgassero libere da freni.

Era difficile essere sempre forte, avere sempre – o quasi – il controllo sulla propria vita, e trovare sempre il modo migliore per reagire ai comportamenti altrui.

Ogni tanto, sentiva il desiderio di avere qualcuno che lo facesse per lei. Giusto per riprendere un po’ il fiato, per non essere sempre perfetta, o preparata a tutto, o forte e determinata.

Qualche volta, voleva tornare a essere la studentessa timida e impacciata che Keath aveva ammirato per la sua intelligenza e sagacia.

Voleva essere un po’ vezzeggiata. Non tanto, ma almeno un pochino.

Ma la persona che poteva farla sentire bene – o malissimo – non voleva le umane al suo fianco, solo le lupe, e lei non voleva accettare che un cambio di casacca, per così dire, la rendesse migliore ai suoi occhi.

Desiderava andargli bene com’era adesso. Il fatto di diventare una lupa doveva essere un di più, non l’unica soluzione per piacergli.

Qualcosa era scattato tra di loro, senza che vi fosse di mezzo la sua licantropia, perciò desiderava capire cosa fosse nello specifico quel qualcosa. Se lui non voleva, però, tutto sarebbe stato vano.

Fu tra quelle lacrime colme di dolore che si assopì, desiderando un lupo che mai l’avrebbe voluta per quella che era.
 
***

Riprendendosi dal sonno dolente che l’aveva presa, Sarah fece per muoversi e alzarsi dal divano ma, quando tentò di farlo, si rese conto di non trovarsi affatto su un divano, ma accoccolata in braccio a Keath.

Sgomenta, fece per scostarsi, non comprendendo quello che era successo mentre era addormentata ma lui, trattenendola contro di sé, mormorò: «Non dovresti lasciare aperta la porta di casa. Potrebbe entrare chiunque.»

Lei si limitò a sbirciare sopra la spalla, ricordando suo malgrado che, quando era entrata, il dolore provato era stato così forte da farle dimenticare anche una banalità come quella.

Sospirando, poggiò mani sul torace di Keath per alzarsi, ma ancora lui la trattenne e Sarah, cominciando a scocciarsi, borbottò: «Se sei venuto per scusarti, o perché temevi che io potessi essere triste, prendi pure la via della porta, perché…»

Keath la azzittì con un bacio e, con movenze sinuose, la fece distendere sul divano e sotto di sé, che ora la sovrastava completamente.

Sorridendo poi malizioso, mormorò: «Dio, parli come una radio! Anche a casa dei miei, era impossibile farti tacere.»

«Per forza, eri sotto coercizione» brontolò lei, cercando di non fare caso all’erezione di lui, che premeva come un maglio contro il suo fianco.

Era più che evidente quanto fosse eccitato, neppure un idiota avrebbe omesso quel particolare, nondimeno sembrava tranquillo e, in qualche oscuro modo, appagato.

Lui accentuò il sorriso, le leccò la base del collo fino a farla mugolare di piacere e, roco, ammise: «E’ stato un errore morderti e, prima che tu ti arrabbi, è giusto che io lo dica. Che tu volessi diventare lupa o meno, era tuo diritto decidere quando, e da chi farti mordere.»

Sarah annuì controvoglia, trovando estremamente difficile essere coerente, con lui che la guardava con aria così truffaldina e maliziosa. Ugualmente, cercò di non apparire una deficiente e rispose con qualche monosillabo borbottato tra i denti.

Accettando quell’assenso, Keath sfiorò con la punta del naso la ferita da lui inferta – ora coperta da un pesante cerotto – e, per un attimo, il suo corpo tremò tutto. Sarah non seppe dire se per il dispiacere, o qualche altro sentimento.

«E’ terribile pensare che la tua pelle perfetta sia stata ferita da un mio morso… ma è stranamente appagante sapere che io sono dentro di te, pur non essendoci mai stato» sussurrò roco lui, calando con la bocca a mordere l’orlo della camicia di Sarah.

Lei ansimò di piacere a stento trattenuto, ma riuscì ugualmente a dire: «Essere mutata da te… è un sogno che diventa realtà.»

«Perché? Perché pensi questo di me?» volle sapere lui, poggiandosi sui gomiti per poterla guardare meglio.

Sarah sapeva di dover ponderare le parole, poiché la domanda di Keath era più che lecita e meritava una risposta seria, non le classiche banalità del genere ‘sei un bell’uomo’ e cose simili.

Levando perciò una mano per carezzargli il volto, mormorò: «Sento cose che non ho mai provato per nessuno, e sono sicura che vogliano dire qualcosa di più che ‘ho una cotta per qualcuno’. So che sei un lupo, e so anche che non hai mai voluto una donna umana nella tua vita, ma sei qui, ora, e qualcosa vorrà pur dire. Forse, anche tu senti qualcosa che non hai mai provato per nessuna.»

«L’affinità d’anima si prova solo tra lupi, ma…» mormorò lui, tornando a sfiorarla fino a poggiare il capo nell’incavo del suo collo. «…credo faccia stare così. Con un desiderio irrefrenabile di stare con qualcuno, di toccarlo, di possederlo, di averlo sempre con sé.»

«Sai, però, che non sono un oggetto, vero? Che non puoi possedermi?» domandò lei, non sapendo bene come interpretare quelle parole. Aveva sentito parlare delle affinità d’anima tra lupi, e sapeva che erano rare ma che, chi poteva vantarle, provava sensazioni mai provate.

Lui allora rise, una risata vera, spontanea, e annuì.

«Bright ha un’affinità d’anima con Kate, eppure la sua Prima Lupa è Estelle. Inoltre, so che non sei un oggetto, e che potrei anche volerti solo come amica, ma non è quello che voglio

«E cosa vuoi?» mormorò in un ansito Sarah, non sapendo cosa aspettarsi da lui.

Per tutta risposta, lui insinuò una mano tra di loro, le slacciò i jeans e incuneò le dita nei suoi slip, sfiorandola con delicatezza.

Sarah andò letteralmente a fuoco, si divincolò sotto quel tocco appena accennato volendo di più, bramando tutto, di lui e Keath la accontentò.

Le sfilò i pantaloni con una competenza sospetta, non in linea con un licantropo che avesse avuto solo lupe con cui accoppiarsi, ma lei non vi badò più di tanto.

Attese bramosa che anche lui si fosse liberato degli indumenti e, quando egli fu nudo e perfetto sopra di lei, non poté che provare aspettativa e piacere, ma niente affatto paura.

«Non l’ho mai fatto, con un’umana» tenne a precisare lui, a un passo dall’averla.

«Non l’ho mai fatto, con un licantropo» replicò lei e, con dolcezza, lo guidò verso di sé, verso il fulcro della sua femminilità.

Entrambi ansimarono di sorpresa, quando i loro corpi si fusero in uno solo. Le spinte furono lente, all’inizio, per abituare entrambi a quella danza del tutto nuova finché, per ognuno di loro, non giunse che il momento dell’oblio.

Keath la strinse a sé, affondò sempre di più, il volto a sfiorare il suo collo mentre Sarah emetteva dei brevi sospiri contro i suoi capelli, le mani artigliate alla sua schiena.

Non vi fu sangue, non vi fu la violenza tanto temuta da Keath, solo il piacere della scoperta, la brama accompagnata dall’appagamento, la sorpresa di mettere a nudo se stesso per la prima volta.

Forse, anche per questo non si era mai voluto unire a nessuna in quella forma. Si sentiva stranamente vulnerabile, come se il manto del lupo lo proteggesse da dolore e tradimento.

Lì con Sarah, sdraiati sul divano, avvinti l’uno all’altra in un abbraccio rovente, sapeva di essere in balia di quella donna umana. Di una sua parola. Di un suo rifiuto.

Sapeva che, se lei l’avesse rifiutato ora, non avrebbe avuto speranza.

Ora, in quel momento, il suo cuore era nudo.

Ma lei lo baciò, sfiorò entrambi con le sue mani calde, rise nel vedere il mezzo pasticcio combinato sul divano e, levatasi in piedi, gli allungò una mano perché andasse con lui.

Keath accettò, sapendo che sarebbe stato sempre così, da quel momento. E al diavolo il fatto di sapersi nudo, davvero nudo, dinanzi a Sarah.

Se sentirsi così esposti dava anche così tanto, avrebbe lottato per averlo per il resto della sua vita.

«Andiamo a fare una doccia. Ne abbiamo bisogno» mormorò lei, togliendosi di dosso ciò che rimaneva della sua camicia per poi avventurarsi verso il bagno.

Lui ne ammirò le forme voluttuose, desiderò farle sue in quell’istante ma, al tempo stesso, bramò di abbeverarsi semplicemente del suo sorriso, o di godere delle sue sole parole.

Fu per questo che disse con una certa ironia: «E’ tutto così strano.»

«Lo so» si limitò a dire lei, e una lacrima le sfuggì dagli occhi. «Ma è bello. Mi piace l’idea di imbarcarmi in questa avventura con te. Con nessuno è mai stato… come te.»

Keath la raggiunse subito, a quella vista, la strinse in un abbraccio e mormorò: «Con me non dovrai più piangere.»

«Mi farai piangere ancora, ma sarà solo di gioia» replicò lei nell’osservarlo, e lui le strappò la lacrima dalla gota con un bacio.

«Per ora, voglio sentirti urlare il mio nome mentre ti faccio mia» mormorò roco lui, facendola ridere.

«Queste non sono pareti insonorizzate, Keath. Non voglio che i miei vicini chiamino la polizia perché pensano mi stiano ammazzando» asserì lei, venendo letteralmente trascinata verso la vasca.

Lui la sollevò per farle oltrepassare il bordo, la schiacciò contro il muro gelido strappandole un mugolio di protesta e aggiunse: «Urlerai, ma dentro la mia bocca, così nessuno sentirà.»

«Vediamo che riusciamo a combinare, allora» assentì Sarah, aprendo il getto caldo della doccia, che li colpì con le sue gocce bollenti.

Keath ghignò malizioso, la afferrò alla vita per sollevarla e affondò in lei con una spinta indolente che la portò a sospirare e rabbrividire.

La prese così, lento, inesorabile, facendole sospirare ogni affondo e Sarah si perse nei suoi baci, finché non divenne troppo anche per lui, e non si lasciò infine andare a una possessione totale, senza pietà.

Keath, comunque, fu di parola. Ogni ansimo di Sarah venne catturato e, quando infine crollarono contro il muro piastrellato, lei mormorò roca: «Nessuno è mai stato come te.»

Lui ringhiò per diretta conseguenza e Sarah scoppiò a ridere, esalando: «Te l’ho detto che ho avuto altri ragazzi, no?»

«Non pensarci mentre sei con me.»

«Era solo per dirti che, come te, non ho mai vissuto niente di simile, perché nessuno è mai stato tuo pari» sottolineò lei.

Keath allora la fissò con profonda malizia e asserì: «E’ ovvio che nessuno sia stato come me. E quando sarai lupa, capirai fino a che punto.»

«Mi porterai nel bosco, alla luce della luna, e correremo insieme come lupi?»

«Se lo vorrai. Ma, ora che ti ho avuta così, dubito che apprezzerò mai più la mia forma di lupo per quel genere di cose. Non avevo davvero la più pallida idea di cosa mi stessi perdendo.»

Ciò detto, si chinò a succhiarle i seni e fece capire anche a Sarah cosa intendesse dire, con quelle parole.
 
***

Mezzanotte era passata da poco. Sdraiato sul letto di Sarah mentre, con lentezza, le passava un acino d’uva alla volta, Keath stava godendosi quei momenti di pace dopo l’amplesso.

Non aveva mai apprezzato quegli istanti, trovandoli davvero sopravvalutati e inutili, ai fini pratici.

Lui e le sue compagne si erano sempre divisi in amicizia, lasciandosi come si erano ritrovati, e nessuna aveva mai preteso che fosse diverso da così.

Con Sarah, invece, era tutto così piacevole da renderlo quasi sospettoso. Era mai possibile che vi fosse un inganno, dietro a tanta gioia?

Scrutandola in volto, glielo chiese con un candore tale da far tremare d’emozione la giovane e lei, arrampicandosi su di lui per offrirgli un acino, mormorò: «Non hai mai avuto una relazione, perciò immagino sia strano, per te. Si sta così, i primi tempi, ma io spero di poterlo dire anche tra cinquant’anni.»

Lui ghignò per puro orgoglio maschile e Sarah, ridacchiando, si sedette sopra di lui e aggiunse: «Ma guarda quanto sei tronfio, ora che te l’ho detto…»

«Mi piace stare così, perciò mi impegnerò a che la cosa duri a lungo… molto a lungo…»

Assottigliando lo sguardo, Sarah borbottò: «Non ti stai riferendo solo alla nostra relazione, vero?»

Sistemandosi meglio sotto di lei, si inarcò per immergersi nel suo corpo caldo e, con un sospiro deliziato, ansimò: «No, non mi stavo riferendo solo a quello… e ora cavalcami, mia lupa.»

«Anche se sono ancora umana?» domandò lei, inarcandosi all’indietro per assaporare appieno la sua forza.

«Sbagliavo a pensare che sarebbe stato meno intenso» ammise lui, facendola arrossire per l’intensità del suo sguardo e la franchezza delle sue parole. «Tu sai darmi cose che nessuna lupa è mai stata in grado di darmi… e non parlo di questo, adesso. Parlo di quello che viene prima. E dopo.»

Il piacere che aveva saputo donargli non era la sola spiegazione alla sensazione di calore che provava nel petto. C’era ben altro, e sapeva che aveva a che fare con lei in quanto donna, e non per ciò che sapeva donargli a letto.

Sarah allora sorrise, si mosse sopra di lui e mormorò: «Piacersi anche prima, e dopo, è molto importante. Sono contenta che tu me l’abbia detto.»

Lui grugnì un assenso, quasi trascinato via dal lento movimento di lei sul suo membro e, nel reclinare il capo all’indietro, gorgogliò: «Ti va se ne parliamo dopo?»

Lei rise, si mosse nuovamente fino a farlo tremare e, nell’annuire, Keath perse la sua battaglia e raggiunse la vetta prima della sua amante.

Era davvero la giornata delle prime volte, quella.
 
***
 
Camminando lungo la passeggiata dello Stoneridge Park per raggiungere Albion Square, dove si trovava la villetta degli Ellison, Keath lanciò un’occhiata a una soddisfatta Sarah e rise.
 
Lei lo scrutò incuriosita e l’uomo, scrollando le spalle, chiosò: «Sembri un gatto che ha mangiato il canarino.»
 
«Qualcosa di simile. Di certo non speravo che, nel mio futuro prossimo, potessi esserci compreso anche tu, perciò sono contenta. Sei un canarino molto saporito, sai?»
 
Keath si fece dubbioso e ammise: «Non sai se tra un mese ci andrà ancora di stare insieme. Magari, quando sarai diventata lupa, i tuoi interessi cambieranno e vorrai stare con altri lupi… oppure, io mi stancherò di questa novità e tornerò a fare il solitario.»
 
Sarah lo prese sottobraccio, annuendo alle sue parole e, fattasi seria, asserì: «Lo so bene che è tutto in divenire, per noi due, ma mi godo il presente e spero che diventi anche futuro. Se non succederà, saprò di aver almeno tentato. Non mi piace rimanere con il dubbio e non sapere le cose.»
 
«Ho notato» annuì lui, sogghignando malizioso.
 
Sarah allora arrossì e borbottò: «Non ti conviene farmi pensare adesso a quello che abbiamo fatto stanotte. Già non sono sicura che le mie tre docce siano bastate a eliminare del tutto il tuo odore dalla mia pelle, figurarsi se poi penserò a cose sconce davanti a mio padre. Potrei diventare paonazza nel giro di un secondo.»
 
«Non ho paura delle ire di tuo padre… o di tua madre, se è per questo. Voglio solo che sappiano che non ho cattive intenzioni nei tuoi confronti, accettando di frequentarti» replicò lui, serafico. «O è di Jasper che devo preoccuparmi? E’ un fratellino geloso?»
 
«Accettando… di frequentarmi? Ti senti obbligato perché siamo stati insieme?» borbottò Sarah, lasciando perdere il resto del suo discorso per fissarlo bieca.
 
Dopo un attimo, ebbe la soddisfazione di vederlo arrossire sotto la pelle bronzea.
 
«Beh, hai capito… non fare la noiosa» brontolò Keath, scostandosi dal suo braccio e infilando le mani nelle tasche.
 
Sarah allora sorrise comprensiva di fronte al suo palese imbarazzo e, nell’osservare le altre coppiette presenti in quel momento nel parco – liete di godersi quella giornata gradevole – mormorò: «Non è un problema se non vuoi dirlo ai tuoi amici, sai?»
 
Avvampando d’ira, Keath si bloccò a metà di un passo e sbottò dicendo: «Pensi che mi vergogni di te?!»
 
«Dimmelo tu» replicò lei, fissandolo con falsa ingenuità.
 
L’uomo la scrutò sempre più accigliato, borbottò un’imprecazione e infine disse: «Okay, scusa. Ho sbagliato a esprimermi. Volevo dire che voglio frequentarti… solo, non ho la più pallida idea di quello che fanno due persone che si frequentano. Tutto qui.»
 
Sgranando gli occhi, Sarah esalò sconcertata: «Ma neppure da ragazzo hai avuto la fidanzatina?»
 
Keath storse il naso al solo pensiero e scosse il capo, replicando fiero: «Joshua mi ha riconosciuto come suo futuro sicario quando avevo compiuto da poco tredici anni e, fino alla mia investitura ufficiale, ho seguito scrupolosamente gli insegnamenti del vecchio Freki così che fossi pronto, al mio ventiquattresimo anno di età, a succedergli. Non avevo tempo per le donne, in quel senso. Dovevo essere pronto per Joshua.»
 
Lo sguardo di Sarah si addolcì, a quelle parole e, gentilmente, mormorò: «Stavi con le lupe a quel modo perché non ti distraessero dal tuo compito, quindi?»
 
«Anche» ammise Keath, grattandosi pensieroso una guancia rasata di fresco. «In realtà, la cosa è più complessa di così, e anche abbastanza stupida, se ci penso.»
 
«In che senso?»
 
Keath si guardò attorno, intercettò una panchina e, nell’afferrare la mano di Sarah, la accompagnò fin lì e poi si accomodò assieme a lei.
 
Ciò fatto, strinse le mani tra loro e, pensieroso, asserì: «Mio padre… sì, quello che mise incinta mamma, se ne andò per stare con un’umana.»
 
Sarah sgranò gli occhi, sconcertata, e annuì cauta, aspettando impaziente che lui continuasse il suo racconto.
 
«Me lo disse mamma quando compii dieci anni, se non ricordo male. Mi domandavo come mai Karl non fosse il mio vero padre, pur essendo un grande amico di mia madre, così lei mi spiegò cosa successe. Lui fuggì non appena seppe che l’aveva messa incinta e, dopo la mia nascita, mia madre chiese a Randolf di scoprire dove fosse. Essendo un Fenrir molto protettivo, lui la accontentò e inviò Geri a cercarlo coi suoi corvi.»
 
«Lo trovò?» domandò preoccupata Sarah, non sapendo cosa aspettarsi da quella confessione.
 
Lui assentì e disse roco: «Viveva con la sua nuova donna… un’umana. Non hanno avuto figli, perciò niente fratellastri. Forse, detestava il fatto di essere un lupo, chissà, e sapere di aver messo al mondo un abominio lo ha inorridito, facendolo scappare via.»
 
Lo disse con un ghigno, ma Sarah percepì nel suo sguardo una buona dose di risentimento e sì, di dispiacere.
 
Accentuando la stretta sulla mano di Keath, Sarah domandò: «Gli parlasti mai?»
 
«No. Aveva fatto del male a mamma, e solo per andarsene con un’umana, spezzando così la nostra famiglia. Non volevo dargli importanza, ma ne ebbe, a conti fatti, perché finii per escludere dalla mia vita coloro che, secondo me, erano state la causa di questa spaccatura» ammise lui, sorridendole spiacente.
 
«Le umane» chiosò Sarah, annuendo.
 
«Se fossi stato meno arrabbiato e più consapevole, avrei dovuto capire che i miei preconcetti erano del tutto sbagliati. Mamma sposò Karl da umano. Solo in seguito, lui volle essere mutato e la donna umana che sposò mio padre non lo fece di certo per fare un torto a mia madre, che neppure conosceva» le spiegò Keath, sbuffando con autoironia.
 
«Quindi, non ce l’hai più con le umane?»
 
«Con questa in particolare, direi proprio di no. E non solo perché mi piace, ma perché mi ha aiutato a capire dove sbagliavo» mormorò lui, baciandola teneramente sulle labbra.
 
Lei accettò il bacio ma la curiosità ebbe il sopravvento e, nell’appoggiarsi contro di lui, domandò: «Toglimi un dubbio…»
 
«Quale, stavolta?» ironizzò lui, ritrovandosi addosso lo sguardo glaciale di Sarah. «Avanti, parla, curiosona.»
 
«Com’è che sai baciare così bene, visto che hai avuto rapporti con le lupe solo in forma animale?»
 
Grattandosi una guancia con espressione esasperata, mugugnò: «Se avessi saputo che le lupe tendono a essere così chiacchierone riguardo ai propri amanti, avrei fatto firmare una clausola sulla privacy.»
 
Sarah scoppiò a ridere e Keath, con un sospiro, aggiunse: «Mi piace baciare, tutto qui. Il fatto che copulassi con le lupe in forma animale non vuol dire che, prima, non mi piacesse baciarle in forma umana, o fare un po’ di petting. Tutto qui.»
 
«Beh, meglio per me, allora» chiosò Sarah, levandosi in piedi e trascinandolo con sé.
 
«Sicura di non esserne gelosa? Molte le conosci» sottolineò lui.
 
«Keath, hai scelto di tentare una nuova strada con me. Non credi che questo basti a farmi sentire come un’Eletta?» ironizzò lei, prendendolo per entrambe le mani e saltellando allegra nell’avanzare con lui.
 
L’uomo la fissò vagamente accigliato, non certo avvezzo a quell’esternazione così palese dei sentimenti – e alla conseguente curiosità scatenata nei presenti – ma, con un borbottio, chiosò: «Contenta tu…»
 
«Sì. Contenta io. E ora andiamo, o arriveremo dai miei genitori per Natale» celiò Sarah, aprendosi in un sorriso sbarazzino.
 
A Keath non restò altro che accodarsi e, presala sottobraccio di sua spontanea volontà, si preparò mentalmente a essere presentato, per la prima volta, ai genitori della propria ragazza.
 
***
 
La casa degli Ellison era una graziosa villetta a due piani dai mattoni chiari, con un elegante bovindo in stucco bianco che si apriva sulla piazza, e tende di batista alle finestre.
 
Dinanzi all’entrata, un piccolo giardino si estendeva sui due lati del marciapiede d’ingresso e Keath, nel passarvi accanto, se lo immaginò in estate, ricolmo di rose in boccio e di tulipani a riempire le aiole.
 
In quel momento, le uniche piante verdi e rigogliose erano la siepe di bosso e un piccolo sempreverde potato a forma di spirale.
 
«Vieni?» domandò Sarah, già sulla porta d’entrata.
 
Lui la raggiunse facendo gli scalini a due a due e, non appena furono entrati, vennero avvolti dal profumo di arrosto di verdure e di patate al forno.
 
«Amo già tua madre» mugolò deliziato Keath, prima di guardarla e domandare: «Tu sai cucinare?»
 
«Uova al tegamino e poco altro. A Parigi, pensavo più che altro a studiare» ammise con un risolino Sarah.
 
«Più che altro a studiare, eh?» ripeté con ironia Keath, prima di veder comparire Greg Ellison, il padrone di casa.
 
L’uomo li squadrò con evidente curiosità, confuso dall’aria accigliata della figlia e dall’evidente divertimento del Freki del branco.
 
«Ben arrivati» disse a quel punto Greg, non sapendo esattamente come comportarsi.
 
La telefonata di prima mattina della figlia era giunta più che a sorpresa e, quando aveva accennato alla sua novella relazione con Keath Harford, la sorpresa dei coniugi Ellison era salita alle stelle.
 
Naturalmente, sapeva che Sarah aveva avuto un paio di ragazzi, in Francia, che si era premurata di nominare durante una delle sue frequenti visite a casa, ma non voleva sapere quanti altri ragazzi avesse conosciuto.
 
 
Inoltre, forse solo i sassi non sapevano quali fossero le preferenze sessuali del Freki del branco di Londra perciò, quando Greg lo aveva sentito nominare, si era impensierito.
 
Nell’udire la voce tranquilla e gaia della figlia, però, aveva cominciato a porsi qualche domanda e, nel vederli assieme nel suo ingresso di casa, i dubbi non fecero che aumentare.
 
Era forse la prima volta in vita sua che vedeva Freki sorridere ma, soprattutto, lo incuriosiva il modo in cui guardava Sarah. Era lo sguardo di un uomo perso in quello della sua donna. Non di una donna qualunque.
 
Keath rispose con un saluto educato e una stretta di mano al padrone di casa e, senza tanti giri di parole, avvolse le spalle di Sarah e disse: «Intendo frequentare tua figlia, Greg, se non è un problema. Anzi, a dire la verità, anche se fosse un problema.»
 
Sarah strabuzzò gli occhi di fronte a quella frase davvero mal concepita e peggio esposta ma Greg scoppiò a ridere, assentì e disse per contro: «Dubito che avrei qualcosa da ridire, visto che Sarah ha sempre fatto di testa sua. Ma è piacevole sentirti dire che ti interessa così tanto frequentarla, a costo di metterti contro due lupi.»
 
Scrollando le spalle, Keath avanzò a un cenno di Greg, tirandosi dietro quasi di peso una sconcertata Sarah e, pacifico, chiosò: «Non mi piace litigare con le persone ma, per Sarah, potrei anche farlo.»
 
Ciò detto, entrò nel salotto di casa e lì trovò ad attenderli Emily – la madre di Sarah e moglie di Greg – e il piccolo Jasper, impegnati a sistemare le ultime cose in tavola.
 
La madre di Sarah li salutò con un sorriso, mentre Jasper fissò letteralmente strabiliato Keath prima di allungare un pugno a mo’ di saluto, contro cui Freki batté il proprio.
 
Lasciando che Jasper monopolizzasse l’attenzione di Keath, Emily ebbe il tempo di studiare sia Freki – che appariva tranquillo e sicuro di sé – che la figlia, che invece sembra volerlo schiaffeggiare.
 
Evidentemente, aveva previsto di dover essere lei, a fare la parte del leone, mentre Keath l’aveva sorpresa mettendosi in gioco in prima persona, senza aspettare che fosse Sarah a giustificare le sue azioni.
 
Presentandosi quindi a Freki con una stretta di mano, Emily chiosò: «Ho idea che la nostra ragazza sia furiosa.»
 
Keath si volse per scrutare il volto di Sarah, mentre Jasper sghignazzava spudoratamente, e sollevò sorpreso un sopracciglio.
 
«Adesso che ho fatto? Non hai detto che non dovevo esitare?»
 
«Beh, però… ecco, insomma… mi sarebbe piaciuto dire qualcosa!» brontolò lei, pur sapendo di apparire assai infantile.
 
Aveva immaginato di dover difendere l’onore di Keath, in qualche modo, invece tutti sembravano molto più rilassati di lei.
 
Il licantropo, allora, la lasciò andare, infilò le mani in tasca e disse: «Prego. Tanto, la patata bollente l’ho lasciata a te.»
 
Sarah lo squadrò confusa per alcuni istanti, prima di capire. Già, non c’era soltanto il fatto che Keath e lei si sarebbero frequentati. Doveva anche dire ai suoi genitori che, entro breve, sarebbe diventata un lupo, e che era stato proprio Keath a farle quel regalo.
 
Il punto era… come dirglielo senza apparire una figlia assatanata e ammaliatrice di uomini? Era risaputo che Keath non se la faceva con le umane, perciò… come spiegare perché lui l’aveva morsa senza accennare al fattaccio che lo aveva spinto a farlo?
 
Storcendo la bocca, si ritrovò suo malgrado a guardare Keath in cerca di aiuto e il licantropo, ghignando soddisfatto, domandò mellifluo: «Hai bisogno di una mano?»
 
«Sì, purtroppo. Sei più spudorato di me, perciò esponi i fatti ma, per carità, sii gentile! C’è mio fratello, qui!» borbottò infine lei, non sapendo davvero cosa avrebbe detto Keath.
 
«Quando mai non lo sono?» sottolineò Keath, serafico, prima di ammettere con candore: «Ho morso vostra figlia perché desiderava essere mutata da me. Vi risparmio i dettagli, ovviamente.»
 
Sarah sospirò esasperata, scuotendo il capo di fronte all’espressione ammaliata di Jasper e a quella allibita dei genitori. A quanto pareva, Jasper era già diventato un fan di Keath. Quanto ai genitori, non aveva davvero idea di cosa stessero pensando in quel momento.
 
Molto probabilmente, lei avrebbe usato tutt’altro genere di parole, nello spiegare il fattaccio, ma la scelta sbrigativa di Keath poteva anche andare. Lasciava intendere una quantità esagerata di allusioni più o meno osé, ma preferì non cementarsi troppo su quel particolare.
 
L’importante era che i genitori sapessero.
 
Greg ed Emily si limitarono a fissarla come se avesse le corna e la coda, ma non dissero nulla e Keath, soddisfatto, chiosò: «Sono o non sono un campione di oratoria?»
 
«Come no» sbuffò Sarah, più che certa che, a porte chiuse, sua madre l’avrebbe affogata di domande e Jasper l’avrebbe presa in giro a vita.
 
Tossicchiando, Emily prese in mano le redini della situazione e domandò: «Ci sediamo a tavola?»
 
«Volentieri. Il profumo che arriva dalla cucina è così buono che, se non fossi già sposata, ti sposerei io, Emily» dichiarò Keath, sfoderando il suo miglior sorriso da seduttore.
 
Il suo fascino, ovviamente, andò a segno. Avere un DNA così puro dava certi vantaggi, specialmente se la controparte era una mannara.
 
Sarah, allora, diede un calcio negli stinchi a Keath da sotto il tavolo e lui, per diretta conseguenza, borbottò: «Ho solo fatto un complimento.»
 
«Non fare il leccapiedi. Ormai sanno tutto quello che c’è da sapere, e non c’è bisogno di ingraziarseli» sottolineò però Sarah.
 
Keath, allora, si raddrizzò offeso e brontolò per contro: «Ma chi vuole fare il leccapiedi?! Se mia madre sapesse che suo figlio non si comporta bene a tavola e non omaggia la padrona di casa, mi castrerebbe.»
 
Greg non poté che ridere e annuire, di fronte alla sorpresa di Sarah, mentre Jasper rideva come un matto ed Emily tornava con l’arrosto profumato, facendo finta di niente e poggiando il piatto in mezzo al tavolo imbandito.
 
«Ha ragione lui, Sarah. Trisha è stata maniacale, in questo, e lo sanno tutti… beh, quelli dell’età di Trisha, per lo meno» chiosò il padre.
 
«Oh» esalò la giovane, ritrovandosi a chiedersi quanti altri particolari, di Keath, fossero per lei ancora oscuri.
 
Lui, allora, le sorrise gentilmente e aggiunse: «Avremo tutto il tempo di approfondire queste cose. Non temere.»
 
Sarah quindi annuì, un poco più tranquilla. C’era Keath a guidarla, quando e se ne avesse sentito la necessità. Esattamente come aveva sperato.
 
Non era un uomo che voleva essere sempre e comunque l’eroe della situazione, ma uno che le offriva una mano quando lei ne sentiva il bisogno. E che, nel contempo, apprezzava la sua indipendenza e intraprendenza.
 
Quando Keath prese per sé un pezzo più che generoso di arrosto, facendo nuovamente i complimenti alla cuoca, Sarah ne ebbe la certezza.
 
Keath era quello giusto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.: direi che è andato tutto a posto. Keath si è finalmente lasciato andare ai suoi sentimenti, non si è barricato dietro alla paura di aver ferito Sarah e ha lasciato che la sua anima e il suo corpo parlassero per lui.
 
Sarah, a sua volta, si è lasciata andare a ciò che sentiva per Keath e, al tempo stesso, ha iniziato a scoprire un pezzo alla volta l’anima dell’uomo – e del lupo – di cui per lungo tempo è stata infatuata.
 
Che dite? Durerà? O, come dice Keath, di lì a qualche tempo, la loro spumeggiante relazione finirà? Lo scopriremo presto, promesso!
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 

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Capitolo 50
*** Beauty and The Beast - Epilogo - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***


 
Epilogo.
 
 
 
 
La mutazione era stata non poco dolorosa, ma era avvenuta tutto sommato in fretta e, ora che poteva reggersi sulle sue zampe color nocciola, si sentiva veramente completa.

Keath aveva insistito perché il tutto avvenisse al Vigrond, ma senza la presenza di altre persone. Aveva voluto prendersi personale cura di lei, e i coniugi Ellison avevano accettato la sua richiesta.

Al sorgere della luna, quindi, Sarah si era posizionata nel centro della radura del loro Luogo di Potere e, a sorpresa, Keath l’aveva stretta a sé per darle conforto e aiuto.

Terrorizzata al pensiero di poterlo ferire durante il mutamento, lei aveva tentato di scansarlo, già avvertendo il formicolio della luna dentro di sé, ma Keath aveva rifiutato.

Con una serenità incrollabile, le aveva detto di voler essere marchiato dai suoi artigli, come lui l’aveva marchiata con il suo morso e, sotto i suoi occhi ansiosi, si era tolto la camicia per mostrarle il torace esposto.

Non potendo rifiutare – Keath era ancora troppo forte, per poter opporre resistenza – Sarah aveva suo malgrado acconsentito e lui, con un bacio, l’aveva rassicurata sulla buona riuscita di quel cambiamento radicale.

Era stato in quel momento che la lupa aveva bramato di uscire e, con un ringhio, Sarah aveva colpito al petto Keath, procurandogli delle profonde ferite da artigli.

Artigli che si erano uniti a folto pelo color nocciola e bianco e che l’avevano trasportata, nel breve decorrere di pochi secondi, al suo nuovo stadio di lupa mannara.

Ora, seduta sui posteriori e in contemplazione del suo lupo preferito, Sarah uggiolò nel notare il sangue che ancora fuoriusciva dalle ferite di Keath e, timorosa, disse mentalmente: “Keath… mi senti?”

“Certo che ti sento, Sarah. Tu, piuttosto? Come ti trovi nella tua nuova pelle?” le domandò lui, passandosi delicatamente le dita sulle ferite slabbrate. Subitanea, una smorfia comparve sul suo viso.

“Più che bene, direi… ma sono in ansia per te. Ti fanno molto male?”

“Il giusto. Se non altro, so che rimarrà una bella cicatrice a memoria di questo giorno” chiosò lui, afferrando il suo zaino per estrarre delle garze.

“Era davvero necessario?” protestò allora Sarah, uggiolando e raggiungendolo con un piccolo trotto.

Lui allora le carezzò la gorgiera morbidissima, le sorrise e annuì.

“Volevo il tuo marchio più di qualsiasi altra cosa. Così, nessuno avrà dubbi su chi detiene le chiavi della mia esistenza.”

“Come?” esalò sorpresa la lupa che era Sarah.

“Non che serva un genio, visto che la mia pelle è impregnata del tuo odore, ma volevo qualcosa di tangibile. Di visibile.”

“Non sapevo che… beh, che i lupi apprezzassero cose simili.”

“Il marchio della propria femmina? Eccome. Solo i maschi con le palle, se lo fanno fare, però. Gli altri pensano che sia poco virile, ma non è così.”

“Quindi, anche Joshua, o Fenrir di Matlock, hanno…” tentennò Sarah, non sapendo quanto chiedere, o se chiedere.

Ridendo, Keath assentì e disse: “Joshua ha un bello squarcio su un braccio, mentre Duncan lo ha su una spalla, poco sopra il tatuaggio che lui e Brianna si sono fatti qualche anno fa.”

“Quindi, sono la tua lupa?”

“La mia donna” precisò lui. “Lo sei stata quando ancora non avevi la forza per ferirmi con le tue mani, e lo sei ora che puoi farlo.”

“Sei… sicuro? Non c’è fretta, sai? A me piace quello che abbiamo vissuto in queste settimane. Non hai necessità di dirmi che…”

Lui rise ancora, interrompendo la sua disamina sull’argomento e, carezzandola delicatamente, mormorò: “Sei sempre una chiacchierona. Questo non è affatto cambiato… e mi piace. Quanto al resto, perché non ti devo dire quello che penso?”

“Beh… credo, per nessun motivo valido. Solo, non volevo ti sentissi obbligato a dirlo perché sai che tu mi sei sempre piaciuto, e quant’altro” borbottò indecisa Sarah, non sapendo se lasciarsi andare alla gioia più sfrenata o tentare di mettere i remi in barca prima di accelerare troppo.

Keath, però, si limitò a dire: “Non sono una persona che si perde dietro a inutili congetture. So cosa voglio, e una volta che l’ho capito, non torno indietro. Voglio te, se ancora mi sopporti.”

Sarah, allora, mutò da lupa in umana, si gettò contro di lui per abbracciarlo e, incurante del sangue che le macchiò i seni, sussurrò contro la sua pelle: «Certo che ti voglio!»

«Bene… perché dovrai medicarmi tu. Io non riuscirei a combinare niente di buono» ironizzò lui, indicando il sangue sul suo torace.

Sarah rise, assentì con vigore e prese dalle sue mani le garze per sistemare ciò che lei aveva combinato.

Sì, sarebbe rimasta davvero una bella cicatrice, e lei ne sarebbe andata fiera al pari del morso che le segnava la spalla.

Era orgogliosa del suo marchio e, a sorpresa, si ritrovò a essere orgogliosa anche di quello che aveva lasciato su Keath.

Perché, se solo i maschi con le palle volevano il marchio delle loro femmine, solo le femmine più in gamba erano brave nel marchiare i loro maschi.

Quando infine ebbe sistemato la fasciatura, lo baciò con delicatezza e mormorò: «E ora? Raggiungiamo Colton a Walford House?»

«Più tardi» mormorò lui, afferrandola alla vita per schiacciarla contro di sé e contro la sua erezione.

Al solo percepire il suo desiderio, la sua aura di lupa si accese e Keath, sorridendo soddisfatto, sussurrò: «Sapevo che doveva essere un’affinità d’anima, ma non ci speravo fino in fondo.»

«Come?» esalò lei, confusa.

Lui, allora, levò la propria mano insieme a quella di Sarah e, tra loro, l’aura divenne visibile, come se fosse fatta d’oro.

Sorpresa, Sarah la fissò ai limiti del pianto e Keath, stringendola a sé, disse: «Il nostro legame era così forte che, anche nelle tue forme umane, sapevi. Come io sapevo, e ho voluto averti anche se non l’avevo mai fatto prima. E’ stato questo a farmi capire che qualcosa ci legava, ma è stato il tuo amore a darmi il coraggio di fare il passo decisivo.»

Scoppiando in lacrime, Sarah lo baciò più e più volte, e l’aura tra loro divenne sfolgorante.

Keath, allora, asciugandole le lacrime con altrettanti baci, le domandò: «Lacrime di gioia?»

«Te l’avevo promesso. Solo di gioia» annuì lei.

Per Keath fu sufficiente. Si tolse i pantaloni e, nudo di fronte alla sua compagna, disse con semplicità: «Fammi tuo.»

E lei lo accontentò.

Sperò soltanto che, a Walford House, non li aspettassero alzati, perché loro avrebbero fatto molto, davvero molto tardi.

 
 
 
N.d.A.: qui si chiude la piccola parentesi dedicata a Keath che, come molti altri lupi della nostra grande famiglia, è stato finalmente impalmato. Vedremo, andando avanti, chi dovrà rischiare di essere catturato - o catturata. Per ora vi auguro buone ferie!
 
 

 

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Capitolo 51
*** Perdonanza - Magnus (Odino) - Ottobre 2017 - Norvegia ***


Magnus – Perdonanza
 
 
 Ottobre 2017 – Gungnir (Norvegia)
 

L’aria gelida del mattino spirava sull’altipiano, galleggiando sul lago e sollevando l’acqua in leggere onde biancastre. Il bosco degradava dal rosso e oro delle latifoglie al verde degli abeti e gli ricordava la tavolozza di un pittore.

Magnus Gustavsson avrebbe passato ore e ore in assorto silenzio, a osservare quella natura splendida e incontaminata, ma anche un bambino di sette anni aveva i suoi compiti.

Mentre consumava la sua merenda nella veranda chiusa da vetri temperati, il suo pensiero andò a Brianna McAlister. La videochiamata che la sua famiglia aveva ricevuto quella stessa mattina lo aveva reso felice e, al tempo stesso, lo aveva inorgoglito. (Dopo anni, finalmente, avevano fatto montare un ripetitore per i cellulari.)

La potente wicca di Matlock, depositaria dell’anima di Fenrir, aveva chiesto espressamente il suo aiuto per un esperimento da compiere assieme al dio-lupo e a Padre Tutto.

Sapeva bene che, pur avendo solo sette anni, la sua crescita era stata più rapida del normale e la sua mente, contrariamente a quella di altri bambini, era pari a quella di un adulto. Ugualmente, riusciva a gioire come un bambino di età sua pari di quella nuova avventura e, mentre terminava il suo budino al cioccolato, si ritrovò anche a ridacchiare di aspettativa.

L’idea di aiutare lady Fenrir ti esalta, Magnus?

La voce stentorea di Wotan riverberò nel suo animo e il bambino, annuendo debolmente, disse: “Mi sembra un’ottima occasione per conoscere meglio i nostri amici inglesi… inoltre, mi fa piacere rendermi utile, anche se sono solo un bimbo.”

Prima di accettare la richiesta di Brianna, però, dovresti conoscere un paio di cose sul mio passato… e sul passato di Avya e Fenrir. Non vorrei commettere due volte lo stesso errore, e cioè fidarmi troppo delle mie sensazioni senza darmi il tempo di ragionare sulle cose.

“Pensi di potermi mettere nei guai inconsapevolmente, e magari offenderli?” domandò curioso Magnus, sorpreso dalle reticenze della sua anima divina.

Potrebbe succedere. Il mio potere è così grande, e tu così piccolo, che potrei inavvertitamente farti dire cose che non vorresti. So essere assai goffo, quando voglio.

L’ammissione del dio fece sorridere Magnus. Sapeva di questa sua goffaggine, perché molte altre volte l’aveva notata durante alcuni suoi discorsi telefonici con Tyr e la sua umana Tempest. Il fatto che si preoccupasse di non insultare Fenrir o la sua compagna, però, lo incuriosì al punto di chiedergli: “Credi che Fenrir possa avercela ancora con te? Che dopotutto non ti abbia perdonato?”

Non so cosa passa per la testa di quel lupo e, a ben vedere, avrebbe tutte le ragioni del mondo per odiarmi, visto quanto fui sciocco in quell’occasione. Per questo, vorrei mostrarti come andarono le cose. Soprattutto con Avya. La consapevolezza può aiutare a non commettere errori.

“D’accordo, allora. Ti aspetterò nei miei sogni come sempre?”

E’ più semplice, assentì Wotan con tono grato.

Magnus scrollò le spalle, come se fosse la cosa più naturale del mondo fare sogni telecomandati. Nel suo personale mondo, pieno di magia e mistero, era però così perciò, quando infine giunse la sera a depositarsi come una coperta sul villaggio, lui desinò con calma e si avviò poi a letto per visionare quanto concordato.

Il sonno giunse in fretta come sempre e, come sempre, il sogno bussò alle sue porte e lui le spalancò con curiosità e interesse.

Fu così che, in un turbinio di colori e di suoni, volteggiò fino a un mondo lontano, a un tempo lontano e a un’esistenza lontana.
 
***

Frigga passeggiava nervosa nei suoi appartamenti e, quando finalmente una delle valchirie venne a chiamarla, ella tirò un sospiro di sollievo e domandò: «Tyr sta dunque bene, ora?»

«Rifiuta di essere curato, mia signora. Reputa un giusto pegno, la perdita della mano, e desidera che essa non venga rigenerata» riferì la guerriera, inchinandosi alla propria regina.

Sorpresa, la regina sbatté le palpebre perplessa, colta da un dubbio atroce e, sollevando le gonne per camminare più agevolmente, uscì dai propri appartamenti per raggiungere il figlio adottivo.

La Valchiria, Alary, la seguì fedele – già prefigurandosi una lite furiosa in famiglia -  e, quando la regina spalancò le porte dell’appartamento di Tyr, non si stupì nel vederla furente e bellicosa in viso.

Odino era in piedi accanto al figlio, torvi in viso entrambi ed entrambi silenziosi come statue. Neppure l’entrata in scena di Frigga sortì l’effetto di sconvolgere un simile silenzio funereo.

Tranquilla, Alary si pose a fianco delle porte dell’appartamento, chiudendole senza fare rumore mentre Frigga, avvicinatasi al figliastro, domandava: «Perché mai una simile decisione? Potresti riavere la tua mano in qualsiasi momento!»

«Ma non riavrò il mio migliore amico!» sbottò Tyr, fulminando poi con lo sguardo il padre, che ebbe la decenza di non parlare.

Sempre più confusa, la donna esalò: «Ma… è stato proprio Fenrir a strapparti la mano… perché dunque agognare al suo ritorno?»

«Perché Fenrir è morto per una menzogna, per crimini di cui non si è mai macchiato, e io sono stato così sciocco da non credergli… così come mio padre è stato così superficiale da credere alle parole di Loki, il cui unico scopo era risvegliare il Ragnarök attraverso la morte del figlio.»

Il tono di Tyr fu così penoso e dolente che Frigga gli carezzò i capelli biondi e scompigliati per consolarlo. Era mai possibile, dunque, che Fenrir avesse subito una sorte così avversa, e da incolpevole?

Scrutando il viso imperscrutabile di Odino ne ebbe la conferma senza alcuna necessità di chiedere e, con un sospiro pieno di contrizione, reclinò il capo e lasciò che la lunga chioma castana formasse un velo a celarne l’imbarazzo.

Era dunque avvenuto ciò che più temeva. Gli inganni e i sotterfugi meschini di Loki avevano fatto una vittima illustre, e ora una famiglia era stata spezzata tragicamente, con conseguenze inimmaginabili.

«Vi avevo pregato di non fidarvi di Loki ma voi, no! Bramavate soltanto mettere a tacere la vostra paura, e così facendo avete messo in atto il Ragnarök con le vostre stesse mani!» sbottò Tyr, levandosi in piedi per affrontare direttamente Odino con il suo sguardo livido.

Accigliandosi per il rimbrotto, Padre Tutto replicò piccato: «Dici follie, figlio! Fenrir è ormai morto, e nulla è crollato. Per qualche ragione soltanto sua non è impazzito, distruggendoci tutti, e ora tu mi accusi di aver portato la disgrazia sull’intero mondo. Il dolore ti rende forse pazzo?»

Frigga, però, comprese bene le parole del figliastro e, rivolgendosi a sua volta al marito, replicò: «Tyr ha ragione. Come pensi che reagiranno i figli di Fenrir, alla notizia della morte del loro padre? Credi che ci ameranno, o anche soltanto ci rispetteranno, sapendo che lo abbiamo ucciso senza colpa?»

Odino divenne purpureo in viso per l’ira e sbraitò: «Non gli avevo dato il permesso di procreare!»

«Vi arrampicate sugli specchi per non ammettere di essere stato gabbato da quello scaltro di Loki. Vostro fratello vi ha preso per il naso e questo vi fa infuriare, non di meno scaricate ancora su Fenrir le vostre colpe. Siete spregevole, padre» gli sibilò contro Tyr, volgendogli le spalle pieno di rabbia. «Ora raggiungerò Avya per chiedere il suo perdono e, ve lo giuro su quanto ho di più caro… se verrà torto un capello a lei o ai suoi figli, vi ucciderò

Ciò detto, si trasmutò, svanendo dinanzi agli occhi irosi del padre e a quelli affranti della matrigna.

L’attimo seguente, Odino ringhiò per scaricare la furia e il suo pugno terminò sull’innocente comodino del letto che, letteralmente, andò in briciole sotto il suo colpo.

Imperturbabile, Frigga lo sfidò con lo sguardo e dichiarò: «Non hai davvero compreso ciò che tuo figlio ti ha detto, o fai soltanto finta di apparire uno sciocco?»

«Non ora, Frigga» sibilò il dio, arretrando di un passo prima di notare, finalmente, la presenza silente di Alary, una delle valchirie addette alla sicurezza della moglie. «Lasciaci soli, guerriera. Prometto di non levare mano su di lei, ma devo parlare con la mia consorte senza orecchie ad ascoltarci.»

Ben sapendo di non poter fare nulla, di fronte a un ordine diretto di Odino, la valchiria assentì, ma solo dopo un’ultima occhiata a Frigga, che acconsentì a essere lasciata sola.

Odino attese quindi la scomparsa della valchiria, prima di rispondere alla consorte, e solo per dire: «Sarebbe cosa gradita se, di queste cose, ne parlassimo sempre in separata sede.»

«Non mi interessa se il palazzo tutto ascolterà ciò che ho da dire… alla fine, tutti sapranno che hai giustiziato incolpevolmente un dio. Questo metterà zizzania tra i tuoi seguaci e minerà la tua nomea di divinità giusta e capace» replicò caustica Frigga.

Sospirando, infine, Frigga aggiunse: «So benissimo da dove nasce il tuo odio verso Fenrir, ma Tyr ha ragione. Tu stesso hai seminato e dato vita alla fine di tutto. I figli di Fenrir non potranno mai perdonarti, né sua moglie potrà farlo, e questo odio li consumerà finché non avranno generato altro odio, e così fino alla fine dei tempi, finché finalmente Fenrir risorgerà per dare corpo a questo odio millenario.»

Odino si accigliò ulteriormente, a quelle parole, temendo non poco che sia Tyr che Frigga avessero ragione. Ammettere una cosa simile era comunque ben lungi dall’essere realizzabile.

Non amava commettere errori ma, più ancora, odiava essere gabbato, e Loki lo aveva inguaiato non poco, con il suo piano di distruzione di massa. Lo aveva colpito dov’era più sensibile, e ora ne pagava lo scotto.

Tyr già lo detestava e ben presto, come aveva predetto Frigga, la Corte tutta non avrebbe più avuto fiducia nella sua guida oculata.

Ragnarök poteva manifestarsi con molti volti e, forse, uno di questi era l’inizio della fine del suo regno.
 
***

Assistere alla lite tra Tyr e la compagna di Fenrir, così come al conseguente pianto di quest’ultima, toccò persino il cuore apparentemente duro di Odino.

A seguito della discussione animata con Frigga, Odino si era allontanato da Palazzo per chiarirsi le idee e, inconsciamente, aveva seguito la scia di potere di Tyr per parlare con lui, per giungere a patti con il figlio.

Questo lo aveva condotto su Manheimr, in un bellissimo altipiano verdeggiante, lontano dai villaggi degli umani e circondato da boschi di sempreverdi e montagne brulle e dall’aspetto minaccioso quanto protettivo.

Quel luogo, in effetti, appariva come un’immensa conchiglia, pronta a proteggere le preziose perle che conteneva.

La compagna di Fenrir aveva accusato Tyr di non aver protetto l’uomo che lui aveva giurato essere il suo migliore amico e, con grida di spregio e odio, lo aveva cacciato da casa sua.

Con Tyr ormai lontano – almeno per quel giorno – e l’unica compagnia del canto degli uccelli, la giovane donna in lacrime se ne stava ora seduta su una rozza panca nei pressi dell’entrata della casupola dove abitava.

All’interno dell’abitazione, almeno stando all’udito di Odino, dovevano esserci almeno altre due donne. Tyr aveva parlato di figli maschi, ma quelle voci erano indubbiamente femminili.

Che i figli di Fenrir avessero già procreato? O erano le loro compagne?

Il movimento improvviso della compagna di Fenrir lo strappò a quei pensieri e Odino, muto osservatore del suo dolore, la vide gettarsi in ginocchio e stringersi le braccia al petto, quasi volesse trattenere il suo amante ormai scomparso.

Quello strazio perdurò per diversi secondi, prima che la donna prorompesse in un grido colmo di uno strazio palpabile.

Dalla casa uscirono subito dopo le due donne di cui Odino aveva percepito la presenza e, dolenti entrambe, le si inginocchiarono accanto, stringendola in un abbraccio consolatorio.

Fenrir era dunque riuscito in una simile impresa? Il dio-lupo, che tanto aveva temuto fino alla sua morte, aveva quindi saputo produrre in una donna umana un tale amore e una devozione così totale?

Come ne era stato capace? Quali malie aveva gettato su quella donna?

A un cenno della compagna di Fenrir, le due giovani si scostarono, aiutandola a rimettersi in piedi e, su suo desiderio, venne nuovamente lasciata sola.

Ora più tranquilla, pur se non pacificata, la donna si avviò verso il pozzo per recuperare probabilmente dell’acqua, e fu a quel punto che Odino si mosse.

Mutando le proprie forme in quelle di un uomo canuto, vecchio e zoppo – così da non destare panico nelle tre donne – Odino uscì dal bosco tenendosi a un rozzo bastone.

La donna lo notò immediatamente, forse a causa della sua vita passata a guardarsi le spalle – anche da lui – e Odino, suo malgrado, ne ammirò la compostezza e la regalità.

Poteva anche essere una fragile umana, ma aveva il portamento della sua Frigga.

L’attimo seguente, però, venne turbato da un movimento strano nel bosco – no, del bosco – e, suo malgrado, si rese conto che, a produrlo, era la donna che lo stava fissando con occhi smeraldini.

Era mai possibile che…

Al suo tentennare, il movimento cessò e la donna, rilassando la postura ed esibendosi in un sorriso cauto, disse: «Siete lontano dai villaggi a valle, buon signore. Vi siete perso?»

Riprendendo a camminare claudicante, Odino mormorò roco: «Sono un viandante senza meta, gentile signora. Cerco acqua e un tozzo di pane, se ne avete, o una parola gentile, se vorrete onorarmi.»

«A questa porta avrete sia la prima che la seconda e ben volentieri la terza, se non porterete sventura a noi povere fanciulle» sorrise la donna, lanciando poi un’occhiata verso la porta, ove si erano affacciate nuovamente le sue compagne di vita.

Odino abbozzò un sorriso barbuto, asserendo: «Un vecchio come me reca con sé solo ricordi, e poco altro. Se me lo consentirete, riposerò le mie stanche membra su quella panchina e poi ripartirò senza null’altro chiedere.»

Avya guardò per un istante Sylvi e Lyka, chiaramente turbate dalla presenza di quell’estraneo ma, non ritenendo necessaria la loro presenza, le pregò di rientrare in casa.

Le ragazze, pur se di malavoglia accettarono e Avya, tornando a scrutare il nuovo venuto, disse: «Accomodatevi e bevete. Vi porterò subito il pane, e poi parleremo.»

«Gli dèi ve ne saranno grati» mormorò l’uomo, accomodandosi sulla panchina di legno.

Sorridendo meditabonda lei replicò, prima di svanire in casa: «Questo non ve lo saprei davvero dire, messere.»

Rimasto solo, Odino si guardò quindi intorno, notando la solidità della struttura di pietra e legno, il bel recinto dove si trovavano diverse capre a riposo e una piccola stalla dove, a giudicare dal rumore, si trovava un cavallo.

Era un luogo dignitoso dove vivere, pur se non era neppure lontanamente bello o lussuoso come il suo palazzo di Asghard. Trovava curioso che Fenrir potesse aver trovato gratificante vivere in un luogo così bucolico.

Ma forse, la sua ferocia e la sua brama di guerra erano state ammansite proprio da questo genere di vita. E da quella donna all’apparenza così forte.

Quando la vide tornare, tra le mani un vassoio di pane dall’aroma delizioso e un bel bicchiere di peltro ricolmo di latte fresco, la ringraziò con un cenno del capo e mangiò in silenzio.

Lei, con tutta calma, avvicinò alla panchina un treppiede di legno e si accomodò con la stessa regalità di una regina, sistemando con attenzione il semplice abito di canapa color cannella.

Il vento le scompigliava i rossi capelli rilasciati sulle spalle mentre gli occhi, ancora rossi di pianto, risaltavano comunque per bellezza e intensità su quel viso candido e punteggiato di efelidi.

Sì, era sicuramente una bella donna, ma dubitava che Fenrir si fosse infatuato di lei per questo. Cosa aveva visto, in questa donna, da condannarsi alla morte pur di non scatenare Ragnarök, come Tyr sosteneva che Fenrir avesse fatto?

«Grazie per questi preziosi doni, gentile signora. Avete salvato un vecchio da una morte per fame» disse dopo alcuni minuti Odino, poggiando di fianco a sé il vassoio e il bicchiere di peltro.

Avya ammiccò graziosa, ma la sua voce non trasmise nulla di quella bellezza apparente. «Credete di essere spiritoso, o anche solo credibile, Sommo Odino? Pensate che venire qui, vestito di stracci, basti a ingannarmi? Cosa volete da me? Vedere le mie lacrime? Assaporare sulla lingua il mio dolore? Ridere della mia perdita?»

Sinceramente sgomento – come aveva potuto, quell’umana, riconoscerlo?! – Odino fece tanto d’occhi e replicò roco: «Perché mi accusate di tutto ciò?»

«Ora basta…» sibilò Avya, levando una mano con lentezza studiata.

Dal terreno, radici poderose si levarono intorno a Odino che, vistosi smascherato, gettò a terra la maschera e si levò in piedi esclamando: «Che stregoneria è mai questa?!»

Soddisfatta, Avya ritirò subito le radici che, obbedienti, tornarono nel terreno attorno a Odino e, più calma, disse: «Adesso va meglio. Detesto essere presa in giro e, se mai vi foste soffermato a parlare con Fenrir, lui ve l’avrebbe detto. Ma dubito che voi sappiate qualcosa di me o dei miei figli, vero? O anche dello stesso Fenrir.»

Cercando di trattenere l’impulso di ucciderla per il solo fatto di averlo attaccato – era pur sempre una donna che aveva perso il compagno – Odino si limitò a dire in un borbottio: «Fenrir non era certo la persona più facile da trattare. Ne converrete anche voi.»

Avya scoppiò in una secca risata e, gelida, replicò: «Come avrebbe potuto esserlo, con un padre come Loki, una sorella come Hel e una guida come voi?»

«La lingua forcuta non vi difetta, signora» sbottò a quel punto Odino, punto sul vivo.

«Come dissi a suo tempo a Fenrir, non posso aver paura dell’inevitabile, ma solo di ciò che potrei migliorare» asserì lei, assolutamente tranquilla. «Voi potreste uccidermi in qualsiasi momento e, pur con i poteri conferitimi da Fenrir, io non potrei fermarvi. Perciò, perché preoccuparmene?»

Sorpreso da una tale presenza di spirito e di complessità di pensiero, Odino sospirò e ammise: «Fenrir non avrebbe potuto che innamorarsi di una donna come voi, capace di sfidarlo quando nessun altro avrebbe osato.»

«Così avvenne, in effetti» ammise Avya. «Ve lo ripeto, dunque. Perché siete qui?»

«Per ammettere che ho commesso un errore, e questo mio errore vi ha portato via colui che così tanto amavate» si ritrovò a dire Odino, reclinando colpevole il capo.

Avya, però, non se ne fece nulla delle sue scuse e, levatasi in piedi piena di stizza, replicò: «Sapete cosa dovrei farvi? Far scatenare i miei figli contro la vostra intera casata, perché ciò che più temeva il mio amato si concretizzasse. Ma non lo farò… non getterò al vento il suo nobile gesto per mandare a sicura morte i miei figli e, con essi, molte di voi spocchiose divinità.»

«Signora, ora esagerate, però!» sbottò Odino, levandosi a sua volta in piedi per sfidarla con la sua possanza.

Ancora, lei non si turbò minimamente, e la divinità comprese una volta di più quanta forza fosse insita in quel fragile corpo, e quanta volontà muovesse la donna. Sì, Fenrir non aveva potuto che innamorarsene.

«Mi dovete una vita, e io la pretendo!» lo accusò quindi lei, puntando un dito contro il suo ampio torace.

Lui indietreggiò di un passo, chiaramente sorpreso, e ribatté irato: «Non vi consegnerò mai uno di noi a ricompensa per la vostra perdita!»

Avya, però, scacciò con un gesto della mano quell’idea e si limitò a dire: «Le vostre vite non mi interessano. Io ne voglio solo una; quella di mio fratello Fryc.»

Colpito da quella richiesta davvero imprevista, Odino non seppe come rispondere e Avya, non contenta, chiamò all’esterno sia Sylvi che Lyka, perché le due giovani si parassero dinanzi al dio.

Coraggiosamente, le due si avvicinarono alla nuova presenza che si trovava accanto al pozzo e, pur se spaventate, rimasero accanto ad Avya che, furente, dichiarò: «Mio fratello cercò di ucciderle, credendole una mia progenie, la progenie di un demonio, e solo perché sapevano come curare le persone. I miei figli le salvarono dal rogo, mentre Fenrir tentava invano di salvare un villaggio vicino dall’ira cieca di Fryc. Per questo voglio la sua vita. Mi spetta di diritto, dopo tutte le atrocità che ha commesso in nome di una sua paura immotivata.»

Odino guardò prima Avya, e subito dopo le due fanciulle pallide e timorose e, con un tono di voce il più possibile blando, domandò: «E’ tutto vero? Capirò se mentirete, perciò parlate a cuore aperto.»

Lyka parlò per prima, asserendo: «Ciò che ha detto la nobile Avya corrisponde al vero. Hati e Sköll, i suoi figli, ci salvarono dal rogo che la nostra gente elevò su richiesta di Fryc, soltanto perché eravamo riuscite a salvare un bambino da una brutta febbre.»

«Ci credettero streghe, figlie del sangue impuro di Fenrir, perciò ci condannarono a morte» aggiunse Sylvi con le lacrime agli occhi. «Il sommo Fenrir è sempre stato buono, con noi, e ci ha accolte in casa come sue figlie.»

Odino sospirò, schiacciato da quell’agghiacciante verità e, non sapendo che altro fare, tornò a sedersi e si prese il viso tra le mani, sconvolto.

Quanti altri errori aveva commesso? Con quanta superficialità aveva trattato le vicende degli uomini, per non accorgersi di tali e inutili brutalità?

«La sua vita è tua. Non interverrò. Ma solo una, donna. Non accetterò nient’altro» dichiarò infine Odino, risollevando il viso per guardarla con estrema serietà.

«Non garantisco che sarà solo lui a morire, se verremo attaccati, ma non cercherò volontariamente la fine dei suoi seguaci, se può farvi stare meglio» dichiarò lapidaria Avya.

«Vuoi una guerra» chiosò stanco Odino.

«Sì, una guerra che voi avete contribuito a fomentare e che io finirò, in un modo o nell’altro» replicò la donna, stringendo le braccia sotto i seni.

«Avrebbe dovuto parlarmi di voi… forse, tutto questo non sarebbe avvenuto» cercò di difendersi Odino, accigliandosi.

Avya, però, lo irrise con lo sguardo, asserendo: «Parlare con un dio che lo riempiva di calci quando era solo un cucciolo, o una Corte che lo vessava, irridendolo per la sua doppia natura? Forse, neppure la persona più mite del mondo lo avrebbe fatto.»

Padre Tutto fece per replicare, ma una duplice ondata di potere lo investì a sorpresa, portandolo a volgere lo sguardo verso la foresta.

Come due onde di piena ben distinte, i poteri provenienti dai due giovani appena fuoriusciti dal folto del bosco lo investirono con forza e Odino, suo malgrado, ne ebbe timore. Erano dunque questi, i figli di Fenrir?

Il giovane corvino fu il primo ad avvicinarsi alla casa e, cauto, domandò alla madre: «Va tutto bene, qui?»

«Non avere timore, Hati. Stavamo solo contrattando con questo nobile signore» dichiarò sua madre, carezzandogli una guancia con amore immenso.

«Non mi piace questo tizio. Chi è, madre?» brontolò quindi il secondo giovane, fulvo di capelli e dall’aria assai più bellicosa del primo. Parandosi di fronte ad Avya per proteggerla dallo sguardo di Odino, si accigliò a ogni secondo passato a scrutare la divinità, apparentemente ben deciso a menar le mani.

«Stai guardando storto il Sommo Odino, mio Sköll e, per quanto la cosa sia comprensibile, cerca di essere educato e contieniti» disse Avya con tono blando.

Per tutta risposta, i due figli ringhiarono rabbiosi in direzione della divinità e i loro occhi, di colpo, mutarono colore.

Odino si chiese se anche loro, come il padre, potessero mutare forma e Avya, come comprendendone il pensiero, sorrise e ammise: «Sono come il padre, perciò sono sia uomini che lupi. E sì, sono anche piuttosto riottosi, perciò fate bene attenzione a come vi esprimerete, o manderò alla malora ogni cosa, patto compreso. Posso essere carina e gentile quanto voglio, sopportare tutto il dolore del mondo… ma non accetterò un solo insulto nei confronti dei miei figli. Mai

A Odino non restò che ridere.

Quella donna aveva non solo carattere da vendere, ma anche una forza e un coraggio davvero esemplari, a riprova che soltanto una creatura incredibilmente rara come lei avrebbe potuto far capitolare Fenrir.

Levando perciò una mano per chetare la rabbia crescente dei due giovani mezzosangue e della loro madre, la divinità chiosò: «La vostra lingua ferirebbe anche una pietra, donna. Capisco perché Fenrir si sia sacrificato per farvi vivere e, per onorare il mio errore, non vi danneggerò in alcun modo, né risponderò a ciò che avverrà quando deciderete di portare vendetta. Ve lo siete meritato, dacché avrei dovuto essere più accorto nell’individuare l’inganno di mio fratello. Ma sappiate una cosa; dar voce al proprio dolore chiedendo sangue, ne chiama inevitabilmente altro, in un circolo vizioso senza fine. L’ho imparato a mie spese.»

«Ne affronterò il peso» decretò Avya, ben decisa a portare avanti il suo piano.

«Lo vedo, e so che sarà così. Ma mi sono sentito in dovere di dirvelo» dichiarò Ordino, lanciando poi un’occhiata ai due giovani mezzosangue. A coloro che, presto o tardi, avrebbero distrutto il Sole e la Luna, secondo quanto scritto dalle Norne.

Sì, apparivano forti e impavidi ma, più di ogni altra cosa, erano due giovani appassionati che soffrivano per la morte del padre e agognavano a difendere strenuamente la madre e le loro amiche.

Non erano diversi da qualsiasi altro giovane con a cuore le persone che amavano, anche se avevano sangue divino nelle vene. E lui era stato così sciocco e orgoglioso da cedere alle lusinghe di Loki per liberarsi di un dio scomodo e che temeva, ottenendo solo di scatenare ciò che aveva tentato di evitare.

Era davvero impossibile distruggere il tessuto del Fato. Neppure un dio poteva farlo, a quanto pareva, e di ciò che era avvenuto poteva dare solo la colpa a se stesso.

Levatosi in piedi, si allontanò di un passo, scrutò quella giovane famiglia mutilata dalle sue stesse mani e dichiarò: «Non opporrò resistenza, se vorrete attaccare il clan di vostro fratello, ma vi chiedo ancora una volta di pensare alle mie parole. Sangue chiama sangue.»

«Ne sono consapevole, e vi ringrazio per avermi messo in guardia» dichiarò allora Avya, ora più calma. «Se vedete vostro figlio Tyr, ditegli di tornare. Non lo caccerò più, d’ora in poi.»

«Amava molto Fenrir ma, come molti di noi, ha peccato di ingenuità. Dubito succederà una seconda volta» ammise Odino, lanciando un’ultima occhiata ai due giovani mezzosangue, ancora parati innanzi alla loro madre.

Sorridendo appena, si chiese se i suoi scriteriati figli avrebbero fatto la stessa cosa, per Frigga, o se si sarebbero limitati a combattere senza pensare alla difesa nuda e cruda dei propri cari.

Un giorno, lo volesse o no, lo avrebbe scoperto, ma preferiva di gran lunga non avvenisse a breve termine.

Senza dire altro, si trasmutò per tornare a palazzo, su Asghard e, quando mise piede nelle sue stanze, trovò Frigga ad attenderlo.

Lei sollevò il viso dalla visione della sua polla della divinazione e, sorridendo al marito, mormorò: «Sei stato bravo. Un po’ goffo, ma bravo.»

Arrossendo suo malgrado, Odino borbottò: «Non avresti dovuto sbirciare.»

Frigga non si lasciò sconvolgere dal suo sguardo burbero e, raggiunto il marito, gli carezzò la guancia barbuta e replicò: «E vedere il mio goffo marito che chiede perdono? Non me lo sarei perso per nessun motivo!»

«Non ho chiesto perdono!» sbottò il dio, ancor più a disagio.

«Sei andato da una donna in lutto per capire chi fosse e come Fenrir fosse legato a lei, e tutto ciò per sapere quanto il tuo errore fosse stato grande» asserì ora totalmente seria Frigga. «Non contento di ciò, le hai concesso di prendersi la sua vendetta sul fratello, reo di aver dato la caccia per anni a lei e alla sua famiglia, e aver commesso un autentico genocidio di innocenti nel frattempo. Non è chiedere perdono, questo?»

«Vedi cose che non esistono» sbuffò il marito, allontanandosi dalla donna per andarsi a sedere sull’enorme letto dalle colonne lignee.

Frigga lo lasciò andare, sorridendo comprensiva. «Sono stata allevata dalle streghe, perciò so come vedere le cose oltre il velo della realtà.»

«Ora parli per enigmi, donna» mugugnò Odino, togliendosi i calzari e i bracciali di pelle borchiata per poi gettarli su una poltrona vicino. La presenza di Frigga lo metteva dannatamente a disagio, ma non poteva cacciarla dalle sue stanze.

«Il Ragnarök ha cominciato a ticchettare ma forse, con il tuo gesto, lo hai rallentato e, quando verrà il momento di veder crollare ogni cosa, noi non saremo più qui per subirne direttamente lo scotto» mormorò Frigga, lo sguardo perso in direzione delle finestre e, da lì, alle alte montagne che sovrastavano l’immenso palazzo degli Asi.

Cosa ella avesse visto in quel momento, a Odino rimase per sempre ignoto.
 
***

Sbadigliando nel risvegliarsi, Magnus recuperò i suoi occhiali dal comodino, li inforcò e, nello scendere da letto, disse mentalmente: “Wotan, ci sei?”

Dove vuoi che vada, ragazzo?, ironizzò il dio, facendolo ridere.

Raggiunto che ebbe il bagno, Magnus si lagnò per bene il viso e i denti dopodiché, con passo tranquillo, si avviò verso la cucina, dove la madre e il padre stavano già dialogando dinanzi alla loro colazione.

“Credo di aver capito perché hai voluto farmi vedere quell’episodio.”

Spero ti sarà d’aiuto, quando sarai assieme a Brianna e a Fenrir.

“Credo di sì. E forse, lo mostrerò anche a loro.”

Oh, beh,… magari anche no, bofonchiò imbarazzato il dio.

Magnus rise sommessamente mentre entrava nella cucina e salutava i suoi genitori e, nel sedersi a tavola, replicò: “Non essere in imbarazzo. Ammettere i propri errori non è mai facile, ma tu l’hai fatto bene, no?”

Lo diranno i posteri, credo ma, per ora, sembra aver funzionato. Il mondo non ci è ancora caduto in testa!

Il bambino assentì e, quando vide comparire in cucina anche la diciottenne Elsa, prima ad aver conosciuto Brianna e amici, la salutò allegro e disse: «Sei già pronta? Io devo ancora mangiare!»

Lei gli sorrise gentile, si accomodò salutando i padroni di casa e replicò: «Non temere, Magnus. Abbiamo tutto il tempo del mondo. Zio Wulfgar ci accompagnerà a Oslo solo tra un paio d’ore, perciò puoi mangiare con tutta calma.

«Bene!» esclamò il bambino, affondando il cucchiaio nella sua ciotola di cereali.

I genitori sorrisero nel vederlo così allegro e pieno di vitalità e la madre, Annelyse, rivolgendosi a Elsa, disse: «Ti ringrazio per aver deciso di accompagnarlo. Tra il piccolo Mathias e la gamba rotta di Gheorg, non sapevo davvero che fare.»

Elsa sorrise al marito di Annelyse, che osservava imbarazzato la sua gamba rotta poggiata su una sedia, e replicò: «Non c’è alcun problema. Inoltre, mi fa piacere rivedere i nostri amici. Sono anni che non li vedo.»

«Farà un’avventura fanfaffica» bofonchiò Magnus, masticando in tutta fretta i suoi cereali.

Annelyse rise e lo redarguì bonariamente, intimandogli di non parlare con la bocca piena ma il bambino, ridacchiando, aggiunse: «Fono capafe di non stroffarmi, sai, mamma?»

«Ne sono convinta, tesoro, ma non sta bene» sottolineò Annelyse.

Magnus allora lasciò perdere e Odino, suo malgrado, disse: Ti prego, ricorda che sono dentro di te. Un po’ di contegno.

“Non ti farò fare brutta figura, promesso”, asserì il bambino, sorridendo tra sé.

Era davvero buffo avere nella testa un dio della sua grandezza, ma era anche un impegno, e lui era ben deciso a portarlo fino in fondo, e nel migliore dei modi. Odino sarebbe stato orgoglioso di lui.

Tutti quanti, a Gungnir, lo sarebbero stati.







N.d.A.: breve capatina in Norvegia per incontrare il piccolo Magnus, detentore dell'anima di Odino-Wotan, che abbiamo incontrato per la prima volta in "All'ombra dell'Eclissi". Ho voluto riempire un buco di trama riguardante il momento in cui, nello Spin-off dedicato a Cecily, Odino dice che lui e Fenrir si erano allenati insieme per poter gestire i poteri di quest'ultimo.
Visto che non avevo mai spiegato niente riguardo a come si fosse arrivati a questa decisione, ho pensato di scrivere una OS che ne dipingesse i contorni. Spero di avervi fatto cosa gradita.
A presto!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 52
*** Sangue chiama sangue - (Odino/Fenrir/Avya) - 2017 - Parte 1 ***


Sangue chiama sangue – Odino/Avya/Fenrir
 
 Il dolore peggiore che un uomo può soffrire: avere comprensione su molte cose e potere su nessuna.
(Erodoto)


 
Ottobre 2017 – Matlock
 
Quanto potevano cambiare, le persone, in pochi anni di separazione?

Davvero molto, almeno a giudicare da Elsa Larsen e Magnus Gustavsson. La prima volta che Duncan e i suoi amici li avevano incontrati, i loro volti erano assai differenti.

Elsa, poco più che dodicenne, si era avventurata nel bosco in una sorta di training camp solitario mentre il piccolo Magnus, tra le braccia della madre, era apparso a tutti un timido infante, prima di mostrare al mondo la sua anima potentissima.

Si erano visti altre volte, nei sei anni che erano seguiti a quel primo incontro, ma rivedere la diciottenne Elsa fu, per Duncan, qualcosa di sconvolgente. Negli ultimi due anni si era davvero fatta donna, e la sua bellezza era sbocciata in maniera quasi imbarazzante.

Quando la abbracciò, perciò, le sorrise e domandò divertito: «Dov’è tuo zio Wulfgar? Non posso credere che ti abbia fatto venire qui da sola.»

Elsa rise allegra e replicò: «Oh, ci ha provato ad appiopparmi una guardia del corpo, ma mi sono rifiutata bellamente. Sarò una comune umana, ma ho imparato a difendermi grazie ai migliori guerrieri al mondo… voi compresi.»

«S’intende» ammiccò Duncan prima di salutare Magnus con un abbraccio e aggiungere: «Tu, invece dimostri quattordici anni, e non sette. Dipende da Odino o dal tuo essere un berserkr?»

«Un po’ tutt’e due» ammise Magnus, gradendo quell’abbraccio sincero e caloroso. «Mamma mi ha detto che, se Odino non fosse stato dentro di me, sarei comunque apparso più alto degli altri bambini ma, avendo un bonus, appaio ancora più grande.»

A ben vedere, Magnus era alto quasi un metro e sessanta e, avendo solo sette anni, sarebbe cresciuto ancora molto. La sua genetica sfidava ogni logica, grazie – o a causa – della sua unicità di berserkr e detentore dell’anima di un dio potente come Odino e, suo malgrado, gli effetti si vedevano più che bene.

«Immagino abbiate dovuto contraffare la tua data di nascita» chiosò Duncan, accompagnandoli fuori dall’aeroporto di Heathrow e trascinandosi dietro le loro due valige.

Elsa assentì, lanciando un’occhiata divertita all’alto settenne che aveva al fianco, asserendo: «Ci siamo rivolti ai licantropi, per ottenere documenti perfetti, visto che sono più abituati di noi a simili problematiche sociali.»

Duncan assentì, sapendo bene quanto la giovane avesse ragione. Per quanto non vivessero in eterno, i licantropi dalla genealogia più pura potevano vantare età davvero inconsuete, in ambito umano, ed era perciò necessario truccare un po’ le carte.

Inoltre, quando un lupo decideva di tornare allo stato brado e darsi metaforicamente morto per la comunità umana, dovevano redigere dei falsi certificati di morte per coprirne le tracce.

Non era una vita facile e, nel corso degli anni, a causa della digitalizzazione e dell’aumento dei controlli, tutto era diventato più difficile da attuare. Era comunque uno scotto da pagare preferibile al venire smascherati.

Se il mondo avesse saputo di loro vi sarebbero state delle autentiche caccie alle streghe, persone innocenti sarebbero state mandate al massacro senza motivo, e interi clan avrebbero potuto scomparire.

Per quanto gli spiacesse ammetterlo, la politica del silenzio dei Cacciatori andava anche a loro vantaggio. Meno persone sapevano, meglio era per tutti. Avevano un’etica davvero contorta ma, a conti fatti, funzionava anche a loro vantaggio.

Neppure loro volevano lasciarsi alle spalle cadaveri di innocenti e massacri senza motivo, perciò mantenere il segreto si era rivelato vitale per evitare ciò che era avvenuto all’inizio della loro faida.

«Brie è a casa con il piccolo Nathan?» domandò Elsa mentre si avvicinavano a una Volvo V90 color argento.

«Sì, stamattina ha fatto particolarmente i capricci, così abbiamo rinunciato a venire insieme» li mise al corrente Duncan, scrollando le spalle.

Per quanto Nat fosse un bravo bambino e dormisse la notte con tempistiche quasi computerizzate, quando aveva le coliche era un autentico strazio. Non c’era verso di calmarlo e, per quanto anche Avya si mettesse d’impegno, neppure le sue nenie lo chetavano.

Duncan sperò davvero che, in quelle lunghe ore di separazione, le cose fossero un po’ migliorate.
 
***

Quando finalmente raggiunsero casa McKalister, il tempo si era sistemato, perdendo il grigiore dell’arrivo a Londra per aprirsi in una bella giornata di sereno.

La pioggerellina che li aveva accompagnati durante tutto il tragitto di allontanamento dall’aeroporto, si era trasformata in un acquazzone nei pressi di Hardingstone. Lì, il traffico si era rallentato fin quasi a fermarsi ma, non appena le nuvole si erano diradate e le strade si erano liberate dal fiume d’acqua che vi scorreva sopra, tutto era andato a posto.

Magnus non aveva fatto altro che sorprendersi delle novità cui era stato testimone. Fin da quando era partito da Oslo – visitata per la prima volta proprio in occasione della sua partenza – per lui le novità non si erano mai fermate. Persino la grandezza dell’aereo utilizzato per il viaggio, così come le distese infinite di acqua che aveva sorvolato in quell’enorme scatola volante, lo avevano colpito.

Per quanto sapesse dell’esistenza degli aeromobili, era stato comunque affascinante vedere quel gigante con le ali per la prima volta. Così come salirvi, del resto.

Da sempre tenuto sotto stretta sorveglianza tra le braccia del suo isolato villaggio, venire a contatto con la civiltà per la prima volta era stato qualcosa di incredibile, di magico. Quando poi erano atterrati a Heathrow, la sorpresa era addirittura aumentata.

Pur se costeggiandola soltanto, Magnus si era conto dell’enormità di Londra, di come fosse molto più grande della già gigantesca Oslo – almeno ai suoi occhi.

La vera sorpresa, però, erano state le campagne londinesi. Essendo la Norvegia un paese pressoché montagnoso, quelle distese apparentemente infinite di pianure erano state per Magnus un’autentica novità, oltre che una sorpresa magnifica.

«E’ davvero una bella casa» commentò affascinato Magnus, guardandosi intorno con occhi sgranati e pieni di curiosità.

L’alta siepe di bosso circondava la proprietà, nascondendola agli sguardi dei curiosi, mentre copioso gelsomino si arrampicava sinuoso lungo un fianco della casa e i cespugli di rose la circondavano con il loro profumato abbraccio.

Poco distante, separata dalla casa e con un’entrata autonoma, la clinica veterinaria di Duncan spiccava per i suoi colori neutri – del crema e del grigio – e per la cura maniacale degli esterni.

Sul retro della clinica, a poco meno di una decina di metri e circondata da uno steccato alto circa un metro e mezzo, si trovava un’alta e lunga costruzione, dove Duncan teneva i suoi cavalli, oltre agli animali di stazza più importante ospitati per le cure. Il tutto era davvero ben tenuto, e denotava la cura del padrone di casa per i particolari.

«Benvenuti!» esclamò a sorpresa Brianna dalla porta, strappando Magnus alla sua esplorazione visiva di quel luogo del tutto nuovo, per lui.

Elsa fu la prima ad avvicinarsi e, dopo aver abbracciato delicatamente la donna – che teneva in braccio il figlio – fece i complimenti a Nathan, che gorgogliò felice allungando le manine grassocce.

Magnus attese che l’amica avesse terminato di salutare madre e cucciolo, prima di rivolgersi alla padrona di casa e, sorridendole, disse: «Grazie per averci invitato a venire. E’ tutto così bello, qui!»

Brianna lo avvolse in un caro abbraccio, asserendo per contro: «Posso dire lo stesso di casa vostra. Ma entrate... immagino sarete stanchi per il lungo viaggio, così vi ho preparato qualcosa da sgranocchiare in attesa che arrivi sera.»

«Ti sei data anche troppo da fare, Brianna. Non ce n’era bisogno» replicò Elsa, entrando per prima. «Duncan ci ha detto che Nat ti ha dato un po’ da fare, stamattina.»

«Ho avuto degli ottimi aiutanti, per darmi una mano» strizzò l’occhio Brianna, invitandoli a entrare in cucina.

Lì, gli ospiti trovarono Lance e sua figlia Keely, impegnati nel sistemare le ultime tartine su un vassoio e, quando la bambina vide i nuovi arrivati, strillò eccitata e scese dal grembo del padre per abbracciare Elsa.

Quest’ultima la accolse con calore, esalando: «Oddio… è bellissima, Lance. Di questo passo, dovrai guardarla a vista.»

«Non me lo dire, Elsa… ho già gli incubi adesso» si lagnò ironicamente l’enorme Hati, prima di salutare i nuovi venuti. «Magnus, stai diventando altissimo. Hai intenzione di fermarti, prima o poi?»

«Vedremo» ridacchiò il bambino, salutando poi Keely con un pugno contro pugno. La bambina non abbracciava mai i maschietti, ma preferiva quel saluto più moderno e scanzonato. «Ciao, Keely.»

«Non puoi avere un anno più di me. Sei trooooppo alto!» brontolò la bambina, inclinando la testolina biondo platino per squadrarlo con aria pensierosa. «Papà, ma perché Magnus è così alto?»

Scoppiando a ridere al pari degli altri adulti, Lance le disse: «Magnus è un bambino speciale. Da grande, diventerà come Thor, che è un uomo-orso, ma lui ha anche un bonus in più ed è come me, zio Jerome, zio Duncan e tua sorella Brie. Grazie a questo bonus, può crescere più velocemente degli altri.»

Non ancora del tutto convinta, Keely domandò a Magnus: «Quindi… puoi diventare sia un orso che …qualcos’altro?»

«Posso diventare Odino Occhiosolo» le spiegò lui, carezzandole simpaticamente la testa. «Tu sai chi è, vero?»

«Quello che ha ucciso Brie» mugugnò confusa Keely, fissando la sorellastra con l’aria di volere spiegazioni più comprensibili.

Imbarazzato, Magnus disse tra sé: “D’accordo, riesco a fare confusione anche da solo…”

Avere a che fare con le domande dei bambini non è mai facile, replicò comprensivo Odino.

Ridacchiando suo malgrado, Brianna intervenne e disse: «Odino non mi ha ucciso, Keely. A suo tempo, e per motivi che non starò qui a dirti, ci fu una disputa tra lui e Fenrir – non con me – e questo causò la morte del nostro capostipite. Ma è acqua passata da un bel po’, e Odino si scusò fin da subito con Avya e i suoi figli, per ciò che avvenne.»

Storcendo il naso, Keely si tamburellò il ditino indice sul mento, raccogliendo e assimilando ciò che la sorella le disse ma, con tono burbero, chiosò: «Avete delle vite incasinate. Sono fortunata a essere io, e solo io, nella mia testa.»

Tutti scoppiarono a ridere per quel commento e Magnus, sorridendo spiacente a Brianna, le disse mentalmente: “Scusami, non ci ho proprio pensato.”

“Oddio, neppure io se è per questo! Le raccontammo tutto fin dall’inizio, proprio perché non si stupisse se, ogni tanto, comparivano Hati o Sköll, o anche Avya, ma non abbiamo pensato ai risvolti storici della cosa”, ammise Brianna, scrollando le spalle.

Lance prese in braccio la figlia, le diede un bacetto sul naso e disse: «Hai ragione. Abbiamo delle vite assai incasinate, perciò ora andremo a casa ad aspettare mamma, perché anche la sua vita non diventi incasinata, d’accordo?»

«Va bene. Ma Hati mi dovrà raccontare come fece a battere il fratello a braccio di ferro, visto che erano gemelli. Non avrebbero dovuto avere la stessa forza?» brontolò Keely, facendo ridere suo padre.

Brianna fece tanto d’occhi ed esalò divertita: «Fai uscire Hati per raccontarle storie?»

«E’ lui che vuole uscire per raccontargliele» sottolineò Lance, sorprendendo ulteriormente la figliastra.

Brie esalò un sospiro di pura esasperazione e, nello scuotere il capo, borbottò: «Ma tu guarda cosa devo sentire…»

Potrei farlo anch’io, se volessi, per Nathan… naturalmente, nella mia forma umana, soggiunse Fenrir a sorpresa.

“Adesso dobbiamo pensare al nostro allenamento con Magnus e Odino, non alle favole della buonanotte per Nat” sottolineò per contro Brianna.

Diventi acida, quando dormi poco, precisò Fenrir, facendola sbuffare per diretta conseguenza.

“Posso peggiorare, credimi.”

Non stento a crederlo, chiosò lui, svanendo dal suo radar.

Dopo aver salutato Lance e Keely, Brianna sistemò Nathan nella sua sdraietta a dondolo quindi, poggiate la mani sui fianchi, dichiarò: «Signori, mangiamo un po’, prima di lavorare. Lo stomaco pieno aiuta sempre gli audaci.»

«E questa da dove salta fuori?» domandò Duncan, sorridendole divertito.

«Dal mio stomaco che brontola» ammiccò lei, afferrando una tartina al salmone e burro.
 
***

Quando Brianna aveva pregato Duncan di mostrare a Elsa il filmino del loro matrimonio – visto che non aveva potuto parteciparvi – l’uomo aveva impiegato un attimo, prima di capirne i motivi.

Se lei e Magnus fossero stati impegnati nella foresta del Vigrond per allenarsi, lui e Avya si sarebbero certamente preoccupati, ma tenerli impegnati con qualcosa che sapeva rilassarli, avrebbe aiutato.

Perché, gli piacesse o meno ammetterlo, Duncan adorava rivedere le immagini del suo matrimonio, anche se era successo più o meno di tutto, quel giorno, e non era stata di certo la classica cerimonia da film.

Nel ritrovarsi nel salotto assieme a Elsa, perciò, Duncan non si sentì minimamente messo da parte e Avya, dentro di lui, disse: Una volta di più, la tua compagna ha dimostrato un’immensa gentilezza e comprensione. Sia per te che per me.

“Brianna può essere uno schiacciasassi, quando vuole, ma ha un cuore tenero” ammise tra sé Duncan.

Sorridendo, pigiò play per far partire il video ed Elsa, tutta giuliva, esalò: «Non vedo l’ora di vedere lady Fenrir in bianco.»

Duncan scoppiò a ridere per diretta conseguenza e, asciugandosi una lacrima d’ilarità, replicò spiacente: «Diciamo che, prima di arrivare al bianco che vuoi tu, succederà di tutto.»

Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, Elsa gracchiò: «Ma… e le foto che ci avete mandato?»

«Guarda il video. Capirai ogni cosa» le promise lui, sistemandosi meglio sulla poltrona. Adorava ogni attimo di quelle due ore di video, e non voleva perdersi neppure un fotogramma, anche se li conosceva a memoria.

Non sapendo bene come interpretare le parole di Duncan, Elsa si concentrò sullo schermo e, subito, la telecamera – un po’ traballante a causa dell’ansia di Jerome che stava girando il video – inquadrò una Brianna agitatissima.

I lunghi capelli castano dorati erano sollevati sulla testa in un ammasso informe di bigodini, mentre Erika e Sarah erano impegnate a sistemare ai suoi piedi lo splendido abito a sirena che Elsa aveva visto nelle foto.

In un fruscio di rasi, pizzi e organza, l’abito le venne fatto scivolare sul corpo ricoperto da un sott’abito di raso color ghiaccio e, non appena fu al suo posto, Erika iniziò ad allacciare i bottoni sulla schiena.

«Questo è un video a luci rosse, principessa. Non potrai mai farlo vedere al pubblico!» la prese in giro Jerome, mentre Brianna faceva la lingua al cameraman.

«Questo video, infatti, sarà solo per me e Duncan. Quello ufficiale sarà un montaggio di quello che girerai, idiota» brontolò la giovane, sollevando le braccia quando Sarah le sistemò meglio l’abito sotto le ascelle e scrutò critica lo scollo a cuore. «Va tutto bene, Sarah?»

«Continuo a pensare che avresti dovuto lasciare le spalline, ma con le stecche che lo sorreggono, dovrebbero tagliarti l’abito per fartelo crollare di dosso» ammiccò la donna, annuendo alla futura sposa.

«L’abito non cadrà, stai tranquilla» la rassicuro Brianna, cominciando a mettere mano ai bigodini.

Fluenti, onde fluttuanti scivolarono sulle sue spalle ed Erika, afferrate le spille, cominciò a sistemarle in modo tale da liberarle il viso, dopodiché applicò delle roselline tea tra i capelli e sorrise soddisfatta.

Sarah approvò in pieno e, proprio in quel momento, fece la sua comparsa Mary B, accompagnata dalla piccola Keely.

Con occhi brillanti d’emozione, la matrigna di Brianna si poggiò una mano sul cuore e mormorò: «Tesoro, sei splendida.»

«Mamma… una foto» cinguettò Keely, sfiorando esitante la gonna della sorellastra per saggiare la morbidezza del raso. «Che beeellooo.»

«Grazie, sorellina» sorrise dolcemente Brie, mettendosi poi in posa quando Mary B si apprestò a fotografarla.

Dopo diversi scatti in posizioni differenti, Sarah invitò Brianna ad avvicinarsi al tavolo da toeletta per il trucco e, nel prendere in mano il fondotinta, dichiarò: «Benissimo, ora diamoci da fare per renderti perfetta.»

«Perché? Già non lo sono?» ironizzò Brianna, e le donne con lei risero divertite, mentre Jerome commentava riguardo alla vanità femminile, ricevendo per direttissima degli insulti più o meno coloriti.

Ciò che nessuno di loro si aspettava di certo, e che portò al disastro che avrebbe impedito alla sposa di vestirsi con quell’abito in particolare, fu l’arrivo di Alec Dawson.

La porta venne spalancata e, catapultandosi all’interno della stanzetta come un panzer, si sbracciò per sorprendere la sposa e le sue damigelle, favorendo così il tracollo della situazione.

Un braccio di Alec colpì la spalla di Sarah che, presa alla sprovvista dal suo arrivo inaspettato – anche a causa dell’aura azzerata del lupo –, gettò in aria il fondotinta che, tragicamente, finì sull’abito di Brianna, macchiandolo.

Questo causò un ‘oooh’ inorridito, seguito da un ringhio collettivo e dalla reazione naturale – pur se esagerata – di Brianna che, furiosa come poche altre volte, scaricò un pugno in volto a un frastornato Alec, ingigantendo in guai sull’abito.

Il naso di Alec, infatti, perse sangue a causa del colpo proditorio, e questo cadde a sua volta sul vestito, producendo ulteriori macchie sull’ormai perso candore del tessuto.

Stavolta si levarono strilli di sconcerto, panico e rabbia generalizzati e Jerome, non sentendosela più di girare, poggiò la telecamera su un tavolino e raggiunse una furiosa Brianna per trattenerla dall’uccidere Alec.

Nel frattempo, quest’ultimo si portò una mano al volto, imprecò sentitamente e bofonchiò: «Ma per la miseria, streghetta… non dovresti essere tutta dolce e carina, oggi?»

«COME FACCIO A ESSERE DOLCE E CARINA, SE TU MI DISTRUGGI L’ABITO?!» sbraitò Brianna, scostando in malo modo Jerome per poi avventarsi su Alec.

Duncan rise sommessamente quando vide l’abito di Brianna lacerarsi, mentre i due cadevano a terra in un caos di tessuto sparpagliato ovunque.

Elsa sgranò sempre più gli occhi, lanciò un’occhiata dubbia a Duncan ed esalò: «D’accordo… comincio a capire cosa intendessi dire.»

Lui ammiccò e replicò: «Non è ancora finita, credimi.»

Ora preoccupatissima, Elsa gracchiò: «Come? C’è dell’altro?!»

«C’è un motivo se adoro questo video» assentì Duncan, cercando di trattenere le risate.

Elsa, allora, tornò a scrutare il video, girato in malo modo a causa della posizione in cui la telecamera era stata poggiata. Dalla posizione in cui il visore era posizionato, Elsa poté scorgere Jerome di spalle, impegnato a trattenere una furente Brianna, mentre Alec veniva trascinato via da Sarah ed Erika, chiaramente fuori di senno per l’ira.

Mary B mandò Keely a cercare il padre dopodiché, prese in mano le redini della situazione, osservò l’abito ormai distrutto di Brianna e dichiarò: «D’accordo, questo è da buttare, è più che evidente. Dobbiamo pensare ad altro, e in fretta.»

Brianna assentì meccanicamente ma non riuscì a evitare le lacrime e, quando infine giunse Erin – forse richiamata mentalmente dallo stesso Alec – la donna si lasciò andare a un singhiozzo disperato, esalando: «Ma che hai combinato, stavolta?!»

Seduto a terra e con una pezzuola umida in faccia, Alec borbottò: «Un incidente del tutto involontario, che è diventato una scazzottata. Giuro, non volevo succedesse. Ero qui per darle il mio regalo.»

Mentre Mary B asciugava le lacrime della figliastra, Brianna gli lanciò un’occhiata obliqua, borbottando: «Che diavolo volevi darmi, cagnaccio?»

Alec non se la prese minimamente per quell’insulto e, nel risollevarsi, estrasse dalla tasca della giacca una scatola di velluto, che porse alla futura sposa con aria assai contrita.

«Non dicono qualcosa di blu, qualcosa di vecchio, di nuovo e di prestato? Beh, io volevo prestarti questa» mormorò mogio Alec, mentre Brianna apriva la scatoletta, mettendo in mostra un filo di perle dalla sopraffina fattura.

Sorpresa, Brianna lo fissò senza parole e Alec, infilando le mani in tasca con aria burbera, aggiunse: «Sono di mia madre. Ci teneva che le portassi, …e anch’io. Ma, come mio solito, non so come comportarmi in queste occasioni, e ho finito per incasinare il tuo giorno più bello. Hai fatto bene a spaccarmi il naso. Anzi, dovevi andarci più pesante.»

Sospirando, la giovane consegnò la collana a Mary B, lanciò un’occhiata a Erin – che appariva ancor più contrita del marito – e infine disse: «Avrei dovuto saperlo che sarebbe successo qualcosa, con te nelle vicinanze.»

«Lo so, faccio schifo, per queste cose» mugugnò ancor più cupo Alec, reclinando il capo.

Brianna, allora, gli carezzò la guancia, sorrise a mezzo all’amico e disse: «C’è il mio abito dell’Investitura. Non l’ho più messo, da quel giorno, ma dovrebbe starmi ancora bene.»

Ringalluzzito, Alec cominciò a dire: «Vado subito…»

Subito, però, si bloccò, sospirò e aggiunse: «Erin, potresti andare a prenderlo tu?»

Brianna, però, scosse il capo, raccolse quel che rimaneva del suo abito e dichiarò: «Ora mi accompagnerai a prenderlo e, insieme, andremo al Vigrond per farci dare una mano dalla quercia sacra. L’abito è nero, Alec, e che io sia dannata se lo sceglierò come colore per il mio matrimonio.»

«Il nero non sfina?» domandò con candore lui.

La giovane si accigliò, fissandolo malissimo ed Erin, disperata, gracchiò: «Ma quando imparerai a tacere?»

«Okay, d’accordo, sei già abbastanza magra, perciò non hai bisogno di abiti che ti sfinino. Anzi, se mettessi su qualche chiletto qua e là…» borbottò Alec, uscendo dalla stanza assieme a Brianna.

Jerome recuperò la telecamera – che aveva continuato a filmare fino a quel momento – e, seguendo i due, dichiarò: «Questo filmino verrà che è uno spettacolo.»

«Piantala di dire cretinate, Jerome!» sbraitarono in coro sia Brianna che Alec.

Lui, per contro, ridacchiò e celiò: «Si vede che siete due amici per la pelle… dite persino le stesse cose…»

Brianna si limitò a macinare alcune imprecazioni mentre Alec, ben più ombroso di lei, mandò debitamente al diavolo Jerome prima accelerare il passo e raggiungere la sua auto, dove fece salire sia Brie che J.

In fretta, raggiunsero casa McAlister, dove si sarebbe svolto il matrimonio e dove, entro un paio d’ore, si sarebbero riuniti tutti i loro amici e lì, uno sconvolto Duncan, assistette all’arrivo traumatico della sua futura sposa.

Preferendo non chiedere nulla, si limitò ad accodarsi al trio e, dubbioso, sussurrò a Jerome: «E’ passato un tifone, a casa di mia zia?»

«Sì, il tifone Alec» replicò Jerome.

Duncan non chiese altro, limitandosi ad apparire alquanto frastornato e pieno di domande.

Elsa gli sorrise comprensiva e dichiarò: «Non oso immaginare come ti possa essere sembrata l’intera situazione.»

«Mi ha soltanto confermato che, per quanto tu possa pianificare tutto, la Legge di Murphy colpirà sempre» chiosò Duncan, facendola ridere.

Il video procedette fino a raggiungere la stanza di Duncan e Brianna, dove l’abito da sposo era pronto per essere indossato.

Alec si tenne a distanza di sicurezza per non causare ulteriori danni e Brianna, nell’aprire una scatola nera dopo averla estratta dal fondo del mobile, sorresse tra le mani un lungo e semplice abito nero.

Duncan sorrise spontaneamente nel vederlo e, osservando amorevole Brie, mormorò: «L’abito della tua Iniziazione a wicca

«E’ l’unico abito veramente elegante che ho, ma chiederò un aiutino extra per fargli cambiare colore» ammiccò la giovane, rimettendolo diligentemente nella scatola per non sgualcirlo.

Ciò detto, fissò Alec e gli ordinò: «Andiamo al Vigrond, e che gli dèi ce la mandino buona.»

«Io vengo con voi. Una preghiera in più non farà male» dichiarò Jerome, entusiasta quanto eccitato.

Brianna fissò esasperata il soffitto prima di allungarsi per un bacetto a Duncan e dire: «Tu preparati. Prometto che non tarderò.»

«Ti aspetterei in ogni caso» le sussurrò lui, lanciando poi un’occhiata ad Alec: «Mi spiegherai dopo cos’è successo, anche se il tuo naso rotto può darmi qualche idea. Per il momento, però, ti chiedo di prenderti cura di lei.»

«Darei la vita, per lei» dichiarò Alec, e a nessuno parve una smargiassata da parte sua. Stava dicendo dannatamente sul serio, e Duncan non poté che assentire grato.

Il gruppo, quindi, si spostò all’esterno, dove diversi licantropi stavano finendo di allestire le panche nel cortile di Duncan. Vedendoli in quelle condizioni, non fecero commenti ma gli sguardi furono più che eloquenti e Brianna, suo malgrado, dovette dire: «Non sto scappando con Alec, promesso.»

Una risatina collettiva stemperò la loro confusione e, mentre il trio si immergeva nella foresta alle spalle di casa McKalister – e di proprietà della famiglia da almeno trecento anni – Brianna sperò che null’altro andasse storto, in quel giorno così strano.

Nel giro di cinque minuti, dopo aver corso per la foresta, si ritrovarono infine al Vigrond e lì Brianna, inginocchiandosi dinanzi alla quercia sacra, estrasse l’abito e mormorò: «Madre, ho un favore da chiederti, se vorrai accontentarmi.»

Cosa posso fare per te, Figlia della Luna?

«Avrei bisogno che quest’abito nero divenisse bianco. Abbiamo avuto un… piccolo incidente di percorso e…»

Alec intervenne, gettandosi in ginocchio e – forse per la prima volta in vita sua – penitente, disse: «Madre, è solo colpa mia se il giorno più bello di Brianna rischia di essere rovinato, perciò ti chiedo… ti supplico, concedile questa grazia!»

Brianna si sorprese non poco nel vederlo così prostrato, e persino Jerome se ne stupì, esalando un fischio per lo shock.

Madre, invece, non parve particolarmente sorpresa, perché mormorò solenne al lupo prostrato dinanzi a lei: Sei molto affezionato a questa wicca… ed è vero, per lei daresti tutto. L’odio che risiedeva nel tuo cuore è infine scomparso, grazie a questa donna e alla sua amicizia, perciò non penso non avrò problemi nel tingere un semplice abito, visto che questa mia figlia mi ha restituito uno dei miei bambini dispersi nell’oscurità.

Alec sospirò di sollievo, grato a Madre per quel gesto compassionevole e infischiandosene bellamente di essere stato definito ‘bambino’ e, sotto gli occhi dei tre, non solo l’abito divenne bianco, ma prese a rifulgere.

Il candore del raso divenne così accecante che Brianna esalò sconcertata: «E’ davvero incredibile!»
Il tessuto è impregnato del mio potere, così che questo giorno sia benedetto.

«Grazie infinite, Madre» mormorò ossequiosa Brianna.

All’improvviso, l’immagine venne a sparire e Duncan, con un risolino, disse: «Alec non voleva essere inquadrato mentre piangeva.»

Elsa ridacchiò, annuendo e, quando l’immagine tornò, Jerome inquadrò Brianna e la sua scatola rilucente e contenente l’abito per il matrimonio.

«Come mai non avete fatto foto con quello?» domandò la ragazza, più che mai sorpresa.

«Era talmente rilucente da averle rovinate tutte» chiosò Duncan, facendo spallucce. «Le uniche testimonianze di quell’abito sono in questo video.»

Elsa annuì piena di meraviglia tornando infine a scrutare la TV, dove finalmente Brianna raggiunse la casa – trovando ad attenderla Mary B, Keely, Lance, Sarah ed Erika – e si chiuse nella sua vecchia stanza per cambiarsi.

Jerome rimase all’esterno assieme a Lance, visibilmente emozionato per il matrimonio della sua figliastra e, teso, mormorò: «Preghiamo che non succeda altro.»

«Erin ha pronte le corde per legare Alec» chiosò Lance, strizzando l’occhio alla telecamera.

Elsa rise di quel commento e Duncan, ammiccando, dichiarò: «Lo legò davvero, e lui la lasciò fare senza problemi.»

«Oh, cielo!» esalò Elsa, coprendosi la bocca per non scoppiare a ridere.

Le immagini si susseguirono liete, Brianna riapparve in tutto il suo splendore e, finalmente, il matrimonio poté avere inizio.

Naturalmente, quell’abito così singolare colpì tutti i presenti e, quand’anche il pastore – mannaro – ebbe terminato le celebrazioni, i commenti di tutti furono per quell’eccezionale vestito sgargiante.

Alec rimase legato per tutto il tempo, imboccato a turno da Erin e da Penny, mentre Brianna e Duncan consumavano il pranzo di nozze senza più temere disastri.

Durante i balli, però, Brie ordinò che Alec venisse slegato e, con l’amico, la wicca ballò due canzoni prima di sciogliersi da lui con un bacio sulla fronte e il perdono per ciò che era avvenuto.

Quando infine la sera scese su di loro, in uno sfarfallio inaspettato, l’abito tornò nero, più adatto per i festeggiamenti notturni e Brianna, con un muto ringraziamento a Madre, iniziò a danzare in circolo assieme ai suoi lupi.

Il video terminò con un bacio di Brianna e Duncan alle telecamere e, quando infine il padrone di casa spense il lettore DVD, Elsa si deterse una lacrima, esalando: «E’ stato davvero tutto magnifico.»

«Lo credo anch’io» assentì Duncan, prima di avvertire un’onda di energia tale da far vibrare anche le pareti di casa.

Elsa si guardò intorno turbata, confusa da quella vibrazione improvvisa quanto inaspettata, ma l’arrivo a sorpresa di Fenrir e Odino tarpò le ali a ogni suo tentativo di aprire bocca.

Duncan fece tanto d’occhi nel veder comparire nello specchio della porta la figura ancestrale del capostipite della razza e Avya, dentro di lui, sobbalzò sgomenta e dolente nel rivedere quel viso tanto amato dopo millenni.

«Oh… merda! Dimenticavo che eravate qui!» esclamò Fenrir, sgranando gli occhi per poi nascondersi subito dietro il muro ed esalare: «Madre, ti prego… non è stato davvero fatto con intenzione!»

Un tuono rimbombò funesto a poca distanza dalla casa e Odino, con un borbottio, grugnì: «E’ sempre stata isterica.»

«Odino, per favore!» esalò turbato Fenrir.

Non sapendo esattamente come sentirsi, Duncan rimase con il volto ferocemente rivolto verso il muro e domandò: «Ehm… posso sapere perché ci siete voi, qui, e non le vostre controparti solite?»

«Fa parte dell’allenamento, ma non abbiamo pensato al patto tra Madre e Fenrir, quando siamo venuti qui per rifocillarci» ammise Odino, più remissivo. «Anche se va detto, a tutti gli effetti, che Avya non è presente.»

Un secondo fulmine cadde nelle vicinanze e il temporale che, fin lì, aveva risparmiato il paesino di Farley, esplose in tutta la sua potenza.

Cogliendo al volo la minaccia, Fenrir si recò in fretta in cucina, arraffò le prime cose a caso e borbottò: «Andiamo nella stalla, giusto perché lo sappiate.»

Ciò detto Fenrir e Odino si allontanarono in fretta dalla casa e Duncan, riuscendo finalmente a respirare normalmente, si volse a scrutare Elsa, non meno sconvolta di lei.

E dire che aveva sempre pensato che ciò che era successo al matrimonio, fosse stato decisamente strano!


 



N.d.A.: spero abbiate gradito la parentesi matrimonio, visto che è stato un argomento più volte richiesto ma mai sfiorato dalla sottoscritta.
Grazie a questa breve storia - che si dipanerà in tre capitoli - toccherò tutti gli argomenti che restano da chiarire sul dopo/Fenrir, così da ultimare il trittico Odino/Avya/Fenrir e non lasciare - spero - più dubbi su ciò che avvenne agli albori della razza dei licantropi.
Alla prossima!

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Capitolo 53
*** Sangue chiama sangue (Odino/Fenrir/Avya) - 2017 - Parte 2 ***


2.
 
 
 
 
Sgranocchiando dei salatini mentre Odino, accomodato su una balla di fieno, finiva una tartina, Fenrir borbottò: «Ero talmente stanco che non ci ho proprio pensato.»

Scrollando le spalle, Padre Tutto replicò: «Siamo stanchi in due… neppure io ho collegato la cosa.»
Gabriel mise fuori il muso per curiosare i due nuovi venuti e Fenrir, nel carezzarlo, disse: «Senti la presenza di Brianna anche se non è fisicamente qui, eh?»

Il cavallo scodinzolò felice e Odino, con un mezzo sorriso, mormorò: «Ci ho fatto caso solo ora ma… anche in precedenza, gli animali non avevano paura di te.»

«Ne avevano soltanto quando io volevo che fosse così… o quando ero di cattivo umore, altrimenti, erano una buona compagnia con cui passare il tempo. Difficilmente mi avrebbero tradito» ammise Fenrir, accomodandosi su uno sgabello.

La bianca tunica che il dio-lupo indossava, contrastava con la chioma corvina rilasciata sulle spalle e Fenrir, nell’osservarsi le mani ampie e forti, aggiunse: «E’ così strano tornare a camminare sulle mie gambe!»

«Puoi dirlo forte, ragazzo. Anche se va detto che la percezione dei nostri poteri è ben diversa da prima» dichiarò Odino, giocherellando con il manico di gungnir, la sua lancia preferita.

Fenrir scrutò l’arma che, tante volte, Odino aveva usato per punzecchiarlo quando ancora era un cucciolo e, per un istante, fremette.

Era difficile dimenticare ogni cosa, soprassedere sul passato e andare avanti dimenticando l’odio, ma ben sapeva quanto fosse importante coesistere in un mondo in cui anche Odino camminava e viveva.

Tutto bene, lì fuori?, domandò Brianna.

“Ce la caviamo, bene o male. E lì dentro? Stai stretta?”

Diciamo che potrebbe andare meglio, ma sto cominciando a capire come fare, ammise la giovane. Sai che ti fa male pensare a ciò che è stato, vero?

“E’ un po’ difficile guardare Odino e non pensarci, ma sto facendo il bravo.”

Credo che anche lui si senta strano, sapendo ciò che è successo tra di voi. In fondo, nessuno lo obbligava a tentare questo addestramento fuori dal consueto, e sapere che ha accettato dovrebbe farti sentire meglio.

"Per ora, penso soltanto a quei poveri lupi che abbiamo sfiancato nel darci una mano a sorreggere la barriera di contenimento”, sottolineò Fenrir, rammentando ciò che era avvenuto quel pomeriggio, al Vigrond.

Mentre la pioggia battente continuava a cadere su Farley, Fenrir tornò col pensiero al momento in cui lui e Odino avevano preso il posto di Brianna e Magnus.

Pur sapendo chi sarebbe comparso al loro posto, i lupi si erano mostrati degnamente sgomenti e si erano inchinati immediatamente, mormorando poi scongiuri contro la fine del mondo.

Fenrir non aveva neppure tentato di chetare le loro ansie. Era giusto che si abituassero da soli alla loro presenza. Parlare sarebbe stato del tutto inutile.

Anche per questo, il dio-lupo aveva concentrato la sua attenzione su Odino che, dopo aver infilzato a terra la sua gungnir, aveva dichiarato a gran voce: «Cominciamo con qualcosa di soft, ragazzo, poi proveremo ad aumentare l’intensità.»

«D’accordo» aveva dichiarato il dio-lupo, concentrando una parte minima del suo potere per espandere la propria aura.

Quei pensieri e quei ricordi, però, vennero interrotti da Odino che, per la seconda volta, gli domandò: «Ehi! Dove hai la testa?!»

«Oh, scusa… stavo pensando a oggi pomeriggio» ammise Fenrir.

«Siamo stati bravi, no?»

«Abbiamo fatto ben poco, e lo sai. Posso sviluppare un potere molto più forte di così» replicò Fenrir, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

Odino, allora, intrecciò le proprie mani e asserì pensieroso: «Ragazzo… hai sacrificato la tua esistenza pur di non scatenare Ragnarök, quando io fui così folle da dare retta a mio fratello Loki. Dubito che perderai il controllo ora, con la tua famiglia presente e i tuoi figli che prosperano nel mondo. Non sei così pazzo da farlo.»

«Tu dici?» ironizzò tristemente Fenrir.

Accigliandosi, Odino scrutò il volto turbato del suo antico nemico e notò come la paura si stesse lentamente facendo strada su quei bei lineamenti. Sorpreso, se ne chiese il motivo e, senza mezzi termini, domandò: «Perché dimostri così tanto timore, ragazzo? Non sei mai stato pavido!»

Piano, Wotan… non esagerare, ricordalo, gli rammentò cauto Magnus.

“Lo so, lo so, ragazzo… ma a volte bisogna calcare un po’ la mano, coi maschietti, perché parlino. Lasciatelo dire da uno che ha avuto un sacco di figli.”

Vacci comunque piano… Fenrir non è una persona come le altre.

Odino assentì suo malgrado e Fenrir, abbozzando una risatina, chiosò: «Magnus ti sta sgridando?»

«Umiliante da dire, ma sì. Vuole che usi più delicatezza, con te, ma non credo tu abbia bisogno di questo quanto, piuttosto, di sfogarti. Perciò, eccomi qui, a tua disposizione. Non ti è mai capitato di potermi parlare a cuore aperto, quindi fallo ora» dichiarò Odino, aprendo le braccia come a volergli offrire un’ampia scelta in cui colpirlo.

Fenrir, però, non calò la mano su di lui, né cercò di attaccar brighe. Si limitò a sospirare e, nel coprirsi il volto, mormorò: «E’ per Nathan.»

Eh?!, esalò sorpresa Brianna.

Anche Padre Tutto rimase assai perplesso da quell’affermazione e, squadrando dubbioso il dio-lupo, domandò: «Che intendi dire? Quel pupetto mi sembra in ottima salute.»

«Sì, lui sta bene, ma…» sospirò lui prima di ammettere: «…è la prima volta che vedo crescere tranquillamente un neonato. E’ la prima volta che posso esserne coinvolto emotivamente, senza avere l’ansia continua di qualcuno che mi sta alle costole per uccidermi.»

Fenrir…

“Scusa. Non volevo che ti preoccupassi, ma è così. Sono in ansia per lui perché gli voglio bene, e non voglio cagionargli alcun male. Per questo ho chiesto l’aiuto di Odino. Dovrò essere pronto a qualsiasi cosa, per lui, e Odino può aiutarmi in questo.”

Ma non devi fare tutto da solo… siamo una famiglia molto grande e molto unita, sai?, gli rammentò Brianna, pur emozionata per il gesto del dio.

Aveva notato, nei suoi pensieri residui, tutto l’amore provato per Nathan, ma non aveva mai neppure immaginato che Fenrir potesse sentirsi anche tanto responsabile per lui.

Odino sospirò, assentendo alle parole del dio e, suo malgrado, fu costretto a dire: «Se non ti fossi sentito braccato, non avresti cercato aiuto in tua sorella Hel, né saresti diventato così paranoico anche nei confronti di Tyr, che ti ha sempre amato. Come dissero a suo tempo sia Frigga che Tyr, ho contribuito a scatenare Ragnarök, e tu invece lo hai rallentato, salvando tutti.»

Fenrir si concesse qualche attimo per assaporare quel complimento, ma si sentì in dovere di replicare, dicendo: «Permettendo ad Avya di vendicarsi, hai regalato tempo ulteriore a tutti. Lei – così come i miei figli – ne sentivano il bisogno.»

«Ma ciò ha creato una faida millenaria tra voi e i seguaci di Fryc, che hanno dato vita ai Cacciatori. Non so fino a che punto sia stato un bene, darle quel consenso» replicò cupo Odino, scuotendo il capo.

Non sai nulla di quello che successe dopo la tua morte?, domandò Brianna, non sapendo quanto dire.

“Solo quello che percepii dai ricordi della quercia, quando ti immergesti in lei la prima volta. Ma erano così caotici che colsi ben poco.”

Brianna rammentava bene quel momento. La sua Iniziazione, la scoperta del legame d’anima con Duncan, Jerome e Lance, …erano successe un sacco di cose, quella notte.

Non guardasti mai dalle polle della divinazione di Helheimr?

“Era troppo doloroso, per me, vedere ancora il viso di Avya, così non guardai mai. Inoltre, non volevo scorgerla al momento della sua morte” ammise Fenrir.

Brianna preferì non indagare oltre, non volendo procurare ulteriore dolore alla sua anima ma Odino, di tutt’altro avviso, gli domandò: «Vuoi sapere cosa successe?»

Fenrir sbatté gli occhi, sorpreso e timoroso e Odino, suo malgrado, ammise: «Sapevo che Tyr sarebbe stato sempre al suo fianco, perciò ero certo di non dover temere per lei. Inoltre, con due figli come Hati e Sköll, chi mai si sarebbe sentito in ansia? Ma non mi bastava… così guardai.»

Fenrir, non credi che… tentennò Brianna, non sapendo bene cosa fosse meglio per lui.

Wotan, vacci piano, davvero. Fargli vedere fin dove si spinse Avya per vendicarlo, non credo potrebbe aiutarlo molto, intervenne anche Magnus, assai timoroso.

“E’ la sua compagna, e deve sapere fin dove la spinse il suo amore. Io credo dovrebbe esserne orgoglioso, non averne timore”, ribatté piccato Odino.

Lasciando perdere i consigli dei detentori dei loro corpi, Fenrir si avvicinò a Odino e, dopo essersi seduto dinanzi a lui, reclinò il capo e mormorò: «Mostrami. Il dubbio rischia di uccidermi da quando sono rinato, perciò è giusto che ormai io ponga rimedio alle mie mancanze.»

Odino assentì e, dopo aver poggiato una mano sul capo di Fenrir, chiuse gli occhi e mormorò: «Sii orgoglioso di lei.»

Ciò detto, nella mente di Fenrir si formò un vuoto che lo trascinò verso un vortice senza fine apparente e anche Brianna, suo malgrado, vi fu trascinata dentro.

Ove portasse, però, non fu loro detto.
 
***

«Brianna… Brie… svegliati» mormorò Fenrir con tono preoccupato.

Gli occhi di lupo di Brie si aprirono assonnati e dolenti ma, quando misero a fuoco un viso che, da parte sua, aveva scorto solo nei suoi ricordi condivisi e basta, lanciò uno strillo ed esalò: «Ma che cavolo succede?!»

Subito dopo, Brianna affondò le mani in morbida e soffice erba, e il profumo dei fiori gli inondò le narici, sconvolgendola ulteriormente.

Premuroso, Fenrir le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi e, nel guardarsi intorno, lui le disse: «Siamo nei ricordi di Odino. Per l’esattezza, ciò che vedi è il luogo in cui vivevo con la mia famiglia.»

Ancora confusa all’idea di poter essere disgiunta dalla sua anima e di poter vedere e toccare Fenrir – pur se solo a livello onirico – Brianna si guardò intorno curiosa, ammirando affascinata la natura selvaggia di quei luoghi.

Li rammentava per averli scorti nei ricordi di Fenrir, ma trovarcisi in carne e ossa – più o meno – era tutto un altro discorso. I colori erano più vividi, l’aria profumata la inebriava e il cielo azzurro era così terso da farle quasi male agli occhi.

«E’ un posto bellissimo…» cominciò col dire lei, prima di guardare per esteso Fenrir e domandare: «…ma come posso essere disgiunta da te?»

Scrollando una spalla, Fenrir si limitò a dire: «Siamo al di fuori del piano fisico, perciò siamo tornati a essere due entità separate, visto che non siamo oniricamente nei tuoi ricordi. Fa strano, però, vero?»

Lui le ammiccò divertito e Brianna non poté che sorridere complice.

Il vocabolario di Fenrir, un tempo più forbito e aulico, aveva risentito negli anni del suo gergo e ora, più o meno, usavano la stessa terminologia per parlare.

Trovarsi dinanzi a lui per la prima volta, pur conoscendolo da anni, fu qualcosa di molto strano, e sentirlo parlare accentuò questa sensazione di straniamento.

Non sapendo che altro fare, allungò una mano e disse: «Tanto piacere, finalmente.»

Fenrir scoppiò a ridere e le strinse la mano dopo un attimo di titubanza, non essendo certo abituato al quel genere di gesto.

Brianna trovò la mano di Fenrir estremamente calda, così come lo erano i suoi occhi che, in quel momento, erano neri come il carbone, ma sapevano contenere la stessa profondità dell’universo. Era estremamente difficile non rimanerne incantati.

«Cosa facciamo, ora?» domandò la giovane, guardando curiosa in direzione della casa di sassi dove, presumibilmente, si trovavano Avya e la sua famiglia.

«Credo dovremmo avvicinarci. Non vedo altra soluzione» dichiarò Fenrir, incamminandosi con la sua lunga falcata.

Brianna gli fu presto appresso e, nell’osservare il suo profilo perfetto e bellissimo, chiosò: «Continua a farmi strano saperti fuori dalla mia testa, ma è bello vederti davvero

Lui annuì, sorridendole e dicendo: «E’ piacevole anche per me. Inoltre, sono lieto di poter vivere con te questa avventura perché credo che, da solo, non avrei retto.»

La sua sincerità la disarmò completamente e Fenrir, ammiccando spiacente, aggiunse: «Sono talmente abituato a non avere segreti, con te, che mi escono anche sparate simili. Scusa se ti ho dato questo peso da portare.»

Brianna, però, scosse il capo con veemenza e, preso per mano Fenrir, dichiarò: «Siamo insieme e l’affronteremo insieme, come al solito.»

«Andata» annuì Fenrir.

Quando finalmente si trovarono nei pressi della casa, Fenrir allungò una mano per dar voce a un dubbio che lo perseguitava ma, non appena questa attraversò il muro, seppe ogni cosa.

Essendo presenti nel ricordo soltanto in forma di spirito, non erano in possesso di un corpo reale, perciò i muri non potevano essere un impedimento.

A quel punto, Fenrir attraversò il muro di mattoni al pari di Brianna e, quando si trovarono all’interno della stanza principale della casa, il dio-lupo sospirò rammaricato.

Avya stata sistemando le sue tuniche in un cassettone, mentre Hati e Sköll, apparentemente impegnati in una discussione con Sylvi e Lyka, si trovavano in una stanza adiacente.

La sua amata appariva stanca ma determinata, e le vesti che indossava non lasciavano adito a molti dubbi; si preparava alla lotta.

«Indossa indumenti assai curiosi. Da dove provengono?» domandò Brianna, guardandosi intorno curiosa.

Fenrir continuò a fissare Avya come un assetato di fronte a una sorgente d’acqua e, pur sapendo di non poter interagire con il ricordo, fu tentato di raggiungerla per abbracciarla.

«Sono le vesti da guerra dei giganti. Posso solo pensare che sia stata mia madre, a consegnargliele» esalò Fenrir, suo malgrado sorpreso da quel particolare.

Anche Brianna sgranò gli occhi per lo shock e fissò con rinnovata curiosità la figura di Avya che, per la maggiore, restava un’incognita, per lei.

Della compagna di Fenrir sapeva ciò che lui le aveva raccontato, quel poco che Duncan le aveva detto, o che la stessa Avya le aveva raccontato durante le loro chiacchiere prenatali.

Nessuno sapeva con esattezza cosa fosse successo a Fryc, a parte che era morto per mano della famiglia di Fenrir. Persino la loro quercia sacra non era al corrente di tutta la storia, perché nessuna delle sue antesignane era stata diretta testimone dell’evento, così come nessuno dei lupi seppelliti nel corso dei secoli in quel Vigrond.

Finalmente, grazie a quel ricordo, avrebbero conosciuto la verità, nel bene e nel male.

«Mamma, vuoi dire tu qualcosa a queste due zuccone?» intervenne a sorpresa Sköll, uscendo dalla stanza dove si era trovato fino a quel momento.

La donna lo squadrò da capo a piedi con i suoi brillanti occhi smeraldini, sorrise amorevole ma disse: «Tesoro, Sylvi e Lyka sono padrone di loro stesse e tu non devi importi su di loro, o non saresti diverso da coloro che volevano ucciderle.»

Impallidendo leggermente a quelle parole, il giovane licantropo sbottò esclamando: «Ma… mamma! Non puoi paragonarmi a loro!»

«E tu non obbligarmi a farlo. Se vogliono partecipare alla missione, possono farlo. Se vogliono rimanere qui, possono farlo. Né tu né Hati direte loro cosa devono fare» sottolineò Avya, infilando uno stiletto di selce nel piccolo fodero da cintura.

Brianna fischiò ammirata e, rivolta a Fenrir, esalò: «Ha un bel caratterino. Mi immagino le discussioni tra voi due…»

Suo malgrado, Fenrir assentì con un risolino e disse: «In effetti, ha sempre avuto la lingua forcuta, quando ci si metteva.»

«Però ha ragione. Anche se capisco le motivazioni di Sköll… si vorrebbe poter difendere chi si ama a qualsiasi costo, anche prevaricando questi ultimi» sorrise benevola Brianna.

Fenrir si dichiarò d’accordo e, quand’anche comparve Tyr per unirsi allo sparuto gruppetto in armi, non si sorprese nel sentirlo lagnarsi della presenza delle tre donne. Avya, però, gli pestò un piede a mo’ di risposta e, mentre il dio si lamentava per i suoi modi, la donna prese per mano Sylvi e Lyka e si avventurò verso il bosco, lasciando indietro il trio di uomini.

Brianna e Fenrir si accodarono e, assieme a loro, percorsero la forcella montana che li separava dal mondo degli umani e dalle scorribande degli uomini di Fryc, ormai divenuti lo spauracchio delle genti comuni.

Chiunque avesse doni particolari, doti apparentemente sovrannaturali o, semplicemente, fosse malvisto dalla gente del proprio villaggio, veniva additato come progenie immonda, e perciò ucciso.

Verso questo impunito mercimonio di vite indifese e massacrate, si stavano dirigendo con passo lesto e, quando Fenrir e Brie intravvidero nei boschi figure inaspettate, la loro sorpresa crebbe.

Krissvyen il troll, assieme a una cinquantina di suoi compagni, si unirono alla compagnia di Avya, dichiarandosi disposti ad aiutarla dopo aver saputo della triste fine di Fenrir.

Il breve periodo trascorso dalla coppia presso la Foresta di Ferro di proprietà di giganti e troll non era dunque passato invano, e l’amicizia tra il dio-lupo, l’amante mortale e i troll era sopravvissuta agli anni.

Brianna sorrise a Fenrir nel vedere l’incontro tra il capo dei troll e la giovane Avya e, battendogli una mano sul braccio, asserì: «A quanto pare, non avevi colpito solo il cuore di Avya.»

Lui assentì silenzioso, così come silenzioso osservò l’ormai folta compagnia avventurarsi verso l’ormai vicino gruppo di guerrieri capitanati da Fryc.

Avere un dio tra le loro fila garantiva la certezza di trovare il fratello di Avya al primo colpo… ma cosa sarebbe successo, quando le due compagnie si fossero scontrate?

Stringendo i pugni mentre un terribile pensiero fece capolino nella sua mente, Fenrir mormorò: «Odino, se lei… lei…»

Non avrei deciso di mostrarti questo ricordo, se non fossi stato certo che lei sarebbe sopravvissuta. Morirà molto più avanti, non ricordi? Te lo disse persino Madre.

Sì, certo, aveva ricevuto rassicurazioni in più di un’occasione, ma quella ricerca della verità iniziò a innervosirlo e Brianna, nell’avvolgergli la vita con un braccio, mormorò decisa: «Abbi fede in lei, Fenrir. Lo fa per onorare te.»

«Cercando sangue?» ironizzò tristemente lui. «Erano azioni mie, non sue… e io l’ho contagiata col mio odio. Bella eredità.»

Brie levò i suoi occhi ambrati per fissarlo con estrema sicurezza e replicò: «No. Ha solo messo in chiaro con il mondo intero che i tuoi figli meritavano di vivere.»

Ascolta la tua guardiana, Fenrir. Sappiamo bene entrambi che la guerra non porta mai a niente di buono, però Avya l’ha intrapresa per dire a tutti che i tuoi figli – i vostri figli – meritavano di non essere additati come mostri, aggiunse la voce di Odino con veemenza.

Il dio-lupo assentì a fatica e accettò di vedere il primo scontro tra le due forze in campo. Avya non lesinò sui colpi ma ogni suo movimento fu destinato alla ricerca di una sola persona; Fryc. Non le interessavano gli altri guerrieri. Voleva soltanto suo fratello.

Questi, però, si negò e fuggì verso le colline, incendiando i villaggi che incontrò per rallentare il loro avanzare e dimostrando una volta di più quanto, la sua morte, fosse ormai necessaria.

L’odio lo aveva reso cieco a ogni cosa, anche alla salvaguardia di coloro che nulla avevano a che fare con la sua personale vendetta.

Molti suoi commilitoni lasciarono le fila dell’esercito, dopo quell’atto spregevole e senza pietà ma, soprattutto, per la viltà dimostrata dal loro capo, fuggito dal campo di battaglia non appena resosi conto della presenza della sorella.

A questi soldati venne concesso l’onore delle armi, e vennero risparmiati dalla furia dei guerrieri di Avya. La donna concesse loro il perdono, a patto di non incontrarli mai più sulla sua strada.

Quella sera stessa, a seguito del loro primo assalto, Avya si beò della vista dei suoi compagni mentre brindavano alla loro prima vittoria, ma questo non le fece dimenticare ciò che doveva fare prima che tutto fosse finito.

Richiamata l’attenzione di Tyr, si allontanò al suo fianco per parlare con il dio in separata sede, e Fenrir e Brianna li seguirono per comprenderne le motivazioni.

Fu in quell’occasione che, a sorpresa, Avya lo pregò di andarsene.

Il dio parve sconvolto da quella scelta – e così pure Brianna e Fenrir – ma la donna, sorridendogli grata, asserì: «E’ una guerra di uomini, non di dèi, e voglio che le mie armi siano quelle di Fryc. Già così, siamo in vantaggio su di loro grazie all’aiuto dei troll che, però, sono mortali nostro pari, e perciò temono giustamente la spada dei nemici, oltre che il coraggio da loro dimostrato. Avere un dio con noi, renderebbe la vittoria più semplice, ma meno giusta.»

«Sai benissimo che Fryc se ne infischia di certe carinerie e, se non l’hai notato, porta con sé un pugnale di acciaio siderale che, ci scommetto le p…, beh, quello che vuoi…» brontolò Tyr, arrossendo irritato quando fu sul punto di straparlare. «…che quell’arma gli è stata fornita in qualche modo da Loki, per vendicarsi di voi e del fatto che Fenrir non ha scatenato Ragnarök!»

Il sorriso di Avya non scemò e, nel carezzare il viso di Tyr, disse: «Sei stato leale a me e ai miei figli, e sono sicuro che Fenrir avrebbe apprezzato la passione con cui ci hai appoggiati, ma ora devo battermi da sola per i miei figli. Spetta a me questo compito.»

«Ma ho giurato di proteggerti!» esplose Tyr e, a sorpresa, Avya scoppiò in lacrime, poggiandosi a lui con il corpo scosso dai tremiti. «Avya…»

«Mi proteggerai… dopo. Ma non adesso. Questa battaglia è mia, di Sköll e Hati. So che tu non hai avuto motivi diretti di scontro con lui, ma è stata la tua famiglia a ucciderlo, e non posso davvero accettare che tu metta mano alla sua vendetta. So di essere crudele a chiedertelo, ma…»

Tyr, però, assentì comprensivo, le carezzò i lunghi capelli e replicò: «Capisco cosa vuoi dire, e non mi perdonerò mai per non essere stato abbastanza perspicace per capire cosa stavano tramando Loki e mio padre. Potrò, però, seguirti da lontano? Non interverrò, te lo prometto. Ma permettimi almeno di non lasciarti sola.»

Lei annuì e, nello scostarsi dal dio, si terse le lacrime e mormorò: «Sono un’inguaribile testarda, scusami.»

«Per aver amato Fenrir, non potevi che esserlo» rise senza allegria lui, e Avya si unì al dio in quella risata priva di gioia.

Fenrir sospirò affranto, e le gambe gli cedettero di schianto, facendolo crollare in ginocchio. Sorpresa, Brianna non riuscì a trattenerlo e, insieme finirono con lo scivolare rovinosamente sul terreno soffice della foresta.

«Quanto ha sofferto per avermi amato?» mormorò sconvolto Fenrir, passandosi le mani sul viso con fare addolorato.

«Quanto le hai dato, per produrre un amore simile?» gli ritorse contro Brianna, scuotendolo leggermente. «Ammira il suo coraggio, non le sue lacrime.»

«Brie…» sussurrò lui, levando il viso a scrutarla. «Anche tu sacrificasti il tuo amore, pur di proteggere Duncan, e salvasti il tuo lupo dalla morte, sacrificando te stessa, perché non cadesse vittima dei berserkir.»

Irridendosi, Brianna replicò: «Rispetto a ciò che ha passato Avya, io ho avuto vita facile… ma lei si è limitata a fare ciò che tu hai fatto. Sta lottando per onorare il tuo sacrificio, e ha mostrato il vero volto di Fryc ai suoi stessi seguaci.»

«Ma i Cacciatori hanno perdurato» sottolineò per contro Fenrir.

«Perché l’odio è duro a morire. Ma guarda quante persone si sono unite alla lotta, dopo ciò che è successo oggi. E guarda i troll, come hanno seguito fiduciosi Avya in battaglia. Tutto per te, Fenrir» gli ricordò Brianna, sorridendogli nell’abbracciarlo. «Sì, sangue chiama sangue, è vero. Se si potesse farne a meno, credo che nessuno vorrebbe combattere, ma qualcosa andava fatto, per bloccare Fryc e la sua follia.»

«Chi di spada ferisce, di spada perisce…» chiosò amaramente Fenrir, e Brie assentì.

Insieme, osservarono Tyr e Avya tornare sui loro passi e, assieme alla coppia, si riavvicinarono all’accampamento per ascoltare le grida di acclamazione elevate in cielo per la loro guida.

Avya venne accolta da un coro di giubilo, e alcune donne del villaggio appena liberato dalle orde di Fryc, si offrirono di curare i feriti come ringraziamento per la loro salvezza.

La wicca accettò e, attorno al fuoco acceso per riscaldare i guerrieri, lei narrò le vicende di Fenrir, di come lui l’avesse amata e di come fossero nati i loro due figli.

Di villaggio in villaggio, la voce si sparse e la storia venne narrata più e più volte ma, assieme al consenso, crebbe anche la paura nei confronti di ciò che poteva a stento essere compreso.

Laddove trovarono appoggio, trovarono altresì porte chiuse, ma Avya non demorse. Non avrebbe ceduto finché non avesse trovato Fryc e, a quel punto, ogni cosa avrebbe avuto un termine, almeno per quel che riguardava loro due.







N.d.A.: Scorgere la verità su ciò che avvenne, farà bene a Fenrir, o lo ferirà, facendolo sentire in colpa?
E il pugnale che Loki ha dato a Fryc riuscirà nel suo intento - vi ricordo che Avya non può morire per mano di nessuna arma "dei mortali", grazie al potere che Fenrir le ha conferito - o verrà fermato prima che il destino infausto si compia?
Alla prossima, per conoscere la verità!

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Capitolo 54
*** Sangue chiama sangue (Odino/Fenrir/Avya) 2017 - Epilogo - ***



 
3.
 
 
 
 
Quanto sangue era stato versato? Quante vite spezzate?

Contava davvero chi avesse torto e chi ragione, di fronte a un simile scempio?

A tutto questo pensò Avya quando, messa di fronte a suo fratello, si passò una mano sul volto madido di sangue per ripulirsi gli occhi.

La guerra era stata lenta, estenuante, fatta di tanti piccoli passi avanti, e infarcita di una miriade di inciampi.

Se il movimento di Avya era aumentato col tempo, era cresciuto altresì quello di Fryc. Paura e accoglienza si erano mosse di pari passo, accrescendo come due gemelli iracondi nel ventre di una madre in lacrime, sempre in lotta per la sopravvivenza e sordi alle preghiere della loro genitrice.

Come promesso, Tyr non era più intervenuto nella lotta, limitandosi a sorreggere emotivamente Avya nei momenti di cedimento.

Hati e Sköll, da parte loro, si erano ben guardati dall’usare le loro seconde forme animali, così da non concedere spazio ai nemici per alcun genere di accusa. Sapevano fin troppo bene quanto, le menti più deboli, potessero passare dal bene al male per la semplice paura.

Vedere due lupi enormi sul campo di battaglia, non avrebbe aiutato la loro causa. Bastavano già i troll a incutere timore.

Sylvi e Lyka, instancabili e sempre pronte, si erano occupate dei feriti, rimanendo nelle retrovie ma mai troppo distanti dal grosso dell’esercito che, nel corso dei mesi, si era venuto a creare.

Persino Angrboða si era presentata sul campo di battaglia per osservare le gesta della nuora e dei nipoti, plaudendo la bravura di Avya e rimanendo colpita dalla fedeltà con cui i troll la seguivano.

Pur avendo sostenuto le ragioni dell’amore e della fedeltà a Fenrir, però, il risultato ottenuto – e che Avya poteva osservare con occhi sconvolti – non era differente da altre battaglie narrate dai musici nei villaggi.

La violenza si era dipanata sui campi in cui avevano guerreggiato, il sangue era scorso a fiumi e più di una volta Avya aveva dato fondo alle sue energie per avanzare tra le fila del nemico.

Sangue aveva chiamato sangue, esattamente come Odino le aveva predetto, e questo le macchiava le mani al pari del fratello, fermo dinanzi a lei con sguardo ferreo e convinto.

«Spero che sarai soddisfatta di ciò che hai ottenuto, sorella» la irrise Fryc, guardandosi intorno per ammirare i fuochi che si levavano dalla pianura e le distese di corpi ammassati sul terreno melmoso.

Avya non ne seguì lo sguardo, ben sapendo cosa avrebbe visto. Amici e nemici caduti in egual misura, sangue, odore di morte e la presenza costante di Hel a godere di quel massacro.

Più di una volta la sorella di Fenrir si era presentata al suo cospetto per ringraziarla di quel dono insperato e, in ogni occasione, Avya l’aveva rispedita al mittente con tanto di ingiurie.

Hel ne aveva riso e si era limitata a darle una carezza sul viso, ricordandole quanto inutile fosse prendersela con lei, che si limitava a seguire la propria natura.

Di fronte a Fryc, Avya dovette dargliene atto; non Hel l’aveva costretta a quel massacro, ma solo il suo desiderio di vedere morto suo fratello, di portare vendetta per tutte le sofferenze patite dai suoi figli.

Nel tentativo di raggiungere quel risultato, però, aveva scatenato una guerra tra clan e ora poteva solo piangere se stessa, per i mali commessi.

«Sono cosciente di ciò ho fatto, ma tu devi morire. Non importa quanti altri tuoi seguaci dovrò trucidare, per arrivare a questo traguardo» si limitò a dire Avya. «Non posso permettere che tu minacci ancora i miei figli. Hanno il diritto di vivere

«Dimostri soltanto di dare ragione alle mie parole. Quel dio ti ha corrotto, facendoti diventare malvagia» sogghignò Fryc, esalando subito dopo un colpo di tosse, a cui seguì un rivolo di sangue dalla bocca.

Durante l’ultima battaglia doveva essere stato ferito in modo piuttosto grave, e questi erano i risultati.

Avya sospirò, lasciò andare a terra la sua lancia coperta di sangue e asserì: «Siete stati voi a cercarci, voi a uccidere persone innocenti pur di far morire sul nascere la dinastia dei miei figli. Cos’avrei dovuto fare? Rimanere ferma e farvi eliminare la carne della mia carne, oltre a coloro che avete presunto fossero i loro discendenti?»

«Sono creature immonde. Devono morire perciò sì, avresti dovuto restare ferma e concedercelo, come qualsiasi brava fanciulla timorata degli dèi» sottolineò Fryc, accigliandosi. «Quanto alle persone che tu reputi innocenti, dovevano a loro volta morire poiché le loro doti provenivano sicuramente dalle forze oscure, e perciò non meritavano di rimanere in vita.»

«Follie! Sono solo follie, le tue!» esclamò a quel punto Avya, sgranando gli occhi per l’orrore. «Se ti fossi soffermato a chiedere a chi è addentro ai Misteri, sapresti che alcune persone beneficiano di certe doti grazie alla loro anima antica! Non hanno niente a che fare con poteri oscuri, o forze demoniache!»

Fryc scosse il capo, come se le parole della sorella non lo toccassero minimamente.

«Dici così per giustificare il tuo atto osceno. Persino il nostro druido tentò di difenderti, dopo averti vista assieme al demone che ti inseminò il ventre immondo, ma non mi ci volle molto per capire che anche lui era impuro.»

Sconvolta, Avya ripensò al sommo druido che l’aveva preservata dai riti della fertilità, all’uomo che aveva per primo scoperto la sua fragile condizione. Certo, nell’aver compreso ciò che era accaduto, ne era subito rimasto spaventato ma, a giudicare dalle parole di Fryc, si era ravveduto, vedendo come Fenrir aveva risparmiato il villaggio per amor suo.

«Lo hai ucciso… hai ucciso un saggio perché non la pensava come te?!» esclamò furibonda Avya.

«Tu cosa stai facendo?» le ritorse contro Fryc.

«Sto difendendo la mia famiglia e coloro che tu reputi dei dannati» sottolineò per contro Avya, facendosi gelida in viso.

«E’ opinabile. Per me, e per coloro che mi seguono, voi tutti meritate di morire, e a questo ci atterremo sempre» si limitò a dire Fryc.

Un altro colpo di tosse, e un rivolo più importante di sangue scaturì dalla bocca di Fryc, portandolo a piegarsi su un ginocchio. Era chiaro quanto, l’emorragia interna, fosse più grave di quanto lo stesso Fryc avesse immaginato prima di cercare la sorella per ucciderla.

Aveva atteso il momento giusto, l’aveva portata all’esasperazione, lasciando dietro di sé cadaveri di persone prese a caso, così che la sua ira fosse portata al limite. Ancora, però, Avya non aveva sfoderato le sue armi più forti, non aveva permesso ai suoi figli di mostrare ciò che erano realmente, né ai troll di scatenarsi come un’orda barbarica sui villaggi.

Era stata furba, ma lui era riuscito comunque a stanarla e, proprio sfruttando le sue debolezze, l’avrebbe distrutta.

Non volendo infierire su un uomo già condannato, Avya dichiarò: «Morirai in solitudine, e la tua lotta morirà con te. Molti tuoi seguaci ti hanno abbandonato, e nessuno vorrà più lottare se non ci sarai tu a guidarli con il tuo odio.»

Fryc le rise in faccia, a quelle parole e, pur piegato dal dolore, replicò: «Credi davvero che, una volta deceduto, finirà tutto? Mia moglie e i miei figli proseguiranno al posto mio. Perché credi che non siano qui, sul campo di battaglia, come ogni altro membro della mia tribù?»

Accigliandosi, Avya mormorò: «Vuoi davvero rovinare la vita alla tua famiglia, più di quanto tu non abbia già fatto, mettendo sulle loro spalle una faida inutile?»

«Inutile?!» ringhiò Fryc, raggelandola con l’odio contenuto nel suo sguardo. «Tu sei immonda al pari dei tuoi figli, e di coloro che vi seguono. Ti sei abbassata a chiedere l’aiuto di troll e giganti, di esseri che meritano soltanto di restare nell’ombra e nella melma sudicia in cui sono nati. Non sarà mai una faida inutile

Avya scosse il capo, gli volse le spalle e dichiarò: «Sia come vuoi. Noi ci difenderemo sempre. E ora muori solo, visto che così hai voluto.»

Fryc non le rispose, si limitò a sogghignare e, raccolte le sue ultime forze, le si lanciò contro, affondando nelle carni della sorella la lama in acciaio siderale che gli era stata donata per ucciderla.

L’uomo che gliel’aveva consegnata gli aveva assicurato che nessun essere demoniaco, o dotato di poteri soprannaturali, avrebbe potuto sopravvivere.

Lui vi aveva creduto, spinto dalla paura di non riuscire e dal desiderio di vedere morta Avya e, nel corso dei mesi, aveva sempre tenuto al fianco quell’arma, pronto per il momento decisivo.

Quel giorno era infine giunto e, quando la lama affondò nelle sue carni, lui ne gioì al punto da scoppiare in una risata grottesca quanto soddisfatta.

La donna, per contro, ansimò per la sorpresa, si volse a mezzo per scrutare il volto vittorioso di Fryc e, con le lacrime agli occhi, esalò: «E’ questo quello che sei diventato? Un uomo pronto a colpire alle spalle una donna?»

«Non sei una donna… sei solo… feccia» ringhiò Fryc, rigirando il coltello nella ferita al fianco di Avya, che però non emise più alcun sibilo di dolore.

Sorpreso, Fryc affondò ulteriormente la lama, ma questa non procurò alcun danno evidente ad Avya che, a sua volta, scrutò l’arma spuntare dal suo ventre senza capire cosa stesse succedendo.

Fu in quel momento che un alone purpureo li avvolse e, a sorpresa, Frigga apparve al loro fianco, muovendo la mano di Fryc perché si allontanasse da Avya.

Sgomento, l’uomo crollò in ginocchio, ormai senza più forze, mentre la dea si volgeva per scrutare una sconvolta Avya.

Comprensiva e dolente, Frigga le sfiorò il ventre e mormorò: «Una vita per una vita. Odino ti ha concesso quella di tuo fratello, io ti restituisco la tua, poiché noi tutti abbiamo peccato d’orgoglio e stoltezza, non soltanto mio marito, e meritiamo di pagare un fio.»

«Divina Frigga…» esalò sorpresa Avya, guardandola con occhi sgranati.

Sorridendo mesta, la dea ritirò la mano e aggiunse: «Il pegno è pagato. Null’altro potrò fare per te, né verrà fatto in futuro per salvarti dalla loro follia. Perché tu sai che proseguirà, vero?»

Suo malgrado, Avya assentì e mormorò: «Ha avvelenato per anni le menti dei suoi familiari… non può che continuare.»

«Tu stessa hai avvelenato la mente dei familiari di Fryc, mostrando loro ciò che puoi fare, o che i tuoi figli possono fare con i loro soli corpi di uomini» le rinfacciò atona Frigga, ammirando dolente il campo di battaglia. «E’ ciò che succede quando la natura umana deflagra nella sua luce più perversa. Non fraintendermi… so che dovevi difendere le persone che ami, e che i tuoi nemici ti avrebbero comunque trovata e colpita. Ma, come ti disse Odino, sangue chiama sangue, e parte di esso macchierà sempre le tue mani. Sei pronta ad accettarlo?»

«Per difendere i miei figli? Sempre» assentì livida Avya.

La dea annuì al suo dire, sfiorandole la fronte con il pollice per benedirla. «Porta il corpo di tuo fratello nei luoghi in cui nacque, e parla con sua moglie. Se di faida dovrete morire, così sia, ma lasciate fuori da essa coloro che nulla hanno a che fare con la vostra disputa, o allora interverremo noi.»

Avya si dichiarò più che d’accordo e, mentre la dea svaniva dinanzi alla donna, il ricordo svaporò intorno alla figura in lacrime di Fenrir e a quella sconvolta di Brianna.

Prima che le loro due entità rientrassero nel corpo di Brianna, la giovane strinse in un abbraccio Fenrir e, con veemenza, mormorò: «Non ti sognare di sentirti in colpa, è chiaro?»

Fenrir non le rispose ma, prima che Brie potesse aggiungere altro, venne trasportata via lontano, svanendo dal mondo onirico creato da Odino e rientrando di prepotenza nella propria mente.

Il dio-lupo, a sua volta, riemerse con ferocia nel suo corpo fisico mentre Odino, una mano poggiata sulla spalla di Fenrir, lo sosteneva perché non crollasse a terra malamente.

Quando i suoi occhi di pece registrarono nuovamente l’interno della stalla dei McKalister e il volto preoccupato di Padre Tutto, Fenrir esalò tremulo: «Frigga… lei…»

Annuendo, Odino asserì: «Fu una sorpresa anche per me vederla comparire al fianco di Avya. Era preoccupata per le sorti della tua famiglia, ma non avevo idea che avrebbe agito in prima persona. Grazie ai suoi poteri illusori, salvò Avya, concedendole di vivere per poter veder crescere i suoi figli e, di seguito, i suoi molti nipoti. Vide la nuova razza generata dai tuoi pargoli prendere vita e, solo molti decenni dopo, nel suo letto, esalò l’ultimo respiro.»

«Ma la faida…» tentennò Fenrir, reclinando colpevole il viso.

«Sarebbe progredita in ogni caso. Se anche Avya fosse rimasta sulla difensiva, gli uomini di Fryc avrebbero messo a ferro e fuoco tutta Albion, pur di scovarla. Così, ha limitato le perdite, e fatto comprendere al clan di suo fratello l’importanza di non coinvolgere gli innocenti ma sì… anche Avya ha contribuito a rinfocolare l’odio. Nessuno è perfetto, ma non per questo le si possono dare delle colpe. Ti amava, e noi le togliemmo tutto, così lei fece l’unica cosa fattibile per limitare i danni. Attaccare i suoi nemici prima che questi ultimi uccidessero degli innocenti.»

Fenrir assentì più volte, prese un gran respiro e infine risollevò il viso, mormorando: «A ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. Ma sono orgoglioso di lei.»

«Devi» sottolineò Odino. «Riportò indietro Fryc come richiesto da Frigga e, quando raggiunse il villaggio dov’era nata, parlò con sua cognata, convenendo che le morti inutili non avrebbero giovato a nessuno, né per una causa né per l’altra. Fu così che i Cacciatori, come li avrebbero sempre visti i discendenti dei tuoi figli, vennero indottrinati. Solo sangue del tuo sangue avrebbe dovuto essere colpito. Gli innocenti avrebbero dovuto rimanere tali. Il segreto non avrebbe mai dovuto trapelare per non creare panico inutile e inutili morti, e a ciò si attennero nei secoli.»

Ghignando sardonico, Fenrir mormorò: «Divennero dei bastardi con un’etica morale, insomma.»

«Il sangue insozzava le mani di tutti, dopotutto, e credo che a nessuno piacesse danneggiare gratuitamente chi non aveva a che fare con loro. Dare un peso reale alle morti in battaglia, e cercarne il meno possibile, fu l’unica soluzione per non far divenire follia quella faida tra famiglie» si limitò a dire Odino, scrollando le spalle.

«Nessuna guerra è giusta o sbagliata a prescindere, eh?» chiosò Fenrir.

«Gli uomini di Fryc erano mossi dalla paura, più che da un reale odio verso Avya che, forse, neppure avevano mai conosciuto…» dichiarò laconico Odino. «… d’altra parte, i troll combattevano per onorare la tua memoria e appoggiare Avya, non perché avessero dei conti in sospeso con gli umani. Insomma, non è tutto bianco o nero, in nessun caso.»

Fenrir assentì, si passò una mano sul volto e disse: «Brianna, puoi tornare? Ho davvero bisogno di staccare la spina, per un po’, e credo che tu abbia voglia di uscire, ormai.»

Non ti sentirò piangere per colpe che non hai, vero?, precisò la giovane, cauta.

Sorridendo, Fenrir replicò: «Ognuno di noi ha delle colpe. Bisogna solo imparare a portarle senza farsi schiacciare da esse.»

Uhm, te la terrò buona, come risposta, mugugnò Brianna, concentrandosi per tornare se stessa.

Riemersa, la giovane prese un gran respiro, fissò Odino con occhi dubbiosi e domandò: «Si riprenderà?»

«Quel ragazzo ne ha passate tante… era giusto che sapesse quanta gente si fosse battuta per lui. Certo, questo ha comportato qualche errore qua e là, ma l’amore di Avya e dei suoi figli deve rimanere sopra a ogni cosa» motteggiò Odino prima di lasciar riemergere Magnus, che sospirò tremulo al suo rientro nel proprio corpo.

Brianna lo sostenne e, mentre all’esterno la tempesta andava calmandosi fino a spiovere, lei dichiarò: «Credo che entrambi dormiremo della grossa, stanotte. Che dici?»

Il ragazzino assentì stancamente e, assieme, rientrarono in casa, ben decisi a riprendersi da quel viaggio onirico nel passato.
 
***

Sdraiata nel letto assieme a Duncan, mentre Nathan riposava tranquillo nella sua culla, Brianna carezzò distrattamente il torace del marito, prima di mormorare pensierosa: «Credo che, se fosse successo qualcosa a te come è successo a Fenrir, io avrei scatenato una guerra esattamente come Avya.»

Duncan le sorrise, baciandole la fronte prima di asserire: «Hai ben visto cosa feci, quando ti rapirono.»

«Quindi, non siamo né buoni né cattivi, alla lunga» mugugnò Brianna.

«Difendiamo il nostro diritto alla vita ma, non potendolo fare con le leggi vigenti o tramite dei tribunali, dobbiamo agire con artigli e zanne. Un sistema non esente da difetti, certo, ma è l’unico che abbiamo» scrollò le spalle Duncan. «Sono venuto a patti anni addietro con questo difetto del sistema. Non ho altri modi per difendere te o le persone che devo proteggere, perciò userò tutta la mia forza e la mia intelligenza, per tenervi al sicuro… sperando che i Cacciatori, nel frattempo, si tengano a distanza da me il più possibile.»

«Non li dobbiamo odiare per forza, no?»

«Non credo si tratti di odio fine a se stesso» ammise Duncan. «Credo di aver odiato veramente solo Loki, in tutta la mia esistenza, oltre a Sebastian Sheperd e Hel. Persino per gli Anziani non ho provato odio, quanto piuttosto delusione e frustrazione. Ma i cacciatori? Non li odio in quanto tali, ma posso odiare il singolo individuo. Diana, per esempio, la odierò sempre, perché fece soffrire Lance, ma gli altri Cacciatori? Furono un danno collaterale perché sapevano di noi, ma non li odiavo come persone.»

Sorridendo, Duncan aggiunse: «Quando ti conobbi, ero in rotta con il mondo e pensavo di odiare tutti gli umani a prescindere, ma fu solo quando la verità mi venne rivelata, che compresi quanto futili fossero stati i miei sentimenti verso di loro. Quello non era odio, era incomprensione. L’odio è molto più forte di così.»

«Danno collaterale, dici… suona davvero male, come parola» brontolò Brianna, accigliandosi. «Comunque sì, l’odio è molto diverso da ciò che ti sentii nella voce durante quei primi giorni di fuga nei boschi. Eri arrabbiato, ma non odiavi davvero.»

Duncan le sorrise benevolo, asserendo: «Avere te e Kate ci ha salvati da molti danni collaterali, se ben ci pensi. Quanti Cacciatori abbiamo salvato da morte certa, grazie a voi due? Quante vite non sono state spezzate? A volte, si può cambiare in meglio, Brie, anche nei confronti di chi ci è nemico.»

Brianna assentì pensierosa e Avya, contrita, mormorò nella sua mente: Se avessi pensato di cancellare i ricordi nelle menti di Fryc e gli altri, avrei evitato la faida, ma forse non sarebbe bastato. Il suo cancro aveva colpito così tante persone, e in così tanti posti diversi, che neppure il mio potere sarebbe bastato per trovarli tutti.

“Non siamo perfetti, no? In ogni caso, tutti abbiamo fatto qualcosa di buono, e in qualche modo siamo riusciti ad arrivare fino a qui. Non è male come risultato, no?”, replicò Brianna, consolatoria.

Già, in qualche modo ci siamo arrivati e, sicuramente, candeggiare le memorie dei Cacciatori è preferibile all’ucciderli. Lo preferisco anch’io.

“Allora siamo in due”, assentì Brie, sbadigliando subito dopo. «Dio! Restare per tante ore fuori dal mio corpo mi ha sfiancato! E domani dovrò replicare!»

Ridendo sommessamente, Duncan dichiarò: «Stavolta sarò più preparato e non farò arrabbiare Madre. Io ed Elsa andremo in città a fare shopping, così non mi fregherete una seconda volta.»

Brianna annuì divertita e replicò: «Quasi quasi, pensavo ci avrebbe abbattuto la casa.»

«C’era Nathan, dentro. Non lo avrebbe mai fatto» le ricordò simpaticamente Duncan.

«Giusto» mormorò lei, prima di picchiettare alla porta onirica di Fenrir. “Ehi, va tutto bene lì dentro?”

Perché non dormi ancora, Brie?, si lagnò Fenrir.

“Voglio essere sicura che il mio coinquilino stia bene.”

Esasperato, Fenrir bofonchiò: Sto bene, davvero. Non c’è bisogno che tu ti preoccupi per me.

“Ti voglio bene, perciò lo farò sempre”, sottolineò con candore Brianna.

Fenrir allora rise, riscaldò l’animo di Brianna con la sua speciale aura divina e mormorò per contro: Ti voglio bene anch’io, ma stai tranquilla. Non sono sconvolto per ciò che ho visto, e ho compreso che quello che è successo era inevitabile. Il sasso che rotola dalla collina è nella natura delle cose… noi abbiamo evitato di prenderlo in testa, diciamo.

“Hai un modo contorto di vedere le cose, ma sì. Lo abbiamo soltanto preso su un piede”, chiosò Brianna, sbadigliando nuovamente. “E ora dormo davvero. La filosofia spicciola lasciamola per un’altra volta. Buonanotte, Fenrir.”

Buonanotte, Brianna.

L’attimo seguente, la giovane chiuse gli occhi, si rannicchiò su un fianco e Duncan, nello spegnere l’abat-jour baciò la moglie e chiuse a sua volta gli occhi per riposare.

Credi che staranno bene?, domandò Avya, un po’ preoccupata.

Duncan sorrise nell’oscurità, assentì e disse: “Abbiamo sposato delle persone forti e coraggiose. Sapranno accettare anche questo.”

Credevo davvero che fosse la cosa più giusta, agire in quel modo.

“Lo so, Avya e, come hai sentito, anche Brianna avrebbe fatto lo stesso. Io feci lo stesso, alle Svalbard, perciò nessuno di noi può giudicare ciò che tu facesti all’epoca. Ognuno di noi porta il peso delle proprie scelte ma, se le condividiamo, sono più semplici da sopportare.”

Avrei voluto non dovervi rifilare proprio un simile peso, sottolineò la donna.

“Sarebbe giunto a noi comunque. La paura e l’odio sono insiti nell’animo umano e non potranno mai essere debellati. Andranno gestiti di volta in volta, sperando sempre di farlo nel migliore dei modi. Si commetteranno errori, certo, ma chi di noi può dirsi infallibile? Come abbiamo visto, peccano anche gli dèi.”

Vero, annuì Avya. Grazie, Duncan. Sono felice di essere rinata dentro di te.

“E io di averti al mio fianco” replicò Duncan.

Avya sorrise tra sé, nel suo angolino all’interno della mente di Duncan e Odino, intervenendo a sorpresa, le domandò: Non sei arrabbiata con me, vero?

No, Occhiosolo. Hai fatto bene. I dubbi non fanno bene a nessuno, e lui doveva sapere, asserì tranquilla Avya.

Bene. Ho sempre il dubbio di essere come un elefante in una cristalleria, quando sono con tuo marito.

Avya rise di quella definizione ma prima ancora di rispondere all’asserzione di Odino, Duncan celiò: “Possiamo parlarne domattina?”

Sì, scusa, mormorarono contriti sia Avya che Odino.

A volte, avere così tanti inquilini per casa – e nella testa – non era la cosa più semplice da gestire.





N.d.A.: e qui si chiude il ciclo legato a Fenrir, Avya e Odino. Credo di aver chiarito più o meno tutti i punti in agenda. 
La natura umana è quella che è, ci piaccia o meno e, quando la paura e l'odio la fanno da padroni, è ben difficile non difendersi anche in maniera altrettanto violenta. E' il difetto del sistema "umanità" di cui facciamo parte, che è capace di enormi meraviglie, come di scioccanti orrori.
Per difendere coloro che amava, e gli innocenti finiti nel mirino di Fryc, Avya si è dovuta sporcare le mani e, come ha trovato dei sostenitori, ha portato anche altra gente ad aver paura di lei.
Un cane che si morde la coda fin dall'inizio dei tempi, a mio modo di vedere e che, almeno per il momento, non siamo riusciti a convincere a smettere.
Spero che la breve storia vi sia piaciuta. Alla prossima!

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Capitolo 55
*** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 1 - 2022 ***


Ama il tuo nemico

(Tyler Finney)
 
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
(Sun Tzu)
 
 
 
Luglio 2022 - Londra
 
 
L’avrebbero ammazzato. Fatto a fettine sottili. Ridotto in briciole e poi gettato nella Manica.

Oppure, ne avrebbero fatto uno spezzatino e se lo sarebbero mangiato per Natale.

«Tyler,… Tyler… dove hai la testa?»

La voce di una donna al suo fianco riscosse il giovane che, turbato, si riprese dal sogno – o incubo – a occhi aperti che aveva appena vissuto e, stringendosi a quel corpo ormai familiare e a lui caro, sospirò dicendo: «Non so come farti capire quanto stiamo rischiando. La mia Fenrir non accetterà mai ciò che siamo diventati e, con tutta probabilità, verremo divorati entrambi. Ma so anche che non possiamo protrarre oltre il nostro segreto. Prima o poi sentiranno il tuo odore su di me, e allora le domande fioccheranno.»

La giovane sorrise, gli baciò il mento e, nel risollevarsi da letto, nuda e bellissima sotto il suo sguardo preoccupato, asserì per contro: «Credo di sapere più di qualsiasi altra persona, licantropo escluso, a cosa vado incontro e, se vogliamo essere fiscali, io sto rischiando due volte

«Credimi, sei ben lontana dal sapere tutto e, soprattutto, a cosa vai incontro…» mormorò turbato Tyler, stringendo le mani sulle lenzuola sgualcite. «… e proprio per questo, ho una fifa del diavolo.»

Lei ammiccò con aria di sfida, scese dal letto per afferrare la sua vestaglia da notte e, dopo aver aperto il mobile a due ante nella sua stanza, ne scrutò l’interno.

Ciò che vedeva l’aveva accompagnata durante tutta l’infanzia e l’adolescenza. Era cresciuta con precetti difficili da seguire, o a cui credere fino in fondo e, per lungo tempo, aveva pensato di essere dalla parte della giustizia.

Quando, però, un licantropo aveva messo in gioco la sua sicurezza, il suo segreto pur di salvarla da un incidente mortale, aveva dovuto ricredersi su molte cose.

Soprattutto perché, di quel licantropo, si era nel frattempo innamorata. Prima di conoscerne la vera identità, si era innamorata dell’uomo e, quando aveva conosciuto il licantropo dentro di lui, non aveva potuto che confermare ciò che aveva sentito nel cuore.

Afferrato un pugnale d’argento, lo saggiò con abilità sulla mano, ne scrutò il livido bagliore alla luce di cortesia presente nell’armadio e, nel volgersi a mezzo, disse: «Io, Elizabeth Marshall, Sentinella Cacciatrice, ti amo, Tyler Finney, managármr del branco di Falmouth, Cornovaglia. Metterò in gioco tutta me stessa e la mia vita, se necessario, ma ti avrò, e farò comprendere ai tuoi compagni che, anche un nemico come me, può amarvi.»

Ciò detto, si incise il palmo con il pugnale e raggiunse il letto dove, ancora, Tyler non si era mosso. Lì, allungò la mano a palmo sollevato e il giovane, nel chiedere per sé il pugnale, la imitò, sapendo bene che quella cicatrice sarebbe rimasta indelebile, a memoria di quel giorno.

Palmo contro palmo, il loro sangue si fuse – essendo in forma umana, Tyler non avrebbe rischiato di mutarla per errore – ed Elizabeth, nell’osservare le loro mani giunte, mormorò: «Non vedo altro modo se non parlare, a questo punto. Ti voglio nella mia vita ma, per farlo, dovrò far entrare tutti loro, oltre a te.»

Tyler assentì suo malgrado, ma non riuscì a esprimere a parole quanto, l’incontro prefissato per il giorno seguente con Fenrir di Londra, lo mettesse in ansia.

Quando aveva capito di non poter tornare indietro, di volere solo lei nella sua vita, non aveva potuto che avvicinarla sempre più, desiderandola, bramandola.

La realtà dei fatti, però, lo aveva preso a pugni in faccia nel modo peggiore possibili, ma lui ancora se n’era infischiato. Aveva creduto nella donna, non nel suo ruolo.

Quando l’ubriaco armato di bottiglia rotta aveva aggredito alle spalle Elizabeth, era intervenuto per salvare la donna che aveva imparato ad amare, pur sapendo di stare salvando, con tutta probabilità, un Cacciatore.

Rendersi conto della presenza di un’arma in argento nella sacca dei libri di Beth, era stato un colpo al cuore non da poco, per lui.

Sua compagna all’università fin dal primo giorno, Tyler si era abituato a lei poco alla volta, ne aveva apprezzato i commenti arguti e le argomentazioni scaltre e sottili.

Spesso e volentieri, si era ritrovato a rincorrerla per ottenere voti pari, o almeno vicini, ai suoi, pur di non rimanere indietro e, alla fine, le aveva chiesto di studiare assieme, pur di avere una scusa di stare ancor più tempo con lei.

Con sua somma gioia, Beth aveva accettato e, nel corso degli anni, il loro rapporto si era trasformato da semplice competitività negli studi ad amicizia e, da amicizia, ad amore.

Questo, gli aveva permesso di avvicinarsi maggiormente alla sfera privata di Elizabeth e, così facendo, anche ai suoi oggetti più personali. Una semplice richiesta – il recuperare la sua borsa dalla biblioteca – era bastata a Tyler per accorgersi di un odore sgradevole quanto pericoloso, che subito lo aveva messo in allarme.

Odiando se stesso, aveva frugato non visto nella borsa di Beth e, quando i suoi occhi erano caduti sul pugnale in argento e sulle fiale di ioduro d’argento, il suo cuore si era spezzato in due.

Ugualmente, aveva taciuto, troppo coinvolto dal suo stesso cuore spezzato, per poterla condannare a morte. Aveva taciuto, aveva protratto all’infinito il suo silenzio, fino a quella fatidica notte.

Si era smascherato con un’umana, aveva agito d’impulso pur sapendo che Beth avrebbe potuto difendersi da sola – essendo stata addestrata a farlo – e, così facendo, aveva messo il suo segreto nelle mani di una Cacciatrice.

Era rimasto silente di fronte a lei, pronto a ricevere il cosiddetto colpo di grazia, ma ciò non era avvenuto.

Beth si era limitata a denunciare l’aggressione alla polizia, plaudendo l’intervento di Tyler ma, a parte ciò, non aveva detto altro. L’aveva afferrato a una mano una volta terminate le pratiche con la polizia e, in silenzio, lo aveva condotto con sé fino a casa propria.

Una volta raggiunta la zona di Kilburn, su Smyrna Road, a soltanto un paio di miglia da Camden Town e dalla casa di Fenrir di Londra, lei aveva aperto il suo armadio e gli aveva detto ogni cosa.

A sua volta, Elizabeth aveva deciso di smascherarsi, di mettersi a nudo come lui aveva fatto con lei, senza più veli a nasconderla, e aveva atteso a sua volta il colpo di grazia.

Tyler, però, non l’aveva uccisa, non aveva preteso i nomi degli altri Cacciatori come lei, si era limitato a baciarla e Beth aveva risposto con passione, piangendo per tutto il tempo.

Erano rimasti per ore, al buio, seduti ai due lati opposti della stanza, a misurarsi a colpi di storie su loro stessi finché Beth, stremata, si era sdraiata su un fianco e aveva ammesso di non aver mai capito nulla, di loro.

Ugualmente, Tyler aveva dovuto ammettere la sua ignoranza in fatto di Cacciatori e, insieme, si erano assopiti sul pavimento, stremati da ciò che li aveva colpiti con la forza di un tornado.

Ora, avrebbero dovuto affrontarne un altro, ben più forte e devastante, e non era del tutto certo che sarebbero sopravvissuti.
 
***

L’appartamento di Fenrir, in Camden Town, si trovava all’ultimo piano di una palazzina a mattoni rossi su Camden Street.

Dopo aver oltrepassato un’ampia porta a vetri e salutato il portiere dello stabile – che ormai conosceva Tyler da tempo – salirono la scala a doppia rampa che fiancheggiava l’ascensore.

Per quanto fosse inutile procrastinare l’incontro, entrambi loro preferirono camminare fino a raggiungere la loro meta. Non che quegli ultimi attimi potessero portare a qualche pensiero illuminante, ma nessuno dei due volle prendere l’ascensore, per raggiungere l’appartamento di Fenrir.

Non appena ebbero raggiunto l’attico e uscirono dalla tromba delle scale, trovarono ad accoglierli sulla porta d’entrata la figura burbera e oscura di Keath. Evidentemente Michael, l’Hati del branco, doveva essere di turno a pattugliare le strade di Londra, così Joshua aveva chiesto a Keath – che invece lavorava di notte – di essere presente a quell’incontro.

Tyler aveva richiesto espressamente che fosse ritenuto ufficiale, obbligando di fatto Joshua a seguire un certo genere di iter burocratico, prima di farlo entrare in casa. Si era gentilmente astenuto dal fare commenti e, nell’acconsentire alla sua richiesta, lo aveva pregato di giungere da lui prima delle otto del mattino.

Trovarsi di fronte Keath, pur sapendo che avrebbe dovuto passare attraverso il vaglio di almeno un alfa, prima di vedere Joshua, mise un po’ in ansia Tyler e, quando Freki annusò l’aria e si rese conto della natura umana di Elizabeth, digrignò un po’ i denti e borbottò: «Ti sei cacciato nei guai, cucciolo?»

Tyler si limitò a un nervoso sorriso di circostanza che, però, non convinse per nulla Keath il quale, comunque, spallucciò e, aperta la porta dell’appartamento, dichiarò: «Joshua e Gretch vi aspettano dentro. Coraggio, entrate.»

Dopotutto, Keath stesso si era innamorato di un’umana e l’aveva poi sposata, per cui non poteva accusare Tyler di aver fatto il passo più lungo della gamba. Non in termini di razza, per lo meno.

Quando avesse saputo il resto… beh, quello era tutt’altro argomento.

Non appena la porta dell’appartamento si chiuse dietro di loro, Elizabeth si ritrovò a osservare un bellissimo loft dalle linee aggraziate ed eleganti.

Sapeva benissimo che i licantropi non vivevano nelle tane come i lupi naturali, né che erano creature dedite alla vita selvaggia e sfrenata, ma le vecchie abitudini erano dure a morire. Gli insegnamenti che le erano stati impartiti fin da piccola, l’avevano sempre portata a pensare a loro come a esseri che fingevano soltanto di essere umani.  

Quel luogo, invece, non trasmetteva affatto la loro aura animale, né poteva essere visto come una tana o un luogo in cui avvenivano eventi inenarrabili.

In quel luogo arioso e ben arredato, vide unicamente buon gusto, assaporò il fresco profumo di limone con cui, quasi sicuramente, erano stati puliti i pavimenti e si beò della splendida vista su quell’angolo di Londra. No, quel posto apparteneva a una persona qualsiasi, non a un mostro millenario dalle zanne pronte a essere snudate. I mostri erano altra cosa, ormai lo sapeva.

Gretchen apparve dalla cucina con un vassoio in acciaio, su cui erano stati poggiati una curcuma di tè, delle splendide porcellane italiane e un piattino ricolmo di dolcetti.

Joshua, invece, si levò dal divano, avanzò verso Tyler per stringergli la mano e, atono, disse: «Benvenuti a entrambi, ragazzi. Come posso esservi utile?»

Prima ancora che Tyler potesse parlare, Elizabeth aprì lo zainetto, ne estrasse una scatoletta oblunga e, sotto gli occhi sconvolti del fidanzato, allungò il contenitore a Joshua e dichiarò: «Questo dovreste tenerlo voi, come segno della mia buona volontà.»

Fenrir di Londra fissò confuso la scatola e, cauto, allungò la mano per afferrarla ma Keath, ligio al suo dovere, intercettò la sua mano, ci schiaffeggiò sopra e borbottò: «Dio! Peggio dei bambini piccoli… e dire che dovresti saperlo che, per queste cose, ci penso io.»

Joshua lo fissò male per alcuni, interminabili attimi ma, alla fine, lo lasciò fare e Keath, presa per sé la scatoletta, fissò accigliato la giovane umana e dichiarò: «Se non mi piacerà il contenuto, avremo di che discutere, signorina.»

«Siamo qui anche per questo» asserì Tyler, deglutendo a fatica.

Keath divenne ancor più ombroso in volto, a quelle parole e, quando sollevò il coperchio della scatola, si esibì in un sibilo rabbioso prima di gettare a terra il contenitore e ciò che vi era custodito all’interno.

Lo stiletto argentato ivi contenuto rimbalzò sul pavimento, producendo un cupo tintinnio e Tyler, ponendosi dinanzi a Elizabeth proprio mentre Keath si avventava su di lei, esclamò perentorio: «Aspetta, Freki! Lasciaci parlare!»

Keath non lo ascoltò minimamente, lo prese per il colletto della camicia e ringhiò contro il suo volto: «Hai portato l’arma di un Cacciatore qua dentro, cucciolo infido, e vuoi davvero che io ti lasci parlare?!»

«Sei sempre il solito rompipalle, Keath…» sibilò Tyler, dandogli un pugno contro il torace nel tentativo di allontanarlo da sé. «…pensi davvero che avrei chiesto un’udienza ufficiale, se non vi fosse stato un motivo ben più che valido per parlare con Joshua?!»

Keath lo spintonò via, replicando furente: «Non me ne frega un cazzo delle tue motivazioni! Sei solo…»

Joshua gli sfiorò il braccio con la mano, bloccando sul nascere la sua arringa e, nel fissare imperscrutabile Tyler, Fenrir di Londra dichiarò: «Hai un minuto per dirmi cosa vuoi, poi lascerò andare Freki. Dimmi dunque; perché sei qui?»

«Io e lei ci amiamo e, visto che sei stato tu a mutarmi in lupo, devo a te per primo delle spiegazioni» disse immediatamente Tyler, lanciando un’occhiata preoccupata a Elizabeth prima di tornare con lo sguardo ai due licantropi. «Sai già che è umana, ma non è questo il problema. Lei sapeva di me da prima che questa cosa nascesse tra di noi. Per questo è qui. Per questo siamo qui

«Una Cacciatrice, dunque. Allora l’arma è davvero sua» chiosò atono Joshua, sempre trattenendo Freki a un braccio.

Gretchen, muta, osservava l’intera scena a occhi sgranati, la sorpresa sempre più evidente sul suo volto mentre le mani ancora trattenevano il vassoio.

Tyler assentì cauto ed Elizabeth, avanzando fino a trovarsi al fianco del fidanzato, dichiarò con coraggio: «Sono stata cresciuta come Cacciatrice, e il mio ruolo è sempre stato quello della Sentinella. Il mio compito è quello… era quello di trovare i punti deboli nel vostro mascheramento, così da fornire potenziali informazioni ai Trovatori.»

Keath ringhiò a quelle parole, ma ancora Joshua lo trattenne e, con voce suadente, mormorò: «Buono, mio Freki. Siediti e non lasciare che la tua ira prevalga.»

Come mosso da fili invisibili, il corpo mastodontico di Keath si lasciò andare alla Voce del Comando di Joshua e, con mosse meccaniche, si sedette sulla poltrona più vicina, mentre Tyler e Gretchen tremavano per tutta risposta.

Beth se ne accorse subito e, rivolta a Joshua, mormorò: «Non si è seduto per pura cortesia, vero?»

«No» rispose laconico Fenrir. «Hai parlato al passato. Vuoi forse dirmi che non predi più la nostra razza?»

«Io personalmente non ho mai… predato nessuno. Dovevo solo dire ai miei superiori chi, secondo me, poteva essere un potenziale licantropo» spiegò loro Elizabeth, mordendosi nervosamente il labbro inferiore.

Avere dinanzi quell’uomo albino dallo sguardo color rosso sangue, le metteva quasi più ansia dell’enorme licantropo assiso nervosamente sulla poltrona. Era chiaro come il sole chi comandasse, anche se non le era ancora chiaro come quell’uomo avesse imposto sul sottoposto la sua autorità.

Levando un sopracciglio con evidente interesse, Joshua allora le domandò: «Non ci cacciavi, ma ci osservavi. Come intuivi chi potesse essere un potenziale lupo?»

«Con i maschi è più semplice, o almeno in parte. I sangue puro – come li chiamiamo noi – sono più grossi rispetto alla media, e hanno un modo di camminare che farebbe invidia a molti modelli di Versace» cominciò col dire Elizabeth, lanciando uno sguardo a Keath e Joshua con fare molto eloquente. «Avete dei tic peculiari, come il fatto di guardarvi spesso intorno. Siete sempre guardinghi ma, al tempo stesso, dimostrate molta… arroganza. Non so che altro termine usare, per descrivervi.»

«C’è altro?» volle sapere Joshua, ancora atono.

«I peli delle braccia» disse lei, sorprendendo i presenti e portando i licantropi a controllarsi gli avambracci scoperti per riflesso. «Lo state facendo anche adesso, pur se sembrate impassibile e pronto a tutto. Si sollevano come farebbero quelli di un animale predato e pronto a combattere e, normalmente, ciò succede solo quando un umano ha la pelle d’oca. Ma non c’è motivo per averla adesso, o mi sbaglio?»

A quel punto, Joshua si lasciò andare a un sospiro e a una risata incredula, esalando: «Giuro che, i peli delle braccia, non li avevo mai notati. E tu, Keath?»

«Ti pare che mi guardi le braccia, quando mi arrabbio?» brontolò Freki, fissando ancora malamente la giovane. «Quindi, tu passi il tempo a fissare la gente?»

«Passavo» sottolineò Elizabeth, afferrando la mano di Tyler per darsi forza. «Tyler mi salvò la vita quando io già sapevo che lui era un lupo, e lui già sapeva di me. Mi dimostrò che ciò che mi avevano insegnato non rispondeva alla realtà e, anche quando ammisi la mia verità di fronte a lui, non mi uccise. Così, chiesi di sapere ogni cosa

Ciò detto, lasciò la parola a Tyler che, con determinazione, aggiunse: «Facendo entrambi la stessa università, ci siamo conosciuti tra i banchi delle aule, prima che su opposti schieramenti. Forse, questo salvò la vita a entrambi perché, pur sapendo chi eravamo, né lei né io trovammo la forza di dire la verità ai nostri superiori. Con voi, abbiamo deciso di farlo ora.»

Nel dirlo, le sorrise e lei, annuendo, ammise: «Mi sentii male, quando mi resi conto che il giovane di cui mi ero innamorata era, in realtà, la creatura che più di tutte avrei dovuto odiare così, pur amandolo, cominciai a studiarne il comportamento, a seguirlo, ma non venne fuori nulla. Era come qualsiasi altra persona. Fu per questo che mi distrassi. Ero troppo impegnata a seguire lui, a pensare a lui, e caddi in fallo.»

«Un ubriaco cercò di aggredirla con una bottiglia rotta, la ferì a un braccio e, durante la colluttazione, Beth rischiò di finire in mezzo alla strada e, per diretta conseguenza, investita da un’auto» spiegò per lei Tyler. «Sentii le sue urla nella notte, ma non mi chiesi minimamente perché fosse così lontana da casa, o così vicina a me. Mi mossi d’istinto perché non volevo che le succedesse qualcosa.»

Keath sbuffò irritato, borbottando un ‘figurati se non succedeva’ prima di ricevere un’occhiata sardonica da parte di Fenrir.

«Parlammo tutta la notte di chi eravamo, di cosa ci aveva spinto ad agire, o non agire…» intervenne nuovamente Beth. «…ma, alla fine, venne fuori soltanto una cosa; ci amavamo, e questo costituiva un bel problema.»

Joshua si lasciò andare a un secondo, pesante sospiro, invitò i due giovani ad accomodarsi e, nel recuperare lo stiletto da terra – tenendolo attentamente per il manico foderato di pelle – lo scrutò con attenzione.

Nel sedersi sul divano, dove venne raggiunto da Gretchen, Joshua sciolse il blocco a Freki e domandò: «Puoi analizzare l’arma, amico mio?»

Keath assentì, stando ben attento a non toccare l’argento e Beth, immediatamente, disse: «Fai attenzione al pomolo. Se lo schiacci, esce del nitrato d’argento che confluisce sulla lama.»

«Merda!» sibilò Keath, afferrando una delle tazze di porcellana per poi posizionare lo stiletto a perpendicolo su di essa.

Pigiando il pomolo, si udì un clic piuttosto evidente, a cui seguì la fuoriuscita di un liquido trasparente e inodore attraverso un piccolo foro nell’elsa.

Quella visione portò istantaneamente i licantropi presenti a rabbrividire di rabbia e paura ed Elizabeth, suo malgrado, si sentì in colpa. Pur non avendo congegnato lei quell’arma, né l’avesse mai usata, il solo fatto di averla posseduta per lungo tempo la faceva sentire sporca.

Osservando contrita le gocce di liquido mentre cadevano all’interno della tazzina, Beth mormorò sommessamente: «Sappiamo che le ferite da argento vi causano danni ma che, se il composto è liquido, vi penetra nel sangue, causando la morte. Per questo, anche le armi da taglio sono state dotate di questo particolare congegno. Sono nuove, e non credo le abbiano tutti i clan, ma… beh, era giusto che sapeste.»

«I proiettili vi sono venuti a noia?» ironizzò caustico Keath.

«Si perdono facilmente i bossoli» replicò pratica Beth, scrollando una spalla.

«Ma le lame prevedono il corpo a corpo. Molto più pericoloso, per voi» sottolineò Joshua.

Quel voi ferì un poco Beth, ma cercò di non farvi caso. Dopotutto, la stavano ascoltando, non l’avevano ancora uccisa, né avevano tacciato Tyler di essere un traditore, quindi poteva già essere soddisfatta.

Ugualmente, mandò giù a fatica il boccone amaro ma si decise a rispondere.

«Mi raccontarono che, a seguito di una morte che fece assai scalpore, su al nord, le armi da fuoco vennero progressivamente bandite per tornare alle armi da taglio e ad altri generi di armi non immediatamente letali» spiegò loro Elizabeth e, subito, i licantropi più anziani assentirono.

«Devono aver saputo di Leon» dichiarò Gretchen, sorprendendo un poco i due giovani. «Fu un autentico caso mediatico, a Glasgow, perché il ragazzo venne ucciso in pieno giorno, con un colpo di fucile che gli squarciò la testa.»

«Era… era un lupo?» domandò cauta Beth.

«Un umano» sottolineò Joshua, grattandosi una guancia con aria irritata. «Salvò una persona a noi molto cara e, da quel momento, viene ricordato come un eroe della specie. Se non ricordo male, la faccenda dei proiettili d’argento scatenò un sacco di illazioni ma, fortunatamente, venne tutto messo a tacere molto presto, specialmente quando venne trovato morto il colpevole.»

Elizabeth assentì muta, non sapendo quasi nulla di quella storia, ma Joshua ci tenne a dire: «Non lo uccidemmo noi e, prima che ti dica altro, sappi che ci sono molte cose di cui non siete a conoscenza, così tante che potrebbero mandarvi al manicomio, e che sarà meglio rimangano un segreto ancora per molto tempo.»

«Joshua, ti prego… si è spinta a venire qui con me perché sa di avere seguito la via sbagliata fino a questo momento!» intervenne a quel punto Tyler, stringendo con forza la mano di Beth. «Non c’è bisogno di farla sentire colpevole anche di cose che non ha commesso.»

«Tyler, ti prego…» mormorò per contro Elizabeth, scuotendo il capo.

«No, Beth, non starò zitto mentre loro…» sbottò Tyler, ben deciso a difenderla.

Joshua lo interruppe con il cenno di una mano e il giovane, suo malgrado, accettò l’implicito rimprovero. Non ci si rivolgeva a un Fenrir con quel tono indignato. Mai.

«So benissimo che non è stata la tua donna a premere il grilletto, Tyler. Non si trattava neppure di un Cacciatore» dichiarò Joshua, sorprendendoli ulteriormente. «Per voler essere del tutto fiscali, fu un tentato omicidio di stampo interno. Fu un lupo, a sparare, e solo per rabbia e vendetta, ma scatenò un autentico putiferio tra i licantropi e, a quanto pare, anche tra i Cacciatori, confermando così ciò che sappiamo su di loro, e cioè che non desiderano assolutamente che la gente sappia di noi.»

Beth annuì, asserendo: «Ci insegnano fin da piccoli che la segretezza è importante, così da proteggere coloro che non sanno anche da loro stessi e dalle loro paure. Nessuno vuole che torni a succedere ciò che avvenne con la Santa Inquisizione.»

«Ma vi sta bene uccidere chi è diverso da voi per il semplice fatto che mettiamo su pelo» ringhiò Keath, facendola irrigidire.

«Non… mi sta bene. Mi è stato insegnato» replicò piccata Elizabeth. «L’odio che viene instillato in noi fin dalla più tenera età è così forte, così profondo e radicato che, solo a stento, sono riuscita a vedere oltre ciò che mi era stato inculcato e capire che, nonostante tutto, potevo amare Tyler anche se era un licantropo!»

Keath sbuffò contrariato ma Gretchen, più cordiale, lanciò un’occhiata di ammonimento a Freki perché non esagerasse. Di seguito, disse con tono pacificatore: «Un nostro comune amico venne ferito in modo assai grave da una donna Cacciatrice. Lui la amava profondamente, e non aveva mai neppure immaginato che un Cacciatore si sarebbe spinto a entrare nel letto di un licantropo, pur di portare a termine la sua missione. Ne rimase devastato per anni. Capisci perché siamo prevenuti verso di te in particolare

Sinceramente sorpresa, Beth annuì grave.

«Non… non sapevo che qualcuno avesse osato tanto. Sì, capisco perché possiate vedervi delle attinenze strette. Io sono una Cacciatrice, e Tyler un licantropo. Per quanto io possa dirvi che non mento, non mi crederete mai, visti i precedenti.»

Tyler, allora, fissò supplichevole Joshua e domandò: «Non potete chiamare lady Fenrir? La sua parola è legge, perciò…»

«Vorresti davvero scomodare lei per le tue insaziabili voglie?!» gli sibilò contro Keath, facendolo rattrappire per il timore.

Beth li fissò confusa, non comprendendo appieno quella discussione ma Joshua interruppe qualsiasi loro ulteriore intervento, dicendo: «C’è un altro sistema e, sicuramente, è più adatto allo scopo visto che, prima o poi, Cecily dovrà essere messa al corrente di questa grana.»

Tyler impallidì visibilmente a quelle parole e Beth, dubbiosa, domandò: «Si tratta della sua capobranco, vero?»

«Esatto. Ma non è lei che ti esaminerà, bensì suo marito» dichiarò nebuloso Joshua, afferrando il suo cellulare. Quando Cecily avesse conosciuto la verità, sarebbe sicuramente esplosa.

La maternità non l’aveva resa più malleabile e, visto che lui si era preso l’impegno di trasformare Tyler, lei lo avrebbe additato sicuramente di essere un imbecille, per non essersi preso cura del suo cucciolo.

Una vera scocciatura, da qualsiasi punto la si volesse guardare.

Al terzo squillo, la voce allegra di Cecily Fairchild Darcy rispose all’altro capo e Joshua, con un gran sospiro, disse: «Senti, Ceel, abbiamo un problema. Tu e William dovreste venire qui quanto prima, perché Tyler si è messo in un pasticcio che io, personalmente, non posso risolvere, ma che il tuo uomo può di certo dipanare.»

Uno, due, tre secondi e…

«CHE DIAVOLO HAI FATTO AL MIO CUCCIOLO?! TI HO PERMESSO DI MUTARLO AL POSTO MIO SOLO PER UNA QUESTIONE DI PRATICITA’, MA TI AVEVO ORDINATO DI PROTEGGERLO!»

Joshua allontanò il telefono dall’orecchio in un millisecondo, fissando poi arcigno lo smartphone, come se temesse di veder uscire Cecily da un momento all’altro attraverso l’apparecchio.

Le ingiurie andarono avanti per un minuto buono. Chiaramente sconvolta dalla sequela di insulti che il cellulare, letteralmente, vomitò fuori, Beth cominciò a chiedersi se avesse fatto la cosa giusta, presentandosi al capoclan di Londra.

Tyler, per contro, sospirò esasperato e, sorridendo con calore, mormorò: «Ahhh, la mia Fenrir… è sempre così dolce, con me.»

Joshua lo fissò disgustato, esalando per contro: «E’ spiritata, ecco cosa. Parlaci tu, visto che vi volete così bene!»

Fenrir di Londra gli consegnò il cellulare come se fosse stata una bomba a tempo ma Tyler, per nulla preoccupato, interruppe il fiume rabbioso di Cecily e, dopo aver messo il vivavoce, esclamò: «Ehi, Fenrir! Sono qui! Sto bene!»

Uno, due, tre secondi e…

«Tyler, sei sicuro di stare bene? Se ti hanno fatto anche solo un graffio, scatenerò l’inferno in Terra e ridurrò in briciole tutta Londra» ringhiò protettiva Cecily, ma con tono decisamente più pacato.

Sorridendo soddisfatto a Joshua, che lo fissò sempre più accigliato quanto irritato, si limitò a dire: «Non mi è successo nulla di fisico al sottoscritto, prof, ma ho bisogno del suo aiuto perché, in effetti, sono in una posizione un po’ scomoda, al momento.»

«A meno che Keath non stia facendo qualcosa con te…» cominciò col dire Cecily, facendo arrossire Gretchen e Beth, e sospirare disgustato Joshua. «… dubito che la tua frase possa essere interpretata come letterale, vero?»

Tossicchiando imbarazzato, Tyler negò e replicò: «E’ una questione di cuore, prof.»

Silenzio di tomba.

Cecily non emise fiato per circa trenta secondi ma, quando la sua voce tornò a udirsi attraverso il microfono del cellulare, non stava più parlando con Tyler.

«Will, preparati, si parte per Londra. Tyler si è incasinato sicuramente con un’umana, e quel mollaccione di Joshua non vuole risolverla da solo. Ci vuole il tuo tocco.»

Tyler fissò spiacente Joshua mentre quest’ultimo, chiaramente infastidito dalle parole della donna, tentava in ogni modo di evitare di ingiuriarla a male parole.

Si udirono altre voci – forse Cecily non era sola, in casa, a parte la presenza della sua famiglia – finché, senza alcun saluto, la chiamata venne chiusa.

«La solita bulla» brontolò Joshua, riprendendosi il cellulare. «Prima o poi le morderò quel culetto sodo e le lascerò un segno indelebile.»

Grechen sorrise divertita e replicò: «Se mai riuscirai a prenderla, caro…»

«Non ricordarmi quanto è veloce quella strega…» sbuffò Joshua, levandosi dal divano per poi fissare malamente Tyler e aggiungere: «Questa me la pagherai cara, Ty. Cecily ce l’avrà a morte con me per un decennio almeno, dopo questo casino, e sai benissimo quanto può rompere le palle, quando ci si mette!»

«Chiedo umile perdono, Fenrir» sospirò il giovane, reclinando penitente il capo.

Elizabeth lo imitò in fretta, ma fu lo sguardo del lupo chiamato Keath, a incuriosirla. La stava studiando con un’attenzione davvero inquietante e, contrariamente agli altri due lupi adulti – che sembravano tutto sommato tranquilli – lui era teso come una corda di violino.

Chi rappresentava, per il capobranco, questo lupo così scontroso e dall’aria pericolosa?






N.d.A.: Spero vi ricordiate di Tyler ma, nel caso, vi consiglio una rilettura dello Spin-Off sulle avventure di Cecily, dove Tyler Finney appare come personaggio comprimario.
Visto che vi ho sempre parlato dei Cacciatori ma, a parte rare eccezioni, li abbiamo visti all'opera o sono stati reale parte in causa nelle mie storie, ho pensato di rendere le cose un po' difficili ai miei lupi e metterli di fronte a un'eventualità più unica che rara... una delazione per amore.
Saprà, però, Elizabeth, dimostrare tutto il suo amore per Tyler, o neppure William basterà, per dare il benestare?
Alla prossima, per sapere come andrà a finire questa sorta di terzo grado lupesco! 









 

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Capitolo 56
*** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 2 - 2022 ***


 
2.
 
 
 
 
Per una questione di sicurezza, né a Tyler né a Beth fu permesso di uscire dall’appartamento di Joshua perciò, per quel giorno, nessuno dei due tornò a casa.

Non che Tyler non si fosse aspettato quella decisione preventiva. Quale persona sana di mente avrebbe lasciato scappare una potenziale spia, dopo ciò che era stato detto entro quelle pareti?

Beth era a conoscenza dell’ubicazione della casa del capoclan del branco di Londra, ne conosceva il volto e sapeva che egli aveva una compagna. Era davvero in possesso di troppe informazioni, per poter essere lasciata libera di muoversi a suo piacimento.

Non senza che venissero chiarite una volta per tutte le sue effettive intenzioni, per lo meno.
Lui stesso poteva essere visto come un traditore e, in tutta onestà, non se la sentiva di dare delle colpe a nessuno dei suoi amici, a causa delle contromisure che avevano preso per tenerli d’occhio.

Ciò che però lo rendeva ansioso, ma che avrebbe dovuto attendere il ritorno di Beth perché questa condizione scemasse, era il tono della chiacchierata che stavano tenendo la sua donna e Keath.

Subito dopo la partenza di Joshua per il lavoro, Elizabeth aveva chiesto un colloquio privato con Keath, e il licantropo non ci aveva pensato sopra due volte ad accettare.

Senza dare spiegazioni a Tyler, aveva ordinato a Beth di seguirla sul tetto, dove Joshua e Gretch avevano sistemato un paio di sdraio e due ombrelloni per le giornate estive.

La giovane lo aveva seguito senza fiatare, e a Tyler non era rimasto altro che attendere paziente nel salotto del loft, in compagnia di Gretchen.

Ben sapendo che Keath non avrebbe mai disobbedito agli ordini di Joshua – che aveva garantito a Tyler la sicurezza di Elizabeth fino al suo ritorno – il giovane aveva preso per buono anche quella scelta.

Dopo più di un’ora, non vedendoli ancora tornare, Tyler non si sentiva però più così tranquillo all’idea di sapere la donna che amava in compagnia del lupo più pericoloso di tutta Londra.

Sospirando per la millesima volta, si passò le mani sul viso, scrutò Gretchen impegnata a lavorare al computer portatile – essendo insegnante, per qualche mese ancora sarebbe stata tranquilla – e si chiese cosa sarebbe successo, una volta giunta Cecily.

L’avrebbe sicuramente delusa e, quasi certamente, tutta la fiducia che lei aveva sempre riposto nella sua persona, sarebbe scemata nel nulla.

Eppure, Tyler non poteva negare al suo cuore di amare Elizabeth. Sapeva che nessun’altra donna sarebbe stata ugualmente importante, per lui, neppure la sua Fenrir.

La sua bellezza delicata non risaltava, in mezzo alle bionde mozzafiato che giravano per i corridoi dell’ateneo, eppure lui ne era rimasto subito colpito.

La sua chioma corvina, lunga e ondulata, circondava un viso delicato, dalla pelle chiara e gli intensi occhi blu. Occhi talmente profondi da sembrare neri, a un primo sguardo, ma che davano il meglio di sé sotto la luce del sole, quando ricordavano l’immensità dell’oceano più profondo.

Erano occhi attenti – per più di un motivo, aveva poi scoperto in seguito – e a lui erano piaciuti subito, prima di qualsiasi altra cosa.

Lunghe ciglia scure li accarezzavano a ogni sguardo, e a lui avevano ricordato subito quelli degli anime giapponesi, che tanto apprezzava.

Si era sentito ridicolo ogni volta, al solo pensarlo, ma la sensazione era rimasta. Gli occhi di Elizabeth gli ricordavano quelli stupendi delle eroine degli anime, e lui ne era rimasto stregato suo malgrado.

La sua intelligenza, invece, lo aveva intimidito, dapprima, e conquistato, in seguito. Con lei aveva seguito molti corsi e, in alcuni casi, si era anche fatto aiutare a rimanere in pari e, grazie a questa vicinanza ‘d’interesse’, avevano potuto approfondire la loro amicizia.

Da lì a innamorarsene, era occorso molto poco. Quale uomo sano di mente non avrebbe apprezzato di camminare al fianco di una donna così capace, così bella e così brava nel fare i muffin al cioccolato?

Sorridendo nonostante tutto, ripensò alla volta in cui, trovatisi in biblioteca, lei lo aveva raggiunto con una scatola di muffin da lei preparati.

Tyler si disse che, a farlo capitolare, erano state quasi sicuramente le sue doti culinarie, prima della sua bellezza o del suo carattere. Si riteneva assai debole, da quel punto di vista.

«Se vuoi sbirciare quello che sta succedendo sulla terrazza, nell’ufficio di Jo c’è un monitor che controlla proprio quel posto. Non sentirai il sonoro, ma forse ti sentirai più tranquillo» dichiarò Gretchen a sorpresa, sollevando il viso per scrutarlo.

«Ho sbagliato a innamorarmene?» domandò dolente Tyler.

Sospirando, Gretch si scostò dal notebook per scrutarlo in viso e, piena di compassione, ammise: «L’amore non si sceglie, arriva e basta, ma non ti nego che questa situazione è assai pericolosa. Se il giudizio di William non sarà positivo, lei dovrà morire e il tuo cuore, temo, si spezzerà per il dolore. Lance è sopravvissuto a un trauma simile, e ora è sposato con una donna che lo ama, ma non a tutti viene concessa una seconda occasione.»

Tyler assentì cupo, ma disse: «Lei mi ama. Non sta mentendo.»

«Lo spero per te. Dico davvero» annuì torva Gretchen.
 
***

La leggera brezza che spirava su Londra non bastava a scacciare calura e afa ma, su quella terrazza privata e ricoperta da begli ombrelloni rettangolari, si sopportava con più facilità.

Seduta su una comoda sedia a sdraio, Beth ammirava il paesaggio con apparente tranquillità, ma era ben lungi dal sentirsi tale, con un mastodontico licantropo seduto a pochi centimetri da lei.

«La tua paura sa di buono…» ghignò Keath, mostrandole un arsenale di zanne di tutto pregio. «… e di solito non è così. Solitamente, è aspra come acido da batteria, ma la tua profuma di agrumi.»

«Quindi? Significa che sono buona da mangiare?» gli domandò lei, accigliandosi a quell’accenno. Si divertiva davvero tanto, a tentare di spaventarla!

Lui rise derisorio, scosse il capo e replicò: «Non mi abbasserei mai a mangiare un essere umano. Sapete di stoppa. Inoltre, avete una carne dura e nervosa che proprio non mi va giù. No, Cacciatrice, significa che, anche se hai paura, sei determinata e salda nelle tue intenzioni. La determinazione sa di buono, e stempera la tua ansia.»

Elizabeth non poté esimersi dall’annusarsi un’ascella e, ancora, Keath rise, ma stavolta in modo più naturale e meno stizzito.

«Non sono odori percettibili per un umano. Tu puoi sentire se sai di sudore o di pulito. Nient’altro. Quel che avverto io sono le tue emozioni e, in parte, le tue motivazioni» dichiarò lui, sorprendendola.

«Quindi, sai che non mento?» esalò lei, più che mai sorpresa. Cosa voleva dire, con quelle parole? Cosa erano in grado di fare, realmente, i licantropi?

«So che c’è del vero, nel tuo dire, ma non posso trascurare nulla, quando c’è di mezzo il mio Fenrir, perciò tu dovrai essere giudicata da chi ha più potere di me, oltre che dalla mammina adottiva di quello scavezzacollo che si è innamorato di te» replicò Keath, facendo spallucce.

«Parli di potere, ma cosa intendi veramente?» domandò dubbiosa la giovane. Anche Tyler le aveva accennato a qualcosa del genere, nei loro discorsi, ma era sempre rimasto sul vago, quasi avesse avuto timore di inoltrarsi troppo in argomenti così sensibili.

Keath ghignò per tutta risposta, a quella domanda, e disse: «Pensate di conoscerci, ma avete solo scalfito la superficie. Voi sapete che siamo forti, che possediamo delle doti che rassomigliano a quelle dei lupi… ma quanto altro?»

Beth scosse il capo per l’esasperazione, rendendosi perfettamente della propria ignoranza, perciò asserì con semplicità: «Sappiamo che, in forma animale, le vostre impronte non sono rintracciabili, anche se non ce ne spieghiamo il motivo. In forma umana, invece, lasciate impronte come noi.»

Keath assentì, indicandole di proseguire.

«E’ sempre il lupo bianco, a guidare il branco, ma non conosciamo la gerarchia esatta all’interno del clan. Tu, per esempio, chi sei per Fenrir, e perché lui si chiama così?»

«Bambina, come ti dicevo, avete solo scalfito la superficie, ma non avete la minima idea di cosa vi sia dietro alla nostra razza, né in quale ginepraio vi abbiano infilato i vostri avi» motteggiò Keath, chiudendo gli occhi e lasciando che il sole lo baciasse col suo calore.

Beth lo scrutò piena di curiosità, notando la sua bellezza sopraffina, il modo in cui il volto appariva quasi cesellato da una mano d’artista. Per quanto si rendesse conto della sua pericolosità – le sembrava di trovarsi accanto a una tigre in libertà – non poteva non notare anche la sua ferina eleganza.

«Per farla molto breve, so che uno dei vostri uccise uno dei miei, e tutto ebbe inizio da lì» scrollò le spalle Beth, ritrovando la forza di parlare.

«Ti hanno mentito, ma come nel tuo caso, senza una controprova, che valore ha la mia parola, per te?» le disse lui, scrutandola distrattamente con un solo occhio.

«I lupi non abbassano mai la guardia, eppure tu tieni gli occhi chiusi in mia presenza, anche se sai che potrei essere tua nemica. Perché? Pensi davvero che non potrei farti del male, anche se sei tanto più forte di me? Sono addestrata a colpire, oltre che a difendermi» gli fece notare lei, non sapendo se sentirti insultata dal suo disinteresse, o rassicurata dal fatto che lui si sentisse abbastanza a suo agio da rilassarsi in sua presenza.

«L’argento ha un odore peculiare, e so che tu non ne hai con te. Indossi una collana in acciaio satinato – carina, tra l’altro. A mia moglie piacerebbe, visto che ama i delfini – mentre i tuoi anelli sono in lega polimetallica e non contengono argento. Lo fai per non ferire per errore Tyler, vero?»

Lei assentì cauta e Keath, stringendo le mani dietro la nuca con fare assolutamente disinvolto, aggiunse: «Nella borsetta non porti altri oggetti pericolosi, oltre a quello schifo che ci hai mostrato dabbasso, perciò sono tranquillo che non mi attaccherai a mani nude. Riguardo a chi sono io per Fenrir, ti dirò questo. Il migliore amico del mio Fenrir lo tradì per dei debiti di gioco, e ci vendette a un gruppo di Cacciatori per poter aver salva la vita. Alcuni strozzini lo cercavano per fargli la pelle, così ci usò per avere il denaro dai Cacciatori e sdebitarsi con chi doveva. Scoprimmo l’inganno grazie a mia moglie che, all’epoca, era solo una ragazzina umana. Alla fine, fui io ad ammazzare quel traditore. Sono questo, per lui.»

Beth annuì debolmente, deglutendo a fatica e lui, torvo in viso, mormorò: «Non permetterò mai più a nessuno di ferire a quel modo il mio Fenrir.»

«Che fine fecero i Cacciatori?»

«Vennero risparmiati. Fu loro candeggiata la memoria e rispediti a casa come se niente fosse» disse lui, sorprendendola non poco e provocando in Keath un sorriso derisorio. «Pensi davvero che ci piaccia ammazzarvi? Detestiamo essere braccati, è ben diverso.»

«Cosa intendi per… candeggiare la memoria?» esalò Elizabeth, sconvolta.

«Che esistono persone in grado di fare autentiche magie, bambina. La lady Fenrir che il tuo Tyler ha nominato, altri non è che la strega più potente di tutti i tempi… dai tempi in cui la mia razza nacque, per intenderci. Il tocco del suo potere potrebbe ridurre me e te a vegetali, se solo volesse ma, cosa più terribile di tutte, potrebbe ridurre il pianeta in briciole, se si incazzasse troppo.»

«Tu menti» ansimò scioccata Elizabeth, trovando inconcepibile ogni sua parola. Pensava davvero che avrebbe creduto a simili panzane? Non erano in un film fantasy!

«Ti piacerebbe» replicò Keath, serafico e per nulla turbato dalla sua incredulità. «Se William dirà che sei pulita, scoprirai un mondo che voi Cacciatori neppure immaginate… e saprai quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Contenta?»

Accigliandosi, Elizabeth borbottò: «Ho visto anch’io Matrix. Cosa credi? Pensi di sorprendermi con battute a effetto?»

«Bene. Solo per questo, non ti ammazzerò. Promesso» sentenziò Keath, strizzandole l’occhio.

Facendo tanto d’occhi di fronte a quell’affermazione inaspettata quanto inquietante, Beth gracchiò: «Ma perché parli sempre di ammazzare e ammazzare? Il tuo capo non è così!»

Ghignando, Keath si avvicinò fino a sfiorarle il naso e, sardonico, chiosò: «Bimba bella… io sono Freki, il sicario del branco, e il mio mestiere è uccidere

Elizabeth ammutolì e, deglutendo a fatica, incamerò l’informazione non senza una certa fatica. Quindi, all’interno del clan, esisteva qualcuno deputato esclusivamente all’uccisione dei nemici?

Con tono più quieto, nel frattempo, Keath aggiunse: «Non ammazzo tanto per fare, bambina. Così come non ammazziamo i Cacciatori al solo sentirli nominare. Noi ci difendiamo, non vi prediamo. C’è una sottile differenza, ma è importantissima.»

La giovane si passò le mani tra i capelli, chiaramente frastornata da quella marea di informazioni – quanto le aveva nascosto, Tyler, nonostante si fossero parlati moltissimo, in merito?! – e ammise: «Sì, a ben pensarci, è così.»

«Il tuo uomo non ti ha detto molto, riguardo al funzionamento del branco, mi pare di capire…» dichiarò a quel punto Keath, vedendola annuire in risposta.

Freki sorrise compiaciuto, e aggiunse: «Ha fatto bene. Era giusto che te ne parlassero dei lupi più alti in grado. Non era compito suo dirti la verità su di noi.»

«Siete molto ligi alle gerarchie, mi pare di capire» mormorò lei, attirandosi le ginocchia al petto. Aveva l’idea che, da un momento all’altro, sarebbe esplosa per i troppi input, se non avesse trattenuto a sé il proprio corpo in qualche modo.

«Sono basilari, perché un branco sia coeso e funzioni. Io servo anche, e soprattutto, a questo» le spiegò Keath, atono. «Credi davvero che il nostro principale cruccio siate voi? No, mia cara. Sono i nemici interni, a preoccuparci maggiormente perché, ci piaccia o meno ammetterlo, la nostra parte umana ci condiziona molto, soprattutto per quel che riguarda il lato più oscuro di una vita di comunità.»

«Crisi di potere?» ipotizzò Beth.

«Tra le altre cose. Voi siete una scomodità in più, un prurito nelle parti basse che non vorremmo avere, ma che abbiamo sempre… perciò capirai il nostro fastidio, quando incappiamo in uno dei tuoi ex colleghi» ammiccò sardonico al suo indirizzo, prima di tornare a scrutare pensieroso la città.

Beth accennò un mezzo sorriso, di fronte a quella colorita metafora ma, soprattutto, per l’uso della parola ex. Era già un passo avanti, in un certo qual modo.

«Credo che, se si potesse organizzare una sorta di Conferenza di Pace tra voi e noi, si potrebbero risolvere almeno in parte i problemi» buttò lì Beth, ottenendo però soltanto di far ridere flebilmente Keath.

Sinceramente spiacente, lui replicò: «Forse non mi sono spiegato, bambina. La nostra parte umana e la vostra, si scontreranno sempre. Se la cosa si riducesse a pochi membri di ogni clan, forse sarebbe anche fattibile, ma non con tutte le parti in causa presenti a questo fantomatico G8. Ti pare che, al mondo, le guerre siano magicamente finite perché fanno i Summit per la Pace?»

«No» mugugnò Beth, ammettendo quella tragica realtà.

«Saremo sempre in conflitto per il solo fatto di essere diversi. E’ nella natura dell’uomo aver paura delle diversità e, per quanto si progredisca, questo fatto rimarrà nel nostro codice genetico come una pestilenza non debellabile» mormorò Keath, prima di aggiungere: «Mio padre abbandonò me e mia madre perché odiava che io avessi il gene della licantropia dentro di me. Odiava talmente tanto se stesso, e il suo essere lupo, da decidere di lasciare entrambi noi per cercarsi una donna umana, e ora è felicemente sposato con lei e hanno un bambino senza pelo. Perciò, se persino tra noi ci sono persone che si odiano con così tanto livore, di cosa ti stupisci che esista la faida tra noi e i Cacciatori?»

«Mi spiace» mormorò Beth, sorpresa che il lupo si fosse aperto così tanto con lei. «Mia madre e mio padre si detestano, ma stanno insieme perché le famiglie non accetterebbero mai un divorzio, e loro stessi non vogliono essere additati come i primi, in famiglia, a lasciarsi. Perciò si ignorano bellamente e, se non ho capito male, mia madre ha un amante da qualche parte, qui a Londra.»

Sbuffando, Keath le schiaffò una manata in testa a mo’ di consolazione e Beth, per poco, non sentì il collo andarle in briciole. Di certo, come dimostrazione di comprensione, fu assai poco delicata, ma la giovane la apprezzò in ogni caso. Dopotutto, sembrava davvero che quel grosso lupo non l’avrebbe divorata.

«Non mi hai ancora detto il perché dei nomi. Perché proprio Fenrir? Non ha una connotazione negativa, in ambito mitologico?» domandò a quel punto Beth.

Keath sbuffò per tutta risposta, replicando: «Stavo pensando a come risponderti, a dire la verità, ma non esiste un modo semplice per dirlo, perciò te lo dirò e basta… in sostanza, con quel titolo, onoriamo nostro padre. Il nostro primo padre.»

Elizabeth strabuzzò gli occhi, si aggrappò ai braccioli della sedia a sdraio e sbottò contrariata: «Ora so che mi stai prendendo in giro. Forse, e sottolineo forse, potrei anche arrivare a credere che avere un qualche genere di potere soprannaturale, ma andiamo… Lui non è mai esistito! E’ solo un mito nordico, così come tutti i nomi che hai usato fino a ora!»

Keath allora scoppiò in una calda, bellissima risata che fece arrossire suo malgrado Beth. Quel suono emesso dalla gola del lupo era piacevole, caldo e avvolgente, e trasfigurava il volto dell’uomo al suo fianco, rendendolo ancor più affascinante e misterioso.

Pur amando Tyler, non poté che apprezzare e ammirare il carisma e lo charme di quel licantropo così ombroso e serio. Era talmente difficile non guardarlo con interesse, da chiedersi se i licantropi possedessero un qualche genere di potere a livello sessuale.

Di sicuro, Elizabeth ne era rimasta davvero colpita e, con una certa dose di imbarazzo, si chiese se il licantropo, grazie al suo fiuto, si fosse reso conto di questo particolare.

Sperò ardentemente che, qualsiasi fosse la risposta, lui fosse così educato da non fargliela notare.

Sollevandosi dalla sedia a sdraio con un fluido movimento di gambe, Keath le allungò una mano con un sogghigno malizioso dipinto sul volto e aggiunse: «Vorrei davvero farti conoscere lady Fenrir. Allora che non avresti più dubbi… ma forse moriresti di paura. Chissà.»

Elizabeth accettò cauta quella mano e, nel risollevarsi grazie al suo aiuto – fu come essere trascinati dalla forza di una gru – gorgogliò preoccupata: «Perché… chiamate lady Fenrir questa fantomatica persona?»

Lui però non rispose direttamente alla domanda, limitandosi a dire: «Aspetta di conoscere quella sciroccata che guida il branco in Cornovaglia. Al resto, arriveremo per gradi.»

Tornando nel loft di Fenrir di Londra assieme a Freki, Elizabeth cominciò a familiarizzare con l’idea che, questa fantomatica Tana del Bianconiglio, fosse più profonda di quanto avesse in principio immaginato.

Contro chi stavano realmente combattendo, i Cacciatori?
 
***

Tyler avvertì l’arrivo della sua Fenrir molto prima che la donna imboccasse la porta del condominio dove Joshua e Gretchen abitavano. L’onda del suo potere riverberò all’interno dello stabile come una tromba d’aria e, rabbrividendo, si passò le mani tra i capelli castani ed esalò: «Dio! E’ incazzata come una bestia!»

Beth lo fissò dubbiosa mentre Michael – Hati del branco – e Gretchen si guardavano vicendevolmente con aria preoccupata.

Michael Buckanan si era sostituito a Keath nel tardo pomeriggio, raggiungendo il loft di Fenrir ancora in divisa da poliziotto, e confermando a Beth i sospetti dei Cacciatori riguardo ai licantropi. Era dunque vero che vi erano alcuni membri dei clan all’interno delle forze di polizia, e questo spiegava come certi eventi fossero stati mascherati – o cancellati – nel corso degli anni.

Tornato una decina di minuti addietro dal suo ufficio proprio per essere presente all’arrivo dei membri del clan di Falmouth, Joshua sospirò esasperato e borbottò: «Quella donna non sa davvero contenersi.»

Elizabeth continuò a passare in rassegna i volti assai turbati e, al tempo stesso, esasperati, dei licantropi presenti, il tutto senza comprendere appieno le loro parole.

Scrollando le spalle, Tyler si limitò a dire: «I lupi emettono una sorta di aura, perché il potere che abbiamo non riesce interamente a restare confinato all’interno del nostro corpo e, più un lupo è potente, più quest’aura è percepibile. Se poi ti lasci andare alle emozioni, beh…»

Deglutendo a fatica, Beth assentì suo malgrado – Keath le aveva dato una dimostrazione di ciò che loro intendevano per potere, mandando Tyler lungo riverso sul divano soltanto guardandolo – e mormorò: «Quindi, potrebbe causare danni alla struttura?»

«Non in questo caso. Sta solo disperdendo l’aura per non accumulare energia ma, se la confluisse in un punto preciso, allora potrebbe causare qualche problema» ammise Tyler. «Per questo, nei combattimenti tra lupi, esistono sempre dei testimoni. Coloro che non combattono controllano le auree dei licantropi, così che queste non facciano danni.»

Il suono del campanello interruppe qualsiasi altra domanda da parte di Beth. Quando però Michael andò ad aprire e, sulla porta, la giovane vide soltanto una donna molto bella e di bassa statura, altre mille e più domande le si affastellarono nella mente.

Era dunque di lei che avevano così tanto timore e rispetto? Di quello scricciolo di donna dai capelli rosso fuoco?

Dietro la donna dallo sguardo volitivo, alto e dell’aria quieta e pacifica, Elizabeth intravide un uomo bruno dall’aspetto piacente e che teneva in braccio un bambino di circa due, tre anni. A chiudere la fila, Beth vide infine entrare un giovane che dimostrava all’incirca vent’anni, biondo di capelli e dal naso ricoperto di efelidi chiare.

Appariva cupo in viso e attento a qualsiasi movimento e, sebbene fosse giovane, la sua statura e prestanza fisica lo facevano sembrare molto più vecchio.

Nel chiudere la porta, Michael dichiarò pieno di ironia: «Mi stai facendo ballare i denti, sai, Ceel? Vuoi calmarti? Il tuo cucciolo è sano e salvo, e ha ancora tutti i peli addosso.»

La donna fulva lo frizzò con uno sguardo che fece raggelare Beth e, tremenda, sibilò: «Il solo fatto che sia in difficoltà, quando io ve l’avevo affidato perché non avesse difficoltà, dimostra che HO TUTTE LE RAGIONI per essere incazzata come una biscia quindi, se non vuoi che ti morda le palle nel giro dei prossimi due minuti, Mickey, vedi di cucirti il becco.»

«Anch’io ti amo, Ceel» dichiarò per tutta risposta Michael, per nulla turbato da quella dichiarazione tutt’altro che delicata, o elegante.

Beth fece tanto d’occhi di fronte a quello scambio di battute ma, notando quanto nessun altro ne fosse rimasto turbato, cominciò a chiedersi se non fosse la normalità, per loro.

Joshua si avvicinò alla donna con passo tranquillo, si chinò – o, per meglio dire, si piegò quasi in due, vista la differenza d’altezza – per baciarla dietro l’orecchio e disse: «E io che temevo che la nascita di Ben ti avrebbe raddolcita. Sono felice di saperti sempre isterica come al solito.»

«Vuoi che assaggi di nuovo il tuo sedere, Joshua?» ironizzò Cecily, sorridendogli con affetto a dispetto delle parole.

«Sono migliorato, nella corsa» affermò lui con una strizzatina d’occhio.

Cecily rise, a quel commento e, nel salutare Gretchen, disse: «Non ti offenderai se lo sfido, vero?»

«E’ lui che si vuole cacciare nei guai, perciò fai pure» ammiccò la donna prima di rivolgersi a William e dire: «Fatti salutare, Will, e fammi dare un bacio a questa meraviglia.»

L’alto uomo bruno che Gretchen aveva chiamato William si avvicinò con un sorriso e, sotto gli occhi stralunati di Elizabeth, i convenevoli di rito vennero espletati in modo ironico e divertente.

Da un certo punto di vista, e vedendo con quanta solennità Keath avesse trattato Fenrir, Beth si era aspettata un altro genere di comportamento ma, a quanto pareva, si era decisamente sbagliata.

Forse era soltanto Keath a tenere alle formalità, mentre per gli altri membri del branco, l’onore e il rispetto passavano in secondo piano, prediligendo l’informalità e la leggerezza.

O forse, erano soltanto matti da legare.

Quando infine fu il momento di passare al nocciolo della questione, Cecily squadrò un momento Tyler, fissò curiosa Beth e infine domandò: «D’accordo… immagino che, visto che si trova qui e non ha aperto bocca di fronte alle nostre dubbie battute, la ragazza sappia tutto di noi. Volevate il mio benestare perché i due si potessero frequentare? Direi che potevi farlo anche da solo, Jo.»

«Se fosse stato così facile, non ti avrei chiamata, Ceel. Lo so anche da solo che, per procura, posso dare un benestare del genere anch’io, a un tuo lupo, se si trova sul mio territorio…» sottolineò Joshua, sbuffando. «Il punto è un altro.»

Cecily, a quel punto, si avvicinò al suo lupo dopo aver oltrepassato i divani che li separavano e, aggrottando la fronte, lo guardò negli occhi e domandò: «Cos’hai combinato, mio lupo? Non l’hai messa incinta, sennò avrebbe un odore diverso, anche se sento la tua traccia su di lei. Perciò, dove sta il problema?»

Beth arrossì suo malgrado, non gradendo particolarmente di poter essere vivisezionata soltanto grazie al proprio odore ma, quando Cecily squadrò lei, qualsiasi pensiero le si annullò nel cervello.

Quegli occhi di zaffiro somigliavano molto ai suoi, anche se differivano sicuramente per durezza ed esperienza. Quelli della Fenrir di Tyler erano forti come l’acciaio e brillanti come diamante e, in quel momento, sembravano voler entrarle dentro per comprendere quale difetto lei potesse avere.

Per un istante, temette che quella donna fosse realmente in grado di scandagliarle il cervello ma, dandosi della sciocca, scacciò quel pensiero assurdo dalla mente e disse: «Credo che il mio unico problema sia il retroterra da cui provengo.»

«Che tu sia ricca o povera, Tory o Whig, a noi non interessa» sottolineò Cecily, facendo spallucce. «Ce ne infischiamo di cose simili.»

«Sono Whig, per la cronaca…e una Cacciatrice» si arrischiò a dire Elizabeth, deglutendo poi a fatica non appena quelle parole di condanna sgorgarono dalla sua bocca.

Cecily sgranò per un istante gli occhi, li assottigliò l’attimo seguente e, nel lasciarsi cadere sul tavolino del salotto, si coprì il viso con le mani e borbottò: «Sapevo che eri un incompetente, Jo, ma qui si travalica.»

«Anch’io ti amo, Ceel» gorgogliò Joshua per tutta risposta, e Gretchen sorrise divertita da quello scambio apparentemente assurdo di battute.

Beth ipotizzò che quella frase in particolare significasse qualcosa di simile a ‘non ti mando al diavolo per puro rispetto’, poiché anche la guardia del corpo di Fenrir l’aveva usata in occasione di un insulto gratuito.

Probabilmente, nonostante il loro rapporto così amichevole, era preferibile non esagerare con le battute, almeno non nei confronti di Cecily Fairchild. Che fosse dunque così pericolosa da necessitare questo trattamento di favore?

Fenrir di Falmouth tornò a fissare Tyler dopo alcuni attimi di comprensibile stordimento, e Beth credette di vederla spezzarsi in due non appena quegli occhi oceanici sfiorarono il viso del suo pupillo.

Era chiaramente preoccupata per il suo lupo e, in qualche modo, turbata all’idea che lui potesse soffrire o, addirittura, morire a causa delle sue scelte.

Stordita quanto preoccupata, Elizabeth si chiese quanto si era esposto, per lei, il suo Tyler. Quanto stava rischiando, per l’amore che provava nei suoi confronti?

«Che diavolo hai combinato, Tyler?»

Fu solo un mormorio, ma ridusse in briciole il giovane licantropo che, in lacrime, si gettò in ginocchio dinanzi alla sua Fenrir e, nel prenderle le mani, affondò il viso sulle sue ginocchia come un bambino in punizione.

Beth si sentì straziare nel petto da artigli feroci, a quella visione. Era la prima volta che vedeva Tyler così divorato dal dolore, così straziato dalla pena, e questo le fece capire quanto fosse forte, tra i due, il legame che li univa.

Era qualcosa che rassomigliava molto al rapporto tra una madre amorevole e un figlio devoto, ma Beth credette di vedere molto altro, in quella scena di prostrazione.

Tyler sarebbe davvero morto, per quella donna, se mai fosse stato necessario, e lei avrebbe fatto lo stesso, pur di difenderlo… anche da se stesso, se la necessità lo avesse richiesto.

«Non volevo ferirla, prof, ma la amo… davvero! E lei ama me! Ne sono assolutamente certo!»

«Sai che, se Will dirà che è una traditrice, dovremo far intervenire Keath e Gwen, vero?» domandò piena di dolore Cecily, carezzandogli il capo con affetto.

Lui assentì, ma replicò con coraggio: «Non mi sbaglio. Davvero.»

Cecily, allora, tornò a osservare con durezza Elizabeth e, senza delicatezza alcuna, le disse: «Stai facendo soffrire il mio lupo e, solo per questo, vorrei sgozzarti su due piedi. Ma lui dice di amarti, e io sento quanto questo suo sentimento sia vero. La sua aura si è elevata a tua protezione fin da quando siamo entrati, e non ha mai smesso di farlo. Perciò ti concederò di dimostrare a mio marito che non stai mentendo.»

«Cosa potrei dire di diverso, rispetto a ciò che già ho detto a Freki, o a Fenrir di Londra?» replicò Elizabeth senza reclinare assolutamente lo sguardo. Sapeva bene, che se fosse apparsa debole, le chance di conquistare la donna che guidava il branco di Cornovaglia, sarebbero scese a zero.

La donna fulva, però, le sorrise misteriosa, scosse il capo e asserì: «Non dovrai dire nulla più di ciò che senti davvero. Sarà lui a dirmi se menti oppure no.»

«E come potrà capirlo?» replicò Beth, lanciando un’occhiata al piacente uomo bruno che le era stato presentato come il marito di Cecily.

Lasciato il figlio a Gretchen, William si avvicinò alle due donne in competizione, si inginocchiò accanto a Elizabeth e, sorridendole tranquillo, disse: «Sono un sanguemisto, e possiedo delle doti che mi permettono di comprendere se qualcuno sta mentendo, perciò sentirò subito se le tue parole sono vere, oppure no.»

Levando un sopracciglio con evidente perplessità, Beth domandò: «Se sei un sanguemisto, non dovresti comunque essere un lupo come loro? Quindi, perché dovresti essere proprio tu, a studiarmi, e non la tua Fenrir, per esempio?»

«Diciamo che sono come loro fino a un certo punto» ammiccò William, con un certo divertimento. «Rispetto a loro, ho anche sangue di elfo, nelle vene, ed è questo a conferirmi questa dote che, diversamente, sarebbe appannaggio delle nostre wiccan, le nostre sagge.»

Elizabeth si volse sconvolta a guardare Tyler che, però, assentì spiacente e disse: «E’ tutto vero. Capisci perché dovevo parlartene con loro presenti? Il nostro mondo è molto complicato, molto più di quanto i Cacciatori immaginino, e soltanto le mie parole non sarebbero mai bastate a spiegarti tutto, a farti credere

Lei assentì lentamente, quasi in trance, si passò le mani sul viso nel tentativo di calmarsi e, in un borbottio, domandò: «Quanto ancora a fondo dovrò scendere, in questa dannata Tana del Bianconiglio?»

«Hai parlato davvero molto con Keath… questo è sicuro» chiosò Cecily, sorridendo un po’ più tranquilla. «E’ lui che cita sempre Matrix e se ti ha risparmiata, e ti ha persino citato il suo film preferito, mi sento già più serena. Ma voglio comunque che Will ti sondi.»

«Sono qui proprio perché vi fidiate di me… anche se comincio a capire quanto, in effetti, io non abbia capito nulla di ciò che siete. Nessuno dei Cacciatori sa nulla di voi. Non davvero» esalò Elizabeth, gli enormi occhi blu sgranati per lo shock.

Cecily, allora, guardò Joshua – che annuì – e disse: «Se supererai l’esame, faremo venire anche lady Fenrir. E’ giusto che tu senta tutta la storia da chi l’ha vissuta in prima persona. Solo allora saprai quanto è profonda la nostra tana. E di certo, non appartiene al Bianconiglio. Neppure lontanamente.»






N.d.A.: Keath ha iniziato a mostrare a Beth quanto profonda sia la tana del Bianconiglio, ma è chiaro che la nostra ex Cacciatrice dovrà affrontare ben di più di una lezione di Storia da parte di Freki, per capire davvero il mondo dei licantropi che - tanto ingenuamente - pensava di conoscere grazie agli insegnamenti dei suoi maestri.
Riuscirà la ragazza a superare l'esame di William? Ma, soprattutto, ne uscirà ancora sana di mente? ;)

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Capitolo 57
*** Ama il tuo nemico -Tyler - (Branco di Cecily) - 3 - 2022 ***


 
 
3.
 
 
 
 
Sistematasi meglio sul divano per lasciare spazio a William – che, curiosamente, le aveva detto di chiamarsi Fitzwilliam Darcy – Elizabeth lo fissò nei caldi occhi color smeraldo e attese.

Non che fosse una cosa spiacevole farlo, poiché l’uomo aveva davvero un bel viso, ma l’ansia da prestazione stava raggiungendo vette tali che, entro breve, sarebbe esplosa. Quanto prima fosse iniziato quell’esame – di qualsiasi cosa si trattasse – tanto meglio sarebbe stato.

A un cenno dell’uomo, prese in silenzio le sue mani protese, percependole calde e piacevoli al tatto quando, all’improvviso, una sensazione di pace e serenità scese su di lei come a tranquillizzarla.

William le sorrise, confermandole che, a creare quella strana atmosfera, era stato proprio lui e, con tono blando, l’uomo le domandò: «Puoi dirci cosa ti spinse a non uccidere Tyler, o a smascherarlo, quando scopristi chi era?»

Lei assentì, replicando con tono fermo ma sereno: «Lo riconobbi per quello che era per un motivo che, solo in seguito, ricollegai al suo amore per me. Durante una lezione sul diritto alla satira – sai, studiamo giornalismo, ed è importante capire fin dove spingersi, con le repliche negli articoli – il professore ci spinse a tentare approcci differenti a una notizia di cronaca, usando per l’appunto la satira. Ne saltò fuori una lezione piuttosto divertente e, mentre ridevamo di una frase di Tyler, lui mi guardò e mi resi conto che i suoi occhi color giada erano diventati grigi come il ghiaccio. Fu un attimo, e subito lo scambiai per un abbaglio ma, quando lo ricollegai a mille piccoli altri particolari, mi convinsi che era un licantropo.»

«Eri eccitato, Tyler?» domandò allora William, sorridendo al lupo.

Arrossendo suo malgrado, lui ammise: «Amo la risata di Beth. Immagino di essermi lasciato un po’ andare senza accorgermene. Scusate.»

Cecily sospirò divertita, e William tornò a domandare a Beth: «Non lo denunciasti ai tuoi. Come mai?»

«Mi piaceva già, all’epoca, perciò mi sentii malissimo al pensiero di provare certe cose per una persona – una creatura – che mi avevano insegnato a detestare e temere» sospirò Elizabeth, scuotendo mesta il capo. «Saltai l’università per più di una settimana e piansi per quasi tutto il tempo, combattuta tra ciò che era mio dovere fare, e quello che invece mi diceva il cuore.»

Tyler annuì alle parole della giovane, aggiungendo: «Andai a trovarla proprio per sapere perché aveva saltato le lezioni per così tanti giorni. Per questo mi trovavo in zona, quando successe il fattaccio. Inoltre, temevo che… beh, che avesse detto la verità su di me ai Cacciatori, e quindi…»

Sospirando, il giovane non terminò la frase e Beth, nel sorridergli mestamente, provò ancora una volta un immenso rispetto per il suo coraggio. Quanto doveva essergli costato, in termini di sanità mentale, non sapere cosa pensare di lei in quanto Cacciatrice? Pur amandola, quanto si era sentito male al pensiero di doverla fermare, qualora lei si fosse rivelata una minaccia?

Intervenendo al suo posto, Elizabeth mormorò: «Uscii verso le sette di sera – era febbraio perciò, a dispetto dell’orario, era già scesa la notte – per fare una passeggiata e schiarirmi le idee. Subito dopo, avrei raggiunto il luogo in cui abitava Tyler per tenerlo d’occhio… volevo capire a tutti i costi cosa fare, perciò dovevo vederlo ancora una volta. A ogni modo, feci una capatina in un vicino parco per ritrovare il mio equilibrio interno, non pensando che la sera quel luogo era visitato anche da beoni e drogati.»

Ridendo di se stessa, aggiunse: «Dovevo essere davvero rintronata, per non pensarci. Comunque, un ubriaco mi colse in fallo mentre attendevo di poter attraversare la strada e avviarmi verso la casa di Tyler. Cercò di spillarmi dei soldi e io, nel tentativo di togliermelo di torno, inciampai nel marciapiede e caddi all’indietro.»

Tyler intervenne, rabbrividendo a quel ricordo, e disse: «Essendo vicino, sentii il suo urlo e corsi per capire cosa stava succedendo. Quando la vidi districarsi dalle braccia dell’ubriacone, corsi verso di lei e la afferrai prima che potesse cadere in strada. Nel farlo, però, rimasi accecato dai fari delle auto in avvicinamento, e gli occhi mutarono colore per la reazione nervosa. Ero già in ansia per lei, ma quell’incidente automobilistico schivato di un nonnulla, fece il resto.»

Elizabeth si incuneò nel discorso per aggiungere: «Mi protesse con il suo corpo durante la caduta sull’asfalto e, viso contro viso, vidi l’intero processo di mutamento del colore degli occhi e del suo volto. Vidi le zanne spuntare dalle labbra, prima che lui riuscisse a dominarle, e gli occhi divenire ghiaccio puro, così a quel punto seppi di non poter che accettare la realtà.»

William assentì pensieroso, le sorrise pieno di comprensione e disse: «Posso capirti. La prima volta che vidi mia moglie mutare, non sapevo nulla di lei e ne rimasi assai turbato. Ma la amavo, perciò passai sopra a pelo e zanne. Inoltre, avevo una grana ben peggiore da sopportare, in quel momento, visto che avevo appena scoperto chi fosse realmente mio padre.»

«La faccenda degli elfi» cercò di ironizzare Beth, guardandogli poi dubbiosa le orecchie. «Ma non dovresti avere…»

In coro, e come se l’argomento fosse stato sviscerato un’infinità di volte, tutti i presenti dissero atoni: «Non hanno le orecchie a punta.»

Elizabeth sbatté sorpresa le palpebre e William, scoppiando in una risatina allegra, chiosò: «E’ colpa di mio cugino, se esiste la credenza che tutti gli elfi abbiano le orecchie a punta.»

«Tutti… gli… elfi? Perché, ne esistono di vario tipo?» domandò scioccata la giovane prima di scuotere la testa, prendere un gran respiro e borbottare: «No, andiamo per gradi come ha detto Keath o il mio cervello scoppierà, e non avrò più bisogno di chiarirmi con nessuno, perché sarò morta.»

Cecily sorrise a Tyler, forse apprezzando la presenza di spirito della donna da lui scelta e William, annuendo, dichiarò: «Giustissimo. Avrai tutto il tempo per farti venire un’emicrania, esattamente come successe a me. Torniamo a noi. Cosa facesti, in seguito?»

«Chiamai la polizia perché, nel frattempo, alcune auto si erano fermate per darci soccorso. Spiegai ciò che era successo, e come Tyler mi avesse salvata da un brutto capitombolo. Gli agenti portarono via l’ubriaco e lo denunciarono per aggressione» scrollò le spalle Beth. «Io e Tyler, invece, ci dirigemmo verso il mio appartamento e lì, non potendo fare altro, gli dissi chi ero, mostrandogli ciò che tenevo nell’armadio. Lui si era smascherato per salvarmi… che altro potevo fare, se non essere altrettanto coraggiosa?»

«Avrebbe potuto sopraffarti. Ucciderti» sottolineò William.

Sorridendo dolcemente, Beth si volse in direzione di Tyler e disse con semplicità: «Non lui. Non il Tyler che avevo imparato a conoscere, e che era riuscito a farmi mettere in dubbio ogni cosa. Non il Tyler di cui mi ero innamorata.»

Il giovane le sfiorò una spalla con la mano, come a voler dare maggiore peso alle sue parole e Beth, nel tornare a parlare con William, aggiunse: «Parlammo tutta la notte, e lui ammise di aver già capito chi io fossi, ma di non avermi voluto fare del male perché provava qualcosa per me. Mi disse di appartenere a un clan, e di avere una capobranco davvero in gamba. Io piansi, di fronte alla sua sincerità, e ammisi di non averlo denunciato ai miei colleghi perché anche lui mi piaceva, e non capivo come potessi volergli bene, quando tutti mi avevano sempre detto che i licantropi erano creature malvage.»

«Difetti del sistema compartimentalizzato, credo» asserì William, annuendo torvo. «Se si può sentire solo una campana per tutta la vita, in cosa crederai?»

«In quella campana» assentì dolente Beth. «Lui mi mostrò un nuovo modo di vedervi, e questo mi convinse che ciò che provavo per Tyler, non solo era bello, ma era anche giusto. Mi ero innamorata dell’uomo, ma lui era anche un licantropo, e la cosa poteva funzionare bene perché erano la stessa persona, non due entità separate e antitetiche.»

«Non posso che esserne lieto, perché vedo come lui ti guarda e tu guardi lui. Ti sono grato per avermi concesso di ascoltare le tue parole, perché questo mi ha permesso di capire che dici la verità» le sorrise William, annuendo poi a Cecily. «Dice il vero, Ceel. Non c’è falsità nel suo dire.»

Cecily si asciugò una lacrima ribelle, a quella notizia e, nel volgersi mefitica in direzione di Joshua, dichiarò lapidaria: «Ti è andata bene, per stavolta.»

«A me?» esalò Fenrir di Londra, strabuzzando gli occhi.

«Cosa ti dissi, quando te lo affidai?» bofonchiò Cecily per contro.

«Che avrei dovuto prendermene cura?» domandò dubbioso Joshua.

«Come se fosse stato figlio tuo, impedendogli di soffrire in alcun modo» sottolineò la donna, digrignando i denti. «Beh, non mi pare tu sia stato molto bravo, ma ti perdonerò, per questa volta.»

Joshua sospirò, si passò una mano sul volto mentre Gretchen gli batteva consolatoria una mano sulla spalla, e bofonchiò: «Sai che ti amo, Ceel… ma a volte ti torcerei volentieri il collo. Pensi davvero che avrei dovuto controllare chi si portava a letto?»

«Ovviamente sì» decretò Cecily, come se niente fosse.

William rise imbarazzato, mentre Tyler arrossiva come un peperone ed Elizabeth si copriva il viso per la vergogna. Era chiaro quanto la capobranco di Tyler non avesse peli sulla lingua, e Beth avrebbe dovuto abituarsi alla svelta, se non voleva morire d’imbarazzo nel frattempo.

«Tesoro, non credi che questo travalichi un tantino i compiti di un Fenrir?» domandò cortesemente William.

«Solo perché lui non è una donna, e non sa ficcare il naso come si deve» sospirò esasperata Cecily.

«Non gliel’avrei comunque detto, prof… chi mi portavo a letto, intendo» sottolineò timidamente Tyler.

Lei, però, lo beneficiò di un sorriso davvero malizioso e replicò con voce mielata: «Oh, credimi… me lo avresti detto

Elizabeth preferì non sapere come avrebbe potuto raggiungere quel traguardo. Aveva idea che ne sarebbe rimasta traumatizzata.

A quel punto, però, Michael guardò spiacente Elizabeth e domandò: «Chiarito questo punto, però, rimane un altro problema. Come giustificherai ai tuoi genitori i tuoi improvvisi segreti? Bene o male, qualcuno salterà fuori, prima o poi, soprattutto se altri Cacciatori riusciranno a riconoscere qualcuno di noi.»

«Come ho detto a Keath, non sarà un problema. I miei genitori si detestano e, di certo, non mi amano molto. Che io sia qui, in Bangladesh o su Marte, conta davvero poco, per loro, ma soprattutto non conta con chi io sia. Per loro sono una spina nel fianco, e mi mantengono all’università solo perché sperano che, dovendomi concentrare solo su quello, io esca dalle loro vite il prima possibile, permettendo loro di smettere di fingere di essere una famiglia.»

A quelle parole, furono diversi i sospiri contrariati e le occhiate spiacenti, ma Beth non vi badò. Era ormai abituata da anni a quella realtà e, paradossalmente, aver avuto al suo fianco i Cacciatori, era stato come avere una vera famiglia. Ora li avrebbe persi, ma avrebbe avuto la possibilità di stare con il suo uomo, oltre a conoscere un intero clan con cui fare amicizia. O almeno, lei ci sperava.

«Se anche abbandonerò il servizio di sentinella, ai miei non interesserà nulla, perché loro sono all’interno del gruppo solo perché obbligati dalle famiglie, ma non per un interesse sincero. Inoltre, nessun affiliato ha l’obbligo di rimanere, se non se la sente. Vale soltanto la regola del silenzio» aggiunse Elizabeth con una scrollatina di spalle.

«Potete… semplicemente andarvene? Come da un club?» esalò sorpreso Joshua.

«Non so se vale per tutti i gruppi, perché ognuno ha regole interne proprie…» si spiegò meglio Elizabeth. «… ma, tra di noi, vige la regola che, se una persona non se la sente di proseguire, può uscirne. Come immaginerete, i rischi del mestiere sono alti, e non tutti se la sentono di proseguire a vita nella missione. Specialmente noi donne non abbiamo delle grosse restrizioni perché, se vogliamo mettere su famiglia, ci viene vietato di rimanere in seno all’associazione come membri attivi. Non vogliono che i pargoli e le madri diventino carne da cannone, per così dire.»

«La protezione della prole come priorità» mormorò suo malgrado ammirato Michael. «Davvero stupefacente.»

«Esatto. La madre deve pensare innanzitutto ai figli, se ve ne sono. La missione viene dopo, almeno per quanto riguarda il mio gruppo» assentì Elizabeth. «Dirò al mio caposezione che mi ritiro perché voglio mettere su famiglia, e lui non avrà alcuna obiezione, né lo troverà strano. Quando poi mi trasferirò, avrò vita facile. In Cornovaglia non ci sono gruppi di Cacciatori.»

Cecily fece tanto d’occhi, a quella notizia e, sorridendo soddisfatta, dichiarò: «Beh, buono a sapersi. Ma, per essere chiari, gli altri gruppi dove sono?»

Prima che Elizabeth potesse parlare, però, Joshua scosse il capo e replicò: «No, Ceel. Non è corretto farle fare da delatore. Accontentati di ciò che ti ha detto. Noi non prediamo i Cacciatori, ricordi?»

«Uff… lo so benissimo, rompiscatole che non sei altro!» brontolò Cecily. «Era solo per curiosità.»

Elizabeth sorrise di quel battibecco e, timida, disse: «Se volete, posso dirvelo. Ma non posso darvi i nomi perché, onestamente, non li conosco.»

«Non abbiamo bisogno né dell’uno, né tanto meno dell’altro. Non è così che agiamo» scosse il capo Joshua, sorridendole nel darle una pacca sulla spalla. «Hai già sopportato molto, a causa del nostro terzo grado, e non è davvero il caso che questo prosegua con argomenti che non riguardano la vostra coppia.»

«Dire che sei un guastafeste è poco, sappilo, Jo» borbottò Cecily, intrecciando le braccia sul petto.

Joshua la fissò con un sogghigno, replicando: «Sono qui per servirti, cara. Sarò sempre il tuo guastafeste personale, credimi.»

«Non avevo dubbi…» ironizzò allora la donna. «… ma hai ragione, mio malgrado. Approfittare delle conoscenze di Elizabeth è contro le regole, e anche contro la comune cortesia.»

Joshua la fissò con autentica sorpresa e, scoppiando a ridere per diretta conseguenza, esalò: «Cristo! Non avrei mai pensato di poter vivere a sufficienza per sentirti dire che hai torto su qualcosa

Accigliandosi, Cecily aggrottò la fronte e ringhiò: «Ti offendi, Gretch, se muto qua dentro e ti rigo il parquet? Devo fare a fettine tuo marito.»

Elizabeth sgranò gli occhi piena di curiosità, di fronte a quella proposta e Joshua, nel rendersene conto, smise di ridere e le domandò: «Sbaglio, o non hai mai visto un licantropo in forma animale?»

Scuotendo il capo, Elizabeth ammiccò all’indirizzo del suo compagno e replicò: «Tyler mi ha detto che preferiva non farsi vedere in quella forma, perché temeva potessi rimanerne sconvolta e, per quanto io abbia insistito, non ha mai ceduto. Credeva fosse meglio parlare prima con voi e, solo dopo, affrontare quel particolare della sua natura.»

«Hai sbagliato, mio lupo. Avresti dovuto avere più fiducia in lei, visto che l’hai portata qui da noi perché ci conoscesse» disse a quel punto Cecily con tono grave.

Tyler accettò per buono il rimprovero, ma fu il silenzio tombale della stanza a incuriosire Elizabeth, non tanto la faccia contrita del suo uomo così, dubbiosa, domandò: «Cos’ha detto di così strano?»

«Davvero anche Tyler può sbagliare?» ironizzò a quel punto Joshua, fissando derisorio Cecily.

Fenrir di Falmouth, per contro, si volse lentamente per squadrarlo e ringhiò: «Giuro che ti morderò quel culetto pallido un’altra volta, fosse l’ultima cosa che faccio.»

«Quando vuoi» dichiarò Joshua, allungando una mano in direzione di Cecily, che ghignò furba nello stringergliela.

Sempre più confusa, Elizabeth guardò William, ancora seduto accanto a lei, e domandò: «Ma… abbiamo finito?»

«Certo. Stabilito che tu hai detto la verità, non abbiamo altro da temere, da te. Rimane soltanto la cerimonia al Luogo di Potere per farti conoscere al branco, ma per quello ci sarà tempo» le spiegò l’uomo, dandole una pacca sulla spalla.

«Ma quale tempo e tempo! Al Vigrond ci andiamo domani! Voglio mordere le chiappe di questo presuntuoso, e ho bisogno di farlo subito!» sbottò Cecily, mentre il piccolo Ben rideva tra le braccia di Gretchen. «La presenteremo al branco di Joshua, visto che rimarrà qui ancora per un altro annetto buono, poi verrà da noi.»

Vagamente esasperato, William borbottò: «Domani arriva mio cugino, perciò dobbiamo rientrare a Falmouth. E lunedì riprendono gli esami di maturità, lo sai.»

Cecily grugnì un insulto intraducibile tra i denti prima di ringhiare: «Beh, chiamerai Puck e gli dirai di venire qui, così rientrerà assieme a noi. Dopotutto, è un po’ che non si fa vedere a Londra. Tra l’altro, i suoi genitori hanno smesso di litigare?»

«Per niente. L’ultima volta che lui e mio padre hanno controllato, stavano ancora lanciandosi contro le frecce dai bastioni, perciò hanno riattraversato Bifröst per tornarsene da mia madre» sospirò William prima di ricordarsi di un particolare non da poco.

Volgendo contrito lo sguardo in direzione di Elizabeth, la vide pallida e con gli occhi sgranati, la confusione ben dipinta sul suo viso e, spiacente, esalò: «Oh, scusa… faceva parte del resto della storia che non hai ancora sentito.»

La giovane si lasciò andare contro lo schienale del divano, si coprì il viso con le mani e gracchiò: «Puck è un nomignolo di qualche tipo, vero?»

Nessuno rispose a quella domanda ed Elizabeth preferì non chiedere altro. Per quel giorno, i traumi emotivi erano stati sufficienti per dieci vite, e dubitava seriamente che avrebbe potuto resistere a una sola novità in più.

Joshua, allora, sorrise a un Tyler un tantino preoccupato per la propria fidanzata e disse: «Vi accompagno a casa. Ha chiaramente bisogno di riposare e di starsene un po’ sola con te. Noi ci rincontreremo domani per la visita al Vigrond.»

Il giovane annuì, ringraziò i presenti e, quasi trascinando di peso l’amata mentre Joshua prendeva le chiavi della sua auto dallo svuota-tasche nell’entrata, le mormorò eccitato: «Direi che è andata bene.»

«Parla per te. Io sto per dare di stomaco» gorgogliò pallida Elizabeth, tenendosi completamente a lui.

Spiacente, Tyler la sorresse per tutto il tempo, mentre Joshua li accompagnava nei parcheggi sotterranei dello stabile per recuperare la sua auto ibrida. Lì, indicò loro di salire su una Bmw Plug-in Serie 5 e, nell’immettersi lungo la via dopo essere uscito dal seminterrato a bassa velocità, mormorò: «Non posso neppure immaginare come tu ti possa sentire in questo momento, Elizabeth, e mi spiace che il nostro primo incontro ti abbia lasciato così tanti dubbi nella mente, ma spero vorrai credere che, per qualsiasi cosa, noi siamo qui.»

Lei assentì meccanicamente e Joshua, sorridendole attraverso lo specchietto centrale dell’auto, aggiunse: «Un mio amico umano gestisce un centro di ascolto per neutri e umani che sono appena entrati in seno al branco, ed è davvero molto bravo. Ti lascerò il suo numero, se vorrai parlare con lui.»

«Abbiamo sbagliato tutto, con voi?» domandò a sorpresa Beth.

Fenrir di Londra sospirò nello scuotere il capo e, seriamente, replicò: «Si è sempre in due a sbagliare, in una coppia e, volente o nolente, noi e voi siamo una coppia all’interno di un segreto che si tramanda da millenni. Il fatto che tu sia passata sopra ai tuoi precetti per accettare i nostri, è segno che nulla è immutabile. Così come i licantropi si tradiscono tra di loro per potere o vendetta, e i Cacciatori si possono dimostrare migliori di quanto noi non crediamo. Nessuno è cattivo o buono per diritto di nascita, o dalla parte del torto o della ragione a prescindere, e tutti possono essere fallaci nelle loro scelte. Sta a noi cercare la verità e, nel caso, cambiare casacca nel caso in cui la verità si trovi altrove.»

«Ma le verità possono essere molte» mormorò Elizabeth.

«Verissimo. Ma quale verità ti importava di più, oggi?»

«Dimostrarvi quanto amo Tyler» disse dopo alcuni istanti la giovane.

Joshua sorrise nell’annuire, e disse: «E’ una buona verità, non credi? Io penso sia ottima.»
Beth annuì con un sorriso fiacco e, nel poggiare il capo contro la spalla del suo amore, mormorò: «Grazie.»

«Grazie a te. Il compito più duro lo hai affrontato tu, entrando in una tana di lupi affamati e dalle brutte facce» replicò Joshua, portandola a sorridere divertita.

«Avrei da ridire sulle brutte facce. Mi sono sentita davvero in imbarazzo, in alcuni momenti» asserì per contro Beth, sorridendo spiacente a Tyler, che però non vi fece alcun caso.

«E’ normale che un umano si senta attratto a pelle da un licantropo. Se poi ti riferisci a Keath nello specifico, mi stupirei del contrario. E’ un sangue-puro come raramente se ne incontrano, e dalla sua va detto che sfrutta questo particolare in modo davvero sfacciato.»
Sinceramente sorpresa, Beth esalò: «Un… sangue-puro? E può fare così tanto la differenza?»

«Molto, se il licantropo vuole affascinare chi ha intorno. Mi pare chiaro che non intendeva affatto spaventarti, se ha cercato di metterti a tuo agio usando il suo lato migliore, per così dire…» asserì Joshua, scoppiando a ridere nonostante tutto. «Quel lupastro ti aveva già dato la sua benedizione ben prima dell’arrivo di William e Cecily. Che gran bastardo!»

Tyler rise di quel commento e Beth, sorridendo a mezzo, si sentì tranquillizzata dalle parole di Fenrir. Sapere Keath apertamente dalla sua parte era un dono insperato, visto il ruolo che svolgeva all’interno del clan.

Tornando serio, Joshua si fermò in prossimità del condominio dove abitava Beth e, nel volgersi a mezzo, disse con sincerità: «Per me conta molto il parere di Keath e, per quanto io apprezzi William, sapere che il mio migliore amico ti ha dato tutta questa fiducia è per me una garanzia più che sufficiente.»

La giovane assentì a quelle parole davvero sentite, e piene di un sentimento che poteva comprendere benissimo. Prima ancora che il suo amore, Tyler era stato il suo amico più caro. Nella sua vita di Cacciatrice non aveva mai avuto nessuno di altrettanto vicino al cuore e questo, per lei, aveva contato moltissimo, quando aveva dovuto decidere cosa fare.

Non cercate né volute, calde lacrime scelsero quel momento per rotolare sul viso di Elizabeth e Joshua, sospirando comprensivo, lanciò un’occhiata a Tyler prima di dire: «Credo di aver parlato troppo. E’ davvero il caso che io vi lasci andare, ora. Abbi cura di lei e, per qualsiasi cosa, chiamami.»

Il giovane annuì e, quando infine ebbero raggiunto l’appartamento di Beth, la abbracciò strettamente, cullandola tra le braccia.

Non aveva minimamente idea di come potesse sentirsi in quel momento. Aveva creduto per una vita di conoscere il proprio nemico, scoprendo poi nel modo più diretto e terribile di aver convissuto per più di vent’anni con una bugia.

Tyler ricordava bene cosa aveva provato, la prima volta che il tarlo del dubbio si era insinuato nella sua mente. Ogni sua presunta verità era stata soppesata, vagliata e, in più di un’occasione, scartata perché falsa.

Man mano che si era avvicinato alla realtà delle cose, al vero volto del mondo in cui viveva senza saperlo, la sua paura era accresciuta fino a sfociare nel panico puro.

Ma poi aveva guardato la sua Fenrir, ne aveva studiato i comportamenti e le parole, e si era reso conto non soltanto di poter seguire senza problemi una simile guida, ma di poterla anche amare.

Solo per questo non era impazzito, né aveva temuto di impazzire come, invece, stata succedendo a Elizabeth, che appariva chiaramente fuori fase, in quel momento.

Per lui era stata un’epifania scoprire la verità e, con una facilità estrema, la sua Fenrir era penetrata nel suo cuore come, in precedenza, lei aveva fatto in quello degli altri membri del branco. Perché, che fosse scorbutica o meno, o parlasse con la stessa delicatezza di un uomo delle caverne, Cecily Fairchild aveva una dolcezza che sapeva colpirti nel profondo, se ne eri il fortunato fruitore.

Per questo, aveva chiesto a Joshua di poter essere mutato da lui. Il solo pensiero di costringere la sua Fenrir a ferirlo, gli era parso un insulto insopportabile, visto quanto protettiva lei era sempre stata nei suoi confronti.

Innamorarsi di Beth e scoprire la sua reale identità, però, era ciò che realmente lo aveva mandato al manicomio perché, per la prima volta, si era trovato di fronte a una scelta difficilissima.

Il suo cuore si era spezzato in due, diviso tra il pensiero di ferire la sua Fenrir e quello di mettere in pericolo Beth. Porla di fronte ai membri del suo clan al pari di un agnello sacrificale, lo aveva atterrito.

L’alternativa, però, sarebbe stata quella di scappare e, proprio perché rispettava i suoi amici e i Gerarchi, oltre alla stessa Beth, non se l’era sentita.

Aiutando Elizabeth a sdraiarsi sul divano, Tyler le sfiorò il viso con un bacio e mormorò: «Ti preparo qualcosa di caldo. Credo tu ne abbia bisogno.»

Lei assentì meccanicamente, ma lo trattenne ancora un attimo vicino a sé per chiedergli: «Ma perché la tua Fenrir è fissata con il sedere di Joshua?»

Sorpreso da quella domanda, Tyler scoppiò in una grassa risata di gola che, ben presto, prese i connotati di un riso isterico, risultato di un’intera giornata passata sotto esame.

Ovviamente, lui era stato convinto della buona fede di Elizabeth fin dall’inizio, ma il ricordo di ciò che era successo a Hati di Matlock era ancora ben presente in ogni clan dell’Isola, perché lui potesse dormire sonni tranquilli.

Sentire da William del suo amore sincero, perciò, gli aveva tolto un gran peso dallo stomaco, e ora anche per lui era giunto il momento di crollare.

Si lasciò perciò scivolare contro il divano e, nel poggiare il capo contro i cuscini della seduta, guardò di traverso Beth – sorridente e preoccupata assieme – e mormorò: «La prendevano sempre in giro perché era l’unica Fenrir femmina dei clan inglesi, ma lei dimostrò di non essere da meno dei maschi, in forma animale, e masticò più natiche di quante ne voglia ricordare ora.»

Elizabeth scoppiò in una risatina divertita, carezzò le onde castane di Tyler e disse: «Mi piace già, la tua Fenrir.»

«La nostra Fenrir» la corresse gentilmente Tyler.

«E’ ancora così strano pensarla a questo modo…» sussurrò Beth, chiudendo gli occhi e sospirando stanca. «… ma è successo davvero. Ho parlato con dei licantropi e non sono morta. Anche solo per questo, dovrei dare una botta in testa a mio padre, ma soprassiederò.»

«Cosa ti insegnò?» volle sapere Tyler.

Sbadigliando, Beth mormorò: «Che i lupi non perdono tempo a parlarti. Ti uccidono e basta. Avrei voluto fargli vedere la discussione tra Joshua e Cecily. Forse, si sarebbe sbellicato dalle risate, oppure sarebbe morto di paura al pensiero di avere davanti due veri licantropi. Chissà.»

Il giovane sorrise quando, un attimo dopo, la sua ragazza si addormentò, preda di tutte le emozioni contraddittorie e violente di quel giorno. Per la tisana vi sarebbe stato tempo l’indomani, a quel punto.








N.d.A.: direi che Elizabeth ha saputo destreggiarsi bene, e i lupi ora sono concordi nell'accettarla. La visita al Vigrond, comunque, potrà riservare qualche sorpresa, secondo voi, o tutto si svolgerà senza intoppi? Ma soprattutto, cosa combineranno Cecily e Joshua?
 

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Capitolo 58
*** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 4 - 2022 ***



 
4.
 
 
 
 
 
Seduto alla sua scrivania, Joshua si lasciò andare contro lo schienale della poltrona e, cellulare alla mano, domandò a Keath – all’altro capo del telefono – con tono stanco: «Allora, che mi sai dire del suo retroterra?»

«E’ come mi ha raccontato lei. Anzi, in qualche modo, è pure peggio» ammise Keath, poggiato contro una delle colonne del locale dove lavorava quella sera. La musica doveva ancora iniziare, perché sul palco c’era stato un cambio di band, perciò ne aveva approfittato per chiamare il suo Fenrir.

Dopo aver abbandonato il loft di Joshua, aveva fatto qualche indagine preliminare in merito a ciò che gli aveva detto Elizabeth, trovando conferma a tutto, oltre a qualche chicca che avrebbe preferito evitare di sapere.

«Da quel che ho scoperto in queste ore, Mollie e Devon Marshall – che poi sono i suoi genitori – abitano a Crawley, a sud di Londra e, a quanto pare, il caro signor Marshall sta pensando di andarsene dall’Inghilterra per intraprendere una carriera solista niente meno che a Melbourne, in Australia.»

Facendo tanto d’occhi, Joshua esalò: «Come, prego?»

«Ficcanasando nella sua e-mail privata, ho notato un interscambio molto fitto tra lui e la sede centrale della ditta per cui lavora – un data center di qualche genere – che, per l’appunto, gli avrebbe proposto un incarico oltreoceano, molto remunerativo e assai più stimolante di ciò che sta facendo ora. Parole loro, non mie» spiegò Keath, osservando i tecnici mentre sistemavano la nuova batteria per la band successiva.

A quanto pareva, i piatti della batteria non ne volevano sapere di stare al loro posto.

«E Mrs Marshall?»

«Questa è la chicca… e credo farebbe morir dal ridere tutti, se non fosse che è una tragedia per quella ragazza. Si sta vedendo con un convinto pacifista di religione buddista che, credo, non abbia neppure un acchiappamosche in casa» dichiarò Keath, con un ghigno sul volto ombroso. «Questa tizia è addestrata a massacrare lupi… e si mette con un pacifista? Joshua, sono io che sto diventando vecchio, o il mondo va al contrario?»

Joshua si passò una mano sul volto e borbottò: «Preferisco non rispondere. Comunque… hai capito cosa vogliono farne della figlia? Dopotutto, sta terminando l’università e, ben presto, non avrà più impegni fissi qui a Londra.»

«Suo padre sta già istituendo un fondo fiduciario per lei, così che gli studi e le spese vive vengano coperti dal suo nuovo appannaggio. Immagino che questo lo farà sentire meno… spregevole» gli spiegò Keath, sbuffando schifato. «Quanto alla madre, non saprei. Nelle telefonate che ho intercettato, non parlava mai di lei, il che potrebbe già essere di per sé una risposta. Per questo, parlavo di tragedia. Nessuno di quei due mentecatti ha mai una parola per quella ragazza, come se non esistesse nelle loro vite.»

«A riprova del fatto che al peggio non c’è mai fine, quando si parla di genitori.»

«Già… pensavo che il mio fosse stato uno stronzo, a lasciare mia madre ma, alla fine, è stato solo onesto. Questi due, invece, fingono per convenzione e finiscono per ignorarla bellamente» brontolò Keath, chiaramente disturbato dalla cosa.

«Non posso che darti ragione. Comunque, grazie, Keath. In poche ore, hai già fatto moltissimo» dichiarò Joshua, lasciandosi andare a un sospiro. «Con due genitori del genere, fa specie che sia cresciuta sana di mente.»

«Si è adattata alle avversità. E’ una sopravvissuta, e dimostra una resilienza davvero rara» dichiarò Keath, mentre i membri della band salivano sul palco.

«Ti piace, eh?» chiosò Joshua.

«Riconosco a pelle i tipi tosti. Una me la sono sposata» rise Freki, prima di aggiungere: «Ti lascio, prima che cominci il casino. Devo rimettere i tappi per le orecchie.»

«A presto, Keath» disse Jo, chiudendo la chiamata.

Gretchen poggiò la rivista che stava leggendo per sorridere al marito e, nell’avvicinarsi a lui, disse: «Non ha avuto la tua fortuna, quanto a famiglia. O la mia.»

«No. I suoi genitori non vinceranno mai il premio dell’anno per la loro amorevolezza, questo è poco ma sicuro, ma ciò mi fa capire i motivi della sua forza» dichiarò Joshua, prendendola sulle ginocchia per poi affondare il viso nei suoi riccioli castani. «Pensa soltanto a quanti dubbi, a quante paure devono esserle sorti nella mente quando ha scoperto la verità su Tyler? E quanto coraggio deve esserle servito per venire qui, oggi, per affrontarci tutti.»

«Ti piace, eh?» mormorò Gretchen, ripetendo la domanda che lui aveva fatto a Keath.

Sorridendo un poco, lui assentì e disse: «Si ritroverà di fatto senza un appoggio familiare, non appena entrerà a far parte del branco di Cecily, perché dubito che la madre si interesserà a lei, una volta terminata l’università. O forse, anche prima. Quanto al padre, il suo unico interesse sembrano essere i soldi, perciò neppure lui si interesserà a lei sul piano umano, visto che sarà all’altro capo del mondo. Sarà sola, tolta la presenza di Tyler al suo fianco.»

«Vorresti essere tu, il suo appoggio familiare?» gli domandò a quel punto lei.

«Ti darebbe fastidio? Dopotutto, non la conosciamo per niente, ma…» tentennò Fenrir di Londra.

«Anche tu hai le tue sensazioni a pelle e, di solito, non sbagliano» ironizzò Gretchen, sfiorandosi il ventre piatto.

Pur avendo provato per anni, ed essersi rivolta ai dottori del Santuario, Gretchen non era mai riuscita ad avere un figlio da Joshua così, molto semplicemente, aveva rinunciato a tentare.

Trovare un orfano che facesse anche parte del mondo dei licantropi, poi, era ancora più difficile – e preferibilmente non auspicabile – perciò, alla fine, si erano adeguati a rimanere da soli.

Non che quella solitudine forzata pesasse loro, ma Gretchen aveva tanto desiderato dare un figlio al suo Joshua. Ma forse, laddove la natura aveva fallito, avrebbe giocato il Fato.

«Gliene parlerò più avanti. Ha già sopportato abbastanza, per oggi, e domani riceverà una terapia d’urto che sfiancherebbe chiunque. Non voglio sobbarcarla anche di questo dubbio» dichiarò lui, dandole un bacio nel mezzo della schiena.

«C’è tempo, e non è detto che le serva, avere una presenza genitoriale. Mi sembra già una ragazza molto coraggiosa, matura e assennata» sorrise lei.

«Sicuramente. Come ho detto, c’è tempo per parlarne più avanti.»

Senza dire altro, Joshua la prese a cavalcioni su di sé e la baciò con intensità, fondendo la propria aura a quella di Gretchen fino a smarrirsi in lei.

Eventi come quello non riempivano di dubbi solo gli umani, ma anche lui. Era sempre sgomento di fronte a simili perversità, e non capiva come dei genitori potessero infischiarsene a quel modo della figlia.

A ogni buon conto, Elizabeth aveva trovato in Tyler una spalla a cui aggrapparsi e, se ne avesse avuto la necessità, anche loro si sarebbero coalizzati per aiutarla.
 
***

Il bosco era splendido, ricco di vegetazione antica, che parlava di genti passate e venute, di occhi silenti su un mondo in continuo mutamento, mai uguale a se stesso, impermanente.

I sentieri tracciati dagli animali erano a malapena visibili, ma i licantropi che accompagnavano Elizabeth ne coglievano le variazioni con un semplice sguardo. Lei si sarebbe sicuramente persa, se si fosse trovata da sola in quell’immensità dalle tinte fosche ma, paradossalmente, con loro si sentiva al sicuro.

Un solo anno addietro, avrebbe gridato di rabbia nell’attaccarli senza pietà, ma ora riconosceva soltanto le pecche della sua educazione e le limitazioni del mondo in cui era vissuta fino a poco tempo prima.

Sorridendo quando due uccellini si involarono allegri sopra le loro teste, Beth inspirò con piacere il profumo ambrato del bosco e, nel volgersi a mezzo, sorrise a Tyler. Appariva a suo agio, in quel luogo, e i suoi passi erano sicuri e leggeri, nonostante non stesse affatto guardando il sottobosco.

I suoi occhi erano tutti per lei, e questo confortò ulteriormente Elizabeth. Con lui, si sarebbe avventurata anche all’inferno, se necessario.

«Sei stanca? Siamo quasi arrivati, non temere» mormorò lui, prendendola per mano.

Lei scosse il capo, tornò a guardarsi intorno piena di ammirazione e replicò: «No, sto bene. Qui è tutto splendido, e la frescura del bosco è davvero piacevole.»

«In giornate come queste, è il luogo ideale in cui ripararsi» chiosò Joshua, a poca distanza da loro, prima di aggiungere: «Ecco… se guardi laggiù, puoi già vedere la radura del Vigrond.»

Beth assentì e, acuendo lo sguardo, intravide tra gli alti fusti degli alberi un punto più luminoso, in cui il sole riusciva a vincere la sua battaglia contro le fronde rigogliose del bosco.

Dal momento in cui Joshua le fece notare la presenza della radura, occorse davvero poco per raggiungere il Luogo di Potere dei licantropi e lì, senza parole, Beth si bloccò in quieta ammirazione.

La radura in cui erano infine giunti – dopo aver lasciato i propri mezzi dinanzi a una magnifica villa in stile Regency – aveva come punto focale un’enorme quercia dalle fronde a ombrello.

Il suo tronco nodoso e scuro avrebbe potuto essere abbracciato da non meno di dieci uomini e i suoi rami raggrinziti, ricchi di foglie color smeraldo, danzavano leggeri al passaggio della brezza.

Piena di meraviglia, la giovane mormorò: «Quanti anni ha?»

Gretchen, al suo fianco, disse: «All’incirca quattrocento. Anno più, anno meno.»

Elizabeth annuì impressionata e, scrutando i pali di sostegno sistemati sotto i rami più grossi, domandò: «Chi se ne prende cura, visto che è nel bel mezzo di un bosco?»

«Questo parco è interamente privato. Appartiene alla mia famiglia da molte generazioni, perciò ce ne siamo sempre fatti carico noi» le spiegò Colton Andrews, che si era presentato a lei come il sesto duca di Walford, oltre che proprietario della splendida villa in cui, da lì a qualche ora, avrebbero cenato.

Non aveva ben chiaro per quale motivo, ma sapere che un Pari del Regno era anche un licantropo, l’aveva fatta sbellicare dalle risate. In gran segreto, ovviamente, ma era successo.

Trovava assurdo che un lupo potesse pranzare con la regina, o bazzicare tra i meandri di Buckingham Palace come se fosse casa sua.

Cancellando quei pensieri ridicoli quando i licantropi presenti si azzittirono di colpo e, timorosi, si volsero in direzione di un punto preciso del bosco, Elizabeth corse a sua volta con lo sguardo verso quella direzione.

Dubbiosa, poi, sussurrò a Tyler: «Che succede?»

«A quanto pare, Fenrir ha espresso il desiderio di conoscerti di persona» gracchiò lui, un tantino pallido.

«Fenrir? Quale? Cecily e Joshua sono qui» sottolineò la giovane, assai confusa.

«Non quei Fenrir. L’unico, vero Fenrir, quello da cui tutti gli altri prendono il titolo onorifico» precisò Tyler, crollando in ginocchio l’attimo successivo. «Merda… sta arrivando in forma animale

Uno dopo l’altro, i licantropi si inginocchiarono pieni di rispetto ed Elizabeth, non sapendo che altro fare, si unì a loro, domandandosi il perché di tanto ossequio.

In fondo, il vero Fenrir non poteva essere lì, no? Doveva essere anche quello un titolo onorifico di qualche genere. Magari era un capoclan più importante degli altri. Inoltre, le avevano detto che lady Fenrir era una donna, perciò perché parlare al maschile?

Quando, però, iniziò a scorgere le fronde degli alberi muoversi in modo innaturale, quasi una mano gigantesca le spostasse con delicatezza per farsi spazio, iniziò a tremare.

La pelle le si informicolò e i capelli le si rizzarono sulla nuca, come in presenza di una corrente a bassa frequenza, o dell’arrivo di un fulmine a ciel sereno.

Fu a quel punto che un muso enorme spuntò lattiginoso dal fondo della boscaglia, corredato da un corpo niveo fuori misura e del tutto innaturale.

Elizabeth si lasciò andare a un ansito ben poco coraggioso e le mani le affondarono nell’erba, preda di un panico più che genuino. Già sul punto di fuggire a gambe levate, si bloccò solo quando notò la totale calma dei lupi al suo fianco che, pur rispettosi, non temevano il nuovo arrivato.

Questi, nel frattempo, uscì completamente allo scoperto, mostrandosi in tutti i suoi tre metri abbondanti al garrese. Mentre, alle spalle del gigantesco lupo niveo, gli alberi tornavano alla loro posizione originale, la creatura mitologica si accomodò sulle zampe posteriori e disse stentorea: «Questa sì che è davvero una novità, in tanti secoli!»

«Ma parla?!» si lasciò sfuggire Elizabeth, attirando così l’attenzione del lupo enorme e bellissimo che era giunto nella radura.

Perché, per quanto fosse terrorizzata dalla sua presenza, non poteva che trovarlo magnifico, nella sua selvaggia bellezza. Il suo manto risplendeva come cristalli di neve ghiacciata baciata dal sole e, a ogni suo movimento anche minimo, questo riluceva al pari di un prisma.

Tyler si arrischiò ad alzarsi e, ossequioso, disse: «E’ un onore per me incontrarti, Padre della Razza. Lascia che ti presenti Elizabeth Marshall, colei di cui ti hanno sicuramente parlato.»

Il lupo tossicchiò una risata e replicò: «Brianna dice che non ti ha mai visto così impacciato come oggi, e io sono concorde con lei. Lascia che parli da sola, cucciolo. Voglio sentire la sua voce.»

Tyler assentì rapido imbarazzato ed Elizabeth, non potendo che obbedire, avanzò di qualche passo e mormorò: «Beh, ecco… salve.»

«Tu sai chi sono?» domandò l’enorme lupo con la sua voce tonante.

«O il parto della mia mente andata ormai a ramengo, oppure… Fenrir… quel Fenrir della leggenda che, tra le altre cose, dovrebbe avere il pelo nero, non bianco» sottolineò Elizabeth, mordendosi il labbro inferiore.

Come diavolo si doveva parlare a una divinità?! Perché non l’avevano avvertita in qualche modo riguardo al bon ton da tenere con quella sottospecie di mito in forma animale?!

«Augurati di non vedermi mai, con il pelo nero» le raccomandò il lupo, squadrandola con i suoi occhi bicolori. «Quindi, cucciola, sei una Cacciatrice. I miei figli mi hanno detto che hai risparmiato il mio cucciolo, pur sapendo chi era.»

«Vi spiace se lo considero mio? Sì, Tyler, intendo» sottolineò lei, deglutendo a fatica.

«Sei suo, mio cucciolo?» domandò allora Fenrir, con tono vagamente ironico.

«Se così la vogliamo vedere… sì» scrollò le spalle Tyler, trovando quella situazione davvero paradossale.

«Allora ti è concesso, cucciola» acconsentì con tono ampolloso Fenrir, quasi trovasse tutta quella faccenda assai divertente.

Ciò detto, venne avvolto da uno scintillio dorato e, sotto gli occhi sgomenti di Elizabeth, prese forma umana dinanzi ai presenti.

Caracollando all’indietro, la giovane venne afferrata gentilmente a un braccio da un uomo alto, corvino e dai profondi occhi di pece che aveva ora innanzi.

Egli indossava una tunica bianca, dalla fattura indefinibile e fuori dal tempo, ed era dotato di una bellezza che travalicava la natura stessa. Era chiaro; quell’uomo non era come gli altri. Poteva soltanto essere un dio.

«Faccio sempre questo effetto, la prima volta che mi vedono» sorrise bonario Fenrir. «Solo mia moglie cercò di ammazzarmi… con scarsi risultati, ovviamente.»

«Brianna si sta divertendo, là dentro?» domandò Cecily, rialzandosi al pari degli altri e scrutando la divinità con un misto tra rispetto e divertimento.

«Adeguatamente. Le piace, quando faccio un po’ lo spaccone» ammise Fenrir, lasciando andare Elizabeth quando fu certo che non sarebbe svenuta.

Ciò detto, si rivolse alla giovane e le disse: «Immagino che tu non abbia compreso la frase della nostra Cecily perciò, se mi vorrai onorare, ti spiegherò ciò che avvenne agli albori della razza dei miei figli, così che il mistero venga sciolto.»

«Come saprò che non mi stai mentendo?» gli domandò lei, turbata dalla sua presenza.

«Mio padre è dio d’inganno. A lui solo va questo dubbio potere. Ma, giustamente, questo potrebbe non bastarti, lo immagino.»

Elizabeth strinse le mani a pugno, se le portò al petto e mormorò: «Ce la sto mettendo tutta, ma è difficile

Cauto, Fenrir assentì e, nel rivolgersi alla quercia, domandò: «Madre… puoi fare qualcosa per lei?»

La quercia, allora, prese a risplendere leggermente e, sorpresa, la giovane esalò: «Ma… sta brillando!»

Sorridendole comprensivo, Fenrir le disse: «Prova a dire una palese bugia.»

«Sono tranquilla come un bambino che dorme» ironizzò lei.

Subito, la quercia brillò di un rosso cupo e inquietante e Cecily, divertita, celiò: «Beh, pare ti abbia dato semaforo rosso!»

«Vorrei anche vedere…» esalò la giovane, facendosi vento con una mano. Quella situazione stava diventando sempre più assurda a ogni attimo che passava.

«Ora lo farò io. Dimmi come si comporta» le spiegò lui, rimanendo incatenato con lo sguardo a quello di Elizabeth. «Ho i capelli neri.»

La quercia rimase impassibile, e questo gli riferì la giovane così Fenrir, con un mezzo sorriso, aggiunse: «Ho un bellissimo carattere.»

La pianta si colorò di un allegro color arancione e Beth, confusa, esalò: «Perché adesso è diventata arancione?»

Fenrir sbirciò divertito e chiosò: «Madre… da te non me l’aspettavo… sii onesta.»

Il colore rimase tale e Fenrir, facendo spallucce, asserì: «Beh, a quanto pare, mi reputa un po’ difficile. Proviamo con un’altra. Il mio manto è rosso.»

La quercia, a quel punto, si fece purpurea ed Elizabeth, sorridendo un poco più tranquilla, dichiarò: «Ora non è d’accordo.»

«Bene. Più equilibrata e paritaria di Madre, non esiste nessuna entità. E’ Lei che governa ogni cosa, perciò…» dichiarò lui, invitandola ad accomodarsi sull’erba. «Ne avremo per un po’. Da dove vuoi che cominci?»
 
***

Sbadigliando sonoramente, Cecily borbottò: «Giuro che, se gli fa ancora una domanda, me la mangio. Scusa, mio cucciolo, ma ormai sono stanca morta.»

Tyler sorrise nervosamente alla sua Fenrir, ma comprese perfettamente il perché del suo nervosismo. Erano bloccati nella radura del Vigrond da ormai sei ore e, durante tutto quel tempo, Fenrir ed Elizabeth avevano parlato tra loro a bassa voce, intervallando domande e risposte con alcuni esempi pratici.

Pur se interessato a sua volta alla storia – nessuno di loro la conosceva per intero e, di sicuro, non con l’accuratezza di Fenrir – persino Tyler aveva iniziato a sbadigliare, dopo la terza ora di colloquio.

Elizabeth, al contrario, era al tempo stesso affascinata e inorridita dai vari aspetti della vita dei licantropi e, in non poche occasioni, aveva chiesto spiegazioni in merito a talune scelte logistiche.

Sdraiato sull’erba al pari degli altri – un paio di licantropi avevano preso forma animale e ora stavano crogiolandosi all’ombra della quercia – Joshua lanciò un’occhiata divertita a Tyler e dichiarò: «E’ questo che succede quando ti metti insieme a una giornalista.»

«Grazie, Fenrir… sei di conforto» brontolò Tyler, prima di vedere Elizabeth rialzarsi da terra, stiracchiarsi dolente e ringraziare Fenrir con un sorriso.

La divinità si levò in piedi a sua volta, per nulla disturbato dall’essere stato seduto a gambe intrecciate per ore e ore e, nello stringere entrambe le mani di Beth, scintillò e lasciò che Brianna riprendesse il controllo del proprio corpo.

La giovane sobbalzò solo leggermente – ormai messa al corrente della rarità della condizione di Fenrir e Brianna – e, nell’incrociare gli occhi ambrati di lady Fenrir per la prima volta, mormorò: «Scusa se ti abbiamo costretto a rimanere là dentro per così tanto tempo.»

«Non importa. Avevi necessità di conoscere molte cose, soprattutto in considerazione di quanto ti hanno detto i tuoi maestri, perciò era giusto che chiedessi al diretto interessato» replicò Brianna, scostandosi poi da Elizabeth per raggiungere la quercia.

Sorridendo, le si poggiò contro e mormorò: «Grazie per il tuo supporto, Madre. Ci sei stata di immenso aiuto.»

Ho fatto ben poco, e sentire Fenrir chiedere un favore fa sempre piacere.

Brianna sorrise piena di ironia nello scostarsi dalla pianta e, dentro di sé, chiosò: “A quanto pare, anche Madre si è divertita.”

Quando hai a che fare con una donna, cosa puoi aspettarti di diverso?

“Beh ma… Madre non è esattamente una donna.”

E’ un’entità di natura femminile, anche se non ha una natura fisica specifica e può assumere varie forme in base alla necessità.

“Uhm… quindi non è il mitico frassino della leggenda?” domandò Brianna.

Vuoi veramente disquisire di questo, Brie? L’hai vista, a Niflhemir. Erano radici, quelle che trattenevano i detenuti, no?

“Sì, ma può parlare attraverso le rocce, come ben sappiamo grazie ai nostri amici americani, perciò…”

Perciò, a seconda delle necessità, muta forma ma, primariamente, Yggdrasil è una pianta. Non nel genere puro del termine, ma ha radici, rami e chioma, per intenderci.

Brianna ci pensò sopra un attimo, ma preferì non indagare oltre.

Non solo a Elizabeth potevano venire mal di testa feroci a causa della verità, e Brie non conosceva ancora molti dei misteri legati a Madre, pur avendo a che fare con Lei quasi giornalmente.

Meglio soprassedere ancora per un po’.

Sgranchendosi a sua volta, Cecily dichiarò: «Molto bene… non ne potevo davvero più, cucciolotta, del tuo alter ego e, se fosse passata ancora mezz’ora, avrei morso il sedere anche a lui.»

Brianna scoppiò in un’allegra risata di gola e replicò: «Fenrir ti ringrazia per non avergli rovinato la tunica. Dice che ci tiene molto perché gliel’aveva cucita Avya.»

«Dio! Spero che ogni tanto la cambi, visto che ha migliaia di anni» ironizzò Cecily, fissando piena di ironia Brianna.

«Ceel… è nella mia testa la maggior parte del tempo. Dove vuoi che la insudici?» replicò Brie, piena di sussiego.

«Non saprei, ma...» cominciò col dire la Fenrir, prima di lanciare un’occhiata subdola in direzione di Joshua. «… direi che glielo chiederò dopo. Ora, devo pensare ad altro.»

Ciò detto, mutò in un’esplosione di abiti sotto gli occhi allibiti di tutti mentre Joshua, imprecando a gran voce, la imitava per scappare a gambe – ops, zampe – levate da lei.

Mentre Gretchen rideva a crepapelle e Michael scuoteva il capo con aria disgustata, Tyler borbottò imbarazzato: «Ma perché non prende mai niente sul serio?»

Elizabeth fissò stralunata i due giganteschi lupi bianchi correre velocemente nella radura per poi gettarsi come razzi in mezzo alla boscaglia, bianchi fantasmi dalle sembianze animali che nulla lasciavano dietro di sé.

Avvedendosene, e ricollegando ciò che aveva visto quando Fenrir era giunto nella radura, Beth squadrò curiosa Brianna e le domandò: «Non lasciate tracce in forma animale perché… perché anche Fenrir non lo faceva, giusto?»

«Esatto. E’ un retaggio che si è protratto fino a noi» assentì la donna, sorridendo indulgente quando dovette scostarsi per non essere investita da Joshua durante la sua fuga disperata.

«Ma… due capiclan non dovrebbero essere più seriosi e composti di così?» domandò dubbiosa Elizabeth, guardandoli con espressione confusa.

«Se fosse una riunione tra clan in veste ufficiale, assolutamente sì… anche se non sono mancati scontri anche in quel caso» ammise Brianna, tutta sorridente. «Ma questa è stata una riunione informale, anche perché Fenrir voleva che tu ti sentissi a tuo agio. Sapeva già che incontrarlo sarebbe stato difficile, per te, e non voleva che anche il resto ti apparisse serioso e impostato.»

La giovane assentì, non trovando nulla di strano nelle parole di Brianna. Fin da quando aveva iniziato ad ascoltare la storia di Fenrir attraverso la sua fluente parlata, che suonava misteriosa e affascinante a causa del suo timbro vocale roco e profondo, aveva compreso molto del dio.

Se all’inizio si era prefigurata una figura cupa, brutale e fredda, aveva dovuto ricredersi alla svelta. In Fenrir non vi era nulla di tutto ciò, quanto piuttosto un dio provato da immensi dolori ma appagato da un unico, grandissimo amore, che aveva fatto la differenza sostanziale tra la vita di tutti, e la morte del Creato.

Avya, la coraggiosa umana che gli aveva aperto il cuore, era stata per lui fonte di salvezza e di redenzione, e i due figli avuti da lei, la speranza di un futuro segnato dall’amore, e non dall’odio.

Pur se molteplici forze avevano congiurato contro di lui – primo tra tutti, il padre – Fenrir non aveva perso le speranze e, per salvare Avya e i figli, si era sacrificato per loro, annullando il Ragnarök.

Il fatto di sapere che quella forza primigenia era ancora dentro Brianna, e che spettava a lei controllarla, metteva Elizabeth nella familiare condizione di sentirsi piccola e insignificante. Peccato che, fino a quel momento, tali sensazioni fossero state generate dai suoi genitori, e non dalla consapevolezza di conoscere l’unica creatura al mondo capace di distruggere ogni cosa.

All’improvviso, tutti i suoi turbamenti e le sue delusioni nella vita, le apparivano delle autentiche sciocchezze.

Cosa poteva significare, portare sulle spalle un simile peso?

Quasi avesse posto ad alta voce quella domanda, Brianna le sorrise e disse: «Posso portare questo peso perché non sono sola. La forza del branco, è anche questo, e…»

Brianna non terminò mai la frase.

All’improvviso, nel campo visivo di Beth apparve un’enorme massa informe e bianca che, letteralmente, travolse la povera Brianna, che finì a terra un attimo dopo assieme ai corpi avvinti dei due Fenrir ancora in lotta.

«Oh, ma santo cielo!» esalò Gretchen, passandosi una mano sul viso.

Vagamente preoccupata all’idea che, un urto del genere, potesse irritare Brianna e, per diretta conseguenza, anche Fenrir, Beth squadrò ansiosa quell’ammasso informe di corpi steso a terra, ma nulla esplose. Nulla avvenne, se non che i due lupi tornarono in forma umana, completamente nudi e asserviti al suo sguardo.

Avvampando per diretta conseguenza, Beth fu lesta a distogliere lo sguardo e, rossa in volto, fissò spiacente Tyler che, però, non si premurò di fare altrettanto… come nessuno dei presenti, tra l’altro.

La vista di un uomo e una donna completamente nudi e intenti a rinfacciarsi reciproche accuse, sembrò non destare la minima sorpresa in nessuno di loro. Possibile che anche quella fosse la normalità, per i licantropi?

Mentre Brianna si rialzava con aria un tantino frastornata, aiutata da uno spiacente Michael, Cecily sbottò dicendo: «Sei stato un vedo idiota, a centrarla, Jo! Ma davvero non l’hai vista?»

«Adesso è colpa mia, se tu hai deciso di metterti a correre in mezzo alla radura, invece di aspettare di raggiungere il torrente e correre lungo le sue rive, come abbiamo sempre fatto?!» le replicò furioso lui, puntando i pugni sui fianchi.

«Non accampare scuse. Il culo te l’ho morso, perciò hai perso… rettilinei o curve, puoi inventare le pacchianerie che vuoi. Non vincerai mai, Jo» ironizzò Cecily, intrecciando le braccia sotto i seni con fare spavaldo.

Brianna li fissò autenticamente divertita, ammirò il segno rosso sul didietro di Joshua e infine commentò: «Ora, di sicuro, Beth avrà capito che non siete poi così spaventosi come vi hanno sempre dipinto. Vi siete resi abbastanza ridicoli per due vite.»

Le sentinelle presenti risero sommessamente – se era Brianna a prendere per i fondelli un Fenrir, allora la risata era mediamente concessa – e Gretchen, nell’estrarre dallo zaino una maglietta e un paio di short, li allungò a Jo prima di dire: «Chissà perché mi immaginavo che sarebbe finita così…»

«Con me che vincevo?» ghignò beffarda Cecily.

Gretch scosse il capo, replicando: «Con i vostri vestiti a brandelli, voi due nudi come vermi, e la povera Elizabeth messa di fronte nel modo peggiore a uno dei nostri vizi più duri da far digerire.»

«Oooh… per due tette al vento e un…» cominciò col dire Ceel, subito bloccata dalla mano di Gretchen, che scoppiò a ridere di fronte alla sua sincerità fin troppo schietta.

Tyler rise a sua volta, si tolse la maglietta e, oltrepassando una Elizabeth ancora paonazza, allungò il proprio indumento alla sua Fenrir e disse: «Si copra, prof, altrimenti Beth non si volterà mai più.»

«Avrà tempo di abituarsi...» chiosò la donna, accettando comunque la maglia.

Arrischiandosi a volgersi a mezzo, Beth fissò dubbiosa Gretchen e domandò: «Vi mostrate… nudi? Qui al Vigrond, intendo.»

«Non necessariamente ma, come avrai notato, se non ci prendiamo la briga di spogliarci, gli abiti esplodono durante la mutazione, perciò conviene sempre portarti dietro un cambio. In ogni caso, non abbiamo il tabù della nudità, anche se tra noi vi sono coppie sposate.»

«Oh… va… va bene» gracchiò lei, sbattendo furiosamente le palpebre. Chissà perché, di tutto ciò che aveva saputo, proprio quello era così difficile da digerire?

Brianna sorrise benevola, la prese sottobraccio e chiosò: «Credimi, ho faticato anch’io, all’inizio, ma ho imparato a gestire la cosa. Imparerai anche tu.»

Elizabeth assentì, sperando con tutta se stessa che Brianna avesse ragione.
 
***

Walford House era davvero bellissima, e cenare a lume di candela, con maggiordomi in livrea e piatti di finissima porcellana cinese non le sembrava tanto strano, dopo tutto quello che aveva visto quel pomeriggio.

Il mondo dei licantropi era davvero molto più strano e variegato di quanto non pensassero i Cacciatori ma, sopra a ogni altra cosa, era un mondo in cui avrebbe potuto vivere senza sentirsi un pesce fuor d’acqua.

Certo, sapere che diverse divinità norrene camminavano tra loro – Brianna non era l’unica, da quel che le avevano detto – e che esistevano mondi paralleli al loro, non erano cose facili da digerire. Ma aveva toccato con mano la loro veridicità, e nulla le era stato taciuto per reticenza, quanto piuttosto per darle il tempo di accettare ogni cosa per gradi.

Le parole di William e Brianna avevano rasserenato tutti con una facilità tale da far comprendere a Beth quanto, le loro posizioni sociali, fossero tenute in grandissima considerazione da tutti.

In quanto wicca – o saggia, come le avevano spiegato – Brianna godeva di un rispetto automatico da parte di ogni licantropo. Come depositaria dell’anima di Fenrir, era altresì vista come una sorta di divinità ella stessa e, da quel poco che aveva potuto vedere, aveva al suo fianco giovani fieri che la proteggevano a ogni suo passo.

Per quel che riguardava William, aveva scoperto trattarsi di un’autentica unicità nel suo genere in quanto, i poteri che deteneva, appartenevano alle donne nate in famiglie che avevano ereditato il dono delle wiccan.

Il fatto di possedere sangue elfico, però, gli consentiva di avere il medesimo stretto rapporto con l’entità che loro identificavano come Madre, e che gli permetteva di leggere la verità nelle parole delle persone. Questo, aveva fatto con lei, consentendole di essere accettata da coloro che, un tempo, l’avrebbero odiata in quanto Cacciatrice.

«Va tutto bene?» mormorò una voce al suo fianco e, subito, Beth ritornò al presente e alle persone sedute attorno al lungo tavolo della sala da pranzo.

Sorridendo a Duncan, marito di Brianna, la giovane assentì e disse: «Sì. Un po’ frastornata, ma penso che passerà tutto con una buona notte di sonno. O cento. In qualche modo farò.»

L’uomo sorrise divertito, asserendo: «Brianna ebbe grandissimi problemi ad accettare ogni cosa, perciò può capirti molto bene. Non farti scrupoli a chiamare, se avrai dei dubbi.»

Poi, ammiccando all’indirizzo di Joshua, che stava disquisendo con Cecily riguardo ai suoi discutibili modi di partecipare a una gara, aggiunse malizioso: «Inoltre, credo che anche Fenrir di Londra si presterebbe volentieri alle tue domande, se tu gliele ponessi.»

«Come?» esalò lei, sorpresa.

«Non te lo dirà mai, probabilmente, perché pensa che tu sia già adulta e autonoma per non averne bisogno, ma si sente responsabile nei tuoi confronti, visto che tu hai posto nelle sue mani la tua vita» le fece notare lui, portandola a sorridere. «Chi entra a far parte di un branco, diventa parte di una famiglia molto allargata e, anche se un domani voi andrete a Falmouth, o vi trasferirete altrove per il vostro lavoro, Joshua rimarrà comunque il primo licantropo alfa a cui tu hai dichiarato fiducia. Non è una cosa che noi dimentichiamo.»

Ritrovandosi a sorridere con calore, Elizabeth mormorò: «Anche se non mi conosce?»

«Sa quello che conta veramente, per noi. Ami un nostro lupo, e hai messo nelle nostre mani la tua vita perché ti giudicassimo, anche con il rischio che il risultato fosse negativo. Gesto più coraggioso non esiste, per noi. Inoltre, hai il benestare del nostro capostipite. Meglio di così, non potrebbe essere» le sorrise lui, dandole una pacca sulla spalla.

Beth tornò con lo sguardo a Joshua e Gretchen, ripensò alla loro ospitalità, alla serietà con cui Joshua aveva garantito per la sua sicurezza, e al modo in cui aveva gestito l’intera faccenda.

Annuendo, mormorò: «Mi farò sentire. Anche con lui.»

«Bene» assentì Duncan, prima di ridere sommessamente quando vide avvicinarsi di corsa il piccolo Nathan. «Ehi, terremoto! Perché sei sporco di pappetta?»

«Davo da mangiare a Hannah, ma lei ha fatto casino, e così…» brontolò il bambino, passandosi schifato un dito sulla guancia.

Scoppiando a ridere, Duncan si levò in piedi ma Beth, bloccandolo sul nascere, disse: «Posso dare una mano io. Mi piace stare coi bambini.»

Duncan assentì senza problemi e Nathan, presa per mano Beth, la accompagnò al tavolino dove si trovava anche Brianna e, brontolando, disse: «Mia sorella è pestifera. Ti avverto.»

Sorridendo alla bambina di sette mesi dai corti e ricci capelli neri, Beth annuì e disse: «Non c’è problema. Affronterò tua sorella con coraggio.»

Nathan, allora, passò cucchiaino e piatto a Elizabeth come se le stesse porgendo spada e scudo per sconfiggere un potente drago e, sotto gli occhi divertiti di Brianna, Beth fissò i chiari occhi ambrati della bimba, dicendo: «Ciao, Hannah. Io sono Beth. Facciamo amicizia?»

La bimba la squadrò con aria assai più intelligente di una bimba così piccola e, dentro di sé, Elizabeth si chiese se per caso, dentro quel corpicino delizioso, non vi fosse un inquilino speciale.

Lanciata un’occhiata a Brianna, la vide sorridere maliziosa in risposta e, con un’unica parola, ‘Frigga’, le confermò ogni dubbio.

Sospirando, Beth affondò a quel punto il cucchiaio nel vasetto di omogeneizzato alla frutta e lo allungò verso la bimba, sperando che la dea dentro di lei non fosse in vena di scherzi.

Con tutto quello che aveva visto e sentito in quegli ultimi due giorni, ormai poteva succedere di tutto, nella sua vita, ma sperava che almeno per quella sera lei potesse stare più o meno tranquilla.

 
 




N.d.A.: allora, piaciute le sorprese? 

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Capitolo 59
*** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - Epilogo - 2022 ***


 
 
Epilogo.
 
 
 
 
Ingobbito e coperto da un cappello dei New York Yankees ben calato sulle onde castane, Tyler seguì dubbioso Elizabeth lungo un corridoio illuminato da luci a led e, forse per l’ennesima volta, borbottò: «Ma sei sicura che posso venire?»

«Non succederà niente. Anzi, onestamente, a te non spetterà neppure la millesima parte delle sorprese che sono spettate a me nell’ultima settimana a questa parte» sottolineò per contro Beth, sorridendo divertita di fronte alla sua ansia.

Dopo lo straordinario incontro avvenuto al Vigrond, Elizabeth aveva avuto modo di conoscere la völva – o veggente – del branco di Bradford, il marito berserkr e il loro apparentemente arcigno Fenrir.

Chissà come, dopo aver conosciuto il vero Fenrir in carne, ossa e pelo, la vista di un uomo-orso, per quanto affascinante e misterioso, l’aveva lasciata assai tiepida.

O la sua mente si era assuefatta a causa dei troppi traumi, e sarebbe esplosa entro il prossimo mese, oppure il contatto con una creatura mitica l’aveva sbloccata a livello inconscio.

Quale che fosse il motivo, aveva apprezzato moltissimo le parole di Thor e di Beverly, così come le laconiche parole di Fenrir di Bradford che, con una scrollata di spalle, si era dichiarato disposto a credere a William e Brianna.

Perché avessero deciso di chiamarli, non era stato spiegato a Elizabeth, ma lei aveva gradito la visita, poiché questo le aveva permesso di fare proprio un altro pezzettino del mondo di Tyler.

Più si addentrava all’interno della Tana del Biancolupo, come l’aveva ribattezzata simpaticamente tra sé, più trovava quel mondo affascinante e, tutto sommato, nelle sue corde.

Fu anche per questo che, quando infine bussò alla porta del suo capo-sezione, si sentì quasi spiacente per lui. Nessuno dei suoi ex compagni avrebbe mai potuto conoscere la bellezza insita in quel mondo che, altri prima di loro, avevano insegnato a odiare.

«Avanti» gorgogliò una voce al di là di una porta a vetri satinati.

Beth sorrise spontaneamente e Tyler, cercando di farsi piccolo piccolo – non che il suo metro e ottantasette lo permettesse molto – la seguì all’interno di uno studio ampio, dalle tinte tenui e ampie vetrate coperte da veneziane.

Dopo essersi chiusa la porta alle spalle, la ragazza esordì dicendo: «Spero non ti spiaccia se ho fatto venire anche lui.»

«Assolutamente no. Se ti sei fidata a parlargli di noi, merita anche la mia fiducia. So che sei sempre stata assennata, perciò va bene. Mi spiace soltanto che, questo incontro, coincida con il tuo ritiro, ma capisco che tu voglia aprirti nuove strade, che comprendono un brav’uomo e, forse in futuro, anche dei figli» chiosò l’uomo cinquantenne e dalla forte stempiatura che stava sorridendo a Beth da dietro un’ampia scrivania.

Ciò detto, allungò una mano verso Tyler, che lui strinse in fretta e il più delicatamente possibile. La sua temperatura corporea era più alta di un normale essere umano ma, essendo una giornata assai calda, sarebbe stato un particolare trascurabile. Forse.

Dopo averli invitati a sedersi, Johnatan Spengler – così si presentò l’uomo – disse con tono tranquillo: «Beth mi ha detto che intendete trasferirvi all’estero, una volta terminati gli studi. Immagino che essere dei giornalisti in erba complichi un po’ le cose.»

Tyler assentì e ammise: «L’idea era di fare i corrispondenti a Bruxelles per qualche testata minore. Tenere d’occhio il centro di potere della Comunità Europea e cose simili. Da lì in poi, vedremo. Per il momento, i contatti che abbiamo sembrano propendere per questo genere di progetto.»

L’uomo assentì soddisfatto, asserendo: «L’intraprendenza è il sale della vita, e mi fa piacere che la nostra Beth abbia trovato un compagno che voglia seguirla nella sua strada. Spero che ciò che ti ha detto riguardo a noi non ti abbia turbato troppo. Tendiamo a nascondere la verità per non far preoccupare inutilmente le persone.»

«Ho un retroterra che spaventerebbe più di un lupo, mi creda. Quando hai due genitori che si odiano a tal punto da distruggere la casa pur di ammazzare l’altro, ti abitui un po’ a tutto» mentì spudoratamente Tyler, attingendo ai racconti tragicomici di Puck riguardo a Oberon e Titania.

Vederlo a Walford House assieme a Syldar e a un carico di storie che avrebbero fatto accapponare la pelle anche all’uomo più coraggioso, lo aveva ispirato per creare dal nulla quella favella strappalacrime.

Gli occhi di Johnatan si fecero sinceramente spiacenti, e Tyler si ritrovò nella spiacevole situazione di sentirsi in colpa nei confronti di un Cacciatore. La vita poteva portarti di fronte a paradossi davvero assurdi.

«Conoscendo la situazione di Beth, speravo e pensavo non vi fosse di peggio, ma evidentemente mi fido troppo degli uomini. Capisco cosa intendi dire. A ben vedere, i licantropi possono davvero fare meno paura, visto che non li si ha in casa giorno dopo giorno» dichiarò spiacente l’uomo. «Se non altro, ti è capitata in sorte una gran brava ragazza. Credo compensi molto bene il vuoto creato dai tuoi genitori.»

«Assolutamente» annuì Tyler, grattandosi nervosamente una guancia di fronte allo sguardo pieno di comprensione dell’uomo.

«Non vi trattengo oltre, perché so che voi giovani amate essere attivi…» dichiarò a quel punto Johnatan, dandosi una pacchetta ironica sulla pancia prominente. «… ma ci tengo ad augurarvi tutta la fortuna del mondo. E’ stato un piacere lavorare con te, Beth. Fatti vedere, casomai dovessi ricapitare a Londra per lavoro, un domani.»

«Lo farò, se potrò» assentì Beth, stringendogli nuovamente la mano prima di uscire assieme a Tyler.

Nell’incamminarsi per uscire dallo stabile – un palazzo nel centro città pieno fino all’orlo di uffici di ogni declinazione e forma – Tyler sbuffò contrariato e borbottò: «Che schifo! Mi sento un verme per avergli mentito, il che è totalmente assurdo, se si pensa a chi è quel tizio in realtà!»

Scrollando le spalle con aria comprensiva, Beth replicò: «Era per questo che volevo tu lo conoscessi. John è una brava persona, al di là di quello che pensa di voi, ed è stato la figura maschile più vicina a un padre che io abbia mai avuto.»

Il giovane assentì, adombrandosi in viso al solo pensiero di cosa avesse dovuto passare la sua amata. Lui aveva mentito alla grande, ma Beth aveva davvero passato l’inferno, entro le mura domestiche, e questo l’aveva resa più forte per certi versi, ma anche più fragile.

Avvolgendole le spalle per riflesso, Tyler borbottò: «Beh, sono contento che tu abbia potuto appoggiarti a un uomo simile, anche se ti ha insegnato cose sbagliate. Si vedeva chiaramente quanto, la tua perdita, lo stesse toccando. Ti vuole veramente bene, al di là di tutto.»

Beth assentì e, mentre tornavano ad affogare nell’umidità dilagante della città – che, entro breve, si sarebbe trasformata in un forno a microonde – ammise: «So che Keath ha ragione nel dire che l’odio tra i due gruppi continuerà per sempre, ma persone come John, forse, potrebbero accettare un’altra realtà.»

«Con te è successo» ammiccò Tyler, dandole un bacio sulla tempia mentre camminavano tranquilli lungo il marciapiede. «Potrebbe succedere anche a qualcun altro, in futuro. Dopotutto, le sorprese sono sempre dietro l’angolo, no?»

Elizabeth non riuscì mai a rispondergli.

Non appena ebbero svoltato, Puck la abbracciò con veemenza, esclamando: «Ah! Non vedevo l’ora di vedervi uscire per sapere ogni cosa! Allora, com’è andato l’incontro? Hanno sospettato nulla? Devono…»

Letteralmente sballottata dal cugino elfo di William Darcy, Elizabeth riuscì in qualche modo a rispondere alle sue mille domande, mentre Cecily scuoteva il capo per l’esasperazione e William si scusava a più riprese.

Il tutto proseguì per diversi minuti, minuti intensi in cui la donna dovette familiarizzare anche con quella strana, curiosa parte della sua nuova famiglia allargata.

Mentre il gruppetto si allontanava per raggiungere la stazione – da cui sarebbero partiti per fare visita ai genitori di Tyler – Beth si ritrovò a pensare alle parole di Duncan McKalister.

Era proprio vero; quando conoscevi i licantropi, entravi a far parte di un’enorme, spettacolare famiglia. E lei non vedeva l’ora di conoscere tutti i suoi membri, strani o meno che fossero.







N.d.A.: ed ecco ciò che è successo ai nostri Tyler e Beth. A quanto pare, ci sono delle persone buone anche tra i Cacciatori, anche se queste sono state "deviate" contro i licantropi da false credenze. Come dice Tyler, se è successo a Beth di cambiare idea, potrà forse succedere ad altri in futuro. Staremo a vedere... per ora vi saluto e ringrazio! 
 
 

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Capitolo 60
*** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.1 ***


Tempesta a sorpresa - Cap. 1

 

(Tempest e Hugh)

La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia.
(Vivian Greene)

 

Luglio 2013 - Broubster Forest (Scozia)

 

Nell'approssimarsi a Calder Mains, da cui avrebbero imboccato la diramazione per Broubster, Hugh si chiese cosa avesse organizzato Bryan, per quella riunione tra clan.

Per quanto lo riguardava, era la prima volta che si avventurava così a nord, ma andava pur detto che, prima della riconciliazione tra Alec e Duncan, le riunioni tra i vari Fenrir erano eventi più unici che rari.

Guardandosi intorno con espressione incuriosita, si sorprese non poco nel trovarsi in prossimità di una foresta quando, per diverse decine di miglia, era stato circondato da immense praterie di erica, rocce levigate dalle intemperie e poco altro. L'aspetto di quella parte di Scozia era selvaggio e impervio, molto più di quanto non lo fosse la stessa Cornovaglia, e il veloce volgere del tempo al brutto o al sereno, conferiva al tutto un'aura di mistero ancora maggiore.

Pur se Bryan era ufficialmente il capoclan del branco delle Orcadi, il loro Vigrond si trovava sulla terraferma poiché, sulle isole in cui vivevano i licantropi, non esistevano foreste di alcun genere.

La proprietà in cui cresceva la quercia del clan apparteneva alla famiglia Donnelly da secoli, quando ancora il branco si trovava nella zona di Thurso e si diramava dalla costa est alla costa ovest della Scozia.

Guerre intestine, lotte coi Cacciatori - i più spietati si erano sempre trovati al nord, almeno negli ultimi secoli - e incroci infelici di genealogie avevano man mano fatto crollare le nascite all'interno dei clan scozzesi. Da oltre quattordicimila lupi, stando a una statistica interna al branco del lontano millesettecentotrenta, si era passati ai ben più modesti duemila, che ora facevano parte delle fila di Bryan.

La zona di Thurso era stata abbandonata progressivamente per stanziarsi più a est, sulle isole delle Orcadi, dove erano richiestissimi i pescatori, ma l'antica proprietà terriera era rimasta, a protezione del Vigrond.

Imboccato che ebbe una piccola sterrata, come indicato da un cartello sul lato della strada che indirizzava alla proprietà dei Donnelly, Hugh si fermò in prossimità di un cancello chiuso e lì, dopo un'occhiata alla sua Fenrir, discese per aprire.

Cecily era rimasta in silenzio per gran parte del viaggio, viaggio che inizialmente non aveva desiderato in alcun modo fare a causa della morte improvvisa del suo anziano nonno materno.

I suoi genitori erano rientrati dai Caraibi nel breve decorrere di una giornata, non appena lei li aveva avvisati e, quando la famiglia Fairchild si era riunita al Vigrond per le esequie, l'intero clan si era stretto in un abbraccio corale attorno alla loro Fenrir.

Il dolore per quella perdita aveva spinto diversi membri dei clan vicini a partecipare alle esequie, e la stessa Lady Fenrir si era unita al gruppo, portando il suo personale affetto a Cecily in quel momento di lutto.

Forse era stata proprio la presenza di Brianna a convincere Cecily della necessità di partecipare alla prossima riunione tra Clan, e i genitori della donna le avevano dato gli ultimi sproni necessari perché lei vi prendesse parte.

Con la promessa di rimanere a Falmouth fino al suo ritorno, i genitori l'avevano quindi invogliata a partire ma, per Cecily, non era stato comunque facile affrontare quel viaggio.

Dopo aver spostato la jeep oltre i cancelli e averli richiusi, Hugh ripartì alla volta del Luogo di Potere e Cecily, nel sorseggiare un succo di frutta alla pesca da un piccolo brick in tetra-pack, borbottò: "Ci si congelerà il culo anche se siamo a luglio. Quanti gradi ci sono, adesso?"

"Undici, credo. Il brutto tempo non aiuta" ammise Hugh, svoltando in una sterrata alla sua destra, lieto che la sua Fenrir avesse deciso di rivolgergli la parola.

Era difficile vederla così abbattuta, visto quanto solitamente l'amica era pimpante, vitale e piena di energia. D'altra parte, non poteva neppure fargliene una colpa.

Cecily aveva amato moltissimo suo nonno Hank, perciò non era per nulla strano che lei reagisse a quel modo alla sua dipartita.

Seguendo le indicazioni che Bryan aveva ben pensato di lasciare lungo la tratta, Hugh riuscì a raggiungere facilmente lo spiazzo adibito a ricovero auto. Lì, spense l'auto e ne discese assieme a Cecily che, rabbrividendo nonostante tutto, lanciò un'occhiata alle nubi che si stavano addensando all'orizzonte e borbottò nuovamente: "Sarò costretta a usare un sacco a pelo."

Hugh sorrise a mezzo, di fronte a quel commento petulante, e replicò: "Se ti farai scaldare da qualche lupo, ne farai a meno, no?"

"Sono quasi tutti accoppiati, Hugh, e con te non ci dormo" sbuffò per tutta risposta Cecily, dandogli una pacca sul braccio per stemperare il rimbrotto.

In ogni caso, Hugh non se la sarebbe mai presa per le battute di Cecily. Per lui, era come una sorella e non gli sarebbe mai passato per l'anticamera del cervello di vederla come un'amante. Neppure per una sveltina rilassante in mezzo ai prati.

No, proprio non ce la faceva, e per Ceel era la stessa cosa.

Raccolti gli zaini e le borse con le tende, i due si inoltrarono nel bosco, seguendo l'odore dei licantropi già presenti e l'aroma pungente della legna messa a bruciare, probabilmente per un falò o un barbeque.

Quando finalmente raggiunsero lo spiazzo erboso in cui si sarebbero radunati per la Riunione - circondato da un fitto bosco di abeti - videro già diversi clan presenti e alle prese con chiacchiere rilassate.

Nel vedere Duncan, Brianna e Lance impegnati a sistemare le loro tende e il necessario per il campeggio, Cecily si mosse lesta per raggiungerli per un saluto, lasciandosi alle spalle zaino e tenda.

Hugh, nel frattempo, recuperò ciò che la sua Fenrir aveva molto poco casualmente abbandonato, dopodiché raggiunse il gruppetto e si esibì in un leggero inchino a Brianna prima di salutarla con un abbraccio.

La giovane, contrariamente all'ultima volta in cui si erano visti, esibiva un taglio pixie davvero esuberante, e una lunga ciocca color turchese scivolava leggera a carezzarle la guancia destra.

"Come mai questa pettinatura così diversa dal solito? Abbiamo novità in arrivo?" domandò Cecily, prendendo sottobraccio l'amica mentre si dirigevano verso il falò che, con fiamme alte e sfrigolanti, emanava un gradevole calore tutt'attorno.

Brie rise, scuotendo il capo e così i corti capelli biondo-castani, replicando divertita: "Ho perso una scommessa con Mandy, e questo è il risultato. Dovrò stare più attenta a quello che prometto, mi sa."

"Si può sapere qual era la scommessa, o è una cosa che i signori maschietti non possono sentire?" domandò maliziosa Ceel, lanciando un'occhiata furba all'indirizzo di Duncan, che nicchiò simpaticamente.

"Oh, niente di terribile. Una scommessa puramente accademica. Volevamo scoprire chi fosse più veloce a fare un numero imprecisato di esami di laboratorio in un'ora" scrollò le spalle Brianna, scoppiando poi a ridere quando scorse l'espressione disgustata dell'amica. "Scusa. Niente di interessante."

"Dovrò parlare con la tua amica senza pelo. Dovete buttarvi su esperienze più interessanti, finché rimarrete lontano dagli uomini che vi tampinano" brontolò Ceel.

"Nessuno tampina Mandy, che io sappia" sottolineò Brianna.

"Hugh? Sei interessato?" domandò allora Cecily, indirizzando un sorriso ghignante al proprio Hati.

"Passo. Quando avrò bisogno di te per trovarmi una donna, allora sarò davvero alla frutta" levò una mano Hugh, sorridendo esasperato.

Lance gli diede una pacca sulla spalla a mo' di consolazione e il giovane, nel sorridergli, domandò: "A proposito di donne... come stanno le tue?"

"Mary sta ancora decidendo quando cambiare, perché è indecisa se avere o meno un altro figlio..." rise sommessamente Lance. "...e, quanto a Keely, si diverte un sacco a richiamare Hati per mettere a dura prova il suo autocontrollo. Dei due figli di Fenrir, è il più mansueto, ma lei pare decisa a scoprire il suo punto debole."

"Quella bambina ti farà vedere i sorci verdi, quando sarà grande. Se prenderà in bellezza almeno la metà dei suoi genitori, dovrai rinchiuderla in una Torre d'Avorio" sghignazzò Cecily, vedendolo impallidire per diretta conseguenza.

"Non me lo ricordare, Ceel. Faccio incubi simili almeno una volta al mese" sottolineò Lance, adombrandosi.

Cecily, per contro, rise sguaiata di fronte a una simile paura ma Lance, che ben la conosceva, preferì nicchiare come, in precedenza, aveva fatto il suo Fenrir. Sobillare la mente vulcanica di Cecily era controproducente, perciò era meglio tapparsi la bocca e lasciare che lei procedesse verso altri argomenti.

Non ve ne fu però il tempo perché, quando raggiunsero il falò, Alec Dawson, Fenrir di Bradford, si fece avanti per salutare i nuovi venuti e, pugno contro pugno, diede il benvenuto a tutti loro.

"Ti si sentiva da un miglio di distanza, Cecily" asserì a quel punto Alec, torcendo in un sorriso la bocca seriosa.

"Amo fare entrate a effetto" chiosò lei, passandogli accanto con una leggera spallata prima di raggiungere Erin e Penny per un saluto.

Alec la squadrò sprezzante prima di volgersi nuovamente verso il gruppetto e aggiungere: "Pascal e i figli sono già arrivati e, al momento, sono in giro per il bosco per monitorare la zona. Bryan, la consorte e il suo Hati sono tornati temporaneamente a Thurso per recuperare la birra, visto che qualcuno..." e, nel dirlo, lanciò un'occhiata derisoria a Joshua. "... si è dimenticato di portarla. Il clan dell'Isola di Man ci raggiungerà domani, invece, perché il mare mosso ha impedito loro di prendere il traghetto, mentre Joshua si è tirato dietro quel rompipalle di Keath, visto che la compagna di Michael è prossima al parto. Quanto a Talgarth, sono presenti Marvin e Soren, visto che i cuccioli di Eirwin hanno la febbre, perciò i genitori hanno preferito non venire."

Dopo quel breve elenco di persone, Alec si rivolse quindi a Brianna, ghignò e aggiunse: "Quanto al tuo koala preferito, non vedeva l'ora che tu arrivassi. Estelle non riesce a star calma neppure quando è incinta."

Brie gli diede una pacca sulla spalla e replicò: "Magari sei tu che fai troppo caso a certe cose."

Arrossendo a sorpresa, Alec tossicchiò nervosamente e borbottò: "Che cavolo dici, streghetta?!"

Per tutta risposta lei gli sorrise, picchiettò un dito sul suo torace, all'altezza del cuore, e aggiunse: "Mi sa che qualcuno è diventato più sensibile all'argomento... o sbaglio?"

"Non esiste" decretò lapidario lui, incendiandosi in viso prima di allontanarsi a grandi passi.

Leggermente confuso, il trio di uomini al suo fianco chiese spiegazioni alla wicca che, con sguardo dolce e premuroso, osservò in lontananza Erin, impegnata a sistemare alcune borse frigo accanto al resto delle provviste, per poi dire: "Ho saputo da Erin che desidera avere un figlio da Alec, ma lui è terrorizzato al solo pensiero di passargli chissà quale turba psichica. Perciò, le ho promesso che sfrutterò questi giorni per parlargli un po' e tranquillizzarlo."

"E dire che, con Penny, mi sembra in gamba. Perché ha tutti queste fisime in merito alla nascita di un figlio interamente suo?" domandò Hugh con aria dubbiosa.

Brianna preferì non esporre ciò che sapeva riguardo alle paranoie di Fenrir di Bradford e, dopo aver dato un bacetto a Duncan, salutò tutti per poi raggiungere l'amico.

"Non ti dà noia che passino del tempo assieme? Dopotutto, Alec è un tipo strano" domandò Hugh, osservando la coppia allontanarsi dal campo per chiacchierare in solitudine all'ombra dei pini.

Duncan, però, scosse il capo e, nell'osservare distrattamente tutto attorno a sé, replicò quieto: "Posso fidarmi ciecamente di entrambi, credimi. Inoltre, i poteri di wicca di Brie sono così forti che, anche volendo, non sopporterebbe mai di vedere un amico in difficoltà. Proverebbe il bisogno insopprimibile di aiutarlo."

L'arrivo di un'alta giovane dai corti capelli castani e strepitosi occhi grigio-azzurri tolse a Hugh qualsiasi capacità di replica e, perplesso, si chiese chi fosse quella ragazza mai vista prima.

Duncan, però, parve conoscerla perché, dopo averle sorriso pieno di sorpresa, la abbracciò e disse: "Tempest! Che piacere vederti! Sei riuscita a sganciarti per qualche giorno dal tuo ruolo, allora!"

Sorridendo, la giovane assentì e disse: "Quando ho saputo che la riunione tra clan sarebbe stata presieduta dal nostro branco, ho insistito con Bryan per fare in modo che anch'io fossi presente. Sono così rare le occasioni in cui io e Brie possiamo vederci di persona, che non ho potuto non approfittarne."

Duncan assentì compiaciuto prima di indicare i suoi compagni e dire: "Lascia che ti presenti il mio Hati, Lance Rothshild, e l'Hati di Cecily Fairchild, Hugh MuKuffy."

Tempest tese loro la mano - per i saluti lupeschi, avrebbero avuto tempo per l'apertura ufficiale della Riunione tra Clan - e, sorridendo a entrambi, disse: "Finalmente vi conosco. Capisco perché Brianna sia così orgogliosa di averti come patrigno, Lance. Chi non lo sarebbe?"

Lance sorrise divertito, esalando: "Comincio a temere di scoprire cosa vi dite, quando vi chiamate via Skype."

"Tutte cose bellissime, davvero" rise Tempest prima di rivolgersi a Hugh e aggiungere: "Per voi è la prima volta, qui al nord. Sarò lietissima di farvi da guida, se vorrete visitare le nostre terre mentre sarete qui."

"Sono certo che Cecily lo vorrà di sicuro" la ringraziò lui. "Sono diversi anni che desidera fare un viaggio di Scozia, ma il tempo e le occasioni sono sempre mancati."

"E tu?" domandò a quel punto Tempest, ammiccando simpaticamente.

"Beh, dove va lei, vado io" sottolineò Hugh.

"Buono a sapersi" asserì a quel punto Tempest, guardandosi poi intorno alla ricerca di Brianna. "Dov'è finita la tua Prima Lupa, Duncan?"

"Sta parlando con Alec, ma arriverà a breve, non temere" le spiegò Duncan.

"Quel lupo me la ruba sempre per primo" sbuffò allora Tempest, accigliandosi leggermente. "Quasi quasi, vado a marchiargli il sedere con la spada di Tyr."

Scoppiando a ridere, Duncan le diede una pacca sulla spalla e replicò: "Porta pazienza, Tempest. Quei due hanno davvero bisogno di parlarsi."

"Se lo dici tu..." sbuffò la giovane. "Avete bisogno con le tende, per caso?"

"Noi siamo a posto. Aiuta pure Hugh, se vuoi. Credo che Cecily ricomparirà solo a cose fatte. Detesta questa parte della festa" ironizzò Lance, dando di gomito a Hugh, che assentì esasperato.

"Molto bene, allora. Ne approfitterò per conoscere meglio il Clan di Cornovaglia" sorrise Tempest, allungando una mano perché Hugh gli consegnasse l'attrezzatura della sua Fenrir.

"Non sentirti obbligata. Ormai sono abituato a montare le tende da solo" replicò lui, pur seguendola attraverso il campo per raggiungere il punto in cui sistemarsi.

Coloro che erano giunti per primi avevano già sistemato il necessario per le grigliate e il servizio a buffet e, mentre i più giovani si occupavano dei neonati, gli adulti chiacchieravano spensieratamente accanto al grande falò acceso nel mezzo della radura.

Hugh salutò i presenti prima di allungare il passo e raggiungere Tempest che, nel frattempo, aveva trovato un ottimo punto in cui ancorare le loro due tende.

A quel punto, la giovane poggiò lo zaino di Cecily a terra e ammise: "Passo sempre così poco tempo in compagnia delle persone che, quando mi capita di poterlo fare, non mi tiro mai indietro. Anche se c'è del lavoro da svolgere." 

"Brianna ci ha detto che sei il Guardiano di Bifrost, ma non ho ben chiaro cosa voglia dire" si informò a quel punto lui.

Tempest, di buon grado, gli spiegò quali fossero i suoi compiti e cosa prevedesse essere Heimdallr, dissertando altresì sulle strane caratteristiche metapsichiche dell'isola di Holm of Huip.

Per tutto il tempo, Hugh la ascoltò con piacere e interesse, misto a una buona dose di meraviglia, trovando la sua voce cristallina non solo gradevole, ma anche affascinante.

La spontaneità di Tempest era il suo tratto più distintivo, forse nato proprio dal fatto che, per la maggior parte del tempo, la sua famiglia viveva isolata su Holm of Huip, a guardia del passaggio che conduceva a Niflhemir.

Parlandone con lei, Hugh venne quindi a sapere che, come molti membri del clan di Bryan, anche il padre era spesso via per mare sulle flotte mercantili, perciò lei, sua madre e sua nonna vivevano spesso sole.

Fin da quando aveva scoperto di possedere l'anima immortale di Tyr, Tempest aveva agognato di conoscere chi fosse assurto al ruolo di custode di Fenrir. Tyr era infatti rinato per poter stare al fianco dell'antico amico, così da pagare il debito che aveva contratto con lui, tradendolo e facendolo uccidere da Odino stesso.

Non conoscendo, però, l'identità di colui - o colei - in cui Fenrir era risorto, Tempest e Tyr avevano dovuto attendere pazientemente che la promessa di Madre fatta al dio, e cioè ritrovare il suo vecchio amico, si esaudisse.

Quando, infine, gli eventi avevano cospirato perché lei e Brianna si conoscessero, ne era stata estremamente felice, poiché aveva trovato nella giovane wicca una persona in grado di capirla meglio di chiunque altro.

Hugh non fece fatica a crederle, avendo avuto modo a sua volta di provare sulla pelle come, della presenza della solare ragazza, avessero beneficiato un po' tutti.

Cecily la trattava alla stregua di una sorella minore, Duncan si era autenticamente trasformato, da quando stava con lei ... e che dire di Alec Dawson? Colui che più di tutti aveva subito i maggiori effetti della sua venuta!?

Di certo, su Fenrir di Bradford, Brianna aveva compiuto un autentico miracolo.

Ancora una volta, Hugh si chiese come Duncan potesse fidarsi tanto di un lupo così ombroso come Alec, pur riconoscendo come, in quegli anni, fosse nettamente migliorato. Non era sicuro che si sarebbe sentito altrettanto a suo agio, sapendo la propria lupa in sua compagnia, soprattutto conoscendo il profondo legame che sembrava esistere tra la wicca e Fenrir di Bradford.

Doveva essere difficile essere il compagno di una donna amata e idolatrata da tutti.





N.d.A.: In attesa di postare le mie prossime 2 storie sul mondo dei lupi e dei berserkir, spero di allietarvi con il racconto del giorno in cui Tempest e Hugh si conobbero. A presto!

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Capitolo 61
*** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.2 ***


Cap. 2




Quel gran ragionare su Alec, Brianna e la loro profonda amicizia dovette rendersi evidente sul suo viso perché Tempest sorrise a Hugh con aria comprensiva, forse percependo la sua confusione sull’argomento.

La giovane seguì quindi lo sguardo di Hugh - che stava scrutando le figure abbracciate di Brianna e Alec, al limitare della boscaglia - e, quieta, asserì: "Quei due potrebbero essere gemelli separati alla nascita, per quel che ne sappiamo."

"Tu dici?" si interrogò Hugh, passandole un picchetto per sistemare l'ultima corda della sua tenda.

Annuendo, Tempest mormorò pensierosa: "La prima volta che li conobbi, notai subito la loro sinergia e, per quanto fosse evidente l'amore di Brie per Duncan, non faticai a capire quanto, per Brianna, fosse importante anche l'amicizia di Alec... e viceversa. Non fa specie che Erin abbia chiesto a Brie di parlargli. Solo lei pare in grado di sbloccarlo, per certe cose."

"Mi sembra così strano pensare a un Alec vulnerabile" esalò Hugh, scuotendo incredulo il capo.

"Non lo conosco come Brie, ma credo che vulnerabile non sia la parola giusta, per definirlo" replicò Tempest. "Credo, piuttosto, che Brianna sia l'unica abbastanza forte per sopportare tutta l'oscurità e il dolore che Alec porta dentro."

"Per via di Fenrir?" ipotizzò Hugh.

"Sì. Brianna conosce un dolore così immane e profondo da poter comprendere appieno quello di Alec. Ciò che Fenrir sopportò in vita fu così sfaccettato, terribile e crudele da averla resa praticamente invulnerabile a qualsiasi disastro" gli spiegò Tempest con un sospiro. "Tyr mi parla spesso di quel tempo, ma neppure lui può comprendere appieno tutta la pena provata dall'amico perché, per l'appunto, non fu sua."

Hugh tornò a osservare i due amici, l'intimità con cui Brianna gli sfiorò il viso prima di dargli un casto bacio dietro l'orecchio per poi avventurarsi verso Estelle e stringerla a sé in un abbraccio caloroso.

A giudicare dal suo viso, solcato da una tensione profonda e sfaccettata, ciò che Alec le aveva detto doveva averla turbata profondamente.

"Qui abbiamo finito. Ti va di venire a vedere il Vigrond? Si trova a mezzo miglio da qui, e merita di essere visto, con il tramonto" gli propose a quel punto Tempest.

Aggirandosi con il proprio potere intorno al campo, Hugh captò Cecily in compagnia di Joshua perciò, ritenendola al sicuro, assentì alla lupa e la seguì, uscendo dalla radura con passo tranquillo e rilassato.

Rientrando nel bosco di abeti dopo aver oltrepassato un naturale confine composto di piccoli arbusti e ruscelletti gorgoglianti, Tempest gli spiegò: "Queste terre appartengono al branco da non meno di duecento anni, per questo sono recintate. La nostra quercia, però, ne ha solo una settantina perché, durante una serie di bombardamenti della Luftwaffe, questa parte di Scozia venne seriamente danneggiata dagli incendi che si dipanarono a causa delle bombe. Fortunatamente, la Triade di quel tempo aveva preventivamente raccolto alcune ghiande della nostra precedente quercia perché non se ne perdessero le memorie così, a conflitto ultimato, venne piantumata la nuova pianta."

Ciò detto, indicò a Hugh si proseguire verso sinistra e, quando apparve un baluginio tra i tronchi di abete, sorrise ammirata e aggiunse: "Nel bosco ci sono molte piccole sorgive, e una di queste ha dato origine a questo laghetto, su cui si specchia la nostra quercia."

Hugh ammirò le lunghe ombre degli abeti tuffarsi sullo specchio d'acqua ellittico e, complice la declinazione sempre più importante del sole, sul lago si crearono variegate e calde colorazioni. Giallo e viola si confusero con il nero delle ombre e del fondale, mentre blu e indaco andavano a ricoprire gli spiragli d'acqua non baciati dal sole.

Il tutto ricordava la tavolozza di un pittore dal favoloso estro e, quando Hugh si fermò per osservarne lo splendore, mormorò: "E' davvero magnifico. Anche nel nostro Vigrond abbiamo un lago, ma è più ampio e, nel mezzo, sorgono un piccolo isolotto e la nostra quercia."

"Ha un che di romantico, pensare alla quercia sacra circondata dall'acqua" ammise Tempest, sorridendo meditabonda.

Il silenzio calò leggero su di loro, mentre il solo cinguettio degli uccellini faceva da sfondo al calare della sera. Le voci distanti del gruppo di licantropi erano solo un contorno indistinto - nessuno dei due si stava minimamente impegnando per capire ciò di cui stavano parlando - e, mentre la luce di Venere iniziava a baluginare nel cielo di luglio, Hugh si irrigidì leggermente prima di sorridere.

Tempest lo scrutò curiosa prima di comprendere cosa lo avesse temporaneamente turbato e, sorridendo maliziosa, mormorò: "Devi intervenire?"

"Vedremo" scrollò le spalle lui, lanciando uno sguardo esasperato a due figure seminascoste nell'ombra del bosco.

Cecily era letteralmente avvinghiata alla figura possente di Keath, la sua aura sfrigolante di energia sessuale a stento repressa e del tutto divorata da quella del Freki di Londra.

Completamente disgiunti da ciò che li circondava, i due si stavano baciando appassionatamente mentre, con mani avide, Keath teneva sollevata Cecily contro il tronco di un abete, così da averla all'altezza desiderata.

Di quel passo, non sarebbe occorso molto tempo prima che i due finissero a ruzzolare tra l'erba e gli aghi di pino ma, per ogni buon conto, chiese conferme alla sua Fenrir.

"Scusa il disturbo, Ceel, ma siete un tantino visibili, dal Vigrond."

"Che palle! Lo sapevo che dovevamo spostarci ancora un po', ma..." ansimò nella sua mente Cecily, prima di disconnettersi per alcuni attimi. "Trascinerò Keath da un'altra parte, ma tieniti lontano da me per almeno mezz'ora, è chiaro?"

"Facciamo un paio d'ore" intervenne a sorpresa la voce cavernosa e sensuale di Keath. "Te la riporterò indietro serena, appagata e tutta intera, Hugh. Non temere."

"Nessun problema" chiosò Hugh, scollegandosi per non dover vedere troppo di quel che Keath aveva intenzione di fare con la sua Fenrir.

Ridendo, quindi, Cecily scivolò a terra per poi prendere per mano Keath, allontanarsi di corsa con lui e quindi sparire nel folto della foresta, ben lontano dalla mente attenta di Hugh.

Tempest, a quel punto, sorrise divertita e celiò: "Questa sì che è stata una conversazione strana!"

Hugh scoppiò in una risatina leggera, prima di ammettere più seriamente: "Ho dovuto convincerla con le cattive, a venire. Suo nonno è appena morto, e non se la sentiva proprio di sobbarcarsi un viaggio mentre la nonna era appena rimasta sola. I suoi genitori, però, mi hanno dato una mano a spronarla a venire perciò, se Keath le può strappare un sorriso, ben venga. Inoltre, sono sempre andati d'accordo, perciò credo sia il lupo adatto per svagarla un po'."

"Le vuoi molto bene... ma non ti è passato neanche per l'anticamera del cervello di sostituirti a Keath" sottolineò Tempest, dandogli una pacca sulla spalla. "E non hai mostrato di essere geloso di lei."

"Per niente!" rise a quel punto Hugh, trovando assurda la sola idea. "Sarebbe come stare con una sorella e, onestamente, mi farebbe un tantino schifo."

"Direi di sì" asserì lei, lanciando uno sguardo verso il cielo, ora sempre più tendente al violetto e al blu di Prussia, per poi dire: "Torniamo al campo. Credo sia venuto il momento di mettere la carne sul fuoco, e non mi fido dei cuochi presenti. Brianna esclusa, forse."

Annuendo, Hugh le si accodò per tornare indietro e, quando finalmente ebbero raggiunto il campo, si ritrovò addosso le occhiate maliziose di Alec che, sornione, gli disse: "Certo che voi della Cornovaglia ci date dentro. Prima Cecily, e ora tu."

Imperturbabile, Hugh si limitò a dire: "Dovresti capire da solo che non è vero. O hai il naso turato?"

Alec si indispettì immediatamente ma Erin, preso sottobraccio il marito, lo trascinò via di peso mentre strizzava l'occhio a Hugh. Al tempo stesso, Penny si accostò a Hugh e, tutta sorridente, lo prese per mano e disse: "Papà si era chiesto come mai Cecily fosse triste perciò, quando l'ha vista allontanarsi con Keath, si è tranquillizzato. Ma non dire che te l'ho detto. Non ho ben capito perché, ma non vuole che si sappia."

Hugh, allora, le diede un buffetto sulla guancia mentre, con lo sguardo, osservava Erin alle prese con una reprimenda coi fiocchi indirizzata al suo uomo, dopodiché mormorò: "Il segreto morirà con me, non temere."

Eric Goudall, Fenrir di Colchester, evidentemente giunto al campo mentre lui e Tempest erano impegnati al Vigrond, scelse quel momento per avvicinarsi e, nel guardare Penny con aria speranzosa, le domandò: "Penny, ti andrebbe di andare a dare una mano alla mia Samantha? Pare che Bobby le dia qualche problema, e sono sicuro che lei apprezzerebbe molto il tuo intervento."

Allargandosi in un sorrisone tutto fossette, Penny intercettò subito la figura della Prima Lupa di Eric e, dopo essersi scusata con loro, corse via a balzelli per raggiungere mamma e figlio.

Rimasto quindi con Hugh, tornò serio e domandò: "Tutto bene, con Ceel? Come ha preso la morte di nonno Hank? Mi spiace non essere rimasto per più di due giorni, ma Sammy aveva davvero bisogno di me."

"Non devi preoccuparti, Eric. Ceel aveva tutto l'appoggio possibile, e tu devi soprattutto rendere conto alla tua Prima Lupa e al tuo branco" sottolineò Hugh, scuotendo il capo e dandogli una consolatoria pacca sulla spalla.

Cugini di quarto grado, Eric e Cecily erano cresciuti assieme a Falmouth prima di scoprire, con una certa sorpresa, della loro doppia investitura al grado di Fenrir.

Essendo stata Cecily la prima a essere assurta al ruolo di Fenrir, il branco della Cornovaglia era perciò spettato a lei. Eric, invece, su consiglio del vecchio Fenrir di Londra, aveva preso su di sé la carica di capoclan per la contea di Colchester, dove era sorto il suo novello branco.

Randolf Corrighan, predecessore di Joshua, aveva infatti deciso di trasferire parte del suo potere a Eric, quando questi era risultato essere un Fenrir senza branco.

Con più di quarantamila lupi ai suoi ordini, Fenrir di Londra aveva ipotizzato fosse giunto il momento di rendere più snella e semplice per tutti la gestione di un così gran numero di mannari. Si era quindi preso l'incarico di addestrare Eric di concerto con Joshua, che era il suo erede designato, perché divenisse il suo successore nella contea di Colchester.

Quando, perciò, il giovane Eric aveva raggiunto l'età giusta per detenere lo scettro del potere, si era trasferito lì assieme alla famiglia. 

Da quel momento, i lupi di Colchester e Ipswich, un tempo facenti parte del clan londinese, erano divenuti seguaci di Eric che, nel breve decorrere di tre anni, era stato affiancato da un Hati e uno Sköll senza clan.

Grato per questa occasione, il giovane Fenrir - coadiuvato dai suoi nuovi Gerarchi - aveva fatto del suo meglio per non essere da meno del potente maestro e, forte dei suoi insegnamenti, aveva guidato quel giovane branco con polso fermo ma cuore aperto.

"Diciamo che era preparata al peggio, ma sai quanto si volessero bene" sospirò Hugh, scuotendo mesto il capo.

Eric sbuffò, annuendo, ma disse: "Spero che almeno Keath sappia farla sorridere un po'. Per quanto non mi vada di pensare alla mia cuginetta con quello sciupalupe, preferisco che si diverta, piuttosto che vederla mogia e triste."

Sorridendo sghembo, Hugh esalò: "Se Ceel ti sentisse a fare il vecchio barbagianni, ti taglierebbe le palle su un ceppo."

Eric rise di gusto, a quel commento e, annuendo, esalò: "Oh, ti credo sulla parola! So che mia cugina è davvero spietata, quando si parla della sua vita privata."

Hugh assentì con un sorrisino divertito e, mentre i suoi occhi spaziavano sui presenti per comprenderne le varie dinamiche, tornò serio e domandò: "Sammy aveva veramente bisogno di compagnia, o volevi solo una scusa per parlarmi?"

"Tutte e due le cose. In realtà, Penny le piace molto, perciò ho pensato che le facesse piacere averla intorno, visto che Bobby è un po' nevrastenico a causa dei dentini nuovi" scrollò le spalle Eric. "Poi, per l'appunto, volevo parlare con te di Ceel."

Hugh assentì pensieroso e, quasi senza accorgersene, gli occhi rimasero bloccati sulla figura di Tempest, impegnata a redarguire l'Hati di Alec in merito alla preparazione delle salsicce. La vista dell'imponente William tartassato dall'elegante - e non certo massiccia - Tempest, lo portò a sorridere divertito.

"E' carina, eh?" chiosò Eric, immaginando chi stesse scrutando con tanta attenzione.

"Come?" sobbalzò Hugh, tornando a osservarlo con curiosità.

Eric lo fissò malizioso, replicando: "Amico, non fare il finto tonto. Tutte le lupe qui presenti sono accompagnate, e l'unica a non essere impegnata è, per l'appunto, Tempest. Mi sembra abbastanza normale che tu, da gran scapolone quale sei, ti lustri gli occhi con l'unica lupa disponibile."

"Lustrarmi. Gli occhi" ripeté Hugh, basito. 

Eric allora rise sommessamente, gli batté una mano sulla spalla e replicò: "Non credere che lei non abbia fatto lo stesso. Sono così poche le volte in cui può vedere qualcuno di nuovo che, quando questo succede, non se lo può perdere."

"Non... non abbiamo fatto nulla, al Vigrond!" sottolineò Hugh, accigliandosi.

"E se anche fosse successo?" replicò Eric, sorridente. "Hugh, siete entrambi liberi, emancipati ed eterosessuali. Non ci vedo nulla di male se, durante una riunione rilassata tra amici, ci si diverte anche un po' in un altro modo."

"Ma siete tutti fissati, stasera?" brontolò a quel punto Hugh.

"Siamo lupi" si limitò a dire Eric, scoppiando in una gran risata prima di allontanarsi per dare man forte al povero Bryan che, di ritorno dalla sua missione a Thurso, era sovraccarico, al pari del suo Hati, di una montagna di scatole di birra.

Hugh ne seguì l'allontanamento con aria accigliata e, inevitabile, il suo sguardo ricadde nuovamente su Tempest, che ora stava dando una lezione davvero sopraffina sull'arte di rigirare la carne sulla brace. William la stava osservando truce ma silenzioso pur se, a giudicare dalla tensione alle spalle, era lì lì per fuggire a gambe levate da quella femmina impicciona.

Dopo un breve sorriso, Hugh si domandò vagamente turbato se William avesse o meno una donna stabile nella sua vita ma, non appena ebbe concepito quel pensiero, si diede dell'idiota. Tutta quella faccenda degli accoppiamenti, della sua Fenrir impegnata in un incontro a due con Keath e delle battutacce di Eric, dovevano averlo condizionato più di quanto non avesse immaginato.

Adombrandosi, si allontanò per una passeggiata, ben deciso a non attendere che il prossimo lupo nelle vicinanze gli si avvicinasse per tartassarlo ulteriormente con quell'argomento. Per quanto non avessero tabù sessuali, non sempre si divertiva a parlarne e, di sicuro, non quando non aveva nulla di cui parlare.

Se avesse voluto farsi una donna, non avrebbe di certo aspettato l'intervento degli amici ma l'avrebbe cercata da solo, e si dava il caso che al momento non era in cerca.

A ben vedere, però, Eric aveva avuto ragione su un punto. A quella riunione, erano presenti solo lupe accompagnate, e solo Tempest era sola.

Samantha era sposata da tre anni con Eric, e avevano già all'attivo un cucciolo. Estelle e Bright formavano una coppia a loro volta e, entro qualche mese, sarebbero diventati genitori di una bambina. 

Brianna e Duncan non avevano in previsione di avere figli, al momento, ma erano più uniti che mai e nulla, neppure gli dèi, avrebbe potuto separarli.

Pascal era vedovo da alcuni anni e non pareva intenzionato a trovarsi una lupa con cui fare coppia fissa, mentre Joshua e Gretchen stavano assieme da almeno sei anni.

Fred e Becca, che sarebbero giunti il giorno seguente, potevano vantare uno dei matrimoni più duraturi di sua conoscenza, e il piccolo Matthew era la ciliegina sulla torta della loro splendida vita coniugale.

Persino Alec, l'idiosincratico e incazzoso Alec, si era trovato una compagna, e la piccola Penny era un gioiello adorabile e di cui andare fieri.

Quindi, perché aveva trovato così fastidiosa la battuta di Eric? Aveva detto la pura, semplice verità. Tolta Cecily, che lui non avrebbe messo sul piatto della bilancia neppure tra mille anni, chi gli rimaneva da guardare con curiosità? Solo Tempest.

E non c'era nulla di male, se lo faceva né se, per contro, avesse voluto farlo lei.

"A volte, voi lupi vi create un sacco di problemi quando, di fatto, non ve ne sono" disse alle sue spalle l'oggetto dei suoi pensieri, sorprendendolo completamente.

Sobbalzando, Hugh la fissò al colmo dell'imbarazzo e Tempest, con un sorrisino, lo raggiunse con passo tranquillo e aggiunse: "Eric mi ha detto che ti ha punzecchiato un po', perciò ho pensato di venire a vedere che danni avesse fatto... subito dopo aver minacciato di morte William, se avesse anche solo provato a bruciare le salsicce."

"A volte, Eric sa essere peggio di una comare" brontolò Hugh, scrollando indolente le spalle. "Quanto a William, credo che abbia rischiato più tu, prima, di lui, adesso. Pareva sul punto di cedere... se per scappare, o per suonartele, non ne sono sicuro."

Lei assentì con un risolino, mormorando: "Oh, sì, ho notato! Ammetto di averlo punzecchiato di proposito, visto quanto sembrava suscettibile, ma dubito mi avrebbe sculacciato. Quanto alla punzecchiatura di Eric, non mi è dispiaciuto sapere che ci sarebbe stato un lupo scapolo, nel gruppo, a parte quel casanova di Keath. Fare due chiacchiere in santa pace è difficile, quando hai una lupa che ti guarda con aria torva. A volte, le lupe sono un po’ gelose, anche quando non ve n’è motivo."

"Ci si sente soli, là in mezzo al mare, immagino" chiosò quindi Hugh, rilassandosi un poco.

"Abbastanza e, per quanto io riceva spesso delle visite da Bryan, o io mi diverta a parlare coi turisti che ogni tanto bazzicano sull'isola, non è come avere qualcuno di stabile al proprio fianco" sottolineò lei, ammiccando al suo indirizzo. "Non volevo sembrarti troppo intraprendente, prima, quando ti ho accompagnato al Vigrond, ma ci tenevo davvero a conoscerti. E' così raro incontrare persone nuove!"

"Non lo sei sembrata, non temere" la rassicurò lui. "Inoltre, con qualsiasi altro lupo sarebbe stato strano, no? Liam è davvero troppo giovane e così pure Theo, Pascal per nulla interessato e, in tutta onestà, Keath è troppo ..."

"Troppo troppo?" ironizzò lei, facendolo ridere sommessamente.

"A volte mi chiedo come faccia a soddisfare tutte le lupe con cui dice di essere stato" esalò lui, passandosi una mano tra i neri capelli.

"Essendo un lupo dalla discendenza quasi pura, ha dalla sua un'energia superiore alla media" motteggiò Tempest prima di scoppiare a sua volta a ridere.

Decisamente più rilassato, Hugh lanciò un'occhiata in direzione dello specchio di cielo visibile dal Vigrond e che, in quel momento, stava riflettendosi nel piccolo laghetto dinanzi a loro.

La natura appariva tranquilla e pacificata dalla notte, ai loro sensi affinati e, pur se gli animali si tenevano a debita distanza da un così nutrito numero di predatori, ogni cosa dava comunque l'idea di essere al proprio posto. Giusta. 

"E' strano, per me, trovarmi in un bosco, con lo sguardo che non può spaziare ogni dove e in ogni momento" mormorò Tempest, le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans. "La casa dove abito è circondata solo da colline basse, praterie infinite e mare. Il più delle volte non ci faccio neppure caso ma, quando mi trovo sulla terraferma, mi sento un po' spaesata."

Annuendo, Hugh si guardò intorno a sua volta, chiedendosi cosa volesse dire vivere in un luogo differente rispetto a quello cui si era abituati fin dall'infanzia.

Essendo nato e cresciuto a Falmouth, lui aveva fatto l'abitudine allo sciabordio delle acque dell'oceano, alle nebbioline autunnali che circondavano il faro e la costa, al continuo andirivieni dei pescherecci.

Il profumo salmastro della sua cittadina d'origine era per lui familiare e gradevole, oltre che tranquillizzante. Sapeva per istinto che mai, nella sua vita, avrebbe potuto vivere in una città delle dimensioni di Londra poiché ogni luogo, ogni odore, ogni sensazione avrebbe cospirato contro di lui, facendogli provare nostalgia e dolore.

Comprendeva perciò bene cosa volesse dire, per Tempest, trovarsi in un luogo così differente da quello cui era abituata, pur se a dividerli erano poche decine di miglia e uno stretto lembo di mare.

"Tu e Tyr dovete andare molto d'accordo, poiché anche lui ha sempre avuto una visione romantica del proprio luogo d'origine..." mormorò a sorpresa una voce profonda e misteriosa alle loro spalle, sorprendendoli. "...ma, per quel che mi riguarda, non sono i luoghi a rappresentare la casa a cui tornare, quanto piuttosto le persone."

Immediatamente, Hugh reclinò ossequioso il capo nel vedere la figura alta e imponente di Fenrir, abbigliato come di consueto con una tunica bianca smanicata, lunghi e stretti calzoni di pelle chiara e un singolo, sottile bracciale intrecciato al polso destro.

I lunghi e lisci capelli neri scivolavano come seta sulle sue spalle e la schiena diritta mentre gli occhi, di un indefinito colore cangiante e tendente al nero, sfioravano a momenti alterni i due licantropi dinanzi a lui.

Sorridendo tranquilla, Tempest accennò un saluto col capo prima di dire: "Sì, Tyr e io la vediamo allo stesso modo su un sacco di cose. Desideri parlare con lui, mio signore?"

"Se non disturbo troppo la vostra intimità" replicò Fenrir, lanciando un'occhiata curiosa all'indirizzo di Hugh, che si ostinò a non replicare a quello sguardo indagatore.

Scuotendo il capo, la giovane asserì: "Io e Hugh possiamo parlare più tardi. Quanto a me..."

"Ti ho portato un cambio d'abito" chiosò Fenrir, allungandole l'involto che, fino a quel momento, aveva tenuto nella mano sinistra.

"Oh. Grazie" mormorò lei prima di sorridere a Hugh e aggiungere: "A più tardi."

"D'accordo" assentì lui, osservando quindi la venuta alla luce di Tyr.

Contrariamente a quanto avveniva per i lupi, l'avvento delle forme fisiche delle anime divine era più immediato e meno disordinato, pur se gli abiti venivano inevitabilmente distrutti ogni volta, se non si pensava a toglierli per tempo.

Il fatto che Tempest avesse preferito rinunciare ai propri abiti, piuttosto che impegnarsi in uno spogliarello dinanzi a Hugh fece suo malgrado sorridere il lupo che, però, si guardò bene dal farlo notare al dio che comparve al posto della ragazza.

Ossequiando quindi Tyr con un inchino, Hugh asserì: "Me ne tornerò al campo, così che possiate colloquiare in santa pace."

"Ti restituirò la ragazza a breve, promesso" celiò Tyr dandogli una pacca sulla spalla prima di osservare l'antico amico con qualcosa di molto simile al rimpianto e alla gioia, mescolate assieme in un turbinio di emozioni dalla portata inimmaginabile.

Fenrir, a sua volta, assentì al giovane lupo dopodiché, nel rivolgersi a Tyr, disse: "Passeggiamo, vecchio amico mio. Abbiamo un sacco di cose da dirci."

L'alto asghardiano assentì con pieno favore e, mentre le due divinità si allontanavano nel bosco per parlare quietamente, Hugh se ne tornò al campo con la sensazione di essere stato appena preso in giro da Tyr e Fenrir.

Non poteva esserne del tutto certo, ma le loro occhiate curiose e sì, vagamente maliziose, lasciavano intendere un sottofondo praticamente interminabile di ipotesi, una più sconcia delle altre.

Potevano anche essere divinità, ma rimanevano pur sempre maschi.



 

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Capitolo 62
*** Tempesta a sorpresa (2013 - Hugh e Tempest-) Cap. 3 ***


Cap. 3

Non appena Hugh rimise piede al campo, Duncan lo squadrò contrito per un istanti prima di dirgli: "Scusa se Fenrir vi ha disturbati, ma voleva assolutamente parlare con Tyr, e così..."

"Il capostipite della razza avrà sempre il permesso di fare qualsiasi cosa, e non sarò certo io a bloccarlo" replicò con candore Hugh. "Immagino, però, che non si sia palesato nel bel mezzo del campo."

"Assolutamente no, o Madre si sarebbe inferocita a morte" ironizzò Duncan. "Non gli è concesso mostrarsi a me, perché vorrebbe dire mostrarsi ad Avya, il che non rientra nei patti che strinsero all'atto della sua rinascita."

"E' un bel casino, vero, stare così vicini e non poter permettere loro di parlarsi o vedersi?" mormorò spiacente Hugh, accettando il bicchiere di whisky che Bryan gli passò nell'accostarsi a lui.

Duncan assentì, sorseggiando il proprio drink e, pensieroso, lanciò uno sguardo all'alto fuoco che bruciava nel mezzo del campo. Dopo alcuni istanti di silenzio, ammise: "Spesso vorrei trasgredire e permettere ad Avya di uscire all'ultimo secondo, così che Fenrir possa vederla, ma lei mi trattiene ogni volta. Non desidera causare guai e sa benissimo che, facendolo, Madre si incazzerebbe di brutto."

"Vivere con un'anima di quel calibro, non è facile per nessuno" chiosò Bryan, lanciando uno sguardo alle ombre della notte, entro cui si trovavano le due divinità. "Tempest ha passato anni a tentare di far uscire Tyr dal proprio corpo, e solo per permettergli di camminare sulle sue gambe e godersi un po' di libertà. Trovava terribile il pensiero che lui fosse bloccato all'interno della sua testa."

"Brianna fa la stessa cosa, da quando ha capito di poterlo fare" assentì Duncan. "E, ovviamente, io non sono da meno, al pari di Lance e Jerome."

Hugh assentì al loro dire e, per il resto della serata, rimuginò su cosa potesse significare essere in due a pensare all'interno di un medesimo cervello, con un unico corpo a disposizione e l'impossibilità di usarlo entrambi allo stesso momento.

Non era sicuramente un processo semplice, o facilmente comprensibile, eppure nessuno dei suoi amici - o anche la stessa Tempest - sembrava particolarmente turbato da quel genere di intoppo nelle loro vite.

Quando, però, vide tornare Cecily, quei pensieri si annullarono immediatamente e, premuroso come suo solito, Hugh le domandò: "Allora... tutto bene?"

"Perché non dovrebbe essere andato tutto alla grande? Stiamo parlando di Keath, dopotutto" ironizzò Cecily, lasciando che Freki di Londra le desse un buffetto sul naso prima di scostarsi da lei e tornare dal proprio Fenrir.

"Non ti ho chiesto se la sua performance sessuale è stata all'altezza, ma se tu stai bene" sottolineò per contro Hugh, guardandola mentre si accucciava accanto a Linda, la moglie di Bryan, per chiederle come stesse il suo cucciolo.

"Hugh, stai tranquillo. Mi sento bene, Keath mi ha fatto sentire bene e adesso sono rilassata come un bambino piccolo che dorme nel suo lettino. Ti può bastare?"

"Me lo farò bastare. Quindi... dovrei ringraziare Keath?"

Cecily, a quel punto, rise nella sua testa e replicò divertita: "Oh, credimi. L'ho ringraziato io, e ampiamente."

"Non chiederò altro, lo giuro" brontolò Hugh, investito da una serie di immagini a luci rosse.

Ancora, Ceel rise, ma stavolta in modo molto più dolce e, quando infine parlò al proprio Hati, disse: "Sei molto caro, Hugh e sì, ora mi sento meglio. Non ho dimenticato che il nonno è morto, ma ora posso cominciare a farmene una ragione. Dovevo solo sbloccarmi."

"E Keath ti offriva la giusta valvola di sfogo del tutto priva di complicazioni" ipotizzò Hugh.

"Esatto. E' un lupo molto percettivo, e non gli dispiace unire l'utile al dilettevole. Non voleva che io mi avvicinassi al suo Fenrir in una condizione di squilibrio mentale anche solo parziale, e così si è sobbarcato l'onere di calmarmi."

"Chissà quanto gli è costato" ironizzò a quel punto Hugh, allargandosi in un sorriso.

"Cosa non si fa, per la sicurezza del proprio Fenrir!" ciangottò Cecily prima di chiedergli: "Anche tu ti sei sacrificato per la mia sicurezza? Vedo che la cucciolotta di Bryan è nella tua mente."

"Abbiamo parlato e basta. Ora è nelle vesti di Tyr, e sta parlando con Fenrir" sottolineò Hugh, irrigidendosi leggermente. "Ma perché dovete tutti pensare che io e lei abbiamo combinato qualcosa?!"

"Hugh... siete gli unici lupi non accoppiati con età più o meno compatibili. Secondo te, delle menti perverse come le nostre, cosa potrebbero mai pensare?"

"Ecco, hai detto bene. Menti perverse."

"Stai calmo. Nei prossimi giorni, quando arriveranno gli altri e si comincerà a parlare seriamente, nessuno avrà tempo per il gossip, così non dovrai temere che qualcuno controlli se hai la maglietta al contrario, o porti l'odore di una lupa addosso" celiò Cecily, portandolo così a imprecare per l'irritazione.

"Ora so per certo che stai bene. Sei dannatamente dispettosa."

Cecily neppure rispose a quel commento e, nello scollegarsi, lo lasciò ai propri pensieri e alle proprie idiosincrasie.

***

Nei due giorni successivi, il resto dei clan giunse infine nelle lande più a nord dell'ancestrale Albion e, quando Hugh prese posizione accanto alla macchinetta del caffé - quel giorno, spettava a lui prepararlo - sorrise nel dare il buongiorno a Tempest che, la sera precedente, si era occupata di tenere d'occhio la griglia visto che il primo giorno di campeggio, almeno a suo dire, William non era stato particolarmente attento al grado di cottura delle braciole di maiale.

La giovane appariva distrutta, come se avesse dovuto combattere un'aspra battaglia durante il corso della notte e i chiari capelli castani apparivano più simili a un covone di fieno, che a un'acconciatura femminile.

Ugualmente, Hugh cercò di non farci caso, ma fu Tempest a borbottare: "Ricordami di non dare retta alle anime immortali e senzienti. Ti portano solo guai."

A quel punto, il giovane non resistette più e, sorridendo divertito, domandò: "Che è successo, con Tyr?"

"Ha voluto brindare ai bei vecchi tempi con Fenrir... peccato che nessuno abbia tenuto conto del fatto che il mio stomaco, o quello di Brianna, non sono come i loro originali apparati digerenti" brontolò lei, allungando disperata una mug in metallo brunito nell'attesa spasmodica di un caffé.

Sinceramente sorpreso, Hugh cercò con lo sguardo Brianna, che ancora non era emersa dalla sua tenda e, confuso, si chiede quando tutto ciò fosse accaduto.

La sera precedente, attorno al falò, non ricordava di averle viste tracannare birra fino a sfinirsi.

"E' successo intorno alle due del mattino" bofonchiò Tempest, in risposta alla sua non domanda. "Né io né Brie riuscivamo a dormire per svariati motivi, così ci siamo alzate di comune accordo per controllare che il falò fosse regolarmente acceso e, dopo aver salutato le sentinelle di guardia, ci siamo sedute accanto al deposito birre."

Nell'indicarlo con un cenno del capo, Tempest emise un grugnito irritato e Hugh, a quel punto, notò l'effettivo calo spropositato della scorta di lattine.

Ma quante ne avevano bevute?

"Troppe" borbottò semplicemente Tempest, interpretando ad arte il suo sguardo allucinato e ingollando lentamente il caffè che Hugh le aveva versato.

Sinceramente basito, Hugh esalò: "Ma... e ai due diretti interessati di stirpe divina non è balzato alla mente di fermarvi... o fermarsi?"

"Io e Brie volevamo accontentarli, visto che non si vedevano da un sacco di tempo, così ci siamo lasciate prendere un po' la mano" sospirò Tempest prima di rabbrividire quando la mano pesante di Alec andò a posarsi come un macigno sulla spalla della giovane.

Con occhi iniettati di sangue e una muta preghiera nello sguardo, la ragazza lo fissò disperata e Alec, nel ghignare al suo indirizzo, celiò: "Vi siete ridotte bene, voi due, a quanto vedo. Avevo una mezza idea di unirmi a voi ma, quando ho visto i cadaveri ai vostri piedi, ho pensato bene di rinviare ad altra data."

"Ci hai viste? E non ci hai fermate?" gracchiò Tempest, disperata.

"Sembravate spassarvela tanto! O meglio, i vostri alter ego sembravano spassarsela alla grande" ironizzò a quel punto Alec, allungando poi la propria mug a Hugh e aggiungendo malizioso: "Quando sono tornate nei loro corpi, è andata anche meglio. Ancora un po', e queste due avrebbero ballato nude intorno al falò, tanto erano sbronze. Mai visto un lupo sotto gli effetti dell'alcool."

Hugh riempì la tazza con aria sempre più sconcertata e ammise: "In effetti, serve una dose di alcool davvero alta."

"Non me lo ricordate" piagnucolò Tempest, passandosi una mano sul volto pallido e smunto.

Duncan si palesò proprio in quel momento, l'aria divertita e una risata a stento trattenuta che galleggiava sospetta ai lati della sua bocca. 

Tempest lo fulminò con lo sguardo, borbottando: "Non ridere, o non so cosa potrei farti, ora come ora."

"Mi tratterrò..." le promise lui prima di aggiungere: "...ma solo perché hai una faccia così pesta da spingermi a essere clemente."

"Grazie, troppo buono" sospirò Tempest. "La tua bella è cotta?"

"Credo stia rimettendo la sua anima senziente, in questo momento" ammise lui, ancora cercando di non scoppiare in una tonante risata. "Se non ricordo male le sue parole, quando si è svegliata, credo mi abbia detto 'vado a cercare un luogo in cui morire in pace'. E poi è scappata dalla tenda. Questo succedeva venti minuti fa."

"E tu non l'hai seguita? Che marito degenere!" esclamò Alec, scoppiando a ridere spudoratamente e facendo tremare da capo a piedi Tempest, invasa da quelle terribili onde sonore che martellarono il suo cervello impastato e il suo ancor più impastato stomaco.

Duncan non ce la fece più. Rise a sua volta, tenendosi ad Alec per non crollare a terra e Tempest, tappandosi le orecchie, esalò: "Quanto siete crudeli!"

L'istante successivo, divenne verde in volto al pari di un pisello e Hugh, temendo una sua crisi sistemica proprio dinanzi al tavolo degli approvvigionamenti, si scusò con gli altri lupi e afferrò in fretta Tempest per portarla via.

Lesto, la raccolse tra le braccia per poi darsela a gambe dal campo e dirigersi verso il ruscello più vicino perché lei trovasse requie. Al tempo stesso, la giovane si tappò la bocca per non insudiciare il suo baldo eroe ma, quando egli la rimise a terra, dovette dare libero sfogo al suo stomaco.

Premuroso, Hugh la trattenne per le spalle, sorreggendola perché non crollasse e Tempest, durante quella terribile quando agognata liberazione delle proprie viscere, si sentì morire dentro a ogni istante.

Scusa, Tempest... siamo stati due veri delinquenti, a bere a quel modo, le disse Tyr, contrito e dolente.

"Siamo state sceme noi a non fermarvi. Il controllo, dopotutto, è nostro", replicò lei tra un conato e l'altro.

Sì, ma siete buone, e ci avete accontentato.

"Ribadisco... colpa nostra. Anche se avrei preferito non esibirmi così davanti a lui."

Non credo gliene importi molto. Se non erro, ti sta aiutando a stare meglio e, da quel che percepisco, le sue carezze non ti danno proprio del tutto fastidio, aggiunse Tyr con tono vagamente malizioso.

"Credi sia il momento di fare dell'ironia, Tyr?" brontolò per contro Tempest, cominciando a percepire i primi sentori di un miglioramento.

Pensavo fosse meglio farti distrarre, mentre il tuo intestino ritrova un po' di equilibrio.

"Grazie per avermi ricordato che i miei ormoni mi tradiscono nei momenti peggiori."

Direi che è un buon segno, invece. Se, anche stando male, ti senti attratta da un uomo, vuol dire che non stai morendo, dopotutto.

"Anche quanto, non gli salterei mai addosso, ora come ora, con l'alito mefitico che mi ritroverò a fine operazione" brontolò disgustata Tempest, cominciando a sentirsi effettivamente meglio.

Esistono i dentifrici e le caramelle alla menta.

"Pervertito" sentenziò Tempest, gettando infine il capo dentro l'acqua gelida del torrente per darsi una rinfrescata.

Hugh la sorresse per tutto il tempo e, quando infine la giovane parve essersi ripresa, le sorrise titubante per poi chiederle: "Tempesta finita?"

Lei ghignò per quell'evidente tentativo di giocare con il suo nome e, annuendo, si sedette a gambe incrociate sull'erba, esalando più tranquilla: "Penso di non avere più niente, nello stomaco. Grazie per avermi sostenuto."

"Di nulla. Ho pensato che ti servisse un po' di sostegno morale, visto quanto stavi male" si limitò a dire lui, passandole una caramella mou. "Per la gola. Dovrebbe aiutarla a sfiammarsi."

Lei la accettò volentieri, mormorando: "Grazie. In effetti, è in fiamme."

"Lo credo bene" ammiccò lui prima di mettersi in ascolto, sorridere, e aggiungere: "Da quel che sento, anche Brianna sta tornando in vita."

"Dèi! Pensavo non sarei più riuscita a smettere" sospirò Tempest, passandosi una mano tra i capelli che, grazie all'aura, si stavano asciugando in fretta. "Scusa per il pessimo spettacolo. Chissà cosa penserai, ora, di me!"

"Che devi voler davvero bene a Tyr, per ridurti così per lui" sorrise Hugh, poggiando i gomiti dietro di sé per poi allungare le gambe e intrecciarle all'altezza delle caviglie.

Quella posa del tutto rilassata portò Tempest a imitarlo e, nell'annuire, ammise: "Ci parliamo da quando sono stata abbastanza grande da capire la situazione perciò, rispetto a Brianna, ho un rapporto molto più profondo e duraturo con la mia anima senziente. Inoltre, per anni è stato il mio solo compagno di giochi, a voler essere del tutto onesti, perciò..."

"Non ti sei mai spostata dall'isola? Neanche per andare a scuola?"

"Oh, sì, ma andavo e tornavo, per intenderci. Non ho mai legato molto con gli altri bambini e, guarda caso, nel branco non ci sono persone della mia età esatta, perciò non avevo nessuno dei miei, in classe con me" gli spiegò Tempest, scrollando le spalle. "Conoscevo i bambini del branco più grandi e più piccoli di me, ma non siamo mai stati in tanti. Cinque o sei, per essere precisi. Fu un periodo con poche nascite."

Hugh annuì spiacente, asserendo: "Hai avuto una vita piuttosto solitaria, quindi. Non fa specie che, trovandoti a vivere con Tyr nella testa, tu e lui siate diventati grandi amici."

Lei sorrise amorevole, annuendo, e mormorò: "Non esiste persona che mi conosca meglio di lui perciò, quando posso accontentarlo in qualcosa, lo faccio. Solo, non pensavo di ridurmi così. Io e Brie abbiamo davvero esagerato."

"Non voglio neppure chiederti a quanto ammontano le birre che avete bevuto ma, da come sono calate le scorte, dovevano essere davvero molte" ironizzò a quel punto Hugh.

"Non le ho contate, ma stai tranquillo... Alec lo farà per me e ci prenderà in giro per settimane" si lagnò Tempest, facendo pressione su gambe e braccia per sollevarsi. "Coraggio, torniamo al campo. Ora che mi sono svuotata, ho una fame del diavolo."

Hugh la imitò e, nell'ammiccare al suo indirizzo, domandò: "Vuoi tornare come sei venuta?"

Lei sollevò interessata un sopracciglio e, nell'annuire, avvolse il collo di Hugh con le braccia per poi balzare tra le sue e dire: "In effetti, all'andata non mi sono goduta niente. Stavo troppo male. Conducimi pure al campo, mio baldo eroe, allora."

"Come sua grazia comanda" ironizzò Hugh, procedendo a ritroso ma con passo calmo e tranquillo, in netto contrasto con l'andata.

Poggiando il capo contro la sua spalla, Tempest chiuse gli occhi e apprezzò la scelta. Anche lei preferiva così.

***

Naturalmente, l'avventura notturna di Brianna e Tempest tenne banco per molte ore a seguire, perciò la Riunione tra Clan si svolse con toni decisamente molto rilassati e goliardici.

A ogni buon conto, vennero stilati nuovi accordi di collaborazione tra branchi, si decise per l'istituzione di una chat privata su un sito aperto solo ai membri dei clan e che sarebbe stato gestito, in concomitanza, da membri umani di ogni singolo gruppo.

La decisione di inserire degli umani come moderatori era giunta per dare più spazio ai membri solitamente meno attivi dei branchi. Questo, inoltre, avrebbe offerto un punto di vista più ampio agli utilizzatori della chat che, si presupponeva, sarebbero stati i lupi più giovani dei clan.

Theo in particolar modo, essendo il più giovane Fenrir della Gran Bretagna, plaudì l'iniziativa ammettendo come, i suoi coetanei, si sentissero un tantino fuori dal mondo, non avendo nessun supporto digitale a cui appoggiarsi in relativa sicurezza.

Questo commento aveva ovviamente scatenato l'ilarità dei membri più anziani - pur se andava detto che, tolto Pascal, gli altri clan potevano contare su Fenrir al di sotto dei quarant'anni - ma, alla fine, la mozione venne accettata con  pieno favore.

Mentre venivano enumerati i potenziali moderatori del sito - che sarebbe stato aperto solo a invitati diretti dei singoli Fenrir, così da evitare intrusi sconosciuti - Brianna si picchiettò la penna a sfera contro il mento, borbottando: "Sarei tentata di inserire anche Amanda, tra i moderatori, visto che lei è straniera e, per di più, italiana. Potrebbe, eventualmente, ficcare il naso durante le sue trasferte nel Belpaese per scoprire se i branchi italiani vogliono unirsi alla partita."

"Sai bene che sono ibridi(1), Brianna. Non è detto che vogliano avere a che fare con noi" sottolineò per contro Joshua.

"Infatti, è solo un tentativo. Neppure sappiamo per certo a che stirpe appartengano, in effetti... ma so che ci sono. All'università, a Londra, ne ho avvertito la presenza, e loro hanno avvertito la mia, ma hanno preferito non avvicinarmi, così io ho rispettato la loro privacy" scrollò le spalle Brianna.

"Cosa di cui ti ringrazio, visto che a Londra vige la libera circolazione tra razze" le sorrise Joshua, annuendo con gentilezza.

"La streghetta che non ficca il naso dappertutto? Mi sembra strano anche il solo pensarlo" ironizzò per contro Alec, fissando l'amica con aria spudoratamente derisoria.

Lei, per contro, gli sorrise melliflua, replicando: "Credimi, tu sei il mio unico interesse, Alec. La tua mente è così magnificamente unica, che tutto il resto non può che sembrarmi sciatto."

Accigliandosi leggermente, non sapendo come prendere quelle parole, Alec si murò la bocca ed Erin, nel mimare un 'grazie' all'indirizzo di Brianna, disse poi per tutti: "Direi che si potrebbe sempre provare. Anche solo per essere certi di non avere nemici in terra straniera."

"Concordo, ma dovrebbe farlo solo se protetta" sottolineò a quel punto Eric. "Non me la sento di rischiare gratuitamente con la vita di un'altra persona."

"Tranquillizzati, amico mio. Io e Brianna avevamo già pensato di affiancarle un membro del nostro branco, per quando fosse tornata a casa durante le prossime festività natalizie" lo rincuorò Duncan.

Marvin, del branco di Talgarth, esordì per la prima volta e domandò: "E' un problema se avvisiamo anche nostra sorella, in Francia? Credo che la cosa la entusiasmerebbe."

"Naturalmente, sarebbe ben accetta. Sarebbe altresì molto carino incontrarla, magari a Londra, alla prossima Riunione" acconsentì Joshua, lanciando poi un'occhiata all'indirizzo dei presenti, che assentirono.

Marvin allora scrutò il fratello Soren che, armeggiando con il cellulare, inviò lesto un SMS alla sorella per avvisarla di quella possibilità e della prossima apertura di un sito a loro dedicato.

"Altre questioni da dirimere, o possiamo ritenerci soddisfatti, per il momento, e dedicarci a una scampagnata per i boschi per sgranchirci le gambe?" domandò a quel punto Pascal.

"Possiamo parlare più tardi, in merito al divorzio di Randy e Coleen. E' già antipatico che ci abbiano messo in questo pasticcio, figurarsi se mi rovino l'umore adesso" brontolò Bright, lanciando un'occhiata all'indirizzo di Alec, che fece spallucce con espressione esasperata.

"Concordo. E' un dente che possiamo toglierci anche dopo" convenne Fenrir di Bradford.

I due lupi, appartenenti ai banchi di Bradford e Aberdeen, non avevano voluto abbandonare i rispettivi clan e si erano stabiliti a metà strada tra le due città. Per i primi anni, i due avevano convissuto pacificamente ma, dopo un paio di figli, avevano finito con il detestarsi a morte e chiamare quindi in causa i loro Fenrir per dirimere una spinosa faccenda sull'eredità di famiglia. Per quel che riguardava i figli, invece, si erano già mossi gli avvocati umani e i relativi assistenti sociali.

Senza attendere oltre, Alec si spogliò in fretta e furia, forse desideroso di sfogarsi un po' con una bella corsa ed Erin, nello scoppiare a ridere quando si mise in posa, esclamò: "Spudorato!"

"Vorrai dire spettacolare" ghignò lui, mutando in lupo quasi in un batter di ciglio.

Brianna, nel dare di gomito a Erin, gli domandò: "Ma... sbaglio o a messo su qualche chilo nei punti giusti?"

"Non me ne parlare" sospirò lei nel togliersi la felpa e poi poggiarla a terra, ben ripiegata. "Si è convinto che la vita da sposato lo ammosci, così si è messo d'accordo con William per mettersi sotto con gli allenamenti. Come se ne avesse avuto bisogno!"

"Dici che dovrei imitarlo?" domandò a quel punto Duncan. Denudandosi, mise in mostra un fisico portentoso dopodiché, imitato Alec, corse via a quattro zampe un istante dopo.

Erin scoppiò a ridere e, ammiccando all'indirizzo di Brianna, esalò: "Ma... ci si è messo anche lui?!"

"Ho idea che quei due si siano telefonati a nostra insaputa, e si siano messi in testa di non avere più il loro antico phisique du role" chiosò a quel punto Brianna, sistemando le sue cose appresso a quelle di Erin.

Risate collettive segnarono quel breve momento di goliardici commenti sulle rispettive prestanze fisiche, cui però non si unì Hugh, ben attento a non guardare in direzione di Tempest.

Pur sapendo quanto fosse idiota non farlo, non riuscì a impedirselo. Tutte quelle chiacchiere in merito al loro status di lupi single lo aveva messo un po' a disagio, con il risultato che ora, al pensiero di vederla nuda, era sulle spine.

Accelerando il processo, quindi, mutò in lupo e corse lesto via dal campo, mentre i vari membri dei clan - tolte le sentinelle del clan di Bryan, che avrebbero presidiato le tende - si univano a quel folto gruppo di licantropi per una sgambata tra i boschi.

Come sempre, la vista di Brianna lo lasciò senza parole - pur non essendo un Gerarca, era possente al pari di un membro della Triade di Potere - ma, quella volta, a rubare la scena nella sua mente fu Tempest.

Al pari di Keath ed Estelle, possedeva un mantello dalla colorazione uniforme, di un bello e caldo color cannella e, pur se non poteva contare sulla stazza di un gerarca, era comunque una licantropa degna di nota.

"Qualcuno è rimasto sorpreso?" intervenne di colpo Cecily nella mente di Hugh.

Il lupo si volse indispettito per fissare burbero la sua Fenrir che, al pari degli altri capibranco, poteva vantare su una bianca livrea e una corporatura nettamente più imponente rispetto a un qualsiasi licantropo.

Come Hati, anche lui rassomigliava in tutto e per tutto alla sua capoclan, quanto a statura ma, su una cosa, era assolutamente sicuro; nessuno poteva battere Cecily in velocità. E lui non ci teneva a essere morso sul sedere per averle risposto a tono.

Contenendosi, quindi, replicò cauto: "Non è facile vedere lupi con la livrea uniforme, tolti i gerarchi. Persino il pelo di Brianna non è uniforme, pur essendo una nostra pari, quanto a stazza."

Ciò detto, osservò Lady Fenrir e il suo manto nero, grigio e bianco, tipico di qualsiasi lupo naturale cecoslovacco. Solo i suoi occhi erano singolari, e ricalcavano in toto quelli del Fenrir originale; uno era verde giada, mentre l'altro era azzurro come un lapislazzulo.

"Questo è vero. Però, non credo che tu sia rimasto colpito solo dal suo pelo. Non l'hai guardata, primasottolineò Cecily, e nella sua voce non mise neppure un briciolo di ironia. Ora, appariva quasi preoccupata.

Hugh non seppe che dire e Cecily, con tono più dolce, aggiunse: "Scusaci. Ti abbiamo stressato l'anima tutti quanti, con la faccenda di Tempest, quando sappiamo tutti benissimo che non è facile, per un licantropo, trovare l'anima gemella. Siamo troppo sensibili, perché le cose ci riescano al primo colpo."

"Non fa nulla, mia Fenrir. Non me la sono presa" replicò Hugh, sapendo di dire la verità. "E' sempre meglio ridere, piuttosto che scannarsi, e abbiamo avuto fin troppe Riunioni in cui sono state snudate le zanne, per i miei gusti. Siamo tutte Triadi giovani, a ben vedere, perciò è stato anche naturale, ma preferisco il clima sereno di adesso, rispetto a quello di qualche anno addietro. Inoltre, ringrazio il cielo che a noi non sia toccata in sorte la scelta di guidare un branco ancora minorenni, come invece capitò a Duncan e Alec prima, e a Theo adesso, o a Kirill appena diciassettenne."

"Capisco cosa intendi, ma avremmo dovuto comunque essere più gentili. A volte, parliamo a vanvera" replicò contrita Cecily, balzando con grazia oltre un ruscello.

Hugh la imitò, rise nella mente della sua Fenrir e asserì: "Trova un angolo libero di foresta e accoppiati ancora con Keath. Rivoglio la mia scorbutica Fenrir! La lupa che mi ha riportato indietro è solo una sua misera copia."

Cecily, a quel punto, mimò un morso al suo indirizzo e lo stesso Keath, ridendo, si intromise nella loro conversazione, esclamando: "Cecily, lascia in pace il tuo lupo! E' abbastanza grande da mandarci al diavolo, se serve. Non ha bisogno che tu gli faccia da balia."

"Ti strangolerò, Keath, se oserai ancora dirmi cosa fare con il mio lupo..." brontolò Cecily. "... ma hai ragione. Mi stavo comportando da chioccia. Mi sono rilassata troppo, ieri sera."

"Se vuoi, replichiamo con qualcosa di più sfrenato, così non farai più la svenevole" le propose allora Keath, malizioso.

Cecily ci pensò sopra un attimo, prima di dire: "Ti farò sapere più tardi."

I tre lupi risero tra loro dopodiché, sparpagliandosi per il bosco, si divisero in gruppetti più sparuti per godere del bosco ognuno a proprio modo. I lupi erano animali sociali ma, a volte, era piacevole anche stare in compagnia di se stessi e Hugh, in quel momento, aveva bisogno di pensare in santa pace, senza curiosoni che ficcassero il naso nei suoi affari. O nella sua mente.




(1) Brianna si riferisce ai lupi di cui, in seguito, parlerà Rohnin a Devereux e Iris nel corso del loro viaggio di nozze in Irlanda. 

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Capitolo 63
*** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.4 ***


Cap. 4


 



Il lento e solitario pellegrinaggio di Hugh tra i boschi lo portò a costeggiare le sponde di Loch Thormaid, nella zona più a sud dell'immensa pineta dove avevano trovato riparo. Lì, nell'accucciarsi al limitare del bosco, ove le ombre si allungavano pesanti e oscuravano il sottobosco, osservò pensieroso lo specchio d'acqua baciato dal sole.

Quelle zone erano pressoché deserte e, grazie al loro fiuto sopraffino, avrebbero potuto captare la presenza umana a miglia e miglia di distanza, perciò non si preoccupò di nascondersi da loro.

Rimase però all'ombra degli abeti per non essere fotografato neppure per sbaglio da un satellite geostazionario. Non si poteva mai sapere, con quegli affari.

Il solo pensiero di essere immortalato su Google Earth, in ogni caso, lo portò a sorridere divertito e questo pensiero lo riportò con la memoria al progetto di istituire un sito per i licantropi. L’idea di sfruttare a fin di bene il dark web era piaciuta un po’ a tutti, anche se al momento il progetto rimaneva sulla carta e, per metterlo in piedi, sarebbe servita ben più di una riunione tra Clan.

Nello specifico, quel fantomatico sito web avrebbe permesso a ogni licantropo, fosse esso figlio di Fenrir o di qualsiasi altra creatura mistica legata ai lupi, di tenersi contatto con i propri simili. Per farlo, ovviamente, sarebbe servito un più capillare sistema di comunicazione tra Clan e, altresì, un modo per contattare anche color i quali non facevano parte della cerchia diretta dei Figli di Fenrir.

Nel corso degli anni, a quel modo, avrebbero potuto creare autentiche reti di informazioni interstatali, e questo avrebbe sicuramente aiutato i lupi a muoversi con maggiore sicurezza.

Per il momento, però, restava solo un'idea avveniristica e poco altro.

"Sembra che tu abbia dei pensieri profondi" esordì qualcuno alle sue spalle.

Hugh si volse a mezzo e, nel vedere la figura piccola ed elegante di Tempest, inclinò un poco il muso per scrutarla con i suoi occhi verde acqua per poi dire: "Pensavo al progetto di creare un sito internet per lupi. Lo trovo divertente."

Tempest avanzò fino a raggiungere il limitare degli abeti e, come lui, si accucciò per poi osservare meditabonda il lago. Alcune nubi avevano temporaneamente oscurato il cielo e ora le acque apparivano scure, quasi minacciose, come se un pericolo incombente potesse scaturire da esse da un momento all'altro.

Naturalmente, sapeva perfettamente che in quello specchio d'acqua non esisteva nessun mostro, o ne avrebbero sicuramente percepito l'odore. In ogni caso, quell'improvvisa oscurità la portò ad accigliarsi, quasi si aspettasse di veder comparire nella sua mente una visione terribile e devastante.

O fosse, per contro, il presagio nefasto di un evento non ancora avvenuto.

La solitudine ti porta a essere sempre un po' pessimista, piccola... non rovinarti la giornata temendo che possano attaccarci da un momento all'altro, le ricordò Tyr con tono affabile.

"Devo ricordarti che sono la guardiana della porta che conduce a Niflheimr, la prigione dei Nove Regni?", replicò lei con tono ironico.

Beh, non è solo una prigione. E' anche un luogo umidiccio, dove c'è sempre nebbia, c’è puzza di muffa e chi soffre di cervicale lo considera un inferno puro e semplice, ironizzò a quel punto Tyr, facendola sorridere.

"Tu soffri di cervicale, Tyr?"

Non che io sappia. Dopotutto, ero un dio. Però, qualche acciacco dovuto ad antiche ferite di battaglia, lo avevo, celiò la divinità prima di tornare seria e aggiungere: Concediti di passare un pomeriggio in tranquillità. Baderò io ai messaggi del Mondo Mistico e, se proprio avvertirò qualcosa che non quadra, ti disturberò. Comunque, per evitare di non dormire stanotte, mi disconnetterò da te. Ciao ciao!

Tempest lo mandò debitamente al diavolo e, con uno sbuffo, borbottò: "A volte, vorrei fare a meno di un inquilino così chiacchierone. Brie mi ha detto che Fenrir non è così logorroico."

"Forse, era solo preoccupato per te. Ho notato che, coloro che sono dotati di anima senziente, hanno una certa tendenza a farsi pensierosi e, forse troppo spesso, tristi", le fece notare Hugh.

"Può darsi che, in qualche modo, rimuginiamo troppo sulle leggi cosmiche, o ci soffermiamo sulle vite di coloro che l'hanno donata a noi" ammise Tempest, leccandosi una zampa per togliere di mezzo un insetto dispettoso. "Penso spesso ai drammi di Tyr, quando lui si disconnette per lasciarmi ai miei pensieri. Vorrei poter sanare le ferite che lo fanno stare male, ma so che è impossibile. Solo Fenrir può farlo ed è per questo che, quando possiamo, io e Brie lasciamo loro ampio margine di manovra."

"Gli vuoi molto bene" mormorò Hugh, scrutandola pieno di curiosità.

La lupa annuì, asserendo: "E' come un fratello, per me, e il fatto di poter essere così intimi, a un livello tale che nessun altro potrebbe capirne l'intensità, me lo ha reso molto caro. Perciò, desidero per lui il meglio, … nei limiti concessi da Madre, ovviamente."

"E' bello che tu lo dica" dichiarò Hugh, accucciandosi a terra e poggiando il muso sulle zampe anteriori allungate sul terreno.

Lei lo imitò prima di ammettere: "A volte, però, mi è difficile sopportare il peso dei suoi ricordi. Non gliene faccio una colpa, ma è destabilizzante vedere il mondo con gli occhi di un dio. Fatichi a comprendere gli eventi per come li hanno vissuti loro."

"Parli della faida che creò i Cacciatori?"

"Anche. Ma altresì del suo rapporto con Avya. Credo che, in qualche modo, l'amasse, ma non il genere d'amore che Fenrir provò per lei. La amava perché lei amava Fenrir, non so se riesco a spiegarmi, ed era un amore così puro, così forte da farmi salire le lacrime agli occhi, quando lo percepisco."

"Pensi che Tyr amasse Fenrir?" esalò sorpreso Hugh.

"Chi può dirlo? Sono divinità, e hanno un concetto dell'amore e dell'odio diverso dal nostro ma, di sicuro, gli voleva molto bene, e ne voleva molto ad Avya e ai suoi figli. Sai che fu il padrino dei primi cuccioli di Hati e Skoll? Appose su di loro la sua benedizione, macchiando del suo sangue le loro fronti, così che gli aesir non potessero ritenerli nemici."

"Cercava di proteggere i figli di coloro che amava. La reputo una bella cosa" asserì Hugh, affascinato da quel racconto.

Sapevano così poco, dei loro predecessori! I racconti contenuti nelle memorie mistiche delle querce erano edulcorati dai secoli passati, modificati dalle storie orali che si erano tramandate di capoclan in capoclan. Con l'andare del tempo, la verità era stata modificata, se non addirittura sovvertita e, quando Fenrir era infine apparso nel corpo di Brianna, era stata una sorpresa per tutti scoprire le loro vere, reali origini.

Ascoltare la storia da chi l'aveva vissuta, era ben diverso.

"Protesse la famiglia di Fenrir finché il culto degli Asi resse all'incuria del tempo ma, quando l'Unico Dio soppiantò tutti loro, divenne Essenza spirituale e si rifugiò nella regione del Valhalla, su Helheimr, nel luogo in cui dimorano le anime buone. Lì, osservò per millenni il dipanarsi delle vicende legate ai figli di Fenrir finché, nell'avvertire la presenza dell'antico amico nel Regno di Midghardr, decise di rinascere... e nacque in me."

"Di quanti giorni sei più giovane di Brianna?"

"Un giorno" ammiccò Tempest, scrollando il muso.

"Caspita! Era davvero ansioso di rivedere l'amico!" esalò sorpreso Hugh.

"Già. Ma dovemmo attendere ancora molto, prima di incontrarlo. Erano i patti che Tyr prese con Madre per poter rinascere nello stesso Tempo di Fenrir. Non potevamo cercarlo, ma solo aspettare. Evidentemente, Madre era certa che, prima o poi, si sarebbero rivisti."

"Ho idea che Madre chiacchieri spesso con le Norne" chiosò Hugh. "Quanto a te... hai mai aspettato nessuno?"

"Di certo, non il principe azzurro" celiò lei, facendolo scoppiare in una risata allegra. "Aspetto mio padre, di solito. Dovrebbe essere di ritorno la settimana prossima, tempeste permettendo, tra le altre cose."

Lanciando poi un'occhiata a Hugh, gli domandò: "Ti scoccia se torno donna? Parlare mentalmente è carino, ma mi stanco molto a farlo. Sono così poco abituata a farlo, non avendo nessuno con cui cimentarmi, a parte mamma e nonna, che tende a venirmi subito il mal di testa. Con Tyr è diverso, perché è nella mia testa, per cui…"

"Nessun problema, davvero" assentì Hugh, lasciando che l'uomo soppiantasse il lupo.

Naturalmente, Tempest si dimostrò perfetta anche in forma umana, senza abiti a celarne le forme, ma già Hugh lo aveva sospettato nel vederla aggirarsi per il campo con i suoi pantaloncini corti e la maglietta attillata.

La licantropia tendeva ad asciugare - o meglio, prosciugare - i tessuti, soppiantando grasso con fibra muscolare, ed era per questo che i mannari divoravano anche cinque o seimila calorie al giorno senza battere ciglio. Se poi si nasceva con buoni geni, il risultato erano un corpo scultoreo e una buona dose di fascino.

Con licantropi sangue puro come Duncan o Keath, poi, si otteneva qualcosa di diverso ancora, qualcosa di molto simile al glamour delle fate, pur se in loro non vi era alcun connotato magico. Ciò che ne nasceva era una sorta di fascino ferino e magnetico che attirava le persone in modo quasi ineluttabile e, almeno nel caso di Keath, questo magnetismo era stato utilizzato in maniera più che proficua.

Sedendosi a terra a gambe incrociate mentre Hugh faceva lo stesso, Tempest si passò svogliatamente una mano tra i capelli, asserendo: "Grazie. Avevo già iniziato a sentire picchiettare l'emicrania alle tempie. E' uno strazio non avere resistenza, ma non mi va di rompere le scatole a mia madre e mia nonna per fare allenamento, né posso pretendere che i membri del branco raggiungano Holm of Huip solo per tenermi compagnia."

"Deve essere difficile gestire la solitudine" ammise meditabondo Hugh, poggiando le mani dietro di sé per poi reclinare all'indietro il capo e perdersi in contemplazione delle chiome degli abeti sommossi dalla brezza che spirava dal mare. "Non mi sono mai trovato completamente solo e, in tutta onestà, non so come sarei in grado di comportarmi, se lo fossi adesso. Sono talmente abituato ai brusii di Cecily nella mia testa che, il solo fatto di non udirli per troppe ore di seguito, mi metterebbe ansia. Tu, invece, sembri gestire ottimamente la situazione."

Sorridendo divertita, Tempest si picchiettò una tempia e ammise: "Beh, Tyr è un gran chiacchierone, perciò non sono mai del tutto sola, ma capisco cosa vuoi dire. Per quanto io voglia bene a mamma e nonna, non è come vivere a Kirkwall, o anche soltanto a Dounby, che è un piccolo paesello dell'isola di Mainland. Non sono abituata a stare con i miei coetanei, ma solo al mio ruolo di Heimdallr."

"Ti senti soffocare da questa nomina?" domandò Hugh, scrutandola nei suoi occhi d'acciaio temprato.

Quelle profondità argentee avevano il gusto della solitudine e della forza, della sicurezza in se stessi ma anche della nostalgia per una vita mai vissuta; quella di una ragazza come tutte le altre.

Era difficile, per non dire impossibile immedesimarsi in una tale esperienza e, per la prima volta in vita sua, non sentì più come una costrizione l'essere uno dei Gerarchi.

L'esistenza di Tempest era stata mille volte più complessa, più difficile, meno sopportabile.

Lei inclinò il capo a scrutarlo, occhi negli occhi con l'Hati di Falmouth e, nello storcere un poco la bocca, ammise: "Sì."

Fu solo una parola, due sole lettere nell'infinito mare di terminologie, sinonimi e contrari che avrebbe potuto usare per rispondergli ma, per Hugh, fu come se avesse sviscerato l'intero, annoso problema legato a una simile carica.

Sì, essere Heimdallr era un ruolo solitario. 

Sì, poteva essere soffocante e irritante, dover detenere un simile scettro.

Sì, lei forse era arrivata anche a odiarlo.

Nonostante tutto, il suo era anche un  che sapeva di coraggio, di desiderio di dare sempre il meglio al proprio Fenrir, di gestire una situazione irritante con il massimo dell'impegno.

Poteva sentirsi soffocare da quel titolo, ma non se ne sarebbe mai lasciata sopraffare.

Fu per questo che Hugh le sorrise e Tempest, suo malgrado, arrossì. 

Non perché Hugh l'avesse messa a disagio con quel sorriso, o perché si fosse resa conto solo in quel momento di essere sola con un lupo single, piacente e, forse, interessato. No, tutt'altro.

Tempest arrossì di piacere perché, per la prima volta, aveva sviscerato quel problema con qualcuno che non fosse Bryan, e ne era felice.

Fu per questo che si sdraiò a terra su un fianco, subito imitata da Hugh e, fino a che le stelle brillarono in cielo, parlò con lui, gli aprì il proprio cuore e mise a nudo quello che aveva dentro fino a liberarsi di tutto ciò che le pesava addosso.

Solo quando la luna apparve in cielo, la voce dubbiosa di Cecily si fece largo nella mente di Hugh, domandando: "Sei ancora vivo?"

"Se mi percepisci, direi di sì" replicò lui, sbadigliando e rendendosi conto, solo in quell'istante, di aver sonnecchiato, al pari di Tempest, ai piedi di un grosso abete smosso dal vento.

"Era solo per sicurezza, visto che stiamo per preparare la cena, e non vi abbiamo ancora visto rientrare. O volete cacciare assieme, stanotte?"

"Per la verità, io e Tempest ci siamo addormentati."

"Riposto post coitale?" ironizzò Cecily.

Hugh sbuffò, lanciando un'occhiata alla giovane che, rannicchiata in posizione fetale, gli dava le spalle con sicurezza, certa che lui l'avrebbe protetta mentre lei riposava. Per un lupo, era forse uno dei segni di amicizia e rispetto più importanti che potessero esistere.

"Sei un'idiota. Credo si capirebbe, se fosse riposo post coitale, ti pare?"

"E' vero. Non hai la mente inondata di cosacce quanto, piuttosto, di pace. Vi siete fumati una canna, per caso?"

Hugh cercò di non ridere per non svegliare Tempest, e replicò: "Sai benissimo che, come per l'alcool, anche le droghe non ci fanno praticamente nessun effetto."

"Beh, allora, caro mio, se la presenza di Tempest ti riduce così, sei nei guai fino al collo."

"In che senso, scusa?" brontolò immediatamente Hati, non comprendendo le parole della sua Fenrir.

"Da quando in qua un lupo è pacifico, sereno e rilassato, se non in specifici casi?" gli rammentò lei, mettendolo in allarme.

Tornando a reclinare il viso in direzione della figura slanciata e piacente di Tempest, Hugh si irrigidì un poco e mormorò: "Dici che..."

"Non dico niente. Suppongo. Ma, a giudicare dalla tua pace mentale, lei sa come lisciare il tuo pelo, ometto mio."

"Come Keath sa lisciare te?" replicò sulla difensiva Hugh, preferendo non pensare alle implicazioni legate alle parole di Cecily.

"Ti pare che la mia mente sia in pace e serena?" bofonchiò per contro Cecily.

"Uhm... no. E, in tutta onestà, mi stupisce che tu abbia accettato di farti montare, visto quanto sei paranoica."

"Tesoro, se fossi una donna - o un uomo a cui piacciono gli uomini - lasceresti che Keath ti rivoltasse come un calzino, credimi. Quel lupo è fatto per il sesso, e sa farlo mooolto bene. Comunque, da quello che puoi evincere, non sono pacifica e serena, ma ho la testa su mille pensieri, anche se Keath è vagamente prevalente, al momento."

"Il che mi fa quasi vomitare, perché i tuoi filmini a luci rosse sono davvero troppo, anche per me" si lagnò Hugh. "In ogni caso, io sono e resto il tuo Hati, perciò..."

"Perciò, cosa? Non approfondirai neppure un po' sui perché legati alla comfort zone che si è creata nella tua testa?"

"Sarebbe un casino sviscerarne i motivi, e tu lo sai" sottolineò Hugh, accigliandosi.

"Lasciarli sopiti, sarebbe peggio. Non voglio un lupo infelice, al mio fianco."

Ciò detto, gli ricordò l'orario della cena dopodiché si scollegò e Hugh, con un sospiro, si lasciò andare a una imprecazione. Imprecazione che destò Tempest la quale, sollevando il viso per squadrarlo sonnacchiosa, sorrise assonnata e mormorò: "Ehi, ciao. Che succede?"

D'istinto, Hugh si piegò su di lei per darle un bacetto sulle labbra e le disse di non preoccuparsi ma, nel momento stesso in cui sfiorò la sua bocca a cuore seppe, invece, di doversi preoccupare. E tanto, anche.

Tempest accettò il gesto istintivo con un risolino dopodiché, nel rimettersi a sedere, lo osservò divertita mentre Hugh la fissava contrito, al colmo della confusione.

Lei, allora, avvolse la nuca di Hugh con una mano per attirarlo a sé e, socchiudendo gli occhi d'acciaio, mormorò: "Era un ottimo risveglio ma, a questo punto, vorrei anche la portata completa, non soltanto l'aperitivo."

Un attimo dopo, Hugh le divorò la bocca, sospingendola nuovamente a terra, su un letto di aghi di pino profumato e leggermente umido e, mentre Tempest lo avvolgeva con le braccia, lui la coperse con il proprio corpo, cancellando ogni altro pensiero.

I suoi baci le divorarono il collo, le spalle, scendendo sui seni e i fianchi stretti, mentre la giovane gorgogliava il suo nome e gli carezzava i capelli scuri così come l'ampia schiena.

Preferì non pensare al dopo, a cosa avrebbe provato nell'affondare nei suoi occhi pieni di appagamento, nel vedere il suo sorriso sornione e sonnacchioso, o nel sapere di non poterle stare accanto una volta terminata la Riunione tra Clan.

Lasciò tutto fuori, trattenendo nella mente solo lei, il suo corpo tonico, la sua voce sussurrata e arrochita dal desiderio, la sua forza spesa per dargli piacere, la gradevolezza del suo profumo, la morbidezza della sua pelle.

Tempest gli invase i sensi, lo avvolse completamente, lo circondò con il suo calore e la sua passione e, quando infine si ritrovarono stremati e senza forze l'uno sopra l'altra, vi fu compiacimento, vi furono sorrisi ma sì, anche paura.

Mani nelle mani, Hugh allungò le braccia in avanti ed estese così anche quelle di Tempest oltre il capo poggiato sul letto di aghi di pino dopodiché, con un bacio morbido e sensuale, lui le chiese: "Pentita?"

"Di una cosa simile? Mai" mormorò lei, avvolgendogli la vita con le gambe perché tornasse a poggiare l'inguine sul proprio.

Hugh mugugnò sensuale, a quel movimento, e ansimò roco: "Oddio! Fai così un'altra volta, e ti scorderai della cena di stasera."

Lei rise maliziosa, carezzando le gambe di Hugh con le proprie, le braccia ancora imprigionate dalla stretta leggera delle mani di lui e, socchiudendo gli occhi, sussurrò: "Potrei avere fame d'altro, ti pare?"

"E' possibile, ma..." iniziò col dire lui prima di udire brontolare lo stomaco.

Tempest scoppiò a ridere, si liberò della stretta di Hugh per piegarsi su un fianco e continuare nella sua risata sguaiata e il giovane Hati, nel mettersi seduto, ridacchiò e disse: "Lei ride della mia fame. Ma tu guarda!"

"Giuro! E' stato splendido!" continuò a ridere lei, tergendosi lacrime d'ilarità. "Io stavo pensando a come fosse stato bello, e il tuo stomaco ha brontolato come una pentola di fagioli. Programmandolo, non sarebbe venuto altrettanto bene."

"Ti è piaciuto?" mormorò lui, tornando serio.

Lei allora si volse, si rimise seduta per osservarlo meglio e, ora del tutto seria, annuì. "Mi è piaciuto talmente tanto che, adesso, ne ho paura. Ti sembra sciocco?"

"Affatto. Ma sarebbe stato sciocco non farlo, ti pare?" scosse il capo lui, sapendo bene cosa volesse dire.

"Sei Hati" mormorò lei, allungando una mano per carezzargli un ginocchio.

"Sei Heimdallr" replicò lui, afferrando la sua mano per intrecciare le proprie dita alle sue.

Pochissime parole, ma più pesanti di un intero discorso.

Erano forse gli epitaffi sulla tomba del loro neonato rapporto? Era dunque impossibile, per loro, comprendere se e come il loro stare assieme potesse evolversi?

Il Fato era dunque così perverso?

"Torniamo?" domandò lei mettendo un broncio adorabile, tanto che portò Hugh a sorridere.

"Ci vorrà del tempo, prima che gli spiedini siano cotti" mormorò lui, attirandola a sé per baciarla.

Tempest non avrebbe potuto essere più d'accordo di così. Indipendentemente da quanto sarebbe stata male in seguito.

***

Quando rientrarono al campo non vi furono né sguardi irrispettosi né, tanto meno, battute maliziose in merito a quanto già tutti ormai sapevano. Certi segreti erano impossibili da nascondere, in una comunità di licantropi, e loro neppure ci avevano provato.

Non era stata violata nessuna regola, ai licantropi piaceva il contatto fisico in ogni sua declinazione ma, quello che più contava, entrambi i lupi erano stati consenzienti, perciò ai presenti non sarebbe venuto in mente di replicare.

Solo Bryan mostrò qualche accenno di preoccupazione, ma Tempest la scacciò con un sorriso e una carezza sul braccio.

Come se nulla fosse successo, Hugh tornò al fianco di Cecily, che gli passò un piatto di spiedini e una birra dopodiché, con un mezzo sorriso, chiosò: "Ci si rilassa davvero, qui al Nord. Non avrei mai detto."

"Puoi dirlo forte, Fenrir" sorrise per contro lui, addentando il suo spiedino prima di ammiccare all'indirizzo di Tempest, che sorrise divertita.

Neppure lo spregiudicato Alec commentò il loro ritorno, limitandosi ad avvolgere le spalle di Tempest con un braccio per poi sussurrarle qualcosa all'orecchio.

Hugh non seppe dire cosa le bisbigliò, ma il risultato fu una sonora risata, accompagnata da un bacetto sulla guancia ferita di Alec e una veloce ritirata di quest'ultimo, che andò a nascondersi dietro la moglie.

"Ma che ti ha detto?" domandò incuriosito Hugh, mentre Pascal prendeva in giro Alec per la sua idiosincrasia nei confronti delle effusioni amichevoli.

"Mi ha chiesto se Tyr fosse diventato cieco... giuro, non ho resistito e sono scoppiata a ridere. Così, mi è venuto spontaneo dargli un bacio per ringraziarlo di aver spezzato la tensione che percepivo sulla pelle."

"Tensione? A me sono sembrati tutti distesi" esalò Hugh, guardandosi intorno pieno di curiosità.

"Gli uomini. Le donne erano curiose e preoccupate, e io non ero sicura di quanto dire, o come dirlo, per rasserenarle ma Alec ha stemperato la situazione, facendomi ridere a quel modo."

"Preoccupate... per cosa? Mica solo Keath è capace di fare il suo secondo mestiere!" protestò vagamente piccato Hugh, vedendola ridere sommessamente per diretta conseguenza.

"Non per questo! Ma per le nostre rispettive mansioni. Non ci abbiamo pensato solo noi, sai?"

"Oh... già."

Hugh si murò la bocca, non avendo bisogno di sapere altro. Era ben difficile che si appartasse con una lupa per il solo gusto di fare sesso e, quando ciò accadeva, era sempre perché in lui prevaleva una spinta emotiva, più che carnale.

Evidentemente, per Tempest era lo stesso, perciò le lupe erano turbate dalle inevitabili ripercussioni di un loro eventuale coinvolgimento sentimentale.

"Sei turbato che loro siano turbate?" gli domandò Tempest.

"Non del tutto. So che le Prime Lupe hanno questo ruolo da portare avanti, ma mi spiace aver causato un tale disagio, onestamente."

"Ti andava di fare l'amore con me?" gli domandò a bruciapelo Tempest, mentre Bryan le passava una birra.

Fare l'amore. Non sesso. Tempest era stata chiara.

Quello che avevano condiviso non era stata una semplice unione piacevole tra due corpi, come era avvenuto tra Keath e Cecily. Tempest si era aperta a lui in ogni senso, e lui non era stato da meno, pur sapendo quanto fosse rischioso mettere in gioco il cuore, in certe situazioni.

Ugualmente, non avrebbe fatto nulla di diverso, con lei, e glielo disse.

"Certo che volevo fare l'amore con te anche se, a mente fredda, so di aver innescato una miccia pericolosa."

"Sappiamo. C'ero anch'io, credimi, ma ora come ora voglio godermi il momento. Penserò domani alle implicazioni di quello che abbiamo fatto... e al dolore che porterà."

Hugh assentì, ben sapendo di cosa stesse parlando. Pur non avendo un legame d'anima con lei - lo avevano testato sulla pelle praticamente subito, per essere certi di non essere stati ingannati dai propri sensi - sapeva già di aver creato un legame con Tempest.

E non per via dell'atto carnale che avevano condiviso.

Erano giunti a quello solo dopo essersi guardati dentro, solo dopo aver sviscerato le rispettive anime, trovandole compatibili. Trovando dentro di loro lo stimolo a rendere fisico quel legame leggero e flebile che avevano costruito pezzo per pezzo a livello spirituale.

"Sono le unioni più belle, così come le più delicate. Sinceramente, a me farebbero venire una strizza del diavolo e, non a caso, neppure le cerco. Però sono ammirato dal vostro coraggio, ragazzi" intervenne a sorpresa Keath, giungendo al fianco di Hugh per passargli un secondo giro di spiedini.

Hati lo squadrò curioso e Keath, nel sogghignare al suo indirizzo, scrollò una spalla e aggiunse: "Ehi, ragazzo, hai citato il mio nome, anche se solo a livello mentale, ma io me ne sono accorto subito, così ho ascoltato cos'avevi da dire contro di me."

"A parte che siamo praticamente coetanei, quindi quel 'ragazzo' archivialo da qualche parte..." borbottò Hugh. "... non volevo certo offenderti, parlando di te."

"Oh, lo so. Infatti non me la sono presa." ammiccò Freki di Londra. "Volevo solo farvi i complimenti, perché è raro cogliere l'essenza dell'anima di una persona al primo sguardo, se non hai un legame ultraterreno. Il punto, ora, è un altro."

"Non ricordarmelo" brontolò Hugh, azzannando uno spiedino.

"Non lo farò. Ma parla con Bryan. Non farà domande alla sua cucciola, ma è in ansia per lei, e credo che si senta in dovere di fare il padre putativo, visto che quello di Tempest è impegnato in mare" gli fece notare Keath, dandogli una pacca sulla spalla prima di tornare a tormentare la sua Prima Lupa con battutine piccanti.

Hugh, a quel punto, lanciò un'occhiata a Bryan e, con un accenno a volersi appartare, si allontanò dal cerchio di fuoco eretto nel mezzo del campo per non doversi sorbire le occhiate ansiose degli altri.

Certi eventi potevano finire con una stretta di mano, ma anche con una lotta al primo sangue, e di sicuro nessuno voleva che la serata venisse rovinata, perciò Hugh si premurò di parlare con cautela e tanta, tanta delicatezza.

Non appena si ritrovarono avvolti dalle ombre della notte, lontani dagli schiamazzi degli amici, Bryan si passò una mano sulla nuca e, imbarazzato, esordì: "So che non sono tecnicamente affari miei, e che siete entrambi maggiorenni e vaccinati ma, visto ciò che siete, non posso non chiederti se..."

"So benissimo a cosa stai pensando, Bryan e credimi, il pensiero ha sfiorato entrambi, ma è venuto così. Naturale come respirare" scrollò le spalle Hugh, impotente.

Bryan allora sospirò, assentì e infine disse: "Lo immaginavo. Tempest non è una ragazza che si lascia sopraffare da un bel faccino e un fisico palestrato."

Hugh si guardò, sogghignando divertito, e asserì: "Ehi, amico. Sono un personal trainer! Che ci posso fare?"

"Niente, niente, per carità. Solo, mi spiace dover mettere un Veto" sospirò Bryan, lanciando un'occhiata al falò e alle persone che lo circondavano. 

Tempest stava chiacchierando amabilmente con Brianna mentre Duncan, protettivo, le avvolgeva le spalle con un braccio, quasi a volerla proteggere dalle inevitabili conseguenze emotive di ciò che era appena avvenuto.

"Anche Cecily imporrà il Veto, visto che non abbiamo ancora il nome dell'Hati che mi succederà a suo tempo" scrollò le spalle Hugh. "Non ti mentirò, Bryan, perché sarebbe stupido. Tempest è una bella ragazza ma, soprattutto, mi affascina per quello che è dentro. Non sarei mai arrivato al punto di unirmi a lei, se non fosse stato perché ero attratto dalla persona che è."

"Ed è per questo, che devo imporre il Veto. Se avesse fatto sesso con Keath, neppure mi preoccuperei. Avrei saputo fin da subito che era un modo per divertirsi e sciogliere eventuali tensioni, ma con te..." sospirò Bryan, passandosi una mano sul viso con espressione esasperata. "... con te, cazzo, so che non è stata una scappatella, perché so chi sei tu, e so chi è lei."

Hugh sorrise debolmente, riconoscendo con un cenno del capo l'indubbio complimento tributatogli da Fenrir delle Orcadi che, con un sospiro, aggiunse: "Non posso permetterle di abbandonare il suo ruolo di Heimdallr, mi spiace... ma di certo non ti vieterò di vederla, questo è assodato."

"Né Cecily permetterà che io abbandoni il mio ruolo di Hati. Non può, perché le regole questo prevedono, ma neppure lo vorrei. Sarebbe scorretto nei confronti della mia Fenrir e del mio branco" mormorò Hugh in risposta.

"Questo ti rende ovviamente onore, anche se avrei sperato in un tuo gesto impulsivo, o qualcosa di plateale per sbrogliare la matassa in modo romantico e melodrammatico" ironizzò spiacente Bryan, facendolo sorridere.

"Avresti preferito che io la rapissi?" esalò Hugh, scoppiando a ridere. "Neppure so se la cosa andrà avanti o meno!"

"Giusto, giusto... corro troppo" gorgogliò una risata Bryan.

"La gravidanza di tua moglie ti ha reso sdolcinato, mi sa" chiosò Hugh a quel punto.

"Non lo nego. Può essere. Sarà che mi sono fatto un'autentica maratona di tutti i film più melensi che Hollywood ha sfornato, durante i nove mesi della gestazione, e credo che alla fine qualcosa sia rimasto sedimentato" ammise Bryan, grattandosi una guancia per l'imbarazzo.

"Linda aveva questo genere di voglie?" esalò sorpreso Hugh.

"Ho guardato Noi siamo infinito" sottolineò Bryan, come se quel titolo spiegasse il livello massimo a cui era arrivato.

Hugh impallidì leggermente, diede una pacca consolatoria sulla spalla di Fenrir delle Orcadi e disse: "Hai tutta la mia comprensione."

Bryan scrollò una spalla e replicò: "E tu la mia. Torniamo pure, ora. Tempest mi sta tempestando di domande in merito al mio comportamento con te, perciò potremmo vedercela piombare addosso da un momento all'altro, pronta a ristabilire i suoi diritti di femmina indipendente."

"Sarà meglio sbrigarsi, allora. Non voglio che si arrabbi" ammiccò Hugh, incamminandosi per tornare.

Bryan gli diede una stretta sulla spalla a mo' di incoraggiamento, e Hugh comprese che non stava riferendosi a un'eventuale sfuriata di Tempest, quanto piuttosto ai mesi - o anni - che sarebbero seguiti a quella chiacchierata.

Le relazioni a distanza erano complicate e, se loro avessero scoperto di amarsi, sarebbe stato un autentico dramma ma, al momento, l'unica cosa che potevano fare, era mettere un piede davanti all'altro. 

Sperando di non inciampare.

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Capitolo 64
*** Tempesta a sorpresa (2013 - Hugh e Tempest-) Epilogo ***


 
Epilogo.
 


Cecily si era svegliata riposata e fresca, la mattina seguente a quella strana serata di indubbi cambiamenti, dove non si era solo deciso ufficialmente di istituire la chat room per licantropi su un sito specifico sul dark web.

Era stato dato mandato al Clan di Matlock di indagare sulle possibili interconnessioni tra i branchi di lupi italici e i licantropi figli di Fenrir. Potendo contare sulla presenza di Amanda Goffredo in loco - l'amica di Brianna - un membro del Clan si sarebbe reso partecipe della missione su suolo italico, così da espandere le loro conoscenze dei branchi europei.

A tal fine, anche Marvin e Soren del Clan di Talgarth, di origine francese, erano stati invitati a fare lo stesso con la loro sorella, che era Fenrir all'interno di un branco nel nord della Francia.

Come ultima istanza, però, era stata aggiunta una nota amara ma necessaria al termine della Riunione e così, richiamati ai propri doveri, i Fenrir delle Orcadi e di Falmouth avevano dovuto imporre il proprio Veto su Tempest e Hugh.

Ricoprendo ruoli cruciali all’interno dei rispettivi clan, a nessuno dei due era permesso abbandonare anche una sola delle due cariche. Ciò, però, non avrebbe impedito ai due di vedersi, né di proseguire la loro relazione appena agli inizi. A questo, nessuno dei due Fenrir si era minimamente opposto.

Cosa ne sarebbe venuto dopo, nessuno era in grado di saperlo, ma quella puntualizzazione era stata ritenuta necessaria proprio a causa delle due persone coinvolte.

La mattina seguente, però, Cecily raggiunse Hugh nella sua tenda, vi si intrufolò strusciando contro il suo sacco a pelo per poi avvolgerlo con un braccio e dirgli melliflua: "Ho intenzione di andare a casa senza di te, perciò vedi di comportarti bene. Ci rivendiamo lunedì, okay?"

Hugh la fissò stranito per alcuni istanti prima di scivolare fuori dal sacco a pelo e scrutarla con espressione confusa.

Cecily, quindi, si ripeté e, dopo averlo scrutato con aria a metà tra il malizioso e il geloso, aggiunse: "Non so se ti voglio dividere con un'altra lupa ma, visto che non ho intenzione di fare sesso con te, mi sa che mi toccherà."

Hugh impiegò diversi secondi per comprendere esattamente le parole profferte dalla sua Fenrir ma, quando finalmente raggiunsero il suo cervello ancora in parte addormentato, lui la mandò a quel paese.

Lei allora uscì tutta soddisfatta, lasciandolo solo con i suoi improperi. Improperi che perdurarono fino a che Hugh non fu pronto per affrontarla nuovamente, e stavolta con gli abiti addosso.

Raggiunta finalmente la sua Fenrir, impegnata in una conversazione con Bryan, Hugh sbottò dicendo: "Sei pregata di svegliarmi come tutte le persone normali, se proprio vuoi sostituire la mia sveglia, invece di fare la pazza dentro la mia tenda."

Cecily a quel punto si interruppe, lo fissò da sopra una spalla e replicò: "Oh, poverino! Sei già in astinenza? Allora, vedi che devi passare un po' di tempo in Scozia, invece di rompere le palle a me durante il viaggio di ritorno?"

Hugh sospirò e, nello scuotere il capo, disse con tono maggiormente calmo: "Cosa ti costa, per una volta, essere educata e cortese?"

"Se non lo fossi, ti avrei rivoltato come un calzino e ti avrei tagliato le palle su un ceppo, pur di evitarti la grana in cui ti stai cacciando ma tant'è... pare che vi siate trovati e, l'unico modo per capire dove porterà questa scoperta, è approfondire la conoscenza" scrollò le spalle Cecily, frizzandolo con uno sguardo d'acciaio color cobalto.

Bryan sorrise nervosamente, esalando: "Spero tu non debba mai occuparti dei miei affari di cuore, Cecily. Hai dei modi assai drastici di vedere le cose."

Hugh assentì con vigore, ma abbracciò ugualmente Cecily, mormorando: "Sei antipatica come un mal di denti, ma ti voglio bene lo stesso."

"Lo so, caro. E ora sparisci e vai da Tempest. Ti sta aspettando in auto per portarti a prendere il traghetto per Holm of Huip. Io tornerò con Keath, che si è gentilmente offerto di farmi da scorta, visto che tu sarai irreperibile per un po'" gli disse sbrigativa Cecily.

"Da scorta, eh? Si dice così, adesso?" ironizzò a quel punto Hugh, lanciando un'occhiata a Keath, che teneva in mano il proprio zaino e quello di Cecily.

La sua Fenrir lo fissò con espressione serafica dopodiché, ancheggiando spudoratamente per raggiungere Keath in attesa, si allontanò senza più dire niente.

Bryan a quel punto rise divertito, passò un braccio attorno alle spalle di Hugh e, con lui, si allontanò dal campo ormai inesistente per raggiungere le rispettive automobili.

"Cecily è davvero strana, e ha un concetto di protezione del tutto fuori scala, ma è anche fortemente materna. Non l'avrei mai detto" chiosò Bryan con aria sorpresa.

"La mia Fenrir sarà una madre stupenda, se e quando troverà un uomo capace di sopportarla" celiò Hugh. "Fino a quel giorno, però, io sarò la sua cavia da esperimenti e dovrò aiutarla a capire come non uccidere il malcapitato che le si avvicinerà per un approccio."

"Ma senza testare il sesso."

"Esatto" assentì Hugh, lanciando un sorriso a Tempest quando infine raggiunsero la sua auto.

Lei accolse entrambi con un sorrisino e, dopo aver salutato il suo Fenrir, invitò Hugh ad accomodarsi sulla sua jeep Renegade, dopodiché mise in moto e partì per raggiungere la costa e, da lì, il porto dove avrebbero preso il traghetto.

"Pentito? Vuoi scappare?" gli domandò lei mentre, con movimenti pronti e sicuri, percorreva la sterrata che li aveva condotti lì solo tre giorni addietro.

"Né l'una, né l'altra. Voglio capire dove ci porterà quello che abbiamo condiviso" scosse il capo lui, sorridendole sicuro di sé. 

"Anche se sai che soffriremo?" gli domandò lei, scrutandolo per alcuni istanti con espressione esitante.

"Tu te la senti?" 

Lei assentì con sicurezza perciò Hugh, nello stringerle per un istante la mano poggiata sul pomo del cambio, mormorò: "Allora siamo in due."

Il sorriso con cui Tempest rispose alla sua frase fu sufficiente per permettere a Hugh di lasciarsi alle spalle gli ultimi residui di dubbio. 

Voleva conoscerla meglio, voleva scoprire tutto di lei e, se ciò avesse comportato anni e anni di estenuanti andirivieni, non gli sarebbe importato nulla. La sfida non lo spaventava, così come non spaventava lei, perciò, avrebbero proseguito diritti lungo la via, senza mai voltarsi indietro.
 
***

Una mano poggiata sul volante mentre l'altra era impegnata a trovare una stazione radio decente, e che non trasmettesse sempre brani melensi e sdolcinati, Keath lanciò un'occhiata di straforo alla sua compagna di viaggio, borbottando: "Guarda che ti lancio nel primo burrone disponibile."

"Siamo in pianura, Keath. Dove vuoi trovare dei burroni?" replicò serafica Cecily, pur sorridendo a mezzo.

"E' inutile che continui a preoccuparti per il tuo cucciolino. Sa quel che fa" ribatté Keath, trovando finalmente un brano degli Oasis. Non proprio il massimo, ma poteva andare.

"E tu come lo sai?"

"Sono cose che un uomo capisce. Hugh non è un idiota e sa il fatto suo, così come Tempest, che mi sembra una ragazza tosta. Visto il suo mestiere, poi, non potrebbe essere altrimenti" si limitò a dire Freki, scrollando le spalle. "Capisco che tu lo veda come un fratellino da accudire, ma ormai è grande e devi mollare la presa."

"Soffrirà!" sbottò a quel punto Cecily. "Soffrirà a causa mia, perché non può abbandonare il mio fianco a causa del titolo che gli compete."

"Non mi sembra sia stata tu a farlo nascere con la livrea corvina, o sbaglio?" replicò Keath con tono inquisitorio.

Cecily emise uno sbuffo infastidito, ma Keath proseguì dicendo: "Si è padroni solo del proprio destino, Cecily, e Hugh ha fatto la sua scelta. E' rimasto intrigato da quella lupa e, chiaramente, anche lei da lui, altrimenti non avrebbero fatto l'amore insieme. Si sarebbero limitati a fare quel che abbiamo fatto noi."

"Come conosci la differenza, scusa?" ringhiò Cecily, pentendosene subito dopo. "Perdonami. Sono stata scortese."

Lui non vi fece caso, replicando: "Conosco la differenza perché me l'ha mostrata Hugh. I suoi occhi cercavano lei, come lei i suoi. Il linguaggio del loro corpo era emblematico, poi. Danzavano assieme pur non toccandosi, rispondevano agli infinitesimali segnali l'uno dell'altra ma, più di tutto, sorridevano di quel sorriso segreto che ho visto solo nelle coppie affiatate."

"Quindi, non si molleranno alla prima difficoltà."

"Dubito,... e soffriranno, sì, perché quei sorrisi aiutano a respirare. Per lo meno, Joshua e Gretchen mi hanno dato questa impressione" scrollò le spalle Keath. "Il tuo compito di Fenrir sarà sostenerlo, ma non farti carico del suo dolore, perché non ne sei la causa."

"Sei dannatamente percettivo e profondo, sai?" mugugnò Cecily, vagamente sorpresa.

Lui ghignò in risposta, scrollò una spalla e ammise: "Psicanalizzare le persone fa parte dei miei compiti. Se tu ne parlassi con Baltazar, ti direbbe le stesse cose."

"Se lo dici tu..."

"Prova. Vedrai che non sbaglio" ammiccò il giovane, lasciandosi andare a un sorriso lascivo.

Cecily assottigliò le palpebre, mosse una mano sinuosa verso il cavallo dei calzoni di lui e, voluttuosa, mormorò: "Ho fame."

Keath mugugnò un assenso, inserì la freccia per svoltare alla prima uscita disponibile e, mentre cercava uno stradello appartato in cui fermarsi, le domandò: "Per quando prevedevi di tornare?"

"Non ho orari" sottolineò lei, aprendogli la patta dei pantaloni.

"Bene" mormorò Keath, bloccando l'auto all'ombra di un carpino. Non aveva bisogno di sapere altro.
 
***

Mentre il traghetto avanzava pigro e placido in direzione di Holm of Huip, Hugh lanciò un'occhiata alle spalle per scrutare la terraferma che si allontanava e Tempest, poggiata contro il parapetto di proravia, gli domandò: "Paura di non tornare?"

"No. Mi domandavo come fosse vivere sempre circondati dal mare. Io vivo accanto al mare, non avvolto da esso, così stavo immaginando come fosse vivere su un piccolo isolotto circondato dalle onde in tempesta" scosse il capo lui, tornando a scrutarla.

Lei ammiccò all'indirizzo di un corpo nuvoloso in lontananza, gli diede di gomito e mormorò: "Beh, direi che sarai accontentato. Scoprirai presto cosa vuole dire avere a che fare con una tempesta."







N.d.A.: e qui termina la storia di come si conobbero Tempest e Hugh. Come ovviamente sapete, passeranno ancora diversi anni, prima che i due possano finalmente stare assieme, ma almeno siete sicuri che questo avverrà!
Nelle prossime settimane, comincerò a postare una nuova storia, che stavolta avrà come protagonisti i Cacciatori e il clan di Bradford, perciò tenetevi pront*... si riparte!

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