Rebirth

di Nausicaa Di Stelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La palude dell'Eden ***
Capitolo 2: *** Conseguenze inaspettate ***
Capitolo 3: *** Una nuova vita ***
Capitolo 4: *** Tra sabbia e onde ***
Capitolo 5: *** Quel che accadde e che Tadashi non scrisse ***
Capitolo 6: *** Spie ***
Capitolo 7: *** Metamorfosi ***
Capitolo 8: *** In fuga ***
Capitolo 9: *** Una difficile confessione ***
Capitolo 10: *** Nelle mani di Raflesia ***
Capitolo 11: *** Due calici di rosso ***
Capitolo 12: *** Una calcolata follia ***
Capitolo 13: *** Il mio Capitano ***
Capitolo 14: *** Sulla barca di Caronte ***
Capitolo 15: *** Spettri ***
Capitolo 16: *** Epilogo a tre voci ***



Capitolo 1
*** La palude dell'Eden ***


La palude dell'Eden



Dal Diario di Yuki


Non so da dove cominciare! Mi sento così in colpa... e non so se esiste un modo per rimediare al guaio che ho combinato. No, non io in verità... Tutto è iniziato a causa di Tadashi e della sua imprudenza, ma una parte della responsabilità è anche mia e non posso certo far finta di niente.

Non avrei abbandonato la nave se non fosse stato per corrergli dietro e cercare di salvargli la pelle. Ma chi ci ha salvato alla fine è stato il capitano. Ed è lui che ci ha rimesso più di tutti. Non ho ancora avuto il coraggio di andare a trovarlo in infermeria per vedere come sta! Del resto, le ultime notizie non sono confortanti.

Sono uscita con un Lupo Spaziale per raggiungere Tadashi e riportarlo indietro dopo che si era gettato all’inseguimento di una mazoniana che fuggiva dal combattimento. Avevamo sbaragliato senza problemi la pattuglia di cui faceva parte e forse lei cercava soltanto di mettersi in salvo. O forse voleva attirarci in una trappola. In ogni caso, Tadashi c’è caduto in pieno e l’ha inseguita senza farsi pregare due volte fino al pianeta Eden.

A dispetto del nome, si tratta di un luogo molto pericoloso e pieno di insidie naturali... e soprannaturali!Il capitano lo sapeva e ha inutilmente richiamato indietro Tadashi. Ma questi non ha voluto ascoltarlo... o forse non lo ha nemmeno sentito. Sembra che le comunicazioni siano molto disturbate, se non impossibili, una volta che si entra nella zona d’influenza del pianeta.

Ah, ma anch’io non avrei dovuto disubbidire al capitano per raggiungere Tadashi! Se l’avessi fatto, adesso non saremmo in questa situazione...

Con il mio gesto l’ho costretto a venire a salvarci tutti e due: deve essersi preoccupato... e arrabbiato quando dall’hangar gli hanno comunicato che un altro Lupo Spaziale stava abbandonando l’Arcadia e che a bordo c’ero io. Che vergogna... la sua brava Yuki che gli disubbidisce come l’ultimo dei suoi sottoposti!

Il capitano dev’essere uscito subito dopo di me perché mi ha raggiunta quando ero penetrata da poco nell’atmosfera di Eden. Giusto in tempo per vedere il caccia nemico che mi attaccava alla sprovvista, e che si era levato in volo da una radura che mi ero lasciata alle spalle, nascosta dalla selvaggia vegetazione del luogo.

Il capitano non ha fatto in tempo a sparare per primo e così sono stata colpita: il Lupo Spaziale ha virato improvvisamente a destra, perdendo quota quando l’ala è saltata. Ho cercato di tenerlo su il più a lungo possibile e devo dire che sono stata brava (anche se è una magra consolazione in mezzo a tutto questo casino): sono riuscita ad atterrare dignitosamente in uno spiazzo erboso, nonostante le condizioni del velivolo.

Nel cielo sopra di me ho visto tracce di altri colpi sparati e ricevuti e poi la navetta mazoniana che precipitava lontano da noi.

Ero spaventata, ma non per me e nemmeno per il capitano: non avevo visto alcuna traccia di Tadashi nei paraggi e questo mi angosciava. Forse le mazoniane lo avevano già catturato?

Poi il Lupo del capitano ha sorvolato la mia zona, passando oltre. All’inizio credevo non mi avesse vista, ma subito dopo ho immaginato che fosse perché il punto dove mi trovavo non era sufficientemente ampio per tutte e due le navette e lui non sarebbe mai riuscito ad atterrare. Poiché non potevo sapere dove avrebbe trovato posto per planare, decisi di aspettare all’interno dell’abitacolo del mio Lupo. Sapevo che sarebbe stato lui a venirmi incontro e se avessi cercato di raggiungerlo io avremmo rischiato di non trovarci mai, dato che ci era impossibile comunicare, sia con le trasmittenti delle navette che con quelle inserite nei caschi delle tute spaziali.

Sembra che mi stia giustificando, ma non è così: so di aver fatto la cosa giusta. L’unico errore è stato aver preso l’iniziativa senza consultare il capitano, uscendo da sola alla ricerca di Daiba. Ma anche adesso, nonostante tutto quello che è successo, forse rifarei la stessa scelta... oh, non lo so... è che Tadashi rischiava troppo, là fuori da solo, perché lo abbandonassi a se stesso.

Il capitano mi ha raggiunta presto: l’ho visto arrivare con il suo consueto passo cadenzato e tranquillo. La sua sola vista mi trasmette sempre un senso di sicurezza ed era stato così anche in mezzo a quell’inferno verde.

Mi dispiace, capitano!” è stata la prima cosa che gli ho detto,quando ci siamo trovati faccia a faccia.

Lui non ha detto niente. Non mi ha rimproverata,non mi ha scusata...

Ha risposto solo: “Seguimi, Yuki”.

E questo mi ha fatto sentire ancora più in colpa.

Io ho ubbidito e sono andata dietro a lui a testa bassa, come un cucciolo che viene ricondotto alla tana dopo essere sfuggito alla sorveglianza degli adulti.

Non ho però abbassato la guardia: sarebbe stato da stupidi, lì in mezzo. Dentro di me potevo sentirla pulsare la certezza che fra quegli alberi possenti, ricoperti di muschio e liane d’ogni specie, si nascondevano le nostre nemiche. E non sbagliavo.

L’assalto è stato furioso e fulmineo, come è nello stile delle mazoniane. Ben presto ci ritrovammo in una situazione simile a quella che Harlock aveva già dovuto affrontare con Tadashi nella foresta amazzonica. Solo che questi erano soldati ben addestrati, nulla a che vedere con le selvagge driadi della foresta sudamericana.

Ci hanno attaccato da tutti i fronti: con il vantaggio di trovarsi in un ambiente a loro tanto affine credo sia stato molto semplice accerchiarci, cercando di ucciderci come topi in trappola.

Nascosti dietro ripari di fortuna, talvolta schiena contro schiena e sempre in movimento nel tentativo di avvicinarci il più possibile al Lupo Spaziale, io e il capitano abbiamo dato battaglia alle serve di Raflesia,difendendoci l’un l’altra.

In quel momento avrei dato la mia stessa vita per lui: se era lì con me, completamente circondato da mazoniane pronte a tutto pur di ucciderlo, era colpa mia e per nulla al mondo avrei permesso che fosse lui a pagare per la mia scelta avventata.

Avrei dovuto immaginare che un simile pensiero occupava anche la sua mente. Harlock non ha mai permesso che a qualcuno dei suoi uomini accadesse qualcosa quando era in suo potere impedirlo. Avrei dovuto rendermi conto che con la sua pistola e la sua mira infallibile copriva anche parte dei miei bersagli... accorgermi che in più di un’occasione mi faceva scudo con il suo corpo!

E’ una ferita da niente... Solo un graffio, ha detto lui. Sufficiente però per lacerare la spessa tuta sul braccio destro e procurargli un’emorragia di una certa entità. Sufficiente perché le misteriose sostanze contaminanti di Eden penetrassero dentro il suo corpo quando abbiamo attraversato la Palude...

Tutto è accaduto durante il nostro tentativo di allontanarci dalle mazoniane e di raggiungere il caccia. Non potevamo badare molto alla strada da percorrere e inoltre il fatto di non conoscere il campo di battaglia non ci aiutava di certo ad evitare i luoghi più insidiosi. Per questo motivo siamo stati costretti ad addentrarci nella Palude... Un luogo fetido dal quale si levano miasmi verdastri che solo i filtri sofisticati del nostro casco ci permettevano di non respirare.

E’ stato lì che Harlock ha iniziato a sentirsi male.

I misteriosi agenti contaminanti della palude devono essere entrati in contatto con il suo sangue attraverso la ferita aperta,che non era stato possibile fasciare. Spruzzi e schizzi si sono alzati in gran quantità durante la nostra fuga attraverso quel luogo maledetto e la mia tuta integra mi ha protetta perfettamente, ma lui...


C’eravamo lasciati indietro la palude da alcuni minuti quando il capitano è caduto a terra in ginocchio, ansimante. Già da un po’ lo avevo distanziato nella corsa, ma non pensavo che la causa potesse essere diversa dall’emorragia provocata dalla ferita.

La prima volta si è rialzato da solo, allontanando la mano con cui cercavo di aiutarlo a risollevarsi. Credo abbia dovuto fare forza contro se stesso per trovare le energie necessarie a rimettersi in piedi... non l’avevo mai visto così pallido! Aveva fretta che ci rimettessimo in marcia per non perdere il piccolo vantaggio accumulato sui nostri inseguitori.

Ma siamo riusciti a fare solo poche centinaia di metri prima che lui si sentisse male di nuovo. L’ho visto cadere e sono tornata subito sui miei passi, decisa a sorreggerlo con le mie spalle se fosse stato necessario. Non avrei ammesso alcun rifiuto, perché dentro di me già temevo che mi ordinasse di andare avanti da sola. L’avrebbe fatto, ne sono sicura, è tipico del suo cuore generoso. Lo avrebbe fatto, se solo ne fosse stato in grado.

Quando mi sono chinata su di lui, Harlock ansimava in preda a forti dolori: le braccia strette al petto, gli occhi serrati, sembrava quasi insensibile ad ogni mia parola, ad ogni mio richiamo, ad ogni tentativo di farlo rialzare per aiutarlo a fuggire via con me.

Ad un tratto ho sentito che sussurrava il mio nome. Una supplica. Ed ho capito che mi invitava a scappare senza di lui.

No” gli ho risposto “No, non lo farò mai. Io resto qui con voi! Resto qui: la mia pistola basterà per tutti e due!”

Sapevo bene che non poteva essere così, perché le mazoniane erano ancora troppe, nonostante nel primo scontro fossimo riusciti a ucciderne un gran numero. Non avrei mai potuto eliminarle tutte da sola. Ma avrei potuto fargli scudo con il mio corpo fino all’ultimo,se fosse stato necessario, e salvargli la vita. O morire con lui.


Ero praticamente sopra di lui, la pistola spianata, tutti i sensi vigili per captare ogni minimo rumore, ogni più debole movimento, quando ho sentito qualcosa che mi sfiorava una caviglia. Mi sono voltata, in allarme: era il capitano. Mi aveva toccato le gambe con le dita tremanti e ora mi fissava, il suo unico occhio sbarrato... Mi sono chinata su di lui, senza sapere che fare, temendo il peggio.


Fammi rialzare...” mi ha sussurrato.

Ho annuito, le mani febbrili che cercavano di afferrarlo sotto le braccia per tirarlo su.

Ci penso io capitano, vi rialzo, vi porto via... adesso...”

No” ha detto lui, la voce roca che stentavo a riconoscere “Voglio... combattere...”

Avrei dovuto immaginarlo!

Non mi avrebbe mai lasciata da sola a battermi contro le mazoniane, né avrebbe accettato di concludere la sua vita come un coniglio in fuga.

Ho dovuto fare come mi diceva... Anche se avrei preferito disubbidire ai suoi ordini. Ma come potevo contrariarlo dopo che era stato proprio a causa della mia insubordinazione che lui si era ritrovato in questa situazione?

E soprattutto, come potevo dirgli di no quando il suo sguardo mi ordinava e supplicava allo stesso tempo di lasciargli decidere come voleva morire?


Con la sinistra premuta al centro del petto, seduto con una gamba distesa a terra e l’altra raccolta, la destra che reggeva con saldezza la cosmo dragoon come se il resto del corpo non fosse in preda a spasmi dolorosi, il capitano si preparava ad affrontare le mazoniane che ci avevano praticamente raggiunti. Le potevamo avvertire mentre si appostavano dietro agli alberi, in attesa che tutte le unità da combattimento fossero al loro posto prima di attaccare. O forse, vedendoci ancora lì allo scoperto in attesa del loro arrivo, erano convinte che gli avessimo teso una trappola.

Sentivo la schiena del capitano appoggiata alle mie gambe, rigida per controllare i tremori che attraversavano ogni muscolo del suo corpo, e la sua presenza vigile e calda bastava a infondermi una calma innaturale. Avrei combattuto per lui, per riportarlo vivo sull’Arcadia dove il dottor Zero avrebbe potuto curarlo.

Le mazoniane erano tutte in postazione: riuscivo a cogliere i cenni e i comandi che si scambiavano oltre il fogliame rigoglioso. Sapevo che stavano per fare fuoco, ma noi eravamo pronti a riceverle.


La salvezza giunse dal cielo, inaspettata, assieme al ringhio selvaggio del motore del Lupo spaziale e a una raffica di colpi che falciarono la prima linea di soldati, incendiarono gli alberi e sfiorarono le nostre teste con un vento caldo. Non sono mai stata così felice di vedere Tadashi!

Fortunatamente, riuscì ad atterrare poco lontano con la sua navetta, quando ormai le mazoniane non erano altre che torce vive che urlavano di dolore o cumuli di cenere dispersi dal vento.

Assieme, abbiamo portato a spalle il capitano fino al Lupo spaziale di Tadashi e io sono ripartita da sola con quello di Harlock: Daiba lo aveva visto dall’alto mentre sorvolava la foresta e mi ha scortata fino a lì. Nonostante fossimo riusciti a scampare all’attacco delle mazoniane, io non riuscivo a sentirmi sollevata, troppo in ansia per le condizioni del nostro capitano... E avevo ragione, purtroppo!

Quando siamo arrivati sull’Arcadia, Harlock aveva ormai perso conoscenza. Il dottor Zero l’ha fatto portare immediatamente in infermeria... Aveva già la febbre alta e il suo corpo era contratto da spasimi dolorosi.

Adesso non so come stia: il dottore è sempre là con lui e credo che abbia anche ultimato tutte le analisi, ma non ci ha ancora detto che cosa ha scoperto. O forse preferisce non farcelo sapere...

Mio Dio, che angoscia! E se Harlock dovesse morire? Non potrei mai perdonarmelo!

Io vorrei solo che guarisse, qualsiasi siano le conseguenze della contaminazione.


Mi chiamano dall’infermeria: notizie del capitano! Devo correre!


Yuki

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Capitolo 2
*** Conseguenze inaspettate ***


Conseguenze inaspettate



Dalla cartella clinica di Harlock

Ore 23.10 secondo il fuso terrestre


  La temperatura del capitano continua ad aumentare. Quando è arrivato in infermeria superava di poco i 38° C. Sono passate meno di due ore ed è quasi 40°. Nonostante gli antipiretici. Poco fa gli ho somministrato la dose massima di Zakimin consentita, ma il paracetamolo non ha avuto nessun effetto significativo, se non quello di tenere la febbre al di sotto dei 41°, almeno per adesso.
  Le pulsazioni sono molto accelerate e il battito è aritmico. Sto cercando di tenere il suo cuore sotto osservazione tramite l’elettrocardiogramma, ma non è facile perché il dolore e gli spasimi improvvisi gli impediscono di restare fermo nel letto.
  E’ cosciente solo a tratti.


Ore 24.00 secondo il fuso terrestre


   La temperatura è aumentata di nuovo, mantenendosi però di poco al di sopra dei 41°. Da quando il capitano è stato portato qui, Mime non lascia mai l’infermeria e fin’ora è stata una preziosa assistente. Mi ha aiutato meglio di quanto avrebbe potuto fare Masu-san, troppo piccola per darmi una mano a tenere fermo il capitano nel suo letto, o Yuki, che con i suoi sensi di colpa rischiava di avere un crollo psicologico nel vedere Harlock in queste condizioni. Ho detto che me la sarei cavata da solo e l’ho mandata a riposare, ma non credo riuscirà a dormire, povera ragazza.
  Ho lasciato a Mime il compito di eseguire delle spugnature di acqua fresca al capitano: pur non essendo cosciente, credo preferisca di gran lunga le affusolate mani di lei alle mie, per quanto siano più esperte.
  Il battito resta molto accelerato e aritmico, le contrazioni muscolari improvvise non sono ancora cessate. Ho prelevato del sangue per analizzarlo ma è difficile avere un quadro chiaro del tipo di contaminazione che il capitano ha subito: le sostanze presenti su Eden sono così misteriose e si comportano in modi talmente imprevedibili che non sono in grado di immaginare quali saranno le conseguenze di questo contagio. Ammesso che Harlock sopravviva. E’ un’eventualità che la mia mente si rifiuta di considerare ma, come medico, non posso fare a meno di ritenerla uno degli esiti possibili di un quadro clinico così difficile.


Ore 01.40 secondo il fuso terreste


   Il capitano dorme, finalmente. Le convulsioni sono cessate, lentamente, poco fa.
La temperatura è scesa un po’ e si è stabilizzata attorno ai 40°. Spero che la dose di paracetamolo che gli ho appena somministrato lo aiuti a riportarla su valori accettabili.
   Il battito cardiaco e la pressione sanguigna restano invece ben oltre la norma. Sono intervenuto più volte per cercare di regolarizzare anche questi parametri, ma il fatto che le sostanze con cui è venuto a contatto mi restino sconosciute complica le cose e rende difficile la somministrazione di una terapia adeguata.
   Purtroppo le analisi che ho effettuato sui campioni di sangue non hanno dato i risultati ‘illuminanti’ che speravo.



Ore 03.20 secondo il fuso terrestre


  Questa dovrebbe essere una cartella clinica ma al momento non riesco a pensare a un posto migliore dove scrivere quello che è successo. E credo di avere proprio bisogno di mettere nero su bianco due righe per riordinare le idee...
Avevo appena mandato Mime a prendere dell’alcool nella sua stanza. La mia riserva era finita (si capisce, con una nottata così lunga e difficile!), anzi, stavo giusto sorseggiando l’ultimo bicchierino, con Mi acciambellata tra le mie gambe che dormiva, quando il bip bip allarmato proveniente dai pannelli di controllo mi ha fatto sobbalzare. Ho capito subito cosa doveva essere: l’elettrocardiogramma dava segnale piatto. “Ecco, troppo bello per essere vero”, mi sono detto “Troppo bello che il capitano stesse davvero migliorando”.
   Ovviamente mi sono precipitato di là. Ma la scena non era proprio come me l’ero figurata... Nel letto non c’era più nessuno: vuoto e disfatto, mi guardava come un enigma. Ma quando ho alzato lo sguardo l’ho visto, ho visto il capitano. All’inizio ho stentato a riconoscerlo, è naturale: chi non avrebbe avuto dei dubbi?
Era in piedi davanti allo specchio, nudo, e mi dava le spalle. In un primo momento ho pensato persino che fosse Tadashi, ma le differenze erano troppe... A cominciare dall’altezza: anche in quelle condizioni, il capitano resta più alto di Daiba almeno di una testa. E poi cosa ci sarebbe stato a fare Tadashi in infermeria, nudo, davanti allo specchio?
   Ho chiamato il capitano a bassa voce, per non spaventarlo. In certi momenti è meglio usare molta prudenza, per non provocare traumi in soggetti potenzialmente in uno stato di squilibrio psichico. Quando ha sentito il suo nome, però, si è voltato subito e mi ha guardato con occhi spiritati, increduli. Ho temuto che non mi riconoscesse. L’ho chiamato di nuovo, avvicinandomi con cautela e lui mi ha risposto, con un filo di voce. Mi sembrava scosso. E del resto, chi non lo sarebbe stato nel ritrovarsi, nel giro di così poche ore, talmente diverso? Nel ritrovarsi con almeno la metà dei propri anni? Perché quello che avevo davanti era solo un ragazzo che non poteva avere più di quindici anni.
   Il capitano si è lasciato cadere sul letto, gemendo e stringendosi la testa fra le mani.
Che mi è successo?” gli ho sentito dire.
Vorrei tanto saperlo anch’io” stavo per rispondergli, ma mi sono guardato bene dal farlo. Per il suo bene, dovevo riuscire il più rassicurante possibile.
   In quel momento è entrata Mime e ne sono stato proprio felice. Lei almeno sa come prendere Harlock nei momenti difficili. Forse era già entrata da qualche istante, ma mi sono accorto di lei solo quando mi è passata accanto, con il fruscio inconfondibile della sua veste. Ha preso la coperta dal letto e l’ha gettata addosso al capitano, avvolgendolo con dolcezza, poi si è seduta accanto a lui sulla sponda del letto e gli ha messo una mano sulla spalla. Harlock ha sospirato e lei gli ha sorriso con gli occhi, in quel suo modo così espressivo. Avrei voluto lasciarli soli ma in qualità di medico di bordo dovevo rendermi conto di quali fossero le reali condizioni psicologiche del capitano, così sono rimasto un po’ indietro a seguire il loro dialogo, in attesa di poterlo visitare in modo approfondito.
Sono contenta che tu stia meglio, Harlock, e soprattutto, che tu sia ancora vivo!” ha detto Mime.
   Santa donna, solo lei poteva riuscire a trovare qualcosa di buono in un momento simile! Ma del resto ha ragione: abbiamo ancora il nostro capitano, mentre avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di mostruoso o di insenziente. O avrebbe potuto morire.
   Harlock ha sospirato e l’ha guardata, non proprio rincuorato.
Suppongo che dovrei essere felice perché avrebbe potuto andarmi peggio... molto peggio.”
Mime l’ha accarezzato scompigliandogli i capelli e lui l’ha guardata sbalordito, sgranando tanto d’occhi. Capisco che non debba avergli fatto per niente piacere quel tipo di confidenza da parte sua... Se il loro rapporto, in privato, è mai stato di qualche natura diversa dall’amore platonico, beh... non credo sia mai stato vicino a quello tra madre e figlio o, nella migliore delle ipotesi, tra sorella maggiore e fratello, come era in quel momento.
Non hai più la cicatrice, hai visto?” ha continuato Mime.
   Sul momento Harlock sembrava non aver capito, poi si è riscosso ed è tornato a guardarsi allo specchio.
Io... non ci avevo fatto caso, ero troppo preso a rendermi conto di quanti anni mi fossero stati improvvisamente tolti e di come fosse cambiato il mio corpo nel suo complesso.” ha risposto.
   Ha osservato per un po’ la sua immagine riflessa, poi con gesti lenti, quasi seguisse un rituale, si è tolto la benda dall’occhio destro. Non so come sia possibile, per ora la medicina non ha una risposta per una cosa del genere ma... ci vedeva! L’occhio destro era al suo posto, perfettamente ricostituito e, a quanto pare, ci vede come l’altro.
   A quel punto, infatti, sono intervenuto io in qualità di medico e ho voluto visitare Harlock con la cura che le circostanze mi richiedevano e devo dire che l’esito è piuttosto confortante: il nostro capitano sembra godere di ottima salute, nonostante la febbre e i dolori delle ore precedenti. Inoltre è ancora nel pieno delle sue facoltà mentali e in possesso di tutti i suoi ricordi. Ha riconosciuto tutti i membri dell’equipaggio, che gli ho mostrato attraverso delle schede, sa dove siamo e cosa stiamo facendo e questa non è una cosa da poco se teniamo conto che c’è ancora una guerra da combattere! E una nemica come Raflesia che ora più che mai è alle porte.
Forse dovremo accontentarci di avere un capitano in miniatura (si fa per dire, dato che è sempre uno stangone), ma non un capitano menomato delle sue conoscenze. Sarà ancora la nostra guida contro Raflesia, il nostro stratega, il nostro leader carismatico... O almeno... lo spero.
   Harlock ha detto che si sentiva meglio e voleva lasciare l’infermeria ma ho insistito perché passasse qui il resto della notte, in modo che potessi tenerlo sotto controllo, del caso la situazione fosse mutata improvvisamente. Fortunatamente, fin’ora è tutto tranquillo.
   Aspetterò ancora un paio d’ore, poi chiamerò Yuki: il capitano ha chiesto di lei, voleva sapere se stava bene, dato che non riusciva a ricordare come si erano messi in salvo e se Kei fosse rimasta ferita. Ma ho preferito lasciarla riposare ancora un po’, povera Yuki: credo ne abbia di bisogno dopo quello che ha passato. Però sono sicuro che sarà molto contenta di sapere che il capitano è fuori pericolo: si sentiva così in colpa.
   Spero solo che questa novità su di lui non la turbi troppo... Dopotutto, ora, hanno praticamente la stessa età. E si sa come sono i giovani. Non mi devo dimenticare però che il capitano resta pur sempre un uomo maturo, coscienzioso e responsabile. Avrà giudizio per tutti e due.


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Capitolo 3
*** Una nuova vita ***


Una nuova vita



Dai files del tablet di Tadashi


Il capitano è vivo. Questo è un dato positivo. Forse il solo dato positivo, perché tutto il resto...
Ma andiamo con ordine: credo sia l’unico modo per fare chiarezza anche nella mia testa.

Stavo percorrendo il corridoio su cui si affacciano le cabine dell’equipaggio quando ho visto Yuki uscire di corsa dalla sua stanza. Ho immaginato subito che si trattava del capitano e le sono andato dietro. Mi sono spaventato, è evidente: anch’io ero preoccupato per Harlock e... sì, certo, mi sentivo in colpa, in parte.
Anche se non è stato certo per proteggere me che è rimasto ferito. Yuki mi ha subito detto che era stato il dottor Zero a chiamarla e che Harlock aveva ripreso conoscenza. Non sapeva nient’altro. E di certo nessuno di noi si aspettava di trovare quella... sorpresa.
Quando l’ho visto ho stentato a riconoscerlo. Lui ci ha salutato subito, forse per darci un indizio, perché capissimo che era lui e che ci riconosceva ancora. Io sono rimasto piuttosto scosso ma, come ho scritto all’inizio, il capitano era vivo e questo era di certo un bene. Credevo che per Yuki invece sarebbe stato uno shock molto più forte. Invece l’ha presa molto meglio di quanto mi aspettassi. All’inizio è rimasta impietrita, ma poi gli è corsa incontro e gli ha gettato le braccia al collo, scoppiando in un pianto dirotto.
Harlock ci è rimasto di sasso, proprio come me e il dottor Zero. Mime invece si è avvicinata a Yuki e le ha accarezzato i capelli con fare materno, come a consolarla.
Anche Harlock ha cercato di tranquillizzarla:
- Sto bene, Yuki. - le ha detto.
Forse non sapeva bene neanche lui come comportarsi, credo che fosse spiazzato quanto me... ma comunque sia alla fine, invece di lasciare Yuki alle cure di Mime come tutti noi ci saremmo aspettati, l’ha abbracciata. E l’ha tenuta stretta finché non ha smesso di singhiozzare!
Già questo avrebbe dovuto bastare come campanello d’allarme. Harlock non l’avrebbe mai fatto, ne sono sicuro.
Yuki era troppo contenta per rendersene conto. Continuava a ripetere che le dispiaceva, a scusarsi, a dire quanto era felice che si fosse ripreso. E più tardi, quando siamo usciti assieme dall’infermeria e ho cercato di farle notare che il capitano stava bene, sì, ma aveva almeno dieci anni di meno, lei ha minimizzato, liquidando questo fatto come un particolare di poco conto.
- L’importante è che sia vivo. - continuava a ripetere - Al resto c’è rimedio. Vedrai che il dottor Zero troverà una cura: è un medico in gamba, anche se non sembra. Torneremo sul pianeta Eden e preleveremo dei campioni d’acqua dalla palude... riusciremo a capire che tipo di sostanza lo ha contaminato.
Quando le ho fatto notare, con molto tatto, che avrebbe potuto rivelarsi un’impresa impossibile (so meglio di lei che in quella palude le sostanze contaminanti sono centinaia, non una soltanto!), Yuki mi ha zittito dicendo che comunque, nella peggiore delle ipotesi, Harlock avrebbe semplicemente dovuto invecchiare di nuovo, e questo non le sembrava un problema.
Invece, da quello che stiamo vedendo in questi giorni, non si tratta semplicemente di “invecchiare di nuovo”...

La reazione del resto dell’equipaggio è stata altrettanto incredula: quando Harlock è passato per i corridoi diretto in sala comandi c’è stato chi ha sputato tutto il ramen che stava mangiando e chi si è limitato a spalancare occhi e bocca, come un siluro in cerca di una preda... Harlock non ha degnato nessuno di una spiegazione e ha tirato dritto per la sua strada, dimostrandosi in questo del tutto coerente con il se stesso di prima, ma io ho notato che, per un attimo, un sorriso ironico gli è spuntato sulle labbra.
Le reazioni sul ponte di comando non sono state da meno e lo stupore l’ha fatta da padrone: evidentemente, il dottor Zero, che aveva promesso di occuparsi di avvertire tutto l’equipaggio, si era limitato a segnalare qualche generico “effetto collaterale” senza scendere nei dettagli, perché nessuno sapeva del ringiovanimento di Harlock.
Così, quando il capitano è entrato, Yattaran ha rischiato di lasciar cadere il modellino che stava incollando con tanta cura e il “che mi venga un colpo!” di Maji è stato il commento più appropriato fra tutti quelli che ho sentito in sala comandi. Harlock si è limitato a sorridere davanti a quelle reazioni, prima di essere subissato dalle domande: credo che molti, proprio come me, volessero capire se era davvero ancora lui e soprattutto se era ancora in grado di essere un comandante.
In un certo senso credo che Harlock li abbia rassicurati tutti quanti, dando prova di ricordarsi di ognuno di loro e di sapere perfettamente contro chi stavamo combattendo e perché... Ma io non ho potuto fare a meno di ascoltare con una punta di sospetto ogni sua risposta... il perché è difficile da spiegare... ma temo... sì, temo che lui sappia di non essere più quello di prima, e che faccia di tutto per nasconderlo.

Devo aggiungere che, secondo me, anche la sua scelta di una nuova divisa deve aver contribuito a generare certe reazioni stupefatte in tutto l’equipaggio, creando l’effetto “estraneo a bordo”.
Già, perché il capitano ha provato i suoi soliti vestiti, ma si è reso conto che gli andavano un pochino grandi: oltre ad aver perso una decina di centimetri in altezza, sembra abbia perso anche qualche chilo rispetto a prima. Così si è fatto fare una nuova uniforme dal reparto sartoria, pensando bene di cambiare anche il modello. E certo, l’altra ormai era fuori moda! E poi il mantello... roba da vecchi!
Meglio un’uniforme tutta nera e attillata, con il classico collo alto stile impero, che fa figo...
Non ho commentato: non mi sembrava il caso dopo che la sua trasformazione era in parte causata da una mia insubordinazione... ma le donne dell’astronave è parso che gradissero molto, a partire dalla signora Masu, che è stata la prima a vederlo quando è passato davanti alle cucine, per finire con Yuki, che è rimasta imbambolata a guardarlo per un intero minuto dopo che Harlock ha fatto il suo ingresso in sala comandi.

Inizialmente, quando ha ripreso a tutti gli effetti il suo ruolo di capitano, tutto sembrava nella norma: il suo consueto piglio deciso ogni volta che bisogna prendere una decisione, la ponderatezza nel calcolare le mosse nemiche, lo spirito intrepido quando c’è da intraprendere una missione difficile... Ma sotto c’era molto di più di quello che noi riuscivamo a scorgere. C’era l’incoscienza di un ragazzo! E non solo l’incoscienza...
Io me ne sono accorto già nel corso delle ultime battaglie contro le mazoniane, poco dopo la sua trasformazione, ma è stato quando abbiamo fatto sosta sull’isola Ombra di Morte che la cosa è divenuta lampante. A me, almeno.

Era trascorso solo un giorno da che il capitano si era trasformato, infatti, quando siamo stati attaccati nuovamente dalle mazoniane. Ci stavamo dirigendo verso il piccolo pianeta B13, nostra meta prima ancora della vicenda di Eden, dove pensavamo fosse stata installata una base nemica, quando una formazione di caccia mazoniani è comparsa sui nostri radar. Non era molto numerosa, ma poco lontano dovevano esserci le navi madre perché, dopo che abbiamo sbaragliato la prima squadriglia, ne è arrivata subito una seconda. E poi una terza e una quarta... sempre più numerose. Questo era un segno inequivocabile della presenza di una base nemica sul pianeta B13!

La battaglia è stata molto dura: credevamo di essere incappati in una delle solite brevi scaramucce con qualche navetta da ricognizione e invece si trattava di una vera e propria imboscata: le navi madre, molto più numerose di quello che credevamo all’inizio, ci aspettavano al varco, nascoste dietro il pianeta B13.
Il comportamento che Harlock ha tenuto nelle fasi iniziali della battaglia non ha destato in me alcun sospetto: ci ha guidato con la consueta sicurezza, prendendo anche decisioni intrepide. Fin troppo intrepide, mi sono poi reso conto!

Infatti ad un certo punto, dopo una serie di scontri piuttosto cruenti tra i nostri caccia e quelli nemici, Harlock sembrava essersi stancato della battaglia... quasi annoiato.
Io ero a capo di uno squadrone e stavo inseguendo alcune mazoniane fuggitive (non è mia abitudine permettere a quelle dannate di lasciare indenni il campo di battaglia), quando il capitano ha richiamando a bordo tutti i Lupi Spaziali!
Ho protestato, ma Harlock è stato irremovibile.
- Esegui l’ordine, Tadashi! - mi ha intimato.
Memore degli ultimi eventi, ho voluto ubbidire. Del resto, il suo tono era così perentorio che non ammetteva repliche e in questo sembrava davvero, in tutto e per tutto, il nostro capitano di un tempo, anche se un poco più spazientito di come me lo ricordavo.
Siamo rientrati tutti rapidamente perché lui sembrava avere una fretta del diavolo.
Soltanto una volta tornato sull’Arcadia ho capito qual’era il suo piano. Poco prima che desse l’ordine di rientrare, infatti, la nostra astronave era stata colpita su una fiancata in maniera pesante, proprio nella zona in cui si trovano i reparti addetti al controllo del nostro armamento: un’azione suicida di alcuni piloti mazoniani che si erano volontariamente schiantati con le loro navette contro di noi... Non c’erano stati danni seri: avremmo potuto continuare a combattere, in attesa di poter riparare i danni.
Ma Harlock aveva un’altra idea in mente.
Ha preferito ingannare le mazoniane, ha preferito simulare che non fossimo più in grado di usare alcun tipo di arma: e per questo ha dato ordine che un denso fumo nero si levasse dal fianco destro dell’astronave, ma soprattutto ha ordinato che cessassimo il fuoco!
L’Arcadia ha continuato ad avanzare verso le navi nemiche, sotto il fuoco pesante delle loro artiglierie, difesa solo da una temporanea barriera di energia che attutiva i colpi più forti, ma non la risparmiava completamente dal subire danni.
Il capitano stava in piedi davanti al timone, le mani serrate attorno alle manopole della ruota, lo sguardo fisso davanti a sé... Mi sembrava preoccupato, come se si fosse reso conto della temerarietà della sua idea solo quando l’Arcadia si inclinava sempre più sotto le raffiche dei colpi nemici, bersagliata dai caccia e dalle grosse navi corazzate.
Sono sicuro che i comandanti delle diverse squadriglie si sfregavano le mani dalla gioia nel vederci cadere, come un bocconcino prelibato, nelle loro fauci.
Io non ce l’ho più fatta a tacere... beh, certo, in verità avevo già tentato di dissuaderlo da questa impresa quando ne aveva avuto l’idea. Ma in quel momento sono andato da lui vicino al timone e gli ho intimato di smetterla con questo giochetto, se voleva salvare la sua amata nave.
- O devo pensare che non te ne importa più niente, Harlock? - ho concluso. Tutti gli ufficiali di plancia, Yuki in testa, mi guardavano allibiti, ma io non mi sono lasciato intimorire dai loro sguardi. Ho continuato a fissare Harlock in modo truce... e lui ha contraccambiato il mio sguardo con un sorriso di scherno, gli occhi che gli brillavano. Non dimenticherò mai quello sguardo!
Poi è tornato a fissare lo schermo davanti a sé.
- Eccole che vengono ad accoglierci... - ha detto sottovoce, quasi parlando tra sé o con la stessa Arcadia, osservando le astronavi che avanzavano verso di noi a breve distanza una dall’altra e non più in formazione.
E poi ha ripreso a dare ordini, la voce stentorea che rimbalzava da un capo all’altro del ponte
- Diamo loro il nostro benvenuto: Arcadia, motori a tutta forza! Fuori il rostro di prua!
- Motori a tutta forza e fuori il rostro! – gli ha fatto eco Yattaran... come se ce ne fosse stato bisogno!
- Cosa vuoi fare, Harlock? - gli ho bloccato un braccio con entrambe le mani, il braccio con cui si apprestava a far girare la ruota del timone ancora saldamente in mano sua.
- E’ semplice: voglio speronarle una dopo l’altra come fossero uno spiedino! - aveva ancora quel sorriso divertito stampato in faccia! In quel momento, lo avrei preso a schiaffi!
Ma Harlock, con uno strattone, si è liberato dalla mia presa: nonostante sia diventato più giovane, conserva un nervo davvero invidiabile!
L’Arcadia si è raddrizzata per poi di nuovo piegarsi su un fianco, filando dritta verso la prima delle astronavi nemiche.
Nessuna di loro ha fatto in tempo a scappare: anche se le ultime hanno cercato di fare dietro front, l’Arcadia le ha raggiunte in extremis, speronandole senza pietà. Io ho distolto gli occhi dalla scena che si consumava sui monitor solo per fissarli addosso ad Harlock ed ogni volta aveva lo stesso sguardo soddisfatto, gli stessi occhi sfavillanti. Non sorrideva, forse perché non si compiaceva del massacro. Ma era comunque soddisfatto della sua “bella” impresa, ne sono più che convinto!
I caccia mazoniani, ormai privi del supporto delle navi più grosse, se la sono filata a gran velocità. Naturalmente, Harlock non ha ritenuto necessario inseguirli.
Alla fine ci sono state urla di esultanza e il ponte si è riempito del vociare degli uomini che osannavano il capitano e la sua spregiudicatezza. Harlock ha riso quando Yattaran gli ha detto che quello era stato il più spettacolare degli speronamenti che avessimo mai fatto e poco dopo l’ho sentito ringraziare con voce calda persino Yuki, che si era avvicinata per complimentarsi con lui.
Tutte queste reazioni mi arrivavano solo attraverso le voci e le grida dell’equipaggio perché, da quando la battaglia era finita, avevo smesso di seguire quello che accadeva in sala comandi. E dopo poco sono uscito dalla stanza... ero nauseato e la testa mi scoppiava, mentre una sola domanda si avvolgeva su e giù nella mia mente come una spirale di fumo: che ne sarà di noi, d’ora in avanti, sotto la sua guida?

La notte è molto avanzata e devo cercare di dormire almeno un po’. Domani scriverò di ciò che è accaduto su Ombra di Morte: ho molto da riflettere su quegli avvenimenti... anche se so che può sembrare incredibile che sia così dopo queste ultime annotazioni.


Tadashi

Nota: ho scritto questo capitolo utilizzando il font OCR A Extended, per creare l'effetto schermo di computer in stile sci-fi.

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Capitolo 4
*** Tra sabbia e onde ***


Tra sabbia e onde


Dai files del tablet di Tadashi


Ombra di Morte... La decisione di rifugiarci sulla nostra base segreta era inevitabile, dopo gli ultimi violenti scontri: tutto l’equipaggio aveva bisogno di riposo e l’Arcadia necessitava di riparazioni urgenti.
Dopo esserci allontanati dal pianeta B13 verso una zona più sicura, Harlock ha dato ordine di richiamare Ombra di Morte e ha impartito ordini e diviso compiti tra tutto l’equipaggio con la solita sicurezza, ben conoscendo capacità e mansioni di ciascuno. L’unica macroscopica differenza tra il passato e il presente, tra l’Harlock che conoscevo e quello di adesso, è che prima di dare inizio alle riparazioni ha concesso mezza giornata di riposo a tutti. Io credo, anzi, sono convinto che, nella situazione in cui eravamo, sarebbe stato indispensabile rimettere subito in sesto l’astronave, per non ritrovarci impreparati davanti ad un improvviso attacco mazoniano. Solo dopo l’equipaggio avrebbe dovuto riposarsi, com’è giusto.
Ma Harlock ha creduto che fosse bene fare diversamente. Non penso che questa sarebbe stata la sua scelta se fosse stato “in sè”.
Appena sceso, ciascuno si è diretto alle sue consuete occupazioni: Yattaran al laboratorio, Mime e il dottor Zero verso la riserva speciale della cantina... Yuki al mare...
Anzi, ci siamo andati assieme al mare: pensavo che fosse ancora provata per quello che era accaduto sul pianeta Eden, così ho creduto che fosse una buona cosa tenerle compagnia. Io ho portato l’ombrellone e un piccolo frigo pieno di bibite ghiacciate, Yuki i teli da mare: era allegra e rilassata e lungo il tragitto non abbiamo fatto altro che ridere e chiacchierare. Stavamo benissimo da soli. Ma non è durata molto.
Stavamo prendendo il sole sdraiati uno di fianco all’altra, ascoltando vecchie musiche del XXI secolo a tutto volume, quando è arrivato lui.
- Sapevo di trovarvi qui. - ha detto, mentre la sua ombra ci copriva entrambi.
Non potevo credere ai miei occhi e anche Yuki sembrava parecchio sorpresa: Harlock era davanti a noi, in costume! E non uno di quelli lunghi tipo bermuda, ma un pantaloncino nero leggermente attillato che gli metteva in risalto il lato B più di quanto non meritasse!
Forse anche lui aveva pensato che fosse giusto tenere compagnia a Yuki dopo l’ansia patita nei giorni passati, non lo so... Del resto mi chiedo: per quale motivo ha voluto raggiungerci, dato che non lo aveva mai fatto prima? Anche nei momenti di riposo su Ombra di Morte, Harlock non si era mai veramente svagato. Mai prima d’ora.
Dato che nessuno di noi due riusciva a dire niente è stato lui a proseguire:
- Con una bella giornata così non avete niente di meglio da fare che starvene immobili sotto il sole come due lucertole?
Approfittiamo proprio di una bella giornata di sole per prendere un po’ di abbronzatura, avrei voluto rispondergli. Nello spazio c’è sempre buoi, se non te ne sei ancora accorto...
Intanto Yuki si era alzata e gli aveva chiesto di restare lì con noi, offrendogli persino il suo asciugamano. Ma lui ha risposto che preferiva l’acqua alla sabbia.
- Facciamo un giro! Ombra di Morte riserva infinite sorprese. - ha detto.
Yuki era raggiante e ha accettato subito, insistendo perché venissi anch’io. E’ stata molto gentile, ma in verità avevo già deciso di non lasciarla sola con quel nuovo Harlock dalla personalità sconosciuta.
E così, abbandonati ombrellone e teli da mare, ci siamo incamminati dietro a lui, che sorrideva come mai prima gli avevo visto fare, mentre Yuki si sforzava di tenere il suo passo per camminargli sempre al fianco, tenendosi con una mano il largo cappello di paglia per impedire al vento di portarglielo via.
- Questo posto... per quante volte ci venga, è sempre affascinante: sembra incredibile che un cielo e un mare come questi siano racchiusi dentro un asteroide artificiale! - ho detto ad un certo punto, rimirando l’orizzonte del quale non si vedeva la fine, come se fossimo stati davvero su di un’isola sperduta in mezzo all’oceano.
- Sì... un microcosmo puro e perfetto creato apposta per noi, come un Paradiso Terrestre. - ha assentito Harlock e quelle parole, pronunciate dalla sua voce calda, suonavano ancora più convincenti. Poi ha disteso un braccio in direzione di un’ansa della spiaggia, leggermente nascosta da un gruppo di palme cresciute fino a lambire il mare.
- Laggiù c’è sempre una piccola barca ormeggiata: prendiamola per fare un giro al largo!
- Oh, sì, che bella idea capitano! - ha esclamato subito Yuki.
Non volevo mettere in dubbio la sua parola, ma sul momento pensavo davvero che si ricordasse male: non avevo mai visto barche ormeggiate lì nei dintorni. Però devo ammettere che aveva ragione lui, dato che la barca era là, sulla spiaggia. Io non mi ero mai spinto così lontano, in quella direzione.
Harlock e Yuki hanno raggiunto di corsa l’insenatura, sparendo poi alla mia vista per alcuni minuti. Non avevo voglia di corrergli dietro. Se volevano fare il giro in barca avrebbero dovuto aspettarmi comunque: il mio aiuto era indispensabile per mettere in acqua l’imbarcazione, Yuki non era abbastanza forte. E infatti, quando sono arrivato, lei e Harlock erano ancora seduti sulla sponda della barca a chiacchierare.
- Eccoti qui, finalmente! - ha detto il capitano appena mi ha visto, venendomi incontro. Non sembrava per niente spazientito, anzi! Avevano entrambi l’aria di essersi riposati, prendendosela comoda.
- Su forza, diamoci da fare! Anche su Ombra di Morte prima o poi il sole tramonta! - sempre sorridendo mi ha dato un pacca sulla spalla, come tra vecchi amici e mi ha fatto cenno di aiutarlo.

La barca è scivolata dolcemente nell’acqua, spinta dalle nostre braccia, mentre Yuki, già seduta a bordo, ci guardava tutta felice. Sembrava una gita tra amici, la libera uscita di tre adolescenti per la prima volta lontani dal controllo dei genitori. Almeno, l’entusiasmo di Harlock per ogni cosa mi ha fatto sorgere questo pensiero... e anche l’entusiasmo di Yuki, a dire il vero. La barca era piccola, con una sola vela e scorreva veloce sulle onde, seguendo il nostro capriccio.
Forse è solo una mia idea, non lo so... forse mi sono fatto troppo sospettoso... sta di fatto che anche quand’eravamo in barca ho notato strani comportamenti da parte di Harlock, cose che non avrebbe mai detto o fatto prima.
Yuki se ne stava appoggiata al parapetto, la faccia rivolta al sole e l’ombra del cappello che le riparava gli occhi. Credo stesse guardando il cielo, godendosi la brezza del mare.
Poi la voce del capitano ci ha fatto sussultare entrambi.
- Se vuoi prendere il sole devi metterti su questo lato: lì dove sei c’è l’ombra della vela!
Io ero così intento a manovrare la barca da non essermi reso conto che Harlock la stava osservando già da un po’! Dubito che persino Yuki se ne fosse accorta. Quando ha capito che parlava con lei è arrossita e ha balbettato qualcosa tipo: “già, è vero, non ci avevo fatto caso”. Lui le ha indicato con un gesto del pollice il punto migliore in cui mettersi, quasi che dare simili indicazioni fosse una cosa di sua competenza!
Io ho fatto finta di niente e mi sono girato dall’altra parte, per non continuare ad avere sotto gli occhi quei due che si scambiavano fugaci occhiate. Ho continuato a manovrare la barra del timone fissando il pelo dell’acqua che si increspava al nostro passaggio. Abbiamo trascorso parecchi minuti senza parlare, accompagnati solo dallo sciabordare delle onde contro la chiglia.
E poi, d’un tratto, ho sentito di nuovo la sua voce, solo che veniva da una direzione diversa. Mi sono voltato subito: era appoggiato al parapetto vicino a Yuki, le braccia nude che sfioravano quelle di lei. Sono rimasto a bocca aperta.
Harlock non stava parlando sottovoce eppure non riesco a ricordare precisamente le sue parole... credo che le stesse proponendo di andare a fare una nuotata perché dopo poco ha rivolto la stessa domanda anche a me.
Prima che io potessi dire la mia, Yuki aveva già accettato.
- Fermiamo la barca qui. - ha detto Harlock – Il fondale è bello, ricco di conchiglie giganti e fra i coralli si nascondono pesci multicolori.
- Non abbiamo portato l’attrezzatura per fare immersioni. - è stata la mia osservazione.
- Non sarà necessario fare delle vere immersioni. Basta avere buoni polmoni per resistere sott’acqua qualche minuto, il tempo necessario per ammirare quello che si muove a un paio di metri sotto lo scafo.
Harlock era vicino a me mentre indicava l’acqua oltre il parapetto della barca: sotto la superficie appena increspata, pesci piccoli e grandi danzavano attorno a noi, quasi ci stessero invitando a raggiungerli in mare.
- Io... non saprei... - ho detto, ma Harlock non ha prestato attenzione alle mie deboli proteste. Non volevo certo lasciare sola Yuki, ma non mi fidavo delle sue strambe idee. Continuavo a temere che ci conducesse in qualche pericolo sconosciuto.
In quel momento è intervenuta Yuki:
- Su andiamo, Tadashi: non fare il difficile! Una nuotata non potrà farci che bene!
Non riusciva ad intuire nessuna delle mie preoccupazioni!
- Eddai Tadashi: è l’unica mezza giornata di svago che hai, cerca di godertela! - ha sentenziato il capitano, prima di salire sul parapetto e gettarsi in acqua con un tuffo.
Yuki ha seguito con lo sguardo la parabola compiuta dal suo copro che s’inarcava contro la luce del sole prima di bucare la superficie liscia del mare. Poi ha messo giù il cappello e si è tuffata dietro a lui, una chiazza d’oro contro il cielo troppo blu.
Sembrava felice come una ragazzina e la cosa mi preoccupava enormemente. Due minuti dopo ero in acqua anch’io.
Abbiamo nuotato per un bel po’, facendo su e giù dalla barca per tuffarci. Harlock e Yuki facevano a gara, si rincorrevano e si gettavano in mare prima che uno riuscisse a raggiungere l’altro.
Io non mi sono unito al loro insolito gioco, preferendo tenerli sorvegliati a distanza. Tutto questo era così strano che non potevo fare finta di nulla, anche se mi ripetevo che in fondo non c’era niente di male. Qualche volta mi sono fermato sulla barca mentre loro non smettevano di andare su e giù come bambini. E qualche volta anche loro si fermavano per depositare una conchiglia o per richiamarmi in acqua se restavo a bordo troppo a lungo. Yuki veniva persino a tirarmi per il braccio, quasi le desse fastidio che non riuscissi a divertirmi come lei.
Non riusciva a capire che non potevo assolutamente abbassare la guardia... non riuscivo a fidarmi di quel nuovo Harlock, era più forte di me.

Finché ad un certo punto non ho più voluto seguirli.
E’ stato quando Harlock ha proposto di andare a nuoto fino alla scogliera a qualche decina di metri da noi. Yuki avrebbe dovuto capire i motivi del mio rifiuto, avrebbe dovuto mettersi in sospetto che c’era qualcosa che volevo dirle, che le stavo lanciando un messaggio. Ma, ancora una volta, non ha capito nulla.
E così, quando davanti al mio reiterato rifiuto il capitano ha detto “Fa come vuoi: noi andiamo!” lei lo ha seguito, lanciandomi una lunga occhiata di biasimo.
Sono rimasto da solo sulla barca a seguire con lo sguardo la scia dei loro corpi nell’acqua mentre si rincorrevano senza riuscire a raggiungersi. Harlock era molto più veloce di Yuki e le stava sempre davanti: sembrava che non volesse permetterle di superarlo. Non avevo idea se stessero facendo di nuovo a gara: avevo seguito ben poco i discorsi che si erano scambiati a proposito della scogliera.
Poi li ho visti che si inerpicavano lassù, sopra quei massi scoscesi e taglienti, Harlock sempre davanti, Yuki dietro. La cosa strana (un’altra!) è che si è pure fermato per aiutarla a salire. Le ha teso la mano e l’ha tirata verso di sé... riuscivo a distinguerli bene anche da lontano. Sono rimasti fermi un pezzo sulla scogliera, a prendere il sole o a riposarsi, che ne so... Di certo non guardavano nella mia direzione. Erano seduti vicini e sembrava che avessero un mondo di cosa da dirsi perché non si sono mossi da lì per almeno mezz’ora. Io nel frattempo mi sono disteso sul fondo della barca, tra l’ombra della vela e gli ultimi raggi del sole che andava sempre più declinando sull’orizzonte. Non era il tramonto, ma la luce giungeva meno diritta e sferzante dentro l’imbarcazione. Tutte le volte che mi rialzavo per controllare se erano ancora là, li ritrovavo praticamente nella stessa posizione.
Poi ad un tratto sono ridiscesi verso il mare, sul lato opposto a quello da cui erano saliti. Credevo che stessero per tornare alla barca ma non era così. Stavano solo esplorando qualche anfratto nascosto della scogliera, forse alla ricerca di chissà quali tesori nascosti dai pirati! Li vedevo ogni tanto che riemergevano sul pelo dell’acqua, per poi tornare ad immergersi, oppure salivano sulle rocce più basse a deporre qualcosa, prima di riprendere la via del mare.
Alla fine mi sono stancato.
Ho sciolto le corde che tenevano fissa la vela e l’ho direzionata in modo che cogliesse il debole vento che stava iniziando a spirare dal mare verso la costa. Sarei tornato a riva senza di loro.
Dato che amavano così tanto giocare a rincorrersi, ho creduto che non gli sarebbe dispiaciuto troppo farsela a nuoto fino alla spiaggia!
Mi sono voltato indietro una sola volta: dovevano essere ancora in acqua, perché non li vedevo da nessuna parte.
Mentre facevo ritorno, ho persino provato ad immaginare le loro facce nel momento in cui si sarebbero accorti che la barca non c’era più. Credevo che si sarebbero arrabbiati per essere stati lasciati indietro, e pensavo che quello più infastidito sarebbe stato il capitano... La prenderà sicuramente come la peggiore delle insubordinazioni da parte mia, mi dicevo. Totale mancanza di rispetto verso l’autorità....
Invece, quando alla sera ci siamo incontrati di nuovo nella grande sala della mensa comune, sia Harlock che Yuki hanno fatto finta di niente, comportandosi quasi come se fossimo tornati assieme con la barca fino alla spiaggia. In verità, nessuno dei due ha menzionato la nostra gita. Solo Yuki, che durante la cena era seduta davanti a me, quando avevamo quasi finito di mangiare e i posti vicino a noi erano rimasti vuoti, ha fatto un’osservazione sul fatto che non li avevo raggiunti sulla scogliera.
- Vi avevo detto che non sarei venuto. - ho risposto scrollando le spalle. Non volevo discutere degli avvenimenti della giornata e dei miei sospetti a tavola, dove qualcuno avrebbe potuto sentirci.
Ma Yuki non ha aggiunto altro e dopo un po’ si è alzata e se ne è andata, affermando che era meglio andare a letto presto, dato che il giorno dopo ci sarebbe stato molto da lavorare.
In verità, non so se quelle fossero le sue vere ragioni, anche se sul momento ho pensato di sì. Per questo motivo non l’ho seguita. Certo, dopo quanto era successo sulla spiaggia avevo i miei pensieri e non desideravo trovarmi subito da solo con lei, perché sono sicuro che avremmo finito per litigare. Sapevo invece che avrei dovuto essere sufficientemente calmo da farle capire che sbagliava a fidarsi così ciecamente di lui.
Soltanto qualche ora dopo mi ha preso il pensiero che effettivamente Yuki poteva non essere andata a dormire... Infatti, quando lei si era alzata, Harlock aveva lasciato da poco la sala mensa...
Ma probabilmente mi sbaglio, su questo... Deve essersi trattato solo di una coincidenza. Dopotutto, anche lui sarà stato stanco e avrà voluto riposare... Almeno, è ciò che spero.

Tadashi



Preview: Appuntamento al prossimo capitolo con “Quel che accadde e che Tadashi non scrisse”...

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Capitolo 5
*** Quel che accadde e che Tadashi non scrisse ***


Quel che accadde e che Tadashi non scrisse


Dal diario di Yuli


Ho deciso di scrivere subito gli eventi di questa giornata: voglio fissarli nella memoria finché sono ancora vividi, eppoi tanto so che, anche se ci provassi, non riuscirei a dormire... Oggi sono accadute così tante cose e molte di esse sono davvero insolite. A cominciare dalla comparsa del capitano sulla spiaggia, in costume da bagno. Non me lo aspettavo e, per quanto all’inizio mi abbia colto alla sprovvista, non l’ho trovato poi così strano: credo che anche lui avesse bisogno di rilassarsi dopo quello che gli è accaduto. E per me è stato così bello! Ho goduto egoisticamente di ogni attimo che abbiamo passato assieme, con l’illusione che ci stessimo avvicinando sempre di più, che una dopo l’altra stessero cadendo tutte le barriere che ci sono tra noi.
Quando ci siamo diretti verso la barca, Harlock ha proposto di fare una corsa per raggiungerla. Credo che ce l’avesse con tutti e due, ma Tadashi ha fatto orecchie da mercante e non ci ha pensato minimamente a correre assieme a noi, quasi che lo stare sotto il sole di prima lo avesse stancato da morire. Io, invece, non ci avrei rinunciato per nulla al mondo. Harlock non mi ha dato nessun vantaggio e ho faticato a non farmi distanziare troppo, per quanto anch’io sia molto allenata, ma l’ho anche visto che guardava indietro verso di me, quasi a voler controllare che riuscissi a seguirlo. Quello è stato il primo momento in cui il mio cuore ha battuto più forte. Il primo di molti.
Quando però siamo arrivati all’insenatura ci siamo accorti che Daiba non era dietro di noi.
- Ma dove è finito Tadashi? - ha esclamato il capitano, guardandosi attorno. E’ tornato sui suoi passi per controllare oltre la curva della spiaggia e i tronchi delle grosse palme, che in quella zona si incurvano quasi fino al suolo. - Ah, eccolo laggiù: se la sta prendendo comoda!
Mentre Harlock parlava io lo avevo raggiunto, giusto in tempo per sentire la sua risata che riecheggiava nel mio petto, come le onde del mare che si frangevano vicino a noi. Tutto sembrava dargli gioia, quel giorno, ed io ho pensato che forse era da molto tempo che non si sentiva così vivo.
Dato che Tadashi era ancora lontano, ci siamo seduti sul parapetto della barca, all’ombra delle ultime palme, ad ascoltare il suono della risacca del mare. Il capitano aveva gli occhi fissi sulle chiome più alte, che si tingevano di riflessi d’oro sotto la luce del sole. Io continuavo a guardarlo cercando di trovare il coraggio di parlargli: eravamo improvvisamente più vicini e speravo... sì, speravo che mi avrebbe finalmente aperto il suo cuore.
- Mi sembrate contento di essere tornato su Ombra di Morte, capitano... - speravo con tutta me stessa che la mia frase sembrasse buttata lì per caso, senza seconde intenzioni. Ma nello stesso tempo, desideravo che fosse il giusto aggancio dal quale lui potesse proseguire per raccontare qualcosa di sé.
Invece ha semplicemente annuito e io ho aspettato, per un tempo che mi è sembrato infinito, che aggiungesse qualcos’altro, mentre il cuore mi martellava sempre più forte nel petto tanto che temevo che lui potesse sentirlo. Poi, quando avevo ormai perso la speranza e girato lo sguardo da un’altra parte, Harlock ha aggiunto:
- Questo posto è così... calmo. - su quell’ultima parola la sua voce era diventata quasi un sussurro eppure per me è stata un’illuminazione: finalmente mi sembrava di aver afferrato un frammento di verità della sua anima misteriosa e sfuggente.
Un luogo calmo... Era questo, allora, quello che stava cercando? Pace per un cuore sempre in lotta, per un animo tormentato e solo all’apparenza freddo?
Stavo per chiedergli dell’altro ma è stato lui a proseguire.
- E a te, Yuki, piace venire su Ombra di Morte?
Mi ha preso un po’ alla sprovvista ma non volevo che si accorgesse di quanto ero turbata, così ho cercato di fare in modo che la mia risposta gli sembrasse il più pronta possibile.
- Sì, è bello qui... e mi piace soprattutto perché sembra di essere sulla Terra, con la differenza che questo è un posto tranquillo dove nessuno può darci la caccia. Possiamo essere noi stessi e possiamo persino sdraiarci sulla sabbia e sentire di nuovo il sole sulla pelle o vedere un profondo cielo blu... Tutte cose che nello spazio sono ci sono precluse.
Harlock non ha commentato: ha continuato a guardarmi dritta negli occhi e il suo sguardo sembrava essersi fatto più dolce. Ma forse l’ho solo immaginato.
Poi, improvvisamente, il capitano ha distolto lo sguardo dal mio viso esclamando “Eccolo qui”, mentre Tadashi faceva la sua comparsa. Gli è andato incontro con l’aria più rilassata del mondo e io come una stupida ho pensato che fosse per non far capire a Tadashi che ci stavamo scambiando le prime, timide confidenze.


Assieme, si sono dati da fare a mettere la barca in mare e io devo confessare che mi sono divertita a guardarli: sembrava che facessero a gara tra di loro a chi spingeva più forte, i muscoli delle braccia contratti nello sforzo. Mi hanno lasciata comodamente seduta a bordo e mentre li osservavo mi sembrava di avere due cavalieri serventi tutti per me e, paradossalmente, proprio in quel momento, mi sono improvvisamente sentita quello che sono... semplicemente una ragazza di 16 anni in vacanza al mare. Non c’era nessun pirata spaziale, nessuna fuorilegge ricercata dalla polizia terrestre, e ogni dolore o lutto del passato sembrava improvvisamente sbiadito e offuscato, sospeso in un tempo che non mi apparteneva più.
Le ore trascorse sulla barca sono state quelle più strane, per me, e a tratti davvero difficili da ricordare, come il tempo dei sogni... o come se avessi sbirciato per un po’ nella vita di un’altra persona. La sua allegria, i suoi sorrisi, le sue risate improvvise e la sua voglia di stare con me (perché come altro potrei definire quel suo continuo cercarmi?) sono, di tutto il sogno, la parte più inverosimile e al tempo stesso più reale. Reale perché costellata non solo di sguardi ma soprattutto di contatti: il suo braccio che sfiora il mio, il suo respiro caldo mentre mi parla più vicino di quanto sia mai successo prima... la mano che mi ha afferrato la caviglia mentre risalivo sulla barca, durante la nostra pazza gara di tuffi. Già... se ripenso a quei momenti fatico a riconoscere anche me stessa. Quanto devo essere sembrata strana, forse persino fuori di me, al povero Tadashi che ogni tanto mi guardava con occhi stralunati, quasi a supplicarmi di fermarmi, di non andargli più dietro. Di non andare più dietro al mio capitano...
E io invece, come soggiogata da un potente incantesimo, non riuscivo a smettere di fare qualsiasi cosa gli saltasse in mente. Oh, non ho fatto nulla di cui vergognarmi, dopotutto, nulla di assurdo o ridicolo... ma nello stesso tempo, tutte cose che non avrei mai pensato di fare, con lui. Come appunto la gara di tuffi. Abbiamo faticato a convincere Tadashi a seguirci e io credo che in effetti non si sia divertito molto, soprattutto perché ad un certo punto Harlock ed io continuavamo a tuffarci e a risalire di nuovo sulla barca quasi per vedere chi si sarebbe stancato prima, chi avrebbe sbagliato il tuffo per l’ansia e la fretta. Era una gara tacita e senza accordi, scandita dal tempo delle nostre grida e delle nostre risate. E’ stato proprio mentre mi sbrigavo a tornare a bordo prima che Harlock mi raggiungesse o, peggio, mi superasse, che mi sono sentita prendere alla caviglia da una stretta ferrea e bagnata. Mi sono girata e in un sorriso c’era lui: mi ha fatto l’occhiolino dicendo “Dove vai così’ di fretta?”. Io sono rimasta interdetta, spiazzata soprattutto da quel contatto inaspettato e Harlock ha approfittato di quel momento di esitazione in cui la mia presa sulla scaletta della barca era meno salda, per tirarmi di nuovo in acqua. Credo di essergli praticamente caduta addosso perché ho sentito il suo corpo che strusciava contro il mio mentre io sprofondavo in acqua e lui cercava di allontanarsi. Quando sono riemersa, è stato il suono della sua risata ad accogliermi, seguito subito dopo dalla voce di Tadashi:
- Smettila, lasciala in pace! - è stato l’ordine perentorio che ha rivolto al capitano.
- Che c’è, ci stiamo divertendo! - gli ha risposto lui, ancora con la risata che gli vibrava nella voce.
- Tu ti stai divertendo! Ma lei la infastidisci.
- Ma che dici? - ha replicato Harlock tornando serio – Non le ho fatto male: è stato uno scherzo.
- Uno scherzo idiota!
Il capitano l’ha fulminato con lo sguardo.
- Ti faccio notare che se Yuki si è stufata è capace di dirmelo da sola.
- Non litigate. - sono intervenuta io, frapponendomi fra loro, ancora a galla danti allo scafo della barca. - Non mi sono fatta nulla, Tadashi, perciò non vedo per quale motivo tu te la debba prendere tanto.
- Avrebbe potuto essere molto pericoloso! - ha risposto lui e io credo lo abbia fatto più per dimostrare che aveva ragione a preoccuparsi, che perché temesse davvero per la mia incolumità.
- Non siamo due bambini che non capiscono il pericolo. - mi sono spazientita.
- A me sembra di sì... - ha risposto Tadashi a mezza voce, ma io ho sentito benissimo. Mi sono infuriata e stavo per replicare, quando Harlock è passato davanti a noi, aggrappandosi con la destra al corrimano della scaletta.
- Continuate pure a litigare, se volete. Io vado avanti da solo. - sono state le sue uniche parole.
- Vengo anch’io, capitano. - mi sono affrettata a rispondere, perché volevo che sapesse che ero ancora con lui. Ho salito il primo gradino, voltandomi di nuovo verso Tadashi – Dovresti smetterla di comportati così: sembri soltanto geloso.
Forse non avrei dovuto dirgli quelle cose, ma ero così arrabbiata per il suo intervento fuori luogo che volevo assolutamente fargli capire quanto il suo atteggiamento lo facesse apparire sciocco.
Abbiamo fatto qualche altro tuffo, con molta più calma, e qualche immersione per raccogliere conchiglie e stelle di mare, che poi ributtavamo in acqua. Tadashi non ci ha più seguito e io ho cercato di ignorare il suo malumore. Il capitano, invece, non sembrava arrabbiato con lui e così, quando ha proposto di andare fino alla scogliera a nuoto, ha incluso anche Tadashi nell’invito. Ma quello zuccone ha rifiutato dicendo che sarebbe rimasto ad aspettarci sulla barca. Abbiamo cercato entrambi di dissuaderlo ma lui è stato irremovibile così alla fine siamo andati da soli.
- Ti do il vantaggio di partire per prima: vediamo se riesci ad arrivare alla scogliera prima di me. Sempre che tu non sia troppo stanca. - ha detto Harlock quando eravamo entrambi vicini al parapetto, pronti a buttarci in mare.
Io non mi sono lasciata intimorire dalla sua baldanza:
- D’accordo: preparatevi a perdere, capitano. - gli ho risposto. Lui ha riso.
- Se fossi uno che perde tanto facilmente, a quest’ora non sarei qui! - mi ha risposto. - Vai, Yuki: preparati a pentirti della tua sicurezza.
Come aveva promesso (ormai dovrei saperlo che mantiene sempre le sue promesse), Harlock ha vinto “la conquista della scogliera”. Ce l’ho messa tutta per non farmi raggiungere ma credo che i muscoli delle sue braccia siano decisamente più potenti dei miei. E la cosa non mi dispiace. Però è stato molto gentile con me, quando siamo arrivati agli scogli: prima di salire mi ha aspettata e si è complimentato con me.
- Sei stata in gamba, Yuki! - ha detto tendendo la mano per aiutarmi ad arrampicarmi. - Ho faticato a distanziarti.
Io ho ansimato un “grazie” pieno di riconoscenza e lui ha sorriso, tirandomi su vicino a sé.
Mi aspettavo quasi che mi cingesse la vita con un braccio per impedirmi di perdere l’equilibrio... invece ha lasciato la mia mano appena è stato sicuro che fossi ben salda sulle rocce... e poi si è allontanato, andando verso l’altro lato della scogliera, quello più a sole, invitandomi a seguirlo.
Eravamo stanchi tutti e due per la lunga nuotata e così ci siamo seduti vicini a guardare il mare incresparsi in minute pieghe d’argento sull’orizzonte... un orizzonte che sembrava infinito come su un pianeta vero. E per un tempo lunghissimo nessuno di noi ha parlato.
Abbiamo aspettato a lungo che anche Tadashi ci raggiungesse, ma non è mai venuto. Molte volte mi sono voltata verso di lui senza riuscire più a vederlo: doveva essersi sdraiato sul fondo della barca.
- Starei qui per sempre a prendere il sole. - ha detto ad un tratto il capitano sdraiandosi sulla roccia, le braccia incrociate dietro la testa. - Ma credo che finirei per diventare rosso come un gamberetto.
Io ho riso e gli risposto
- Mi dispiace di non avervi offerto un po’ di crema solare, prima di andare a fare la nostra gita in barca.
Harlock si è stretto nelle spalle.
- E’ così tanto tempo che non prendo il sole che persino la mia pelle deve essersi dimenticata come si fa ad abbronzarsi... ma nonostante abbia una carnagione chiara, di solito non mi scotto facilmente. Spero solo che, trattandosi di un’isola artificiale, il sole cuocia meno che ai tropici sulla Terra.
- In verità credo che non ci siano grossi pericoli: di solito una giornata su Ombra di Morte non basta a farmi cambiare colore. Anche se, per abitudine, non dimentico mai di mettere la protezione solare... essendo bionda, meglio non rischiare. - ho aggiunto.
- Se sei bionda naturale sì.
Confesso che le sue parole mi hanno lasciato un po’ spiazzata: dubitava davvero che fossi tinta? Anche se non mi stava guardando, deve aver intravvisto con la coda dell’occhio la mia faccia dubbiosa, così si è voltato, facendomi l’occhiolino. Sorrideva in quel suo modo così accattivante, pieno di complicità e io mi sono sentita avvampare.
Si è rialzato appoggiandosi sui gomiti, tornando a guardare il mare.
- Qui attorno è pieno non solo di grosse conchiglie ma anche di piccoli oggetti sommersi, come una vera isola del tesoro: hai voglia di recuperarne qualcuno, Yuki?
- Oggetti sommersi?
- Sì... vecchie cose di tanti anni fa. C’è di tutto. Mi chiedo solo in che condizioni siano... Ma se non sei troppo stanca potremmo fare un po’ di... archeologia subacquea.
- Va bene: credo di essermi riposata abbastanza. - ho risposto e la gioia che si sentiva nella mia voce era sincera perché potevo stare ancora con lui.
Harlock si è rialzato velocemente, prendendomi di nuovo per mano: una luce piena di entusiasmo brillava nei suoi occhi castani, una luce a cui non potevo dire di no.
Mi ha condotto giù dall’altra parte della scogliera, sul lato opposto a quello da cui eravamo saliti, lungo una serie di gradoni naturali formati dalle rocce. Mi indicava dove posare ogni passo con la sicura esperienza di chi ha già percorso quella strada decine di volte... E non ho potuto fare a meno di chiedermi con chi. Ma la risposta, così ovvia, me l’ha data lui stesso poco dopo...
Era vero, nel fondale lì attorno c’era di tutto: vasi dalle forme antiche, pettini d’avorio, statuette di bronzo di divinità mediterranee... Piccoli oggetti inutili in parte logorati dal tempo ma che rendevano frenetica e curiosa la nostra ricerca, pur se consapevoli che alla fine avremmo gettato tutti di nuovo in mare, come già fatto con le stelle marine e le conchiglie.
Difatti, quando eravamo troppo stanchi per continuare ad immergerci abbiamo iniziato a restituire il nostro piccolo bottino alle onde, che si frangevano sempre più grosse contro gli scogli. Dall’alto della scogliera, lanciavamo lontano i reperti perché fossero poi le correnti marine a sospingerle dove volevano. Io avrei voluto poter gettare qualcosa di mio, qualcosa che sopravvivesse nel tempo a ricordare per sempre questa giornata. Ma non avevo nulla con me... eccetto il costume. Il solo pensiero di togliermelo per darlo in pasto al mare e di restare nuda davanti a lui mi ha fatto arrossire nuovamente con violenza.
Ma proprio mentre questi pensieri turbinavano nella mia mente, Harlock ha ripreso a parlare:
- Sapevo che qui era pieno di reperti ma non ricordavo davvero che fossero così tanti! E tutti qui attorno. Ne abbiamo raccolti a decine e lì sotto devono essercene ancora centinaia, disseminati per tutto il fondale, fin quasi alla spiaggia.
- E perché sono così tanti? Non può essere stato un naufragio... - ho chiesto, riirandom tra le dita il piccolo pettine d’avorio, indecisa se ributtarlo o meno in mare.
Il capitano ha scosso la testa.
- No, infatti... Il mio amico credeva che tutte le piccole cose inutili rendessero Ombra di Morte più vera, come un’autentica isola dei pirati. Ma soprattutto, un posto reale dove poter tornare per sentirsi a casa... Così l’ha riempita di passaggi che conducono in superficie, di pesci provenienti dai mari tropicali della Terra, di palme e fiori... e ha disseminato il suo mare di oggetti veri, raccolti qua e là sulla Terra o sulle colonie. Questo luogo, creato dalla sua fantasia e dal suo genio, è un microcosmo perfetto... un luogo in cui anche il mio cuore si acquieta... - la sua voce si era fatta più sommessa, come se provenisse dalle regioni remote del ricordo. - E dopo aver creato tutto questo... il suo fragile corpo si è spezzato, portandosi via tutti i nostri sogni... Questo... Ombra di Morte e l’Arcadia, sono l’eredità che ci ha lasciato.
- Capitano... - avrei voluto fargli sentire la mia vicinanza con un tocco, una carezza, ma non ho osato. Il suo volto, fisso sull’orizzonte, era velato di tristezza e anche il mio cuore si è stretto per il dolore, quello stesso dolore che sentivo vibrare dentro di lui e che tendeva i suoi muscoli trasformandolo in una statua di carne e sangue.
Un silenzio pesante è sceso fra noi ma io non mi sono mossa dal mio posto accanto al mio capitano. Aspettavo, senza sapere nemmeno io che cosa... Forse aspettavo solo di vederlo tornare sereno e che, come aveva fatto tante volte quel giorno, si voltasse all’improvviso sorridendomi di nuovo. Ma così non è stato.
Quando si è girato di nuovo è stato solo per guardare verso riva. Il vento, che spirava ormai dal mare in direzione della costa, gli scompigliò i capelli gettandoglieli sul viso così che non riuscivo più a guardarlo in faccia, ma nonostante questo no riuscivo a staccare gli occhi da lui.
- Credo che dovremo ritornare a nuoto: Tadashi è tornato a riva da solo con la barca. - ha detto con voce tranquilla, spostandosi i capelli dal viso con la mano.
- Cosa?
Non avevo guardato verso la spiaggia da quando eravamo tornati sulla scogliera. Anche se non ce n’era bisogno mi sono spostata sull’altro lato della massicciata, per essere sicura di vedere bene. Era vero: la barca era a riva e di Tadashi nessuna traccia.
- Quel ragazzino... così... - ho brontolato a mezza voce tra me, ma di nuovo le parole del capitano mi hanno interrotta.
- Pensi di farcela, Yuki?
Mi sono girata nuovamente verso di lui, mentre il vento frustava il mio corpo con alito sempre più fresco. Il suo sguardo impassibile, distante, era quello dell’Harlock che conoscevo, quello del capitano impenetrabile che tiene nascosto il proprio cuore ardente dietro un bianco, freddo teschio.
- Sì. - ho risposto meccanicamente. Sapevo a cosa alludeva.
- Bene. - ha annuito, avvicinandosi a me per passare oltre, e senza aggiungere altro si è tuffato in mare.
Il mio cuore ha avuto un sussulto. Come avrei voluto gridargli di aspettarmi... o rincorrerlo, come avevamo fatto poche ore prima giocando sugli scogli. Ma dentro di me sapevo che voleva stare da solo con i suoi pensieri, con i suoi ricordi...
- In mare non si vedono le lacrime. - ho pensato prima di gettarmi fra le onde.


Per tutta la sera, a cena, abbiamo mantenuto le distanze. Almeno, io le ho mantenute, combattuta com’ero tra il desiderio di chiedergli se era tutto a posto e la consapevolezza che l’incanto si era spezzato e che mai, mai mi avrebbe aperto davvero il suo cuore. Poi però, quando l’ho visto uscire dalla sala mensa da solo, non ho più resistito e l’ho seguito. Ho cercato di non fargli capire che ero uscita proprio per lui, speravo che sembrasse casuale, ma non so quanto abbia funzionato e, sinceramente, non me ne importa niente.
Quando l’ho raggiunto stava camminando lungo il corridoio che conduceva verso l’uscita dell’edificio dove ci sono la mensa e gli alloggi. Stava tornando sull’Arcadia, ne ero sicura: avrebbe passato là la notte, da solo, come del resto avrebbe fatto quell’Harlock che tutti conosciamo.
- Capitano! - l’ho chiamato, affrettandomi verso di lui. Era già davanti alla porta automatica, che spalancandosi aveva lasciando entrare la brezza della sera assieme al profumo notturno di alberi e mare.
Harlock si è fermato, guardandomi dritta negli occhi, lo sguardo, penetrante e interrogativo ad un tempo. Anch’io mi sono fermata, immobile, senza sapere che dire.
No, in verità sapevo cosa avrei voluto dirgli, ma non sapevo come. Come chiedergli “va tutto bene?” o “oggi vi ho visto turbato... volete parlarne con me?”. Come buttare giù quel muro di silenzi con le giuste parole?
Ho sospirato, abbassando lo sguardo.
- No... niente... capitano. - ho risposto.
Lui ha annuito mentre i suoi occhi sembravano passarmi da parte a parte, con una consapevolezza che mi ha spaventato, come se avesse intuito ogni cosa.
- Buonanotte... Yuki. - ha detto soltanto prima di uscire nell’oscurità.
Fuori, immersa nel silenzio irreale di Ombra di Morte, con l’unica compagnia della lontana risacca del mare, sono rimasta a guardarlo allontanarsi in direzione dell’Arcadia finché la sua sagoma scura non è stata ingoiata dal buio e anche allora i miei occhi hanno cercato disperatamente di scorgere la sua figura da qualche parte, laggiù, lungo il sentiero che conduce all’attracco della nostra astronave. Ma non ho visto niente, nemmeno una piccola luce accendersi sull’Arcadia, o la sua cabina finalmente illuminata. Così mi sono diretta da sola verso la mia stanza nei dormitori con l’unico intento di scrivere quello che era successo in questa lunga giornata per fissarlo per sempre nella mia memoria e per non credere, domani, una volta sveglia, che tutto questo sia stato soltanto un sogno.

Yuki 

Spero di non aver deluso tutte quelle che si aspettavano una qualche scena hot ma... non è ancora arrivato il momento ^_-

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Capitolo 6
*** Spie ***


Spie



Dal diario di bordo del capitano

Non avrei mai creduto di potermi cacciare in un pasticcio simile, e per di più insieme a Yuki e Tadashi, come un novellino alle prime armi. Ma a volte il caso (e la jella) ci mettono del loro più di quanto dovrebbero.


Siamo scesi sulla Diamonds, l’enorme stazione spaziale nei pressi della stella Yelda, per reperire un pezzo di ricambio per l’Arcadia, che non abbiamo potuto sostituire durante la nostra permanenza su Ombra di Morte. Ovviamente non siamo atterrati con l’Arcadia. Anche se la stazione è frequentata dalle razze provenienti da mezzo universo conosciuto ma non da terrestri, nessuno sarebbe stato felice di vedere arrivare una nave pirata. Meglio agire indisturbati, comprare quello che ci serve e ripartire. Almeno, questo era il piano.
Ho voluto di andare di persona, tanto nessuno avrebbe mai potuto riconoscermi con questo nuovo aspetto. Chi avrebbe potuto sospettare che il terribile pirata Harlock fosse in realtà un ragazzo di quindici anni che se ne andava a zonzo per i corridoi, ammirando dopo una vita le vetrine dei negozi?
Ho fatto l’aria più indifferente possibile e credo che Tadashi e Yuki non si siano accorti di niente, ma è stato strano davvero camminare in mezzo a tutta quella gente, soprattutto quando siamo arrivati ai piani high class. Là c’erano solo persone abbigliate all’ultima moda e donne con addosso interi capitali in gioielli. Dietro le vetrine, capi d’abbigliamento con cifre a tre zeri, equipaggiamenti lussuosi per rendere più confortevoli i sedili delle astronavi passeggeri, oppure l’high tech più sofisticato e inutile.
Nessuno faceva caso a noi. Gli stemmi di morte erano ben coperti sotto ai mantelli e io mi sono divertito a spiare il resto del genere umano, che non osservavo nel suo ambiente da un bel po’ di tempo.
Yuki invece se l’è spassata con ben altro. Tutti i negozi di calzature erano suoi e credo che molte vetrine conservino l’impronta del suo naso. Non so cosa se ne faccia di un paio di scarpe nuove con il tacco di dodici centimetri, dato che sull’Arcadia porta solo gli stivali d’ordinanza. Per fortuna ne ha comprato uno solo.
Nonostante tutto, non è stato difficile sopportarla in questo momento di follia da shopping. Dopo gli ultimi screzi, io e Tadashi avevamo persino recuperato un certo cameratismo maschile e ci siamo presto dileguati nella zona delle attrezzature sportive.
Avevamo già comprato il pezzo che ci occorreva e, date le dimensioni piuttosto ridotte, ce lo portavamo appresso dentro una borsa.
Tutto filava magnificamente.
Poi sono arrivate loro e la pace è finita.

Yuki se n’è accorta per prima.
Le ha notate già mentre percorrevano il corridoio esterno, in una lunga fila, quasi una processione. Guardie di scorta armate con discrezione e ancelle dalle vesti fluttuanti. In tutto una dozzina di mazoniane.
Per qualche oscura ragione, la Regina era sulla Diamonds.
Che potevamo fare?
Le abbiamo seguite. Senza dare nell’occhio, e tenendo a freno Tadashi, che fremeva per la smania d’intervenire.
Ma abbiamo dovuto fermarci davanti alle rigide regole della stazione spaziale: esistono appartamenti privati nei quali è vietato l’accesso, stanze di lusso riservate a personaggi di alto rango.
Ovviamente ci siamo tenuti a debita distanza, ma questo non ci ha impedito di scoprire in quale stanza fosse alloggiata Raflesia.
Suite Emperor numero 3.
Tredici camere comunicanti. Tutte insieme potrebbero formare un’autentica casa. Esistono persone che non possono neppure permettersi tanto per viverci. Lei ci alloggia, per una notte o per poche ore.
C’è persino una spa privata con personale a disposizione, un mini cinema riservato, una sala da musica...
Tutte informazioni presenti nel depliant illustrativo della Diamonds. Conteneva anche la piantina stereometrica con l’esatta ubicazione della Suite Emperor.
Si poteva raggiungere comodamente attraverso il condotto di areazione.
Come resistere?
Tadashi ha fatto da palo, mentre Yuki e io siamo penetrati all’interno, strisciando in silenzio dentro lo stretto cunicolo fino alla grata dalla quale era possibile scorgere la grande stanza da letto. Raflesia era lì.
Non so se il resto degli eventi sarebbe cambiato, se ci fossi andato con Tadashi. Ma forse sarebbe stato meglio.
Sono salito per primo e ho aiutato Yuki ad issarsi fino al bocchettone, afferrandola per le braccia. Un peso così leggero che non è stato difficile sollevarla. Dentro era buio e l’unica percezione che avevamo di noi stessi era il nostro respiro e il suono ovattato di ginocchia e gomiti contro le pareti metalliche. Finché un vago chiarore è comparso in lontananza, facendosi sempre più intenso mano a mano che ci avvicinavamo. Dietro di me, Yuki ansimava più forte per la fretta. La sua curiosità si mescolava alla mia, come il nostro fiato in quello spazio ristretto.
Mi sono bloccato a pochi centimetri dalla grata, socchiudendo le palpebre per la luce.
Raflesia stava seduta davanti ad un grande specchio, mentre un’ancella le pettinava silenziosamente i lunghi capelli. Indossava una vestaglia di seta bianca dalle maniche bordate di pizzo, che la rendeva quasi luminosa.
Era bella, più di tutte le volte in cui l’avevo vista grazie ai suoi ologrammi. Lo era anche per i miei occhi di quindicenne, ed anzi il suo fascino era ancora più potente. Quello sguardo ad un tempo altero e stanco mi attirava come la gravità di un gigantesco pianeta.
Credo di aver mormorato il suo nome, prima che il corpo di Yuki passasse morbidamente sopra al mio.
Mi ero quasi scordato che fosse lì.
Sono bastati i suoi seni rotondi, la curva spigolosa del suo bacino, la carezza bionda dei capelli, a ricordarmi con viva prepotenza che lei c’era.
Potevo quasi percepire che il suo umore era mutato. Il nervosismo di Yuki s’insinuava come una corrente elettrica fra i nostri corpi, nei millimetri d’aria che separavano le  divise e che mai come allora mi erano parse tanto sottili.
In quel momento, per un brevissimo secondo che mi gelò la pelle, desiderai che fossimo nudi. Lontani da lì, in un posto ben più ampio e luminoso, dove avrei potuto assaporare tutto di lei.
Yuki bisbigliò qualcosa. Anche lei pronunciava il nome di Raflesia, con trasporto e una strana furia femminea che non aveva mai avuto.
Forse fu a causa della collera muta che sentivo crescere dentro di lei che commise quello sbaglio insignificante. E probabilmente fu per punirmi sadicamente del lungo sguardo nel quale avevo avvolto il corpo di Raflesia che più tardi architettò quell’assurda messinscena.
Un oggetto che cade nel ripiano della condotta: uno spicciolo avuto in resto al negozio di scarpe. Il piccolo rumore che riverbera contro le pareti, rimbalza, fugge via, propagandosi sempre più forte, come i cerchi di un sasso nell’acqua.
Guardai in basso, nella stanza: la Regina si era voltata. Per un istante gli occhi di Raflesia incontrarono i miei, pur senza vederli. Vi si piantarono come spilli arroventati.
Le guardie si mossero dalla loro postazione ai lati della porta, veloci e silenziose come lucertole, come i rampicanti vivi che infestano Jura.  
Guardai Yuki con la coda dell’occhio e vidi la sua espressione mutare, trapassando da atterrita a determinata.
Non c’era tempo da perdere: dovevamo scappare.


Harlock

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Capitolo 7
*** Metamorfosi ***



METAMORFOSI


Dal diario di Yuki

Forse non avrei dovuto fare ciò che ho fatto, ma appena ho visto quella stanza ho pensato subito che il suo contenuto avrebbe potuto essermi utile per tenerlo lontano da Raflesia.
Quand’ero sopra di lui in quel cunicolo, seno e ventre premuti contro la sua schiena in tensione, ho avvertito con chiarezza quel sentimento che forse è da sempre nell’animo del capitano, ma che la distanza fra noi mi aveva fin qui impedito di percepire.
La odiava e la desiderava in modo talmente potente e inconfessabile... Persino adesso che aveva quindici anni.


Prima di uscire dal condotto, il capitano aveva avuto il tempo di ordinare a Tadashi di ritirarsi.
Sgusciammo fuori in un corridoio deserto, mentre a poca distanza rimbombavano già i passi delle prime guardie mazoniane. Impensabile credere che non sospettassero della presenza di intrusi. Svoltammo l’angolo appena in tempo per non farci cogliere sul fatto, la grata d’areazione ricollocata al suo posto.
Eravamo lontani dalla Suite Emperor, ma ancora negli appartamenti high class.
Mi domando da quale pianeta provenissero gli occupanti della stanza in cui ci siamo nascosti. A giudicare dai loro vestiti dovevano essere alti ed esili come Mime.
E’ stato veramente sadico da parte mia far indossare quegli indumenti al capitano. Stringevano da ogni parte. Soprattutto addosso a lui...
L’idea mi è scattata nella mente appena ho visto quella parrucca sistemata sulla testa di un manichino, pronta all’uso. Capelli biondi, lunghi e così naturali... Ho evitato accuratamente di chiedermi che cosa se ne facessero quegli sconosciuti e per quale motivo la indossassero e l’ho afferrata, lesta come una ladra consumata.
Credo di avergliela lanciata tra le mani quando il capitano era ancora in piedi davanti alla porta.
- Mettete questa! - ho ordinato, mentre con gli occhi già frugavo la stanza alla ricerca di ogni cosa che potesse tornarci utile. O meglio, tornare utile a me.
C’erano dei vestiti abbandonati su una sedia e sul letto: dei leggins scuri, un abitino di raso, una maglia dalle maniche traforate... Agguantai quello che stava più alla mia portata, senza badare troppo a cosa fosse, e di nuovo lo lanciai fra le braccia del capitano che, con un’espressione incredula e quasi sbigottita, stava ancora osservando la parrucca bionda, reggendola a un palmo dal naso come una pelliccia di coniglio.
- Cosa ci dovrei fare con questa? -  ha sibilato a mezza voce mentre si girava verso di me, i vestiti che planavano sull’avambraccio libero.
- Cambiarvi, ovvio. E in fretta.
- Starai scherzando!
- Stanno arrivando, capitano! Le mazoniane potrebbero essere qui da un momento all’altro. Non vorrete che ci trovino con addosso le divise dell’Arcadia?
- Le ho sempre affrontate con addosso le divise dell’Arcadia!
Quanto mi parevano fuori luogo le sue proteste, in quel momento. Com’era possibile che non si rendesse conto che, dentro quella stanza nei quartieri extra lusso, non eravamo nelle condizioni per affrontare un conflitto a fuoco? Il putiferio che avremmo scatenato avrebbe richiamato anche tutti gli uomini di sorveglianza a disposizione della Diamonds. Non poteva mettere da parte l’orgoglio, per una volta?
Ah, come sono stata crudele! Già sapevo che non si trattava solo di orgoglio maschile. Ma che potevo farci? Il mio piano mi appariva allora così perfetto che nessuna delle sue rimostranze avrebbe potuto farmi desistere.
I passi dei soldati mazoniani riecheggiarono oltre la porta, frettolosi ma perfettamente sincronizzati. E si allontanarono.
L’efficienza di un esercito si misura soprattutto nei momenti di emergenza, e quello di Raflesia non si faceva mai cogliere impreparato. Difficile credere che avremmo potuto nasconderci ancora a lungo, e questo lo sapeva bene anche il capitano. Lo fissai dritto negli occhi, risoluta.
- Ritorneranno. Sanno che non possiamo essere andati lontano senza finire nelle mani dell’una o dell’altra squadra di ricognizione.
Il capitano ricambiò il mio sguardo con una lunga occhiata torva. Era una di quelle che di solito riservava ai nemici, e anche se mi fece male riceverla, non mi scomposi. Dovevo convincerlo.
- Vada per il cambio di vestiti. - le sue parole giunsero così inaspettate che sul momento credetti di aver capito male. - Ma non pensare che mi metta questa roba. E’ da donna!
E la parrucca atterrò, con un volo d’angelo, sul letto disfatto.
Credo di averla fissata per un tempo che si dilatava nella mia mente in una lunga catena di congetture, eventi e conseguenze, mentre il capitano si spogliava in fretta dietro uno dei paraventi. Come impedirgli di mandare a monte il mio piano e di finire tra le morbide grazie di Raflesia?
Di nuovo, la risposta prese il suono del ritmico marciare degli stivali nemici che da lontano si avvicinavano sempre più alla nostra stanza. Era la seconda squadra.
- Anche quelli che mi hai passato sono abiti femminili, Yuki!
- Non parlate così forte, vi sentiranno!
- Al diavolo, e che mi sentano! Allungami qualcos’altro o mi tengo la mia divisa.
La sua testa fece capolino oltre il paravento. Arrossii nel vederlo a torso nudo: non eravamo più sulla rassicurante spiaggia di Ombra di morte e anche se una parte di me desiderava con prepotenza quel corpo che avevo sempre soltanto visto fasciato dalla divisa nera, un’altra metà si vergognava al solo pensiero che lui potesse vedermi nuda, o quasi.
- Non uscite, mi sono già spogliata.
Coprendomi il seno velato solo dalla lingerie di pizzo, gli lanciai addosso un asciugamano che era stato abbandonato a terra. Il capitano si ritirò oltre i paravento, evitando il colpo.
- Non posso mettere queste cose... - la sua voce traboccava di disgusto.
- In questa stanza potrebbero non esserci vestiti da uomo, ci avete pensato?
La sua risposta è stata un brontolio soffocato, forse una serie d’imprecazioni trattenute tra i denti, a cui hanno fatto seguito una quantità indistinta di fruscii e rumori di zip abbassate e richiuse.
Abbiamo finito di rivestirci nello stesso istante, e lui è ricomparso da dietro il paravento.
I leggins che indossava gli fasciavano perfettamente le lunghe gambe (del resto avevo sempre sospettato che le proporzioni del suo corpo non fossero del tutto umane) ma di certo non erano adatti ad un uomo. Sul nero della stoffa, lucida come pelle, salivano voluttuose rose rampicanti rosse come il sangue. La maglia che gli avevo frettolosamente passato era così attillata che metteva in evidenza non solo i muscoli delle braccia ma anche i fianchi così magri e quasi femminili, e poi ricadeva, più morbida e bordata di larghi pizzi, fino a mezza coscia. Nascondeva perfettamente i genitali come una graziosa minigonna.
Dio, come ho potuto essere così orribile nella mia macchinazione?
Una rapida occhiata è scivolata fra noi, simile a una corrente di acqua fumante, mentre le nostre orecchie restavano in ascolto dei rumori provenienti dal corridoio.
La sua espressione era talmente furente che mi sembrava di sentire rimbombare il tuono, in lontananza. Se avesse potuto mi avrebbe tirato un pugno.
- Questi vestiti dovevi indossarli tu!
- Anche i miei sono da donna... - ho risposto tra i denti, facendo scorrere il dorso della mano sul tubino fasciante.
- Ti farò pulire il ponte dell’Arcadia a vita.
Il nostro dialogo aveva qualcosa di surreale: bisbigliavamo in un’enorme stanza vuota, abbigliati nel modo più improbabile, mentre fuori di lì un intero reparto mazoniano ci dava la caccia.
Poi il sincronico marciare che ormai conoscevamo bene ha ripreso a percuotere il corridoio. Si era moltiplicato, segno forse che le due squadre si erano unite in una sola.
Immediatamente il capitano ha allacciato il fodero, mentre la mano, fulminea, andava alla pistola. Era pronto a combattere. Se fossero entrate da quella porta avrebbe aperto il fuoco senza esitazione. E anch’io lo avrei fatto, lo sapevo bene. Sapevo che non sarei stata in grado di controllare una reazione che, dopo anni di addestramento a bordo dell’Arcadia, era ormai divenuta istintiva. Ma dentro di me, più forte di tutto, cresceva il presentimento di quali sarebbero state le conseguenze dello scontro. Non temevo per la sua vita, né per la mia. C’era un solo nome che martellava la mia coscienza: Raflesia.
Per questo ho afferrato saldamente il capitano per le spalle, sospingendolo verso il letto.
Immagino cosa ha pensato. L’ho capito dal modo in cui ha mormorato il mio nome, gli occhi sgranati per la sorpresa. Ma non era quello che avevo in mente io. Anche se, a ripensarci adesso, lo avrei preferito a tutto ciò che è accaduto in seguito. Almeno avrei guadagnato il premio delle sue labbra. Invece ben altra bocca si è posata sulla sua, imprimendovi un segno invisibile che nessuno mai potrà levare via.
- Che cosa vuoi fare, Yuki? - Non avevo mai sentito la sua voce così tesa. Un rossore imbarazzato rendeva il suo viso ancora più bello.
- State fermo. Farò in modo che nessuno vi riconosca.
Ho afferrato la parrucca con una mano e i capelli del capitano con l’altra, affondandovi le dita. Oh, quei capelli così morbidi che tante volte ho sognato di accarezzare... ma non potevo perdere tempo!
In pochi secondi sono riuscita a fargli indossare il toupet, sistemando le ciocche ribelli che tentavano di fuggire da sotto quella massa bionda.
- Che diavolo ti salta in mente? No, neanche per sogno!
Ha tentato di divincolarsi e non so davvero come ho fatto a contrappormi alla sua spinta. L’ho gettato lungo disteso sul letto, sedendo a cavalcioni sul suo bacino, sforzandomi d’ignorare tutto ciò che sentivo sotto di me.
Come mi pento di essere stata così brava, così determinata nell’esecuzione della mia messa in scena!
Sul comodino, a un braccio di distanza da me, una trousse piena di trucchi era spalancata come la bocca di una vecchia addormentata. Per prima ho afferrato in punta di dita una scatolina rotonda, cipria compatta ultra levigante, indispensabile per nascondere eventuali tracce di barba incipiente (non ce n’era nemmeno l’ombra, ma meglio essere sicure). Il capitano ha tossito mentre gliela cospargevo ovunque sul viso e sul collo. Poi sono andata di fard e di ombretto. L’ho implorato di stare fermo mentre lo passavo, veloce e precisa, sulle palpebre. Non volevo certo rischiare di renderlo di nuovo cieco ad un occhio. Per la prima volta il capitano ha ubbidito, lasciandomi fare, e io mi sono rilassata un poco. Non avrei dovuto.
Lui ne ha approfittato subito per disarcionarmi e spingermi contro la parete, le braccia puntellate da un lato e dall’altro del mio viso. Sotto il trucco riconoscevo perfettamente quello sguardo furioso che tanto amavo.
- Yuki... ti punirò per insubordinazione. - ha detto. Mi è sembrato di cogliere un lucore di riso dietro i suoi occhi furenti e ho capito che non diceva sul serio.
Da lì, il resto l’ho preso come un gioco. Oh, lo so, se qualcuno glielo chiedesse, direbbe che per lui non è stato affatto divertente. E bisognerebbe credergli. Ma io che altro potevo fare? Lasciarmi prendere dal timore per colpa di quegli occhi roventi di collera e rinunciare al mio progetto, oppure proseguire, con una risata birichina, come se nulla fosse? Ho scelto la seconda soluzione.
Di nuovo ho allungato la mano verso la trousse e ho preso il primo rossetto che è rotolato sotto le mie dita, passandoglielo sulle labbra. Il capitano si è scostato all’istante, pronto a levare via con il dorso della mano la lucida pellicola. Sono riuscita a fermarlo appena in tempo.
- No, così rovinerete tutto, - ho protestato, bloccandogli il braccio a pochi millimetri dalla bocca. - Manca l’ultimo tocco e sarete perfetta.
Credo che sia impallidito al suono di quella parola, ma potevo solo immaginarlo per via del denso strato di polvere che gli avevo steso addosso. Prendendogli il mento fra le dita, gli ho abbassato dolcemente la testa e sono riuscita a stendere una mano di mascara su entrambi gli occhi. Com’erano lunghe le sue ciglia! Troppo lunghe per un uomo, nere e lucide come fili d’ebano arricciati.
Ci siamo guardati insieme allo specchio: gli stessi capelli biondi e caldi occhi nocciola, la stessa corporatura longilinea, un identico gusto nel vestire. Sembravamo sorelle.
Provai un assurdo senso di trionfo e una nausea improvvisa, il disgusto per ciò che io stessa avevo fatto, ma era troppo tardi per cambiare idea. Il capitano si è girato, dando le spalle allo specchio. Se avesse potuto probabilmente avrebbe vomitato.
E’ stato in quel momento che hanno bussato alla porta. La voce perentoria di una mazoniana intimava di aprire, in nome della Regina.



Nota: Quando hos critto questo capitolo mi sono divertita molto. Spero che anche voi leggendolo lo abbiate preso come una piacevole distrazione ;-)

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Capitolo 8
*** In fuga ***


IN FUGA



Dal diario di Yuki



All’interno della stanza, la voce della mazoniana è risuonata, autoritaria e prepotente.
La mano del capitano è volata subito alla pistola, ma non l’ha estratta. Invece ci siamo guardati, scambiandoci un rapido cenno del capo poi, in fretta e senza bisogno di accordi, abbiamo indossato due spolverini scuri che erano stesi sul copriletto. Mi auguravo che bastassero a nascondere il fodero. Le divise sono scivolate ognuna in una busta di carta con stampato il nome di un famoso stilista, e un istante dopo abbiamo aperto alle nostre nemiche.
Ovviamente ho parlato io: la voce lo avrebbe sicuramente tradito, rivelando il suo sesso. Mi sono impegnata nello sfoderare l’aria più snob di cui ero capace e ho chiesto che cosa volessero e perché stavano facendo tutto quel fracasso.
Inutile dire che il comandante della pattuglia non mi ha degnata di una risposta. Un paio di guardie sono entrate a perlustrare la camera da letto e gli ambienti collegati: bagno, salottino e gli spazi dietro paraventi e tende sono stati attentamente esaminati, mentre io protestavo che si trattava di un’autentica invasione della nostra privacy e che volevo vedere immediatamente l’autorizzazione scritta per questo atto così incivile.
Ho sentito la mano del capitano che mi afferrava per il gomito. C’era un sorriso birbante sul suo viso mentre mi strizzava l’occhiolino, tirandomi verso di sé, e io non ho potuto fare a meno di pensare che era maledettamente graziosa!
Ci siamo allontanati accompagnati dal suono delle mie rimostranze e dalla minaccia che sarei andata immediatamente a contattare la direzione per porre fine all’indebita perquisizione. Mi pareva una scusa credibile per riuscire a dileguarsi. Del resto nessuno avrebbe mai potuto sospettare che non eravamo due sorelle in viaggio verso casa dal college lontano, come stavo millantando. Dopotutto ci assomigliavamo così tanto...
I corridoi della zona commerciale dell’high class erano gremiti di gente e questo rese più facile la nostra fuga. Camminavamo spediti, occhi e orecchie all’erta, pronti a captare qualsiasi minaccia. Secondo gli accordi, Tadashi ci avrebbe aspettato nella zona imbarco dell’hangar riservato ai veicoli privati e dovevamo affrettarci per raggiungerlo, perché c’era il rischio concreto che qualcuno potesse iniziare ad avere dei sospetti anche su di lui, soprattutto se notava qualche segno d’ingiustificato nervosismo.
Credevo che il capitano si sarebbe cambiato appena fossimo stati sufficientemente lontani dalle mazoniane, invece, complice anche la nostra premura, si adeguò a mantenere il travestimento fino alla low class dalla quale avremmo potuto accedere agli imbarchi.
- Se il mio amico potesse vedermi adesso, scoppierebbe a ridere e nessuno riuscirebbe più a farlo smettere.
La sua voce mi raggiunse in un sussurro e per un attimo mi sembrò quasi femminile, ma riconoscevo il timbro squillante che prendeva le rare volte in cui il capitano si concedeva una battuta. Lo guardai: stava sorridendo.
- Non lo diremo a nessuno, - replicai, strizzandogli l’occhio.
Il capitano rispose con un altro occhiolino e un cenno della testa, proprio nel momento in cui un gruppetto di giovani rampolli appena sbarcati da qualche nave di lusso incrociava la nostra strada. Uno di loro era così vicino da strusciare contro il mio braccio con le maniche della giacca perfettamente stirata, prima d’incontrare lo sguardo del capitano. Forse ha creduto che il suo sorriso fosse per lui, e anche il suo breve cenno.
- Bellissima, - ha commentato, abbastanza forte perché potessimo sentirlo.
Aveva denti bianchissimi e un sorriso da dongiovanni impenitente. Il capitano non ha fatto una piega e abbiamo proseguito, mentre l’altro continuava a fissarlo, torcendo indietro il collo per vedere quale direzione avremmo preso.
- Credo che il travestimento funzioni alla grande. Quel tizio ha notato più me che te, - ha detto soltanto il capitano, sempre a bassa voce.
Se il commento lo aveva imbarazzato, riusciva a mascherarlo bene.
- Non mi state facendo un complimento...
- Nemmeno per me è un complimento. Ma tanto vale che la prenda sul ridere, dopo quello che mi hai combinato.
Sorrisi tra me: non era ancora il caso di spiegargli perché l’avevo fatto. E in verità non avevo intenzione di dirglielo mai.
- Farò conto di essere tornato ai tempi in cui ero poco più che un ragazzo e insieme col mio amico solcavo lo spazio, a cuor leggero e con più allegria di quanto riesca a fare adesso.
Chissà se si rendeva conto, mi chiesi, che anche adesso era poco più che un ragazzo, o se qualcosa dentro di lui si rifiutava ancora di accettare il cambiamento avvenuto nel suo corpo.
Mentre raggiungevamo l’ascensore che ci avrebbe riportati ai piani bassi, ho iniziato a far caso in maniera diversa agli sguardi dei passanti. Lunghe occhiate maschili scivolavano su di noi, indugiando particolarmente sulle nostre gambe bene in mostra, per poi intrufolarsi, indiscrete, oltre lo scollo dello spolverino a cercare le rotondità del petto. Impossibile trovarne su quello del capitano: non avevo avuto il tempo (né il coraggio) di proporgli un qualche genere d’imbottitura. Mi pentii di essere stata così abile nel creare il suo travestimento.
Prendemmo un ascensore che si era appena svuotato, pigiando subito il pulsante per scendere, ma una mano s’infilò fra le porte, schermando le fotocellule, e un altro occupante prese posto all’interno. Era il ragazzo dal sorriso bianchissimo.
Si lisciò la giacca priva di pieghe, prendendo una postura impettita, prima di chiederci a che piano eravamo dirette.
Il capitano ha ingoiato una risata, mascherandola dietro la mano inguantata, e la voce gli è uscita più sottile quando ha risposto, afferrando la mano del giovanotto e pigiando il pulsante insieme a lui.
- Alle boutique d’alta moda.
C’era la consueta piega sarcastica nel suo sorriso, che solo il lucido velo del rossetto riusciva in qualche modo a rendere meno beffardo.
- Ovvio... Ma allora dovreste andare al nono piano, non al secondo, - ha risposto l’altro, sorridendo a sua volta e, immediatamente, ha premuto il pulsante col numero nove. - E non dovreste andarci senza qualcuno che vi accompagni. Questa stazione così grande è frequentata anche da gente di bassa risma. Due fanciulle così giovani, tutte da sole...
- Siamo abituate a viaggiare da sole, - ho sbottato, guardandolo in tralice. Quel suo modo di parlare mi stava dando sui nervi.
- Non è affatto prudente. Ma per vostra fortuna sono libero e posso accompagnarvi.
- Ma che gentile! - ha esclamato il capitano, e la sua voce aveva un accento più grave.
Se non fosse stato per l’intromissione di quel bellimbusto saremmo di certo arrivati rapidamente a destinazione, raggiungendo Tadashi senza alcun intoppo. Fu lui a rovinare il mio piano che fino ad allora ci aveva garantito una fuga discreta e sicura verso i lupi spaziali, senza il pericolo di essere notati da troppi occhi curiosi.
Mano a mano che attraversavamo gli altri piani e le chiamate intercettavano il nostro ascensore, altra gente si stipava all’interno insieme con noi, sospingendoci sempre più sul fondo, uno accanto all’altro. Il giovanotto s’infilò fra me e il capitano, passando le braccia dietro le nostre schiene con la scusa che stava troppo stretto. Ci siamo girati entrambi verso di lui, per evitare che toccasse accidentalmente le pistole o la cintura del fodero, anche se dubito che avrebbe capito di che si trattava, convinto com’era di essere incappato in due fanciulle indifese. In quel modo potevo di nuovo vedere in viso il capitano: aveva un largo sorriso sulle labbra e credo che stesse facendo enormi sforzi per non scoppiargli a ridere in faccia.
Quel ragazzo continuava a fargli domande, mescolate a complimenti. Voleva sapere quanti anni aveva e dove studiava, come mai il suo fidanzato non l’avesse accompagnata (perché di sicuro ce l’aveva un fidanzato, una ragazza così bella) e se preferiva andare a sciare o a fare vela. Diceva pure che tutti i club della sua scuola se la sarebbero contesa come ragazza immagine e che avrebbe dovuto farsi scortare al college da suo padre tutte le mattine per non essere assalita. Certo, avevo fatto un ottimo lavoro con lui, ma tutti quei salamelecchi iniziavano a sembrarmi esagerati.
Quando infine ha aggiunto che gli sarebbe piaciuto vederla sfilare sul ring del suo club di boxe in pantaloncini e maglietta attillata reggendo fra le mani il cartello dei round, il capitano si è voltato dall’altra parte, appoggiandosi contro la parete metallica dell’ascensore. L’ho sentito tossire e non riuscivo a capire se si stesse soffocando per colpa di una risata o se desiderasse poter dare di stomaco.
Quando è tornato a voltarsi, sul viso era comparso lo sguardo truce che in tutti quegli anni trascorsi insieme avevo imparato a riconoscere. Lo avrebbe passato a fil di spada se avesse potuto, ne ero certa.
- Una ragazza di buona famiglia su di un ring, che strana combinazione proposta da un gentiluomo, - la voce del capitano, tesa come la corda di un’arpa, sembrava più sottile, quasi femminile.
- Non direi proprio.
Il damerino aveva un’espressione così viscida mentre rispondeva, scivolando con gli occhi dal viso al corpo del capitano, come se fosse sicuro di riuscire a portarsela a letto entro quella sera, che fui sul punto di pestagli un piede con il tacco appuntito delle costosissime scarpe che mi ero comprata. Le avevo indossate ben sapendo che sull’Arcadia avrei avuto davvero poche occasioni per sfoggiarle e in quel momento avrebbero mostrato tutta la loro utilità.
Ma le porte si sono spalancate sui luccicanti corridoi dove si affacciavano i negozi d’alta moda e la gente che occupava l’ascensore si è riversata all’esterno, accompagnata dalla complessa miscela di odori e profumi che si era creata nel piccolo spazio ingombro di così tanti corpi e razze diverse. Finalmente ci saremmo sbarazzati anche di quel tipo insopportabile: lo avremmo lasciato uscire e poi ce la saremmo svignata alla velocità della luce verso i piani bassi, magari prendendo un ascensore di servizio, meno gettonato di quelli usati anche dai passeggeri di prima classe.
Invece, quando la folla davanti all’ascensore si è diradata, le mazoniane sono comparse nel bel mezzo del corridoio.
Impugnavano tutte la pistola e insieme a loro c’erano dei civili: due donne alte ed esili alle quali sarebbero andati a pennello i nostri vestiti. Appena ci hanno visto, hanno preso a gridare, facendo dei gesti concitati nella nostra direzione. In un attimo, tutte le pistole furono puntate verso di noi.
- Dannazione!
Il capitano ha estratto la pistola, un secondo di ritardo rispetto ai suoi consueti tempi di reazione: lo spolverino sopra al fodero lo impacciava nei movimenti. La canna della cosmo dragoon baluginò oltre le porte dell’ascensore e la mia gli fu subito accanto: due colpi uscirono e altri due entrarono, andando a conficcarsi contro lo specchio sul fondo dell’ascensore. Con un pugno sul pulsante, il capitano richiuse le porte e noi riprendemmo a scendere. Aveva premuto il tasto 0: significava discesa diretta fino all’hangar dove avevamo posteggiato le navette.
- Ora sanno dove siamo diretti, - fu il suo unico commento.
- Dovremo essere molto veloci ad uscire da qui, quando le porte si apriranno di nuovo, - aggiunsi.
Il capitano si tolse lo spolverino, gettandolo a terra. Le forme del suo corpo, sodo ma non troppo muscoloso, erano armoniose e così ben proporzionate... la magia del mio travestimento non sembrava ancora essere venuta meno.
- Sie... siete due terroriste? - la vocina arrochita che riemergeva da un angolo ci fece voltare di scatto. Lui non era sceso.
Se ne stava rannicchiato, ancora con le braccia sopra la testa, la giacca candida che rimandava sul viso tutta la luce delle plafoniere, rendendolo ancora più bianco.
- Che ci fai ancora qui? - è sbottato il capitano.
- A... allora non siete due studentesse del college.
- Ah, meglio tardi che mai! - la sua voce era ruvida, tagliente.
- Ma com’è... possibile... Due ragazze così deliziose.
Il capitano ha scosso la testa, portandosi una mano sugli occhi. Ha fatto un passo, chinandosi verso di lui.
- Ma quali deliziose? Ancora non te ne sei accorto che sono un maschio?
Il giovanotto lo ha guardato, spalancando tanto d’occhi, la bocca aperta come un grosso pesce ancora appeso all’amo. Poi la sua faccia è tornata a ricomporsi, e le labbra si sono strette in un linea dura, quasi irritata.
- Mi stai prendendo in giro, - ha detto.
- Ma non la senti la mia voce?
- Sei troppo bella!
Un’esclamazione esasperata e il capitano si è girato di nuovo verso l’uscita dell’ascensore, la pistola stretta in pugno.
- Potrei freddarlo qui... - sentii che mormorava tra sé.
Sorrisi. Sapevo che non diceva sul serio, ma da qualche parte dentro di lui doveva parergli davvero una prospettiva molto allettante.
Poi lo sguardo di quell’idiota si è spostato su di me.
- Allora... anche lei è un uomo, - ha detto con la sicurezza che hanno solo gli stolti.
Essere per la seconda volta messa in ombra come donna dal mio capitano era davvero troppo.
- Che screanzato! Io sono una ragazza.
- Non ti credo.
Per quanto fosse poco dignitoso avrei voluto prenderlo a pugni: almeno così avrei scoperto se quel damerino inamidato era davvero un boxeur, o se millantava soltanto.
Ma la voce del capitano mi ha distolto da ogni preoccupazione di questo tipo, ricordandomi dove eravamo.
- Yuki, stai pronta!
Ho guardato il display del pannello comandi: indicava il piano numero uno. Pochi secondi e le porte si sarebbero riaperte. Mi sono accostata a lui, spalla contro spalla, il calcio della pistola stretto fra le dita. Sentivo il metallo freddo sulla pelle priva di guanti.
- Ci sono, - ho detto, pur sapendo che lui non aveva bisogno di assicurazioni da parte mia.
Il capitano ha abbassato lo sguardo su di me, annuendo, ed entrambi ci siamo spostati di lato, pronti a fare fuoco.

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Capitolo 9
*** Una difficile confessione ***


UNA DIFFICLE CONFESSIONE




Dai file del tablet di Tadashi


So che Yuki darà di nuovo la colpa a me.
Abbiamo perso il capitano.
Ma di certo niente di tutto questo sarebbe accaduto se lei non avesse avuto quell’assurda idea.
E’ stato per colpa di quel travestimento idiota che gli eventi sono precipitati fino a questo punto e noi ora ci troviamo alla disperata ricerca di un modo per salvare Harlock proprio da quelle mani nelle quali Yuki voleva tanto evitare che cadesse. E adesso non si dà pace.
Se penso che ogni sbaglio commesso, ogni cosa che ho fatto su quella maledetta stazione spaziale, l’ho fatto solo per lei, tutto questo mi fa ancora più male.


Le ho incontrate (il femminile è d’obbligo) che ancora correvano dopo aver lasciato a terra dietro di loro, ferite ma vive, le guardie della Diamonds.
Dovevano essere state allertate dalle mazoniane, o forse semplicemente dal breve conflitto a fuoco scoppiato nei piani della high class. Comunque sia, sono state loro a raggiungere per prime Yuki e il capitano: scendevano ancora la scaletta di servizio quando le porte dell’ascensore si sono aperte, al piano zero, rivelando i sospettati dei quali erano a caccia: due ragazze bionde di circa sedici anni, forse sorelle.
Così le avevano descritte dall’altoparlante, nel lapidario comunicato con il quale si mettevano in guardia tutti i passeggeri della Diamonds. Sulle prime ho pensato che si trattasse di una coincidenza: un furto, mi sono detto, avvenuto in concomitanza con la nostra azione di spionaggio. Come avrei potuto sospettare che invece erano proprio loro le “due ragazze bionde”?
Ovviamente non le ho riconosciute. O meglio, ho riconosciuto solo Yuki, nonostante gli insoliti vestiti. Ma il capitano... Anche se ho notato qualcosa di famigliare appena ho incrociato il suo sguardo.
- Non dire niente e continua a camminare, - ha intimato, la voce torva.
Ho ubbidito, meccanicamente, la bocca aperta come un povero stoccafisso. Era proprio così che mi sentivo, in effetti: un idiota che non capiva cosa stava succedendo.
Che senso aveva quella situazione surreale? Perché Harlock s’era conciato a quel modo nel mezzo di quella che, dopotutto, era un’azione di spionaggio contro le mazoniane? Certo, il travestimento, la necessità di restare in incognito... Ma questo era davvero troppo! C’era qualcosa di perverso nella loro diafana bellezza, in quella perfetta somiglianza, qualcosa che mi disgustava. Solo dopo ho capito di che si trattava.
Ovviamente con i tacchi alti Harlock non riusciva a correre alla nostra stessa velocità.
Yuki, pur con le sue scarpe vertiginose, stava davanti a tutti, simile a una leggera gazzella. Io le andavo dietro, a un metro di distanza. Il capitano invece...
Neanche l’avessi fatto a posta, mi sono voltato verso di lui giusto in tempo per vederlo cadere. A terra, per un attimo si è tenuto la caviglia con la mano, in un gesto del quale non ho potuto non notare l’eleganza tutta femminile.
Ho rallentato la corsa fino a fermarmi e ho sentito la voce di Yuki che lo chiamava.
Harlock ha tentato di rialzarsi: faceva un po’ fatica su quei trampoli e io, senza riflettere, sono andato da lui, come se davvero avessi dovuto aiutare una ragazza in difficoltà.
- Andate avanti! - ha ordinato, alzando lo sguardo su di me.
Se non fosse stato per gli occhi di colore più scuro, davvero avrei potuto scambiarlo per Yuki. La voce, forse per il dolore, era meno profonda del solito, o almeno così mi è sembrato.
Ma Yuki era a una decina di metri di distanza, che ci aspettava, spostando nervosamente il peso da una gamba all’altra.
- Ce la fai? - ho chiesto, tendendogli la mano.
Non ha avuto nemmeno il tempo di rispondermi, o forse sono io che non l’ho sentito, perché dal buio che c’eravamo lasciati alle spalle sono comparse le mazoniane.
Erano ancora lontane e di certo non ci avevano individuati: da quando eravamo entrati nel vasto spazio dell’hangar riservato al posteggio delle navette e dei piccoli mezzi da trasporto, attorno a noi andavano e venivano passeggeri ancora in tuta spaziale, meccanici e addetti alla manutenzione.
Forse avremmo fatto in tempo ad allontanarci tutti e tre. Ma la scelta del capitano ci ha portati alla difficile situazione in cui siamo adesso. Sull’Arcadia, senza di lui, alla ricerca di un modo per riportarlo indietro.
Harlock ci ha ordinato di nuovo di andarcene. Sapeva che, se ci avessero visti tutti insieme, le mazoniane avrebbero riconosciuto le due “ragazze” dell’ascensore, e poi probabilmente non voleva togliere a Yuki il vantaggio acquisito con il suo passo veloce, che le avrebbe permesso di mettersi presto in salvo sul Lupo Spaziale.
Ma io non lo avrei mai lasciato a terra, da solo, in quelle condizioni. L’ho aiutato a rialzarsi.
- Vai avanti, Yuki, arriviamo, - ho gridato, facendo un gesto con la mano.
Yuki ha esitato, ha mosso un passo verso di noi, poi un altro indietro.
- Vai! - le ha gridato il capitano.
Yuki si è girata e ha ripreso a correre, più lentamente di prima, come se comunque volesse aspettarci.
Con il capitano aggrappato a me, sono tornato a guardarmi alle spalle: ormai le mazoniane erano a poca distanza.
Così ho fatto la sola cosa che in quel momento mi pareva potesse risolvere il problema, permettendoci di passare inosservati...
Non mi sto giustificando, sono sincero. In quel frangente mi sembrava davvero l’unica soluzione possibile, così alla portata di mano, quasi banale nella semplicità della sua esecuzione. Del resto, era già praticamente tra le mie braccia... Dovevo soltanto essere veloce.
Se ripenso a quel momento, vedo solo la parete di metallo, liscia e nuda, alle sue spalle. Vicino a noi non c’era più nessuno. Rimbombavano tutt’attorno solo i passi delle mazoniane, decine di passi, cadenzati, decisi, inarrestabili.
Poi ricordo il sapore delle sue labbra velate dal rossetto. Mi guardava con gli occhi sgranati mentre la baciavo e i passi nemici sfilavano via dietro di noi come uno stormo di rapaci. Due fidanzatini che passano inosservati.
Non mi ero neppure accorto che le stavo tenendo i polsi...
Uso il femminile, lo so. Ma era così che lo vedevo in quel momento.
E sapevo anche il perché. Lui ovviamente no.
Un gancio sotto al mento è bastato a spezzare la vuota illusione e a ricordarmi con chi avevo a che fare. Mi sono ritrovato steso a terra, mentre già le mazoniane passavano oltre, lui che mi fissava con occhi furenti e bui.
- Sei un idiota.
Le sue parole erano come tanti morsi. Si è passato il dorso della mano sulle labbra, lasciando sulla guancia una scia scarlatta. La traccia del mio peccato.
Potevo avvertire tutto il suo disprezzo: pulsava sotto il mento e vibrava nelle mie gengive e tra i denti. Non avevo parole da dire. In quel momento non sapevo come giustificarmi, perché i sentimenti che provavo e la persona alla quale erano rivolti si erano improvvisamente disgiunti.
Harlock si è levato le scarpe, gettandole a terra poco lontano da me.
Ho continuato a fissarlo mentre si allontanava, non più lungo il corridoio che stavamo percorrendo fino a poco prima: ha imboccato una deviazione laterale, immersa in una fonda oscurità. Il mio cervello ha registrato l’informazione, ma mi è occorso un po’ di tempo prima di alzarmi e rincorrerlo. Dovevo spiegarmi, doveva sapere.
Non avevo idea di dove potesse essere andato finché non ho visto un uomo che correva fuori dal bagno reggendosi ancora i pantaloni per la cinta slacciata. Scappava terrorizzato e in un baleno me lo sono immaginato rivolgere qualche avances, del tutto fuori luogo in quel momento, alla biondina che doveva essere appena entrata. Mi sono precipitato all’interno.
Harlock era in fondo, davanti alla fila di lavandini ingialliti dal calcare e dalla scarsa pulizia. L’acqua scrosciava dal rubinetto, scorrendogli fra le dita. Si era levato la parrucca e si stava lavando con vigore la faccia con il poco sapone del dispenser. Mi sono avvicinato.
Il trucco si scioglieva, formando piccoli gorghi melmosi nel lavabo e poi scorreva giù per lo scarico, portandosi via la ragazza che poco prima avevo baciato.
Di certo lui aveva avvertito la mia presenza, anche se gli ero arrivato silenziosamente alle spalle, eppure continuava a ignorarmi. D’un tratto ha ficcato la testa sotto il getto, inzuppando completamente i capelli, e lì è rimasto per un interminabile minuto.
Ho preso coraggio e sono andato accanto a lui.
La mia immagine sbiadita nello specchio scrostato non rendeva giustizia alla folla di emozioni e pensieri che mi tormentavano. Dovevo gettarli lì, davanti a lui, in mezzo a quell’acqua ormai sempre più chiara, o mi avrebbero fatto soffocare. Lì giù sarebbero annegati, speravo, insieme al suo disprezzo, se avesse conosciuto le vere ragioni del mio gesto.
- Harlock... io... non è come pensi.
Silenzio. Solo acqua che scorre.
- Non l’ho fatto perché sei tu! Anzi, non pensavo proprio a te. Io... tu... mi ricordavi così tanto Yuki, mi sembravi proprio lei. Non so che mi è successo. Vi siete fuse nella mia mente e io ti ho baciato pensando alle sue labbra, desiderando i suoi occhi di cielo.
Ho iniziato ad andare su e giù per la stanza, avanti e indietro, come se stessi sbrigliando un filo invisibile che fino ad allora mi aveva tenuto prigioniero.
- Io non sono mai riuscito a dirle, né a farle capire, quanto sia importante per me e in quel momento... non so che mi è preso, davvero.
Le parole scorrevano dalla bocca, inarrestabili, come il getto d’acqua che aveva inondato fino ad un attimo prima la chioma del capitano. Continuavo a parlare e non mi ero neppure accorto che lui aveva sollevato la testa e mi fissava, in silenzio.
- Non volevo baciare te. Non l’avrei mai fatto se tu non avessi avuto addosso quel travestimento e quei capelli biondi, uguali ai suoi. E non so nemmeno da quanto tempo sono innamorato di lei. Forse da sempre, perché siamo da sempre così vicini, così in confidenza. Da quando sono salito sull’Arcadia, nel turbine di ogni prova che ho affrontato, c’era lei. Ma per Yuki non sono importante, non mi vede neppure. Esisti solo tu!
Devo aver smesso di parlare all’improvviso, quando mi sono accorto dello sguardo del capitano fisso su di me. Aveva l’aria sfinita come dopo la peggiore delle battaglie. Si è appoggiato alla parete. Le questioni di cuore non erano il suo forte.
- Se sei arrivato fino al punto di confonderti, credo sia giunto il momento di dirle la verità, - ha mormorato.
La sua voce, bassa, calda, era quella delle confidenze tra vecchi amici. Finalmente sono riuscito a rilassarmi.
- Ma non posso! Da lì in poi tutto sarebbe diverso tra noi.
- E non è quello che vuoi? Che lei finalmente ti veda?
- Sì, ma... rischierei di perderla, di allontanarla.
- Se non rischi non saprai mai cosa prova per te e forse non avrai l’affetto che tanto desideri. In un universo fatto per la maggior parte di solitudine, le persone sono tutto ciò che abbiamo.
Non so a cosa pensasse Harlock quando ha detto quelle parole: se a me e Yuki o ai vuoti ormai incolmabili della sua vita. La consapevolezza che, ora che aveva di nuovo quindici anni, avesse finalmente l’occasione di riempire quei vuoti, si è affacciata all’improvviso alla mia mente. Mi sono chiesto “Ma con chi?” e subito ho visto, nitida, non l’immagine di Meeme, e nemmeno la vaga ombra di qualche donna sconosciuta proveniente dal suo passato, ma il viso di Yuki.
Possibile che al capitano non importasse rinunciare al suo amore? Eppure lo vedeva anche un cieco quanto era cotta di lui. Dunque non eravamo rivali e davvero non ricambiava quei sentimenti che tanto teneramente Yuki gli offriva?
- In verità è da tanto che vi osservo, e mi chiedevo quando ti saresti deciso a buttarti. Tu e Yuki fate una così bella coppia. Sarebbe un peccato se sprecaste l’occasione che avete avuto d’incontrarvi, - le parole di Harlock mi sembrarono quasi evocate dai miei stessi pensieri e mi fecero trasalire.
Una così bella coppia.”
Lo guardai mentre pronunciava quella frase con tanta naturalezza e mi chiesi quanto fosse sincero perché, anche se sorrideva, il suo viso era colmo di malinconia.
- E adesso fai la guardia alla porta che mi tolgo questa roba di dosso. I bagni non si possono chiudere.
Passandomi accanto con in mano la borsa dove teneva la divisa, mi ha dato un pugno amichevole sulla spalla, forse il suo modo per dirmi che l’incidente di prima era dimenticato. Non ho potuto far altro che sorridere: da quanto tempo desideravo un simile cameratismo con il mio capitano?
Dopo pochi minuti, da dietro la porta della toilette annerita da migliaia di scritte, è venuto il suono della cerniera che si richiudeva e Harlock è uscito con addosso la divisa nera dell’Arcadia: finalmente era di nuovo lui.
- Andiamo, Tadashi. Faremo arrabbiare Masu-san se arriviamo in ritardo per cena.
- Giusto.
Per tutto il tragitto compiuto fianco a fianco, non sono riuscito ad aggiungere altro. Camminavamo vicini come potevano fare solo due vecchi amici, in silenzio, ma con nella mente lo stesso pensiero. Il pensiero di un’unica donna.
Tutto sembrava essersi aggiustato, o quasi: le mazoniane erano state seminate e non ci restava altro che raggiungere Yuki ai Lupi Spaziali e fare finalmente ritorno sull’Arcadia, a casa.
Mi sbagliavo.





Nota: Spero mi perdonerete per tutto quello che è accaduto al Capitano in questo capitolo.
Non ho voluto mancargli di rispetto: è stato vittima degli eventi. :-)

E se vorrete continuare a leggere, nel prossimo capitolo vi aspetta:
"Nelle mani di Raflesia".

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Capitolo 10
*** Nelle mani di Raflesia ***


NELLE MANI DI RAFLESIA




Dal diario di bordo del capitano

Sapevo dove mi avrebbero condotto appena hanno stretto le mani attorno alle mie braccia, costringendomi a rialzarmi. La guardia personale della terribile regina non poteva che avere l’ordine di portare al suo cospetto gli intrusi che avevano osato spiarla in un momento tanto privato. Fortunatamente, degli intrusi ero rimasto solo io.
Sono stato separato da Yuki e Tadashi nell’ultima parte della nostra fuga.
Poco fuori dal bagno abbiamo incontrato Yuki. Avrei dovuto immaginarlo che sarebbe tornata indietro a cercarci: stavamo impiegando troppo tempo a raggiungerla. Ma la sua non è stata una buona idea, soprattutto perché ormai le guardie avevano memorizzato il suo travestimento.
Non ce l’ho con lei: è il prezzo che si paga ad avere un equipaggio composto prima di tutto da amici. E non ce l’ho neppure con Tadashi, sebbene sia stata quella stupidaggine di baciarmi che ci ha fatto perdere tanto tempo prezioso. Se ci ripenso, un brivido mi scorre ancora lungo la schiena. Al confronto, incontrare faccia a faccia Raflesia mi dava meno pensiero.
Probabilmente le mazoniane ci hanno identificati anche grazie agli stemmi delle divise. Del resto non ci sono molti pirati nell’universo che possono pensare di mettersi contro Raflesia e contare di farla franca. Giusto l’equipaggio dell’Arcadia. Ai loro occhi siamo parsi certamente un bel bottino da presentare alla regina.
Così di nuovo ci è toccato fuggire. Abbiamo evitato di sparare il più a lungo possibile, dato il gran numero di civili in giro nell’area scalo della Diamonds, e anche le mazoniane si sono limitate a starci addosso, esplodendo pochi colpi di avvertimento. Non era strano, a pensarci ora: con il supporto degli addetti alla sicurezza della stazione spaziale, ci stavano sospingendo in una trappola.
Fortunatamente sono riuscito a spingere anche Yuki oltre la pesante grata di sicurezza, prima che questa si richiudesse con uno schianto nel mezzo del corridoio che immette all’hangar. Subito dopo è arrivata la prima raffica di colpi mazoniani.
Ho sparato per proteggere i miei compagni e me, mentre Yuki, nonostante abbia ripetuto più volte gli ordini, non si decideva ad allontanarsi. Si rifiutava di accettare che non ci fosse più alcuna possibilità che anch’io riuscissi a mettermi in salvo.
Infine anche una delle porte stagne si è chiusa, separandoci del tutto. Tadashi se ne è accorto giusto in tempo per trascinare Yuki con sé, prima di ritrovarsi entrambi rinchiusi in una sorta di scatola metallica senza uscita.
- Portala via da qui!
Credo siano state queste le ultime parole che sono riuscito a dirgli. Sapevo che Tadashi non se lo sarebbe fatto ripetere due volte: la persona che stringeva fra le braccia era troppo importante. Per me lo erano entrambi.


Nella vasta stanza inondata di luce artificiale della suite Emperor, Raflesia se ne stava accomodata su di una grande sedia di vimini intrecciato e indossava il consueto, lungo vestito nero. Com’era diversa dall’immagine che mi era rimasta fissa in mente! La donna eterea, avvolta nella candida vestaglia dalle maniche di pizzo, quasi una farfalla di luce. Anche la sua espressione era mutata. Tagliente e freddo come il filo di una katana, era di nuovo lo sguardo che avevo imparato a conoscere.
L’ho fissata dritta negli occhi, prima di essere gettato in ginocchio a pochi metri di distanza da lei dalla zelante caposquadra.
- Questo ragazzo sarebbe un membro dell’equipaggio dell’Arcadia?
La voce di Raflesia era sprezzante, come se dubitasse di quanto le avevano riferito le sue guardie. Dopotutto lei ci conosce quasi uno a uno, dato che i miei quaranta uomini sono stati tutti diligentemente schedati dalle Guerriere Ombra, in passato.
- Il modo in cui si rifiuta di rivelare il proprio nome e quello della nave su cui è imbarcato me ne danno la certezza, maestà.
- Un nuovo acquisto, e per di più così giovane. Che strano...
Ha inclinato appena la testa di lato, come per studiarmi meglio. Mi sentivo a disagio, lo ammetto. Forse perché non potevo in alcun modo sottrarmi alla sua vista. Non mi piaceva che mi vedesse con quel corpo di adolescente.
- Che cosa ci facevate sulla Diamonds, tu e i tuoi compagni, e con quali ordini mi stavate spiando? E’ Harlock che vi manda?
I suoi occhi parevano conficcarsi con più forza dentro ai miei, aghi di ghiaccio che non potevo estrarre, simili a sonde indesiderate capaci di arrivare fino all’anima.
Ho spostato l’attenzione alla sua bocca. La ferita che avevo riportato al braccio era profonda e il sangue che ne usciva troppo: un vago ronzio iniziava ad avvolgere le parole di Raflesia e io dovevo sforzarmi sempre di più per ascoltarla e restare lucido. Per questo cercavo di seguire il suo labiale.
- Rispondi ragazzo. Tacere non ti sarà di alcun aiuto. I tuoi compagni sono fuggiti e nessuno, tranne me, può liberarti. E’ in mio potere farti torturare a sangue, finché non si scioglierà quel nodo che sembri avere alla lingua, - ha fatto una pausa, prima di mormorare. - Credi forse che stia scherzando?
Scherzare? Se pensassi che Raflesia è una che scherza a questo punto la guerra sarebbe bella che persa. Fare ad alta voce una simile affermazione avrebbe però significato ammettere che ero un membro dell’equipaggio dell’Arcadia. Ma dopotutto, perché no? Bastava il primo nome che mi veniva in mente: non era necessario che sapesse che il ragazzo che aveva di fronte era capitan Harlock.
Forse a causa dell’emorragia stavo riflettendo troppo lentamente, perché l’ufficiale a capo della guardia personale mi ha colpito tra le scapole con il calcio del fucile e sono crollato faccia a terra.
- Rispondi alla nostra regina, stupido terrestre! - ha latrato.
Sentivo il peso degli occhi di Raflesia su di me, piombo azzurro contro il mio corpo.
Nonostante le mani legate dietro la schiena, mi sono sforzato di rialzarmi. Che mi vedesse in ginocchio era già troppo da sopportare per concederle anche questa soddisfazione.
- Maestà, lasciate che me ne occupi io. Saprò farlo confessare in fretta...
Come una folata d’afa insopportabile, le parole dell’ufficiale scorrevano sopra di me, aumentando la fatica. Raflesia deve averla zittita all’improvviso con un gesto e lei ha fatto un passo indietro.
- Non hai paura di morire?
Era di nuovo la voce della regina, bassa, calma, simile a un frullo d’ali nella notte. Ma non era per nulla accomodante: voleva sapere e questa volta non ammetteva silenzi. Eppure, dietro l’irritazione, era stranamente carezzevole, come se le importasse davvero conoscere il perché del mio “sì” o del mio “no”. Ma cosa potevo dirle? Conosceva già la mia risposta.
Mi è parso di sentire il fruscio delle sue vesti sul pavimento, e quando sono riuscito a raddrizzarmi, l’ho vista in piedi davanti a me. La curiosità con cui mi guardava era quella che si riserva alle cose inusuali, che non si sa ancora se si debbano o meno temere. Pareva stupita dal comportamento del ragazzo che aveva di fronte... il ragazzo che io ero quattordici anni prima.
Quando ho incrociato il suo sguardo, la mia reazione è stata quasi istintiva: ho sorriso, sarcastico, sollevando appena un angolo della bocca. Raflesia ha inarcato le sopracciglia e il suo volto si è fatto scuro. Ha serrato le labbra in una linea sottile, mentre quegli occhi simili ad acquamarina parevano trapassarmi da parte a parte, come schegge di vetro.
Si è chinata su di me, sollevandomi il mento con le dita lunghe e un po’ fredde. Era un tocco delicato e deciso come quello di una pianta rampicante. L’ho fissata con aria di sfida, reprimendo emozioni che a quel contatto si sono risvegliate all’improvviso, con la prepotenza dei sogni costretti all’oblio dalla coscienza. Odio, disprezzo e desiderio si mescolavano in un torbido vortice dentro al quale mi rifiutavo di guardare.
Sentivo le sue unghie aggrappate alla mia pelle come grosse spine e una collera silenziosa che le cresceva nel petto, di pari passo con il mio sdegnoso ritegno.
- Conosco questo sguardo, - ha mormorato.
Una vertigine improvvisa e mi è sembrato di precipitare verso di lei, una nave errante attratta da un pianeta di antimateria.
Davvero mi aveva riconosciuto?

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Capitolo 11
*** Due calici di rosso ***


DUE CALICI DI ROSSO





Dalle memorie segrete di Raflesia

Sedeva su quella sedia con la consueta, sfacciata baldanza che neppure il dolore per la ferita ancora aperta era riuscito a togliergli. Era lì davanti a me, un prigioniero con l’aria da padrone, fiero e arrogante quasi fosse ancora nella sua cabina, sull’inespugnabile Arcadia, e io soltanto un inoffensivo ologramma.
Avrei preferito che non avesse quindici anni.


Dopo il nostro faccia a faccia ravvicinato, ho dato subito ordine alle mie ancelle di medicarlo, mente io mi ritiravo nel salottino più appartato dell’immensa suite Emperor. Le guardie non hanno gradito il trattamento che riservavo all’intruso, l’ho capito dagli sguardi muti che si sono scambiate l’un l’altra. La faccia del comandante Helma era la più scura di tutte. Ma una regina non può curarsi dell’umore mutevole dei propri sottoposti, o non avrebbe la libertà di prendere alcuna decisione. E il mio prigioniero era troppo prezioso per lasciarlo morire dissanguato come un qualunque criminale che avesse semplicemente osato spiarmi in un momento di rara tranquillità.
Non c’erano giustificazioni da dare. Non intendevo svelare a nessuno il segreto che avevo rubato a quegli occhi che conoscevo così bene: Harlock, il terribile pirata spaziale, era finalmente nelle mie mani, inerme come solo un ragazzo può essere.
Tuttavia la soddisfazione era amara tra i denti come cibo scadente dopo una lunga attesa, e il mio cuore già conosceva il perché.
Ho indugiato alcuni istanti prima di allontanarmi dalla grande sala.
Lo confesso: anch’io avrei voluto vederlo mentre si spogliava della casacca nera, sotto gli occhi attenti di tre guardie lasciate di sorveglianza e le bocche affamate dei loro fucili. L’ho osservato con la coda dell’occhio. Fingeva indifferenza davanti alle sue carceriere, ma io mi rendevo conto che stava controllando ogni loro mossa: non aveva rinunciato all’idea di fuggire, da solo, senza l’aiuto dei suoi.
E l’ho spiato ancora, dopo. Tramite l’impianto di videosorveglianza, nel salottino si potevano controllare tutti gli ambienti della suite: non l’ho perso d’occhio un solo istante.
Dopo molto tempo, provai qualcosa di simile al rammarico. Mi rimproveravo per il desiderio che mi teneva legata a lui, ed ingannavo me stessa convincendomi che era solo un modo, del tutto lecito, per assaporare più a lungo un trionfo inaspettato quanto lungamente atteso. Così il mio sguardo indugiava su quella pelle pallida, della quale riuscivo quasi ad indovinare il profumo: rose e un sentore di caprifoglio o spezie esotiche e zenzero? Ma non era la pelle di un uomo... Forse allora odorava di vaniglia e borotalco?
E’ stato lui in persona a togliermi ogni dubbio. Forse per non sciupare la fasciatura, quando l’hanno condotto al mio cospetto aveva la manica infilata solo nell’altro braccio e la casacca sbottonata fino al petto. Il suo corpo profumava di mare e cuoio, di malinconia segreta e di fanciullezza perduta troppo presto. L’ho respirato a fondo, socchiudendo gli occhi. Quant’eravamo simili, io e lui, l’ho scoperto in quel momento.
Harlock mi ha guardato senza alcuna emozione, come uno specchio che restituiva la mia stessa, ostentata indifferenza, ma un groviglio pulsante d’inquietudine e desiderio tormentava di certo il suo cuore quanto il mio. Mi vergognavo di questo sentimento.
Forse sembrerà strano, ma anche una regina dall’anima di metallo come me conosce la vergogna di fronte a emozioni così oscure e prepotenti: possibile che la sua giovane età non bastasse a fermarmi?
Gli feci cenno di sedersi e lui obbedì senza fiatare, esausto. Si lasciò quasi cadere sulla sedia e il suo viso si rilassò per un istante.
Rimasi ad osservarlo.
Quale singolare turbamento nel cercare di riconoscere sul suo viso e nei suoi modi i tratti e i gesti dell’uomo che avevo conosciuto, proprio come si fa per i morti, con i figli che sopravvivono ai padri! Provavo un’assurda tristezza, un inspiegabile senso di vuoto. Quel giorno mi era davvero stato rubato qualcosa.
Feci cenno con la mano e Merope si avvicinò per versarci del vino. I miei occhi erano sempre fissi su Harlock e neppure me ne avvedevo. Su di lui che si comportava come se non ci fossi. Mi guardava solo di sfuggita, sdegnandomi come si fa con un’immagine virtuale.
- Era da molto tempo che volevo sedere con te davanti a due calici di buon vino, - dissi, mentre l’ancella si congedava da noi, lasciandoci soli.
Prendendo il bicchiere fra le dita, Harlock si limitò a farne ondeggiare il contenuto. Sembrava scrutare distrattamente il proprio riflesso.
- Che cosa vuoi, Raflesia? - chiese.
La riconobbi subito: era la sua voce, solo un paio di timbri più chiara, quella di un ragazzo con troppi pensieri. Sorrisi involontariamente: l’avevo trovato.
- Credo sia venuto il momento di parlarci un po’, e la sorte ci ha offerto oggi una splendida occasione. Ma tu non sei dello stesso avviso, a quanto vedo.
Per un momento, sulle sue labbra fiorì l’accenno di una risata. Bevve un sorso di vino, lentamente, allo stesso modo in cui diluiva nel tempo la sua risposta. Aspettai, placando l’irritazione per la sua scortesia con lo squisito rosso di Andromeda, il vino più pregiato delle nostre riserve. Il suo sapore permetteva al nostro mondo di sopravvivere in noi sotto una forma appena tangibile, e ne prolungava l’amaro rimpianto, rinvigorendo l’attesa.
Il vino di Andromeda era un privilegio per pochi, ma sapevo che in fatto di alcolici Harlock era un buon intenditore ed ero certa che l’avrebbe apprezzato. Innanzitutto sapeva come berlo, a piccoli sorsi, gustandolo in bocca come meritano le rare prelibatezze. Era degno di conoscerne il valore.
- Il vino è di tuo gradimento? - chiesi, senza celare una punta d’ironia.
Da parte sua non mi aspettavo niente di più che un cenno della testa o un silenzio vagamente accondiscendente.
- Molto, - disse invece, e mi sorprese.
Lasciai che ne bevesse ancora ed aggiunsi.
- Viene da Mazone. Simile a un fiume scarlatto, questo vino migra insieme al suo popolo, in attesa di un luogo dove poter nuovamente essere coltivato. - Riflesso sulla superficie ondeggiante del vino, il mio volto era triste. - E’ molto prezioso...
- Perché mi usi tanto riguardo, Raflesia? Che cosa speri di ottenere?
- Credi che stia cercando di comprarti? In questo momento mi sarebbe più facile ucciderti.
- Perché non lo fai? Pensi forse che rischierei la vita del mio equipaggio e la mia stessa nave pur di mettermi in salvo?
- So bene che non lo faresti mai. Il tuo onore è pari al tuo orgoglio e perderesti l’anima per proteggere la magnifica Arcadia e quanto contiene.
- C’è anche la mia anima, là dentro. Non potrei vendere l’Arcadia senza vendere anche me stesso. Ma non credo affatto che tu intenda fissare il prezzo del mio riscatto. Non c’è niente di barattabile per te.
Fu in quel preciso istante che l’idea si formò nella mia mente, chiara e integra, e mentre essa germogliava, nel mio cuore nasceva una singolare soddisfazione, che non provavo da tempo, un senso di completezza che temevo di aver perduto per sempre.
- Invece ti sbagli. Esiste qualcosa che voglio avere in cambio della tua libertà.
Harlock aggrottò la fronte, fissandomi con malcelato stupore. Non credeva che fossi davvero intenzionata a lasciarlo andare. Del resto ancora adesso io stessa mi sorprendo della mia decisione. Eppure, tornassi indietro, farei ad Harlock la stessa, identica proposta.
- Di che si tratta?
La sua voce m’incalzava, mentre il vino scemava nel bicchiere suo e mio.
- Non così in fretta. Prima voglio sapere cosa ti è successo, conoscere ogni minimo dettaglio.
Di nuovo quella specie di breve risata. Harlock mi ha guardato, appoggiando la guancia sul palmo della mano.
- Cosa ti fa pensare che questa sera io sia in vena di confidenze proprio con te?
Avrei voluto ordinarglielo, oppure avrei potuto estorcerglielo con la forza, o con le droghe, ma a che cosa sarebbe servito? Benché già la conoscessi, se volevo ottenere da lui una risposta il mio orgoglio di regina doveva piegarsi di fronte al più impenetrabile degli uomini.
- Per una volta potresti semplicemente essere educato.
- Sono sicuro che i tuoi soldati hanno fatto rapporto, dopo il nostro ultimo scontro, e che già sai qual è stato il terreno di battaglia.
- Un gruppo di Lupi Spaziali ha inseguito uno dei miei caccia fino all’orbita di un piccolo pianeta.
- Un pianeta solo all’apparenza paradisiaco.
- Non penso che tu fossi su uno di quei Lupi Spaziali. Perseguitare un nemico che scappa non è nella tua etica.
Il nostro dialogo assomigliava a una partita a scacchi, e questo mi divertiva: ogni parola una mossa attentamente studiata.
Harlock bevve un altro sorso, svuotando il bicchiere.
- Non ha importanza per cosa ci sono andato, ma c’ero anch’io su quel pianeta.
- L’Eden è un luogo insidioso per gli umani. Laggiù tutto è vivo e ha una volontà propria.
- Non mi stupirei se fosse una delle vostre basi.
Nascosi un sorriso dietro al calice di rosso e posai a mia volta il bicchiere vuoto.
- Sei stato nella palude?
- L’abbiamo attraversata.
- Senza protezioni?
- L’equipaggiamento era danneggiato.
- Solo il tuo DNA è mutato?
- Fortunatamente.
- Dovresti piuttosto ritenerti fortunato ad essere sopravvissuto alla trasformazione. Ben pochi escono incolumi dall’eredità della palude.
Non disse nulla, ma non ce n’era bisogno. Potevo immaginare da sola le sofferenze che doveva aver sopportato prima di ritrovarsi così giovane. In segreto ammirai la forza d’animo dell’unico terrestre degno di sopravvivere alla nostra invasione. L’unico terrestre che dovevo uccidere ad ogni costo.
Pensai al vino di Andromeda: un giorno lo avrei bevuto sulla Terra, ricordandomi dell’implacabile avversario che avevo sconfitto.
Un giorno forse, ma ora lui era vivo. E volevo che lo rimanesse.
- Sei disposto a provare un dolore persino più atroce di quello che già hai sperimentato? Un dolore che potrebbe ucciderti?
Harlock fissò lo sguardo su di me, rabbuiandosi.
- Non parlare per enigmi, Raflesia. Che cosa vuoi dire?
- Ti sto proponendo una cura.
- Cosa?
- Non dirmi che non vuoi tornare ad essere quello che eri.
- E tu vuoi farmi credere che saresti davvero in grado di invertire la trasformazione?
La sua breve risata fu simile a una folata d’aria calda.
- Non vorrei mancare di rispetto alla grande regina di Mazone, ma mi scuserai se non ti credo.
La sua reazione non mi scompose: non mi aspettavo certo che accettasse con entusiasmo. Ma io non avrei tollerato un rifiuto.
- Sto parlando molto seriamente, invece. O hai forse deciso di ricominciare la tua vita daccapo? Non credevo che un uomo come te sentisse il bisogno di una seconda occasione.
- Non mi provocare, Raflesia. Sai bene che rivorrei il mio corpo così com’era, con ognuna delle sue cicatrici. Ma che proprio tu venga ad offrirmi una soluzione... A meno che non ti sia messa in testa di giocarmi un brutto scherzo mentre sono sotto i ferri o di ottenere chissà quale ricompensa.
- La Terra non è la posta in gioco, se è quello che temi. E non dovrai andare sotto i ferri.
- E allora cosa vuoi?
- Niente.
Mi alzai, avvicinandomi all’unica, stretta finestra che si affacciava sullo spazio buio. Le stelle erano piccole lucciole, simili a un miraggio nella loro quieta lontananza. Non lo sentii avvicinarsi. D’un tratto comparve accanto al mio riflesso. Il suo viso tirato era fiero e inaccessibile, ma forse era solo la febbre a farne brillare così tanto gli occhi.
- Perché lo fai? Una simile offerta non ha alcun senso, lo capisci da sola.
Non risposi. Io conoscevo il perché, ma come potevo ammetterlo davanti a lui? Potevo forse sopportare che quel pirata ridesse di me?
- Raflesia...
Disse il mio nome con una dolcezza inaspettata.
E’ solo stanco, pensai. E soprattutto, non è esattamente la sua voce, piena di delicatezza quando si rivolge a quella bambina, ma dura e sarcastica ogni volta che parla con me. Sembrava piuttosto una farsa: la sua voce, calda e gentile, ma un poco più giovane, il suo viso, quasi intenerito, ma privo dei segni delle molte battaglie che lo avevano reso così indecifrabile. E affascinante.
Come una regina alle prime armi, non riuscii più a contenere le parole.
- Rivoglio il mio nemico, - dissi. - Il mio irriducibile, onorevole nemico.
- Cosa?
- Hai capito bene. - Lo fissai dritto negli occhi, dura, feroce.
- Stai cercando di umiliarmi, Raflesia? Sono sempre io. O forse temi che ti farò qualche sconto, che sarò più tenero con te solo perché ho quindici anni?
- Puoi cercare di convincere te stesso che nulla è cambiato, ma non puoi ingannare me, - risposi. - Io vedo nel tuo cuore più a fondo di quanto tu possa immaginare, più intimamente di quanto tu stesso riesca a fare. E riconosco solo una metà dell’uomo che si frapponeva fra me e la Terra. Non ci sarebbe soddisfazione in questa vittoria.
Harlock serrò forte la mascella, le parole come un fiume in piena contro la diga dei denti. Potevo sentirle riecheggiare con rabbia in mezzo al suo silenzio: “Sono ancora un uomo!”
- Non rivuoi ciò che hai perduto? L’altra parte di te stesso? - lo tentai, una voce carezzevole che non credevo di possedere.
Mentre mi guardava, la sua ira si stemperò in dolorosa consapevolezza colma di rimpianto. Quella fiera baldanza pareva oscillare, lo scudo rassicurante che aveva levato davanti a sé mostrava una minuscola crepa. Dovevo infilarvi in fretta il coltello e allargare quella ferita per ottenere quello che volevo, ma d’un tratto mi ritrovai disarmata. Nell’improvviso smarrimento del suo cuore, in quell’infinita solitudine priva di scopo, rivedevo me stessa.
- E’ naturale che tu sospetti un inganno, - ripresi. - Ma mi sarebbe molto più semplice farti fucilare qui e subito dai miei soldati, non credi?
- La tua proposta non ha molto senso, ne converrai.
- Un grande nemico rinforza la determinazione nella lotta e tiene unito un popolo errante nell’immensità dello spazio. Quando arriveremo sulla Terra la mia gente sarà temprata dalle numerose battaglie.
- Se arriverete sulla Terra.
Gli sorrisi, velenosamente condiscendente.
- Quale garanzia ho che la tua cura funzioni?
- Nessuna, se non la mia parola, e la certezza che conosciamo Eden molto più di voi.
- Ottime credenziali. Perfette per chi ama il rischio.
- Allora?
Ricordo come fosse ora il sorriso divertito che incurvò le sue turgide labbra.
- Accetto, - disse.
Qualcosa dentro di me esultò di gioia.
Ottenni per lui il dissequestro del Lupo Spaziale e un lasciapassare a nome della Regina Raflesia dell’Onnipotente Mazone. Nessuno sollevò la benché minima obiezione. Solo Harlock accettò di malavoglia le facilitazioni che gli offrivo. Probabilmente avrebbe preferito una rapida fuga dall’esito incerto all’umiliazione di sapere il suo nome associato al mio, seppure virtualmente.
Lo guardai partire dalle grandi vetrate della sala, seduta sulla sedia di vimini, a sorseggiare in solitudine un altro calice di rosso.
Da quella notte, e per molte altre notti, sognai di lui.

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Capitolo 12
*** Una calcolata follia ***


UNA CALCOLATA FOLLIA




Dai file del tablet di Tadashi

Vederlo tornare da solo era l’ultima cosa che ci saremmo aspettati.
Riuniti in sala comandi attorno alla sua sedia vuota come davanti a un altare, stavamo pianificando l’operazione che avrebbe dovuto trarlo in salvo. Avevamo i minuti contati, lo sapevamo: anche ammesso che non avessero ancora scoperto chi era, quanto avrebbero impiegato le mazoniane prima di giustiziarlo?
Contavamo sulla genialità di Yattaran e sulle sue trovate per un intervento fulmineo, quasi chirurgico. Tentare un’azione di forza usando la piena potenza dell’Arcadia era troppo rischioso, anche se l’idea di puntare i cannoni direttamente contro la Suite Emperor mi allettava non poco.
Poi, tutto d’un tratto, il radar ha segnalato una navetta in rapido avvicinamento, un Lupo Spaziale solitario. Stentavamo a credere ai nostri occhi, ma la voce del capitano via onde radio ha tolto ogni dubbio.
- Sono Harlock. Aprite il boccaporto, sto rientrando.
Grida di giubilo si sono levate in sala comandi, mescolate a esclamazioni e sospiri di sollievo.
Non importava come avesse fatto a liberarsi da solo: già lo sapevamo che Harlock era capace di tutto. Ciò che contava era solo che fosse tornato vivo.
Non immaginavamo che dovesse darci parecchie spiegazioni.
Credo che, mentre si trovava in infermeria, Harlock abbia subito messo al corrente il dottor Zero dell’offerta fattagli da Raflesia. Del resto la sua permanenza lì dentro è stata ben più lunga di quella necessaria per una medicazione. Devono aver discusso molto, e so bene con quali toni perché, quando sono arrivato davanti alla stanza, sentivo le loro voci accendersi e spegnersi oltre la porta chiusa. Il dottor Zero non era mai stato così alterato.
Mi sono fermato ad ascoltare: non ho impiegato molto per mettere insieme tutti i pezzi della conversazione. Mi è bastato il nome di Raflesia unito alla parola “cura” e poi la risolutezza carica di apprensione con la quale il dottore cercava di dissuadere il capitano dalla sua folle decisione. Invano. Per questo sono intervenuto anch’io.
Non ho usato mezzi termini per dirgli come la pensavo e forse questo non ha facilitato le cose. Harlock si è stancato di ascoltare solo opposizioni ed è uscito, tornandosene nella sua cabina.
- Voglio riposare, - ha detto semplicemente, e Mime è andata dietro di lui come un’ombra sempre silenziosa.
Mi stupiva che non avesse nulla da dire su quest’argomento, che anche lei non si fosse unita ai nostri tentativi di convincere Harlock a desistere da quel proposito.
Per questo andai subito da Yuki, certo di trovare in lei un’alleata perfetta.
Mi ha accolto in maniera strana, devo dire, sembrava quasi sorpresa di vedermi. Sulle prime non ho voluto dare importanza alla cosa. Pensavo fosse solo stupita per l’apprensione che dimostravo nei confronti di Harlock dopo i recenti bisticci. Soltanto dopo ho saputo di che si trattava. In quel momento c’era un’autentica emergenza che richiedeva tutta la mia attenzione e mi sono concentrato solo su quella.
Insieme abbiamo organizzato il nostro piccolo assalto al capitano, convinti che Raflesia lo avesse indotto ad accettare con qualche subdolo inganno o con strumenti non leciti. Pensavamo che potesse persino essere drogato.
Quando siamo entrati nella sua cabina lo abbiamo trovato ancora seduto sulla sponda del letto, vagamente assonnato. Non ci aspettavamo che Mime fosse ancora lì con lui. A volte suonava finché Harlock non si era addormentato, ma gli concedeva tutta la privacy di cui aveva bisogno quando finalmente si coricava. Ho sempre pensato che fosse perché aveva rispetto di un uomo che non poteva concedersi il lusso di apparire inerme davanti a nessuno.
Ho lasciato che fosse Yuki ad attaccare battaglia, immaginando che sarebbe stata ben più convincente di me. Ora che ero sicuro di non avere più in questo giovane Harlock un rivale, ma un alleato e persino un confidente, ogni astio nei suoi confronti era svanito, lasciando il posto a un desiderio di protezione del tutto nuovo. Temevo per la sua vita in un modo che non avevo mai sperimentato prima di allora e volevo la sua sicurezza come la si può volere per un famigliare o per la parte più importante dell’Arcadia. Se il computer era l’anima della nave, lui ne era il cuore e nessuno sano di mente avrebbe potuto permettere a Raflesia di affondarvi le sue radici tossiche.
Yuki si è seduta sullo sgabello di fronte al capitano, sulla faccia un’espressione severa piuttosto che preoccupata.
- Capitano, so della proposta di Raflesia, Tadashi mi ha raccontato tutto. Non dovete darle retta. Si tratta di una trappola, non c’è dubbio. La regina di Mazone sa scrutare nel cuore delle persone e cerca di usare i sentimenti delle sue vittime per i propri interessi di guerra. Ricordate cosa ha fatto con Zolba e Rucia? Lei di certo immagina quanto desiderate tornare adulto e vuole soltanto approfittarne.
Harlock, che aveva ascoltato in silenzio il discorso di Yuki, frenetico quasi come una raffica di mitraglia, si è alzato sospirando, dirigendosi verso le vetrate.
- Dopo la paternale di Tadashi non mi aspettavo che anche tu venissi a farmi la predica. Mi sembra di parlare con i miei genitori.
Sono convinto che abbia usato appositamente un simile paragone: ho visto Yuki accusare il colpo mordendosi il labbro in silenzio, prima di tentare di giustificarsi.
- Capitano, io...
- So che lo fai con le migliori intenzioni, ma ho già deciso. Io e Raflesia abbiamo un preciso accordo e le modalità con cui procedere sono già state stabilite. Non ho intenzione di tirarmi indietro.
- Un accordo? Non puoi parlare sul serio, Harlock, - ho esclamato, scambiando con Yuki uno sguardo terrorizzato. - Sapete che non c’è da fidarsi delle parole di quella donna!
- Era sincera, lo so.
- Sincera? Quando mai Raflesia è stata sincera? Capitano, perché vuoi correre questo rischio? Dopotutto questa trasformazione cosa cambia d’importante? Hai una seconda giovinezza da vivere. Chissà quanti vorrebbero essere al tuo posto.
- Tadashi...
- No, Harlock, non tentare di convincermi. Non so con quali argomenti Raflesia abbia potuto ingannarti, ma stai commettendo un grosso errore.
Nella foga della mia ramanzina non mi ero accorto che Yuki fosse sbiancata. Teneva gli occhi fissi su Harlock quasi senza vederlo. Sbarrati, increduli, lo accusavano come se l’avesse tradita.
Provai un improvviso smarrimento e per un attimo desiderai con tutto me stesso che Harlock le confessasse chissà quale orrendo rapporto carnale con la Regina. L’avrebbe scoraggiata forse, di certo delusa, o magari non sarebbe servito a nulla. Ma doveva almeno cercare di allontanarla da sé, ora che sapeva ciò che provavo per lei. Se anche desiderava dirle qualcosa, però, Harlock non fece in tempo a parlare.
- Che cosa ti ha fatto, capitano? Cosa è successo tra voi quando siete stati insieme?
Non l’avevo mai vista così. Parlava con un filo di voce, quasi roca, e quel suo improvviso cambiamento stupì Harlock quanto me.
- Yuki?
- Non dovevi restare solo con lei. Sei così vulnerabile, ora.
- Che dici?
- Ho visto come la guardi.
Harlock si è rabbuiato. Si è avvicinato a Yuki e per un istante ho creduto che volesse schiaffeggiarla. Ma lei ha proseguito come se quella nube irata non si stesse addensando al suo orizzonte.
- Puoi cercare di mentire a noi, ma non a te stesso. Tu sai che la desideri.
La cassa dell’arpa ha risuonato come se protestasse mentre Mime la deponeva sul pavimento. Si è avvicinata ad Harlock mettendosi al suo fianco, una mano sulla spalla.
- Non dovete perdere fiducia in lui. Harlock non è cambiato, io lo so.
Ha detto così, con la solita, inspiegabile sicurezza, e io mi sono chiesto da quanto tempo lei fosse a conoscenza delle oscure emozioni del capitano. Perché di certo stavano nel suo cuore da ben prima della trasformazione.
Yuki ha abbassato lo sguardo, scuotendo la testa.
- Sono solo preoccupata per te.
Mi faceva così male vederla soffrire a quel modo. Vederla soffrire per lui. Harlock sembrava talmente insensibile, protetto dalla corazza della sua divisa di pelle nera e dal jolly roger stampato sul petto, lì al posto del cuore.
Invece, all’improvviso l’ha abbracciata, attirandola a sé, la testa nell’incavo della sua spalla.
- Mia piccola Yuki, - ha mormorato, appoggiando la guancia all’oro dei suoi capelli.
Yuki si è irrigidita prima di aggrapparsi a lui con tutte le forze, le braccia avvinghiate alla sua schiena. Piangeva sommessamente.
Io e Mime abbiamo lasciato la stanza uno dopo l’altra senza dire nulla, senza il coraggio di guardarli neppure in faccia. L’immagine di loro due abbracciati mi riempiva gli occhi.
Perché Harlock mi stava facendo questo?

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Capitolo 13
*** Il mio Capitano ***


IL MIO CAPITANO




Dal diario di Yuki

Sembrava un sogno uscito da una delle mie notti agitate. Ero seduta sullo sgabello di fronte alla sedia del capitano a bere insieme a lui quel vino che tante volte aveva condiviso con Mime. Nella cabina regnava un’intimità ovattata e il cigolio della nave cullava i nostri pensieri come una ninna nanna. Era questa l’atmosfera che Mime aveva il privilegio di assaporare ogni giorno, sola con lui?
Quante volte avevo desiderato di poter essere al suo posto, per partecipare di quelle preoccupazioni che così spesso avevo visto trasparire sul viso di Harlock, per poterle alleviare con una parola gentile, una carezza, o con la sola presenza. E adesso finalmente stavo davanti a lui, e non c’era nessun altro.
Non mi importava che non fosse un uomo: aveva un anno in meno di me, ma sarebbe cresciuto. Soprattutto, lo avremmo fatto insieme. Non mi sarei persa nulla della sua vita, delle sue esperienze, persino delle sue sofferenze.
- Ascolta Yuki.
La voce di Harlock mi ha ridestata da queste fantasticherie. Ha spezzato il silenzio come una cometa fa con il buio, ma vi riconobbi un tono grave che inutilmente mi sforzai d’ignorare.
Era stato tanto gentile con me solo poco prima, lasciando che mi calmassi contro il suo petto. E mentre gli chiedevo scusa per la mia reazione mi ha sorriso senza fare commenti.
Proprio la sua improvvisa tenerezza, quell’abbraccio tanto a lungo cercato senza alcuna speranza di riceverlo, mi avevano fatto perdere il controllo, come una bambina. Sentivo ancora il viso in fiamme per la vergogna.
Harlock aveva voluto che mi sedessi a bere qualcosa.
Siamo rimasti sempre in silenzio, mentre il mio imbarazzo si stemperava in una tranquillità non priva d’inquietudine. Stava per succedere qualcosa che avrebbe cambiato per sempre il mio rapporto con lui, ne ero certa e, di qualunque natura fosse, non potevo fare a meno di avere paura.
- Apprezzo i tuoi scrupoli, e quelli di Tadashi, - ha ripreso. - Ma non devi temere per me. Non ho accettato la proposta di Raflesia senza un minimo di assicurazioni da parte sua.
- In che cosa dovrebbe consistere questa cura?
Mi sforzai affinché la voce suonasse ferma, priva di emozioni e mi sembrò funzionare fin troppo. Sembrava asettica e professionale come quella di un medico. Meglio così, mi dissi.
Era questo l’ultimo sistema che avevo a disposizione per tentare di convincerlo: dimostrargli che i miei timori erano frutto di una pacata analisi e non di turbamenti emotivi.
- Nell’iniezione di un antidoto capace d’invertire la trasformazione, - ha risposto.
- Non sarebbe più prudente analizzare questa sostanza, prima?
- Anche se lo facessimo non saremmo in grado di capire se funziona.
- Ma potremmo verificare che non contenga nulla di tossico o, peggio, di velenoso.
- Il dottor Zero sarà presente durante tutta la procedura. Gli chiederò di fare un’analisi prima dell’intervento.
- Si terrà sull’Arcadia?
Quasi le avesse preparate in anticipo, il capitano possedeva una risposta adeguata per ogni questione che sollevavo. Del resto doveva averne già ampiamente discusso con il dottor Zero. La possibilità di raggiungere il mio scopo mi appariva sempre più remota.
- Ci incontreremo in un luogo il più possibile neutrale. Una nave ospedaliera mazoniana sosterà nei pressi dell’Arcadia. L’intervento avverrà lì, alla presenza del dottore e di un medico mazoniano.
- Ma perché non sull’Arcadia? Non oserebbero giocarci un tiro mancino se fossero a bordo della nostra nave.
- Perché lì hanno tutte le attrezzature necessarie. Inoltre il medico sembra essere uno piuttosto importante. Raflesia aveva a cuore la sua sicurezza.
- Si tratta solo di un’iniezione. Si potrebbe fare ovunque...
- Non è così semplice, Yuki.
Si è alzato per osservare le stelle oltre il graticcio delle finestre. Steso sul suo volto vedevo il velo dell’inquietudine e mi chiedevo a cosa stesse pensando, lui che non temeva nemmeno la morte. O forse con quell’intervento...
Un dolore freddo mi ha colto d’un tratto alla bocca dello stomaco. Al di là della minaccia costituita dalle nostre letali nemiche e dai trucchi di Raflesia, Harlock correva un pericolo reale con quella nuova trasformazione.
Nella mia mente lo vidi di nuovo nelle condizioni in cui l’avevo riportato sull’Arcadia, semi incosciente e in preda a dolori atroci. Avrebbe dovuto di nuovo attraversare tutto questo?
Harlock, non lo devi fare se questo è il prezzo. Non lo devi fare!
Avrei voluto gridargli queste parole stringendolo a me per impedirgli di correre incontro al proprio destino. Avrei voluto trovare un modo per dirglielo senza apparire spaventata, senza che lui capisse quanto avevo paura di perderlo. Ma Harlock ha ripreso a discorrere come se nulla fosse, e io non ho potuto fare a meno di seguire la scia della sua calda voce, come un pesce che nuota nella corrente.
Quando ci ripensai, mi resi conto che le sue confessioni avevano il sapore dolceamaro di un addio. Fui sciocca a non accorgermene subito. Avrei provato a trattenerlo con maggiore determinazione e forse non avrei perduto quel poco che avevo conquistato. Colui che avevo di più caro al mondo. Ma ciò che disse aveva esattamente lo scopo di allontanarmi, cercava solo un modo delicato per farlo.
- C’è un’altra cosa di cui ti devo parlare, - riprese.
Rimasi in silenzio aspettando che proseguisse, mentre dentro di me l’ansia cresceva come l’aria in un mantice.
- Avrei dovuto farlo tanto tempo fa, ma solo ora vedo con chiarezza cose che probabilmente ho a lungo ignorato, chiamandole con un nome che non apparteneva loro.
Si è voltato verso di me e il suo sguardo limpido, schietto, mi diceva dolorosamente che non mentiva.
- Ti sono grato per i tuoi sentimenti, Yuki, ma sbagli a rivolgerli a me. Io non sono in grado di ricambiarli.
Credo di aver pronunciato il suo nome sottovoce. Ricordo la pressione delle mie stesse dita al centro del petto. Come se mi sentissi nuda di fronte ad un’arma ho cercato di proteggermi il cuore. Le parole di Harlock mi facevano del male come proiettili, i suoi occhi arrivavano dritti all’anima come strali veloci. La verità a lungo cercata e fuggita, il segreto di ciò che provava per me, era ora reale e sgradito come il peggiore dei doni.
- Il buio che mi porto dentro è troppo vasto per poter essere illuminato dalla tua luce gentile, per poter essere cancellato da questa miracolosa trasformazione che ha riportato indietro per un po’ il mio tempo. Chiuso nel profondo, c’è il me stesso di sempre, prigioniero di una specie di sarcofago tirato a lucido che è questo corpo.
- Non è così! Questo non è un sarcofago. E’ carne calda e giovane, e io l’ho sentita fremere contro di me. Questa è vita che può essere di nuovo vissuta!
Mi sono alzata di scatto, gridando e, senza accorgermene, in un attimo ero vicina a lui e gli stringevo le mani ancora prive di guanti. Riuscivo a sentire il suo respiro sul viso e il calore che s’irradiava verso di me, come l’energia di una stella nera che non si è ancora spenta.
Harlock mi ha accarezzato la guancia, sciogliendo lo stupore di un attimo prima in un’espressione carica di tenerezza. Avrebbe potuto essere quella di un innamorato, se non avesse appena detto quelle parole, che pesavano su di me come tutta la Terra. Mi sentivo schiacciata, spinta sempre più fuori dalla sua vita, simile a un inutile rifiuto.
Harlock ha sorriso, vagamente sarcastico.
- Sono un trentenne nel corpo di un quindicenne, Yuki. E tu sai che dico il vero. Il mio tempo e il tuo sono così lontani... troppo.
Si è staccato da me per versarsi un altro po’ di vino, ma invece di berlo si è limitato ad osservarne i riflessi danzanti.
- Incontrerai qualcuno simile a te, un giorno. Qualcuno con la tua stessa luce interiore.
Ho fatto un cenno di diniego con il capo, ma lui non è parso rendersene conto.
- Presto questa guerra finirà e ti ritroverai con il futuro ancora tutto da scrivere. E ci saranno persone che potranno farlo insieme a te, persone che forse hai già incontrato su questa nave.
L’unica persona con cui vorrei scrivere le pagine della mia vita sei tu, Harlock. Perché non mi vuoi al tuo fianco?
Questo pensiero, gigantesco come una montagna, mi oscurava la mente e lo ascoltai appena mentre lasciava cadere con noncuranza una frase fra noi, come si fa con un piccolo sasso nell’acqua.
- Anche per Tadashi è lo stesso. Quando alla fine avrà saziato la sua sete di vendetta, avrà bisogno di un nuovo scopo per cui vivere, di qualcosa da costruire piuttosto che da distruggere.
Si è girato verso di me, fissandomi negli occhi.
- Potreste farlo insieme, non credi?
Faticai a comprendere il senso di quelle parole. Erano come una sagoma confusa dietro il vetro appannato della mia mente disorientata. Mi stava davvero suggerendo di pensare a Tadashi come ad un compagno di vita? Qualcuno con cui restare anche dopo aver lasciato l’Arcadia? Non sarebbe stato piuttosto l’amaro surrogato di colui che avrei perduto abbandonando la nave, come il caffè solubile di cui ci si accontenta in mancanza di una buona miscela?
Scossi la testa con decisione.
- No... no.
- Yuki, non puoi pensare davvero di trascorrere il resto dei tuoi giorni su un’astronave pirata insieme a un rinnegato. Io non ho niente da offrirti, niente che valga veramente la pena. Anzi, forse la mia presenza t’impedisce di vedere quanto sono importanti le persone che hai accanto, quanto ti vogliono bene.
- Non credo che Tadashi sia interessato a me. E anche se lo fosse, io avrei il diritto di non ricambiare i suoi sentimenti.
- Non pensi che potresti semplicemente non esserti mai resa conto di quello che provate l’uno per l’altra?
- Se avesse provato qualcosa... me lo avrebbe fatto capire già da tempo. E’ da tanto che siamo insieme su questa nave. - Anche se non volevo, la mia voce suonò più flebile, mentre l’imbarazzo cresceva insieme al riaffiorare di ricordi che avrei preferito cancellare. - Non penso che ci sia posto per nessun altro nel suo cuore, proprio come nel mio, perché c’è già qualcuno che gli interessa molto più di me.
Harlock ha inarcato un sopracciglio e mi ha fissato come se lo cogliessi alla sprovvista.
- E chi sarebbe? - ha chiesto, bevendo un sorso di vino quasi per darsi un contegno.
Ho abbassato la testa, mentre arrossivo per la vergogna.
- Vi ho visti mentre vi baciavate.
Piegandosi in avanti, Harlock ha iniziato a tossire, il vino che gli andava di traverso sfregandogli la gola come carta vetrata. Credevo che soffocasse. Mi sono precipitata su di lui, ho afferrato il bicchiere che alla cieca stava tentando di posare da qualche parte, e l’ho costretto a raddrizzarsi e a guardare verso l’alto per farlo respirare di nuovo. Ha faticato un po’ a riprendere fiato e a smettere di tossicchiare. Aveva le lacrime agli occhi e il viso arrossato. Soltanto un ragazzo in una situazione imbarazzante. Ma quanto era bello anche in quel momento.
- Va meglio? - ho chiesto, mentre lui si lasciava cadere pesantemente sulla sedia, una mano a nascondergli la faccia.
- Quando... come sei riuscita a vederci?
Mi sono morsa il labbro, distogliendo lo sguardo. Non riuscivo a fissarlo mentre ripensavo a quella scena, alla ragazza snella e bionda appoggiata contro la parete metallica del corridoio dell’hangar, la ragazza che io stessa avevo creato e che Tadashi baciava con tanta passione.
- Sono tornata sui miei passi quando sei caduto a terra. Mi sentivo responsabile se eri impicciato nella corsa... il travestimento era opera mia. Ma quando vi ho visti mi sono fermata, e poi sono fuggita via da sola, allontanandomi dalle mazoniane per un breve tratto, - ho fatto una pausa prima di aggiungere. - Ero sconvolta, avevo bisogno di riflettere almeno qualche istante.
- Non mi sono neppure accorto che eri ancora nei paraggi.
- Quando vi ho raggiunti nella zona delle toilette, è stato un vero sollievo per me rivederti con addosso la tua divisa da capitano.
- Chissà cosa avrai pensato quando ci hai visto uscire insieme dal bagno...
Sono arrossita di colpo. In verità non avevo pensato proprio a niente, in quel momento. Rivederlo di nuovo in uniforme, maschile come sempre, era stato quasi un segno per me. Sembrava volesse dirmi che quello che era accaduto poco prima era stato solo un incidente, una faccenda di poco conto, della quale potevo attribuire la colpa a Tadashi. Forse avrei dovuto preoccuparmi di più?
- Comunque sia non è successo niente. In bagno, voglio dire. Tadashi si è soltanto scusato. E ha voluto che conoscessi le ragioni di quel gesto così assurdo. - Harlock mi ha guardata dritta negli occhi, un’espressione grave sul volto che ormai aveva ripreso il suo solito colorito. - Penso che sia giusto che le conosca anche tu.
Sono avvampata di nuovo, mentre rispondevo senza riflettere con un laconico “Ne farei volentieri a meno.”
- Non è come pensi, Yuki. Non è affatto come pensi. Anche se credo che dovrebbe essere Tadashi a parlarti personalmente di queste cose.
- Di che si tratta? - ho mormorato, sedendomi.
Temevo mi occorresse una buona dose di coraggio per ascoltare le parole del capitano, ma ad ogni modo ero certa che fosse soltanto dalla sua voce che volevo sentire un simile racconto. Sembrerà strano, ma non avevo davvero idea di quale potesse essere la misteriosa causa di un comportamento tanto inspiegabile.
- Possibile che tu non abbia capito, dopo quanto ti ho detto poco fa?
Ho scosso la testa, sul viso un’espressione confusa. Harlock si è sporto verso di me, allungando una mano a stringere le mie. Il mio cuore ha preso a correre come i motori dell’Arcadia lanciati a tutta potenza.
- E’ a te che pensava Tadashi mentre mi baciava. Eri tu l’oggetto proibito del suo desiderio, la stella inaccessibile sulla quale non ha mai potuto planare.
Incredulità, smarrimento, rabbia. Uno dopo l’altro, questi sentimenti sono spuntati nel mio animo, simili a fiori cattivi su di un prato concimato con veleni. Ah, beffa crudele! Sentire la tua voce che mi dice queste parole, e le dice a nome di un altro!
Quante cose avrei voluto risponderti. Non volevo l’affetto di un altro, ma soltanto il tuo cuore di uomo, bianco come quello di un fanciullo. Volevo te perché era te che amavo. E non capivo perché Tadashi non avesse mai provato a confessarmi i suoi sentimenti, perché avesse aspettato fino a generare un simile incidente. “Ma, dopotutto”, mi dicevo, “cosa sarebbe cambiato se anche l’avesse fatto prima?” Conoscere la verità mentre condividevo ancora la mia vita con entrambi, dentro l’involucro di metallo dell’Arcadia, avrebbe solo potuto rendere ancora più stridente ai miei occhi il contrasto tra l’uomo eccezionale che avevo scelto e la persona che si offriva a me in cambio, un ragazzo che doveva ancora crescere.
E sopra a tutti questi pensieri, come un ronzio confuso, continuavo a chiedermi per quale maledetta ragione gli uomini non abbiano mai il coraggio di essere sinceri sui propri sentimenti. Pensavo a Tadashi, ma più di tutto pensavo a te. Perché ero certa che ci fosse ancora qualcosa che mi nascondevi, nonostante tutto.
Qualcosa che sapevi mascherare come nessun altro.
Solo ora so che avevo ragione.

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Capitolo 14
*** Sulla barca di Caronte ***


SULLA BARCA DI CARONTE




Dalle memorie segrete di Raflesia

Forse se avesse saputo che sarei stata con lui quel giorno, Harlock non avrebbe mai accettato di sottoporsi alla procedura che doveva riportarlo avanti nel tempo, ripulendo il suo corpo dalla contaminazione della palude dell’Eden. Per questo sono entrata in incognito nella sala operatoria della nave ospedaliera. Volevo essere lì quando avrebbe attraversato di nuovo l’Inferno, qualunque fosse stata la sponda sulla quale sarebbe approdato. Perché non era affatto scontato che la destinazione finale non fosse un al di là irrimediabilmente lontano.

L’astronave medica era stata attrezzata con cura di tutti i macchinari capaci di ridurre quasi a zero i rischi connessi alla somministrazione dell’antidoto. Ciononostante, il fatto che Harlock avesse subito di recente la trasformazione e che il suo corpo fosse ancora provato nelle fibre più profonde molto più di quanto ci fosse dato vedere, rendeva pericoloso l’intervento.
Tesius si era dimostrata meticolosa come le avevo richiesto e non aveva tralasciato il minimo dettaglio. Era la migliore scienziata di cui disponesse il popolo di Mazone e non nutrivo alcun dubbio sulla sua professionalità. Ma temevo che, se avesse scoperto in anticipo l’identità del suo misterioso paziente, si sarebbe rifiutata di fare quanto le ordinavo e, soprattutto, che non sarebbe stata scrupolosa nel tentativo di garantirne l’incolumità. Per questo le ho rivelato quel nome solo una volta che siamo giunte sulla nave ospedaliera.
Eppure sono certa che abbia iniziato a sospettare qualcosa fin dal momento in cui l’ho informata della mia decisione di accompagnarla. Tesius ed io non avevamo ancora perso quella sintonia che un tempo ci faceva muovere di comune accordo e che l’aveva resa la più fedele delle mie alleate. All’epoca riusciva a leggere nel profondo le mie intenzioni.
- Chi può essere così importante nell’universo da far scomodare Vostra Maestà?
Con queste parole, e senza nascondere un vago disappunto, mi ha apostrofata non appena sono salita sulla navetta da trasporto che ci avrebbe condotte a destinazione. Il fatto che non mi scortasse neppure una guardia armata di certo accresceva le sue perplessità.
Tesius era da sola ai comandi e io mi sono seduta accanto a lei, fissando lo spazio vuoto oltre il vetro.
- Lo saprai al momento opportuno.
Ho liquidato così quella e ogni altra domanda che avesse potuto anche solo immaginare di pormi. Non era il momento opportuno per parlare di Harlock. Ma la mia era una preoccupazione inutile: Tesius aveva già capito tutto. Me ne rende certa la fredda indignazione con la quale ha reagito una volta che le ho rivelato la verità. Mostrava una calma che andava ben oltre il rispetto che si deve alla propria regina.
Ci stavamo cambiando nella piccola anticamera della nave ospedaliera. Di là, nella sala operatoria già pronta, presto avrebbero fatto il loro ingresso Harlock e il dottor Zero.
Mi sfilai di dosso il lungo vestito nero, lasciandolo cadere come una pozza di denso inchiostro sul pavimento. L’uniforme bianca da infermiera si addiceva davvero poco alla mia anima scura, ma non avevo altra scelta se volevo essere fisicamente presente all’interno di quella stanza senza correre il rischio di essere riconosciuta. Come se fossi stata una paziente sottoposta ai raggi X, Tesius mi ha esaminata da capo a piedi prima di esternare i pensieri che ormai da un po’ la stavano tormentando.
- Anche davanti a questo ridicolo travestimento volete continuare a tacermi il nome della persona che avete tanto insistito per farmi curare?
Mi sono voltata verso di lei, sdegnata. Osava definire ridicoli me e il mio abbigliamento solo perché sapeva che né in quel momento né in seguito avrei potuto punirla della sua insolenza.
- Non ho intenzione di tacerti alcunché, ma è evidente che non tollererò un rifiuto.
- Immagino che non saremmo giunte fin qui, altrimenti, - ha prontamente ribattuto, e le sue parole traducevano perfettamente i miei pensieri, a dimostrare ancora una volta, se mai ne avessi avuto bisogno, quanto profondamente riusciva a capirmi.
- Di là troverai il ragazzo che è stato mutato dalle paludi dell’Eden. Sono certa che lo riconoscerai subito, appena lo vedrai. Porta uno stemma di morte sul petto e non abbassa mai lo sguardo.
La mia voce ostentava una noncuranza crudele. Come regina, detenevo un potere assoluto, e mai come in quel momento ero stata determinata ad usarlo fino all’ultima goccia. Tesius doveva prendere atto dei fatti, ubbidire alla mia volontà senza porsi altre domande. Senza porle a me. Perché non avevo alcuna intenzione di spiegarle per quale motivo lo stavo facendo. Altrimenti sarei stata costretta a guardare dentro il mio cuore, e da troppo tempo non potevo più concedermelo.
- Vostra Maestà non può domandarmi di salvare la vita all’uomo che è stato maledetto da tutto il nostro popolo a causa delle sofferenze che gli ha fin qui inferto. All’unico uomo che si frappone fra noi e la Terra!
Mentre pronunciava quelle parole, Tesius ha riappeso il camice al muro, incrociando le braccia al petto. Un po’ di resistenza era inevitabile, dovevo farci i conti senza adirarmi, poiché l’avevo già preventivata.
- Non ti è richiesto niente di più e niente di diverso di ciò che già sapevi di dover fare. Praticare un’iniezione in una dose non letale e tenere sotto stretto controllo tutti i parametri vitali del tuo paziente, di modo che non soccomba. E se non lo vuoi fare per ubbidire agli ordini della tua sovrana, lo farai in nome del giuramento che pure i medici mazoniani pronunciano, prima di esercitare la professione.
La mia voce suonava dura e ferma, ma non era alterata. Non traspariva alcun accoramento, nessuna necessità personale. Non era per me che doveva compiere quel gesto. Volevo che questa menzogna fosse chiara. Altrimenti, come avrei potuto crederci io stessa?
Ho terminato di vestirmi senza aggiungere altro, annodando in alto i capelli in uno chignon voluminoso e nascondendo il viso dietro una mascherina medica. Una volta pronta rimasi a fissare Tesius in silenzio, non aspettandomi da lei nient’altro che la dovuta ubbidienza. Mi sono concessa un sorriso soddisfatto quando, dopo un intero minuto, si è decisa ad indossare di nuovo il camice e, senza rivolgermi la parola, è entrata in sala operatoria.
Harlock e il dottor Zero erano stati fatti salire a bordo da poco dal personale di plancia. Nessuno dei due era armato.
Di nuovo lo avevo davanti a me completamente vulnerabile, avrei potuto prendermi la sua vita in qualunque momento. Questo pensiero continuava a sfiorare la mia coscienza come un pesce che cerca ossigeno oltre il pelo dell’acqua, per poi affondare nuovamente da solo, inconsistente e vuoto.
Tesius si è soffermata a lungo a guardare il giovane pirata che aveva davanti. Sembrava stentare a riconoscerlo. O forse anche lei cercava, dietro le apparenze di quel viso da adolescente, i tratti dell’uomo che era stato fin qui l’unico ostacolo alla conquista della nostra nuova patria. Harlock non aveva mostrato alcun imbarazzo, sostenendo il suo sguardo, e alla fine di quella sorta di esame preliminare aveva tranquillamente confessato ciò che immaginavo si sarebbe invece sforzato di nascondere.
- Credo che la vostra regina vi abbia informate di ogni dettaglio, compresa la mia identità, - ha detto, parlando ad entrambe.
- Sono qui solo per eseguire i suoi ordini, e non mi occorre sapere altro, - ha tagliato corto Tesius. Poi ha aggiunto, indicando la capsula. - Vuoi sdraiarti, per favore?
Tesius ha appoggiato su di un ripiano la valigetta metallica che aveva portato con sé, facendo scattare le serrature. Dentro, chiuso in una fiala trasparente, c’era l’antidoto preparato da lei personalmente.
- Ehm, perdonate... - ha borbottato d’un tratto il dottor Zero, facendo un passo avanti. - Prima vorrei dare un’occhiata al contenuto di quella fiala. Un’analisi preventiva, diciamo così.
Tesius lo ha guardato come se fosse stato l’ultimo delle sue matricole, un incompetente studente al primo anno d’Università. Era evidente che non lo credeva capace neanche di capire se dentro quella fiala c’era o meno acqua. Ma la più dura lezione che mi ha insegnato questa lunga guerra è che non bisogna mai sottovalutare gli esseri umani, soprattutto quando dalla loro apparenza sembrano valere così poco. Persino Harlock inizialmente mi sembrava un semplice fuorilegge, un delinquente scampato alla forca che voleva riscattare passati insuccessi con il lustro di una memorabile battaglia contro una flotta invitta. Ho trovato più di quel che cercavo sotto il teschio bianco che porta sul petto.
Solo allora, mentre Tesius e il dottor Zero si disponevano ad effettuare quell’ulteriore, inutile controllo, ho notato la presenza di un’altra persona che era rimasta fino a quel momento discosta e in silenzio. Era il giovane ufficiale di plancia, la ragazza bionda figlia dello scienziato tradito da Kazuya.
Che fosse preoccupata per la sorte di Harlock era più che giustificato, trattandosi del loro insostituibile capitano. Ma il modo in cui non gli levava gli occhi di dosso raccontava segreti ben più profondi, su di lei e sui sentimenti che la legavano ad Harlock. Che fossero o meno ricambiati, però, restava un mistero che non riuscivo in quel momento ancora a sondare.
L’atteggiamento di Harlock nei confronti di quella ragazza era distaccato come sempre, impenetrabile persino a me. Ancora una volta mi stupiva l’abilità con la quale riusciva a celare il suo animo, come se avesse nascosto il cuore in un forziere e l’avesse gettato in fondo al mare.
Mi riusciva del resto difficile immaginarlo con la piccola Yuki nella luce soffusa della sua cabina, avvinghiati insieme sotto un’unica coperta. Mi riusciva difficile immaginarlo con chiunque altra.
In quel momento mi ritornò alla mente un sogno che per qualche tempo mi aveva perseguitato, un sogno che risaliva alla prima visita che gli avevo fatto nell’intimità della sua cabina.
Ero fra le sue braccia, su quella sedia alta come un trono. Ed ero nuda.
Distolsi lo sguardo da Harlock e Yuki e mi allontanai, mentre sentivo montare dentro un’assurda gelosia. Che cosa mi assicurava che una simile fantasia non avesse preso corpo davvero con una delle giovani donne che vivevano sull’Arcadia?
Per un po’ finsi di essere molto occupata con un macchinario del quale ignoravo persino lo scopo, ma non potei impedirmi di ascoltare le loro voci in sottofondo. Non capivo quello che si dicevano, ma il tono di quella ragazza alternava diffidenza e preoccupazione, mentre la voce di Harlock, pacata e calda, suonava sempre così rassicurante. Rischiava la morte ma era lui a rincuorarla. Sorrisi mentre pensavo che io lo conoscevo bene anche in questo: non era un uomo che aveva bisogno di essere confortato.
D’un tratto Tesius gli ordinò di spogliarsi: avrebbe praticato l’iniezione quando fosse stato già all’interno della capsula.
- Perché devo entrare lì dentro? - ha obiettato Harlock.
- Quest’apparecchiatura ci darà maggiori garanzie sulla tua sopravvivenza. Quando ti sei trasformato la prima volta, e il vostro dottore se lo ricorderà bene, la tua temperatura corporea si è alzata molto, non è così?
Il dottor Zero ha annuito gravemente.
- Fino al limite massimo.
- Qui, in questa capsula per la criogenesi, potremo tenerla molto bassa. Questo servirà anche a scongiurare possibili danni agli organi vitali, in particolare al cervello.
- Capisco.
- Puoi spogliarti dietro quel paravento e poi entrare nella capsula. Io aspetterò che tu sia pronto.
Ci siamo allontanati per lasciargli un po’ di privacy. Non m’interessava minimamente vederlo nudo a quindici anni: il suo corpo glabro e privo di cicatrici non esercitava su di me alcuna attrattiva.
La giovane Yuki invece doveva essere di un’idea diversa: ho visto il rossore che le colorava il viso mentre Harlock si spostava dietro il paravento e noi ci allontanavamo insieme, come un unico gruppo medico che aveva a cuore soltanto la sopravvivenza del paziente. Talvolta mi capita ancora di pensare a quel giorno lontano e mi chiedo come abbiamo potuto stare così vicini senza tentare di ucciderci gli uni gli altri, lasciando che sul nostro odio vicendevole prendessero il sopravvento le cure per un uomo che era la causa del precario destino al quale andava incontro il mio popolo.
Tornammo a voltarci solo quando era ormai dentro la capsula, ma soltanto Tesius e il dottor Zero si accostarono a lui e lei gli spiegò in dettaglio la procedura alla quale stava per sottoporsi: la temperatura corporea sarebbe stata gradatamente abbassata mano a mano che il processo di trasformazione procedeva, senza giungere mai al punto di avvio di un’autentica ibernazione. Il dottor Zero avrebbe vigilato affinché tutti i parametri vitali del corpo umano venissero rispettati.
Alle parole di Tesius, Harlock non aveva mostrato alcun segno di preoccupazione. Ascoltava attento e serio, gli occhi fissi in quelli della mazoniana che aveva in mano la sua vita.
- D’accordo. Procediamo, allora, - ha detto semplicemente, e il vetro della capsula è stato chiuso su di lui.



Nota: Torno dopo un bel po' con questo nuovo capitolo. Spero che nessuno abbia perso le fila della vicenda e che abbiate ancora voglia di seguirmi in questo viaggio che sta giungendo al termine.
Ormai manca poco e se volete sapere non solo cosa accadrà ad Harlock ma anche quali sono gli inconfessabili segreti che si celano nel suo cuore non vi resta altro che attendere il prossimo capitolo!
 Prometto che svelerò (quasi) tutto ^_^

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Capitolo 15
*** Spettri ***


SPETTRI




Dal diario di bordo del capitano


Tesius aveva un’ottima mano: l’iniezione non mi fece alcun male.
Il dolore venne dopo, insieme al freddo della criogenesi, quando il fluido prese a scorrere nel mio corpo attraverso arterie, vene e capillari, propagando appena un leggero calore. Ma poi di nuovo, come nella palude dell’Eden, quel tepore accese nel profondo del mio corpo una vampa inestinguibile. E ancora una volta mi ritrovai ad affrontare l’Inferno, da solo.
Il resto del mondo scompariva dentro quella piccola capsula sigillata, diventando un globo lontano, senza più suoni, popolato di vaghe ombre che mi scrutavano di là dal vetro. Mi sembrava già di essere calato in una bara di metallo, dentro una fossa. Un gelo sempre più penetrante si diffondeva tutt’attorno a me, ma sotto la pelle ancora una volta mi sentivo bruciare.
L’ossigeno veniva inalato da due bocchettoni, mentre alcuni cavi collegati a degli elettrodi permettevano di tenere monitorati dall’esterno battito cardiaco, impulsi elettrici del cervello e pressione. Non sarebbe stato molto scomodo se non fossi stato legato.
- E’ per la tua sicurezza, - aveva affermato Tesius allacciandomi una cinghia attorno al polso, - In questo spazio così piccolo rischieresti di farti del male sbattendo contro la capsula, o finiresti per strappare i cavi.
Il dottor Zero aveva annuito, anche se dalla sua faccia potevo capire che non era entusiasta di dover ricorrere a tale sistema. In piedi nell’angolo più estremo della piccola stanza, Yuki stringeva forte la mano sulla fondina ormai vuota, dato che le pistole avevamo dovuto consegnarle al nostro arrivo.
Per un poco dopo l’iniezione riuscii a vedere il volto concentrato del dottor Zero e quello tranquillo della mazoniana davanti al display di controllo. Nessuno dei due mostrava preoccupazione o nervosismo, segno che tutto procedeva nella norma.
Ma presto la mia mente mi portò molto lontano da lì, nel pozzo profondo e scuro di me stesso, e mi ritrovai solo, alla presenza dei miei ricordi più scomodi.
Non temevo di stare faccia a faccia con il mio passato: avevo sempre agito in piena coscienza, seguendo soltanto i miei ideali, senza scendere a compromessi con nessuno, senza farmi comprare da nulla. Eppure, annidato nel buio dentro di me, esisteva qualcosa capace di tormentarmi, qualcosa che aveva atteso a lungo questo momento per rialzarsi dal proprio nascondiglio e guardarmi in faccia con aria di sfida. I miei sentimenti.
Così, mentre l’antidoto scavava dentro di me la sua strada, impartendo nuovi ordini ad ognuna delle cellule e ridisegnando per l’ennesima volta il mio corpo, io rivedevo una a una le persone che avevano segnato la mia vita, nel bene e nel male.


Il mio amico era il primo dei fantasmi che mi stavano aspettando.
In tutti questi anni, il pensiero di lui non mi aveva abbandonato un solo istante. Non si trattava soltanto di ciò che avevo perso, della sua presenza fisica o dell’allegria che riusciva a infondere anche dentro di me e che a volte mi mancava fino a togliermi il respiro. Non era questo che mi tormentava, ma piuttosto la dedizione incondizionata a quel sogno che ancora adesso mi permetteva di vivere nell’unico modo in cui ero capace, libero e senza costrizioni. Era la sua totale abnegazione alla costruzione della nostra Arcadia.
Arcadia. Il solo nome di questa nave bastava ad evocare in me un sottile senso di colpa. Sapendo forse che non gli sarebbe mai appartenuta, Tochiro me l’aveva dedicata e ne aveva fatto la sua eredità. Era diventata la nave di Capitan Harlock, terrore degli stolti e miraggio degli ignavi, unica salvezza di chi voleva fuggire dalla Terra. Ma soltanto io sapevo che anch’essa nascondeva un volto oscuro.
Era la tomba di un uomo grande che aveva sacrificato tutto se stesso perché fosse possibile quel sogno che avevamo condiviso. E ora io vivevo di quel sogno a prezzo della sua vita, della consunzione del suo corpo. Tochiro era prigioniero di un involucro d’acciaio che non gli permetteva più di muoversi come un essere vivente, di mangiare scodelle stracolme di quel pessimo riso che sapeva cucinarsi da sé, nella fretta di un lavoro febbrile, o di assaporare insieme a me un calice di buon vino. E così lui era sigillato dentro il nostro sogno come un prigioniero, mentre io ero diventato il simbolo stesso della libertà.
Non ne avevo mai fatto parola con nessuno, nemmeno con lui, ma quest’idea mi tormentava da sempre, forse anche perché nessuno me l’aveva mai fatto pesare, come se fosse una cosa naturale. Tochiro era debole, fragile nel fisico quanto incrollabile nella volontà, e non era morto per causa mia. Questo era ciò che tutti avevano cercato di farmi intendere. Ma nessuno aveva capito che era morto per me. Io ne avevo la certezza.
Il mio amico aveva fatto in modo che il suo spirito rimanesse a vivificare lo straordinario computer da lui progettato, e questa era una prova sufficiente. La sua generosità, la sua dedizione, erano stati senza misura. E forse proprio perché un’anima così grande non poteva essere contenuta da un uomo tanto piccolo, il corpo di Tochiro si era sgretolato, donandole una casa più grande. Una casa che gli permetteva di non lasciarmi solo.


Il freddo nell’angusto abitacolo era cresciuto e ora riuscivo a sentirlo fin dentro le ossa, segno forse che la cura era efficace, o almeno che gli strumenti messi in campo per mitigare gli effetti della trasformazione facevano il loro dovere. Avrei desiderato potermi scaldare stringendomi le braccia attorno al busto e forse questo mi avrebbe anche permesso di capire se c’era qualche cambiamento in me, perché la sensazione di formicolio che avvertivo dalla testa ai piedi m’impediva di comprendere cosa mi stava succedendo. Peccato che ci fossero sempre quelle cinghie... Immaginai che dovesse dare una certa soddisfazione al sadismo mazoniano sapermi in quelle condizioni. Chissà come se la rideva Raflesia! Mi aveva promesso, anzi, garantito, una cura, e non avevo dimenticato quanto era stata strana quel giorno, persino triste. Però era impossibile non pensarla ora seduta sul trono, con un sorriso di beffarda soddisfazione disegnato sulle labbra, Raflesia che si gode la sua vittoria su di me nell’unico modo che in quel momento le è concesso...
Ansimai, riaprendo gli occhi. Una fitta di dolore acuto mi attraversava il petto, come se il cuore si stesse spaccando. Strattonai le cinghie con i polsi e le caviglie, invano. Oltre il vetro riuscivo ad intravvedere il dottor Zero che mi faceva segno di calmarmi con una specie di carezza sull’oblò della capsula, e Yuki che si precipitava accanto a lui, urlando qualcosa che non potevo sentire in direzione di Tesius. Come doveva essere spaventata! Avrei voluto tranquillizzarla io stesso. Dopotutto ero stato molto più male la prima volta, tanto che al confronto questa era quasi una passeggiata. Quasi. Poi di nuovo non vidi più nessuno davanti al vetro e il mio orizzonte tornò ad essere quello dei pensieri.


Doveva essermi salita la febbre, perché ora proprio lei mi veniva incontro, ma non come una regina. Non indossava il vestito nero e sulla testa non portava alcun diadema. Sedeva fra le radici di una quercia che parevano volerla proteggere e lei pure era bella come un albero antico, tra le cui fronde trovano riparo una moltitudine di nidi. Sembrava emanare il calore di una casa, o di una sposa. Pareva felice e una voce dentro di me mi diceva che era perché finalmente aveva trovato un piccolo mondo dove vivere in pace. Un mondo che si offriva di condividere con me.
Non c’era più motivo di battersi l’uno contro l’altra, né odio o rancore per i passati conflitti. Potevo sedere con lei su quelle radici e assaporare la brezza del vento, godere della luce del sole senza dover sempre fuggire come un fuorilegge.
Il suo viso a un palmo dal mio era dolce e sereno e il corpo bianco che mi offriva emanava un profumo invitante, come caprifoglio sul far della sera.
Ma bruciava come il fuoco.
Le sue braccia avevano piccole spine che non si staccavano dalla pelle che a prezzo di dolorose abrasioni e quella bocca cercava in me molto più che un bacio, come se avesse voluto togliermi con il fiato anche le forze.
Volevo liberarmi, ma le cinghie mi tenevano inchiodato sul fondo della capsula e per quanto cercassi aria inarcandomi su me stesso, non riuscivo a saziarmi dell’ossigeno inalato dai bocchettoni. Il mio respiro era rapido e irregolare mentre di nuovo vedevo sopra di me Raflesia, con la spada sollevata per colpirmi, nuda, furiosa e immensamente triste.
Le avevo strappato ogni cosa, avevo sterminato le figlie di Mazone senza riguardo, senza pietà. E del suo cuore, che ne avevo fatto?
C’era uno squarcio al centro del petto che prima non avevo visto e dietro lo sterno e le piccole costole stava solo il vuoto. Raflesia voleva il mio cuore per riempire quel vuoto. Perché è così che si amano i nemici... Si amano l’un l’altro solo per nutrirsi.
Era così anche per me?
Mi ero nutrito delle sconfitte che le avevo inferto, della linfa vitale delle sue selvagge driadi, di ognuna delle sofferenze che le avevo causato. Avevo calpestato il mio nemico solo per trarne godimento? Qual era stato l’alto ideale che mi aveva guidato, in quel momento in cui la febbre mi frustava scuotendomi le tempie, io non riuscivo più a ricordarlo.
Ricordavo solo di averla desiderata e odiata come nessun’altra mai. E di aver pensato migliaia di volte che avrei voluto avere almeno un’occasione per tenerla fra le braccia.
All’improvviso dentro la capsula si era fatto ancora più freddo. Il dottor Zero cercava di abbassarmi la temperatura e mi sorrideva goffamente da oltre il vetro un po’ appannato, sollevando il pollice per dirmi che andava tutto bene. Avrei voluto rispondergli almeno con un cenno della testa, ma non c’era una parte del mio corpo che ubbidisse ai comandi. Anzi, non c’era una parte di me che sembrasse ancora appartenermi.


Per un po’ quel refrigerio riuscì a darmi sollievo e potei pensare in modo più razionale, ma non c’era verso di placare la sadica creatura che si era ridestata dentro al mio petto. Altri pensieri, altri rimpianti, venivano sospinti verso di me e si gonfiavano, ingigantendosi come vele nella tempesta.
Yuki era l’ultimo della fila. Vederla mi provocò un dolore più forte di quelli provati fino a quel momento, un dolore che andava ben al di là di quello fisico. Lei era il più grande dei miei rimpianti. E forse perché potevo farci ancora qualcosa, perché dipendeva da me perderla o meno, provai una sorda disperazione, un sentimento che mai prima di allora avevo conosciuto.
Lei mi guardava ed era quasi luminosa, fasciata in un vestito candido, troppo corto e stretto perché avessi bisogno d’immaginare altro di lei. Era bella come la felicità. E non era mia.
Non avrebbe mai potuto esserlo.
Oh, se solo avessi avuto davvero quindici anni!
Avrei colto l’amore che mi offrivi come si fa con una rosa, Yuki.
T’avrei tenuta stretta fra le braccia per imparare il profumo della tua pelle e il ritmo che prende il tuo respiro prima che ti addormenti. Per conoscere ciò che di te non sa nessuno.
Saresti stata accanto accanto a me senza mai appartenermi e forse il tuo amore mi avrebbe permesso di essere migliore di quel che sono ora.
Ma questo genere di chimere hanno ali di vetro e mentre tentavo di gridare il tuo nome con labbra e voce che non mi appartenevano più, o non mi appartenevano ancora, il tuo viso si allontanava da me, sfocandosi come dietro al vetro di quella maledetta capsula. Quanto avrei voluto avere davvero quindici anni, non portare il peso di tutte le cicatrici che si erano impresse ben più sotto della mia pelle, in posti di me che nessuno sapeva raggiungere, laggiù, tra le ossa e il cuore. Laggiù dove non sapevo arrivare più nemmeno io.
E avrei voluto gridarti, mentre ti allontanavi alla velocità alla quale cambiava il mio corpo e si rifaceva buio fondo dentro di me, avrei voluto gridarti, Yuki, che ti amavo anch’io.

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Capitolo 16
*** Epilogo a tre voci ***


EPILOGO A TRE VOCI




Dalle memorie segrete di Raflesia

Dalla capsula non proveniva più alcun suono. Tutti i monitor erano spenti. Era tutto finito. Finalmente, lui riposava.


Sul volto erano ancora visibili i segni lasciati dalla sofferenza che aveva appena attraversato, le tracce della nuova trasformazione, durata oltre dodici ore.
Ho aspettato che se ne andassero tutti per avvicinarmi a mia volta alla capsula. Ognuno di loro aveva sostato a lungo presso il corpo di Harlock come davanti ad un feretro, prima di lasciare la stanza. Dopo essere stato quasi in criogenesi, era necessario che si svegliasse lentamente, in modo naturale, e noi pure avevamo bisogno di riposare dopo la lunga veglia.
Ero certa comunque che non sarebbe stata una lunga attesa: non era da Harlock far aspettare qualcuno. Perciò sapevo di non avere molto tempo.
Ad uscire per ultima è stata la giovane ufficiale di plancia, Yuki Kei. Credevo non volesse più andarsene e non sapevo cos’altro inventarmi per fingermi un’infermiera molto occupata in qualche genere di attività post-intervento. Così ho però avuto modo di osservarla mentre accarezzava, a lungo e dolcemente, il vetro della capsula, proprio come se fosse stato il viso di Harlock. Gli parlava sottovoce, ma ho capito ugualmente cosa diceva.
- Continuerò ad amarti anche così, - prometteva, con quell’assoluta certezza che hanno solo le ragazze innamorate. - E non m’importa quanti anni hai, né quanto tempo dovrò aspettare.
Ero certa di aver colto nel segno con lei fin dal momento in cui l’avevo vista entrare nella sala operatoria, così trepidante per l’intervento al quale Harlock aveva accettato di sottoporsi, e in quel momento le sue parole non mi stupirono affatto.
Harlock possedeva il potere, pericoloso e gestito con negligenza, di affascinare chiunque. Non faceva nulla di straordinario per ottenere questo risultato. Era semplicemente se stesso. Chissà quante delle donne che avevano incrociato la sua strada aveva lasciato dietro di sé, con il cuore spezzato? Di certo Yuki Kei era una di loro.
E io?
No, non avevo il cuore spezzato, perché non c’era più un cuore da spezzare.
Ero passata quasi indenne attraverso l’incontro con lui, e quando tutto fosse finito ne avrei serbato il ricordo come si fa con il più grande dei nemici.
Amarlo sarebbe stato impossibile, qualunque fossero state le condizioni nelle quali ci fosse capitato di conoscerci. Se anche non avessi accettato di diventare la regina spietata che sono ora, comunque non avremmo mai potuto stabilire un legame, noi due, su nessun piano. Un pirata reietto e vagabondo non avrebbe avuto niente a che spartire con una nobile sovrana. Per noi non ci sarebbe stato nulla da condividere, se non una notte d’amore clandestina.
Eppure in quel momento sentivo che proprio quella notte mi sarebbe mancata per sempre.
Yuki aveva lasciato la stanza e finalmente potevo avvicinarmi alla capsula. Presto il vetro si sarebbe aperto da solo (questo lei non poteva saperlo) e il corpo di lui sarebbe tornato lentamente alla normale temperatura.
Sono rimasta a contemplarlo in silenzio per lunghissimi istanti. Era di nuovo l’uomo che conoscevo. Il mio nobile, implacabile nemico che stava nudo e inerme davanti a me, e non c’era su di lui nemmeno una delle vecchie cicatrici. La sua pelle ancora una volta era un universo inesplorato. Ognuna delle cellule era mutata e sotto ai miei occhi stava un uomo nuovo.
Fino a che punto la trasformazione fosse scesa in profondità, fino a dove fosse riuscita a cambiarlo, lo avremmo saputo solo una volta che avesse ripreso conoscenza.
Per ora Harlock dormiva un sonno pallido e freddo.
Infine il vetro si era aperto e io avevo allungato una mano verso il suo viso, scostando una ciocca di capelli. Anche l’occhio destro era di nuovo integro, la palpebra incurvata sopra il bulbo, con le lunghe ciglia che disegnavano un arco scuro. Desideravo poterlo guardare presto in quegli occhi che, raddoppiando la potenza del suo sguardo, già sapevo mi avrebbero penetrata a fondo, in un modo che a lui in quanto uomo non sarebbe mai stato concesso.
Nonostante restasse una piccola ruga in cima al naso, traccia della lunga sofferenza che aveva appena patito, in quel momento pareva riposare sereno, ignaro di avermi al suo fianco.
Affondai di più la destra nella chioma scomposta e con l’altra mano gli sollevai appena il viso. La sua coscienza era ancora troppo lontana dalla superficie del presente per poter reagire. Navigava, forse, in qualche sogno lontano, fra ricordi veri e fosche inquietudini. Sebbene in quel momento Harlock fosse del tutto inconsapevole di se stesso, riuscivo però a percepire la sua personalità, forte e risoluta, e provavo una strana emozione a stargli accanto. In particolare era il contatto con la sua pelle, quel contatto così a lungo paventato e atteso, a farmi fremere dalla testa ai piedi, quasi che tutto il gelo necessario alla semi-criogenesi si fosse riversato all’esterno, in quella piccola stanza.
Forse si trattava soltanto del piacere delle conquista, della consapevolezza, che mi scuoteva il sangue, di tenerlo finalmente in mio potere.
Eppure non volli dare ascolto a nessuna di quelle voci. Ancora oggi fatico a confessare a me stessa che l’emozione più potente che provai in quel momento non fu la gioia impetuosa del trionfo, ma un sentimento di una natura così diversa che credevo di non poterlo più nemmeno riconoscere, oltre che possederlo.
Così sono tornata ad accarezzare il viso di Harlock, in silenzio, dalla guancia alla mandibola serrata. Era ancora così gelido da sembrare morto. Allora mi sono chinata su di lui e l’ho baciato sulla bocca fredda. E sono stata felice... felice che non fosse vero.





Dai file del tablet di Tadashi

Finalmente ogni cosa è di nuovo al suo posto. Forse anche troppo. Per la verità è come se non fosse mai successo niente.
La vita sull’Arcadia ha ripreso a scorrere con il ritmo consueto, scontri con le mazoniane compresi, e ognuno è esattamente ciò che è sempre stato. O finge di esserlo.


In questi giorni ho osservato a lungo il capitano e Yuki, cercando di capire dai loro gesti se ciò che era accaduto, quello che si erano detti, aveva cambiato qualcosa tra loro. Ma non si sono mai rivolti una parola né uno sguardo di troppo. O meglio, il capitano non lo ha fatto, trattando tutti con il consueto, imparziale distacco. Ma io mi sono accorto di come Yuki restava a fissarlo un secondo di troppo, di come cercava d’incrociare direttamente i suoi occhi, mentre lui impartiva gli ordini o assegnava mansioni.
Già, i suoi occhi. Come se ci fosse bisogno che li riavesse tutti e due per completare l’opera di seduzione. Così, tutto tirato a nuovo, sembrava quasi un ufficiale che ha appena stracciato l’uniforme per indossare la divisa da pirata, e anche se i suoi modi tradivano l’esperienza di anni da fuorilegge, con questo aspetto un po’ mutato esercitava un fascino inusuale. Non credo fosse quello di cui Yuki aveva bisogno. Di sicuro non ne aveva bisogno il nostro rapporto. Anche per questo alla fine mi sono deciso a parlarle più chiaramente.
Ho approfittato di un giorno in cui ci siamo incrociati al simulatore di volo.
Negli ultimi tempi mi pareva che non facesse altro che cercare di tenersi occupata, e il simulatoro o il tiro a segno erano solo alcuni dei diversivi ai quali ricorreva.
Tuttavia c’è da dire che, nonostante l’indifferenza di Harlock nei suoi confronti, fin dal principio Yuki non mi era parsa troppo abbattuta. E’ stato il nostro dialogo a svelarmi il perché.
Anche se lei non è stata molto chiara al riguardo, credo che il capitano le avesse accennato qualcosa prima di subire la seconda mutazione. Intendo qualcosa di ciò che provavo per lei, perché, quando le ho parlato, non ha mostrato molta sorpresa. Anzi, non ne ha mostrata affatto.
Mi ha ascoltato con grande tranquillità, solo un’espressione vagamente triste negli occhi.
- Sai quanto sia difficile per me parlare di queste cose, – ho balbettato, tentando di spiegarmi come meglio potevo. - Beh, forse non lo sai... ma è proprio perché il nostro rapporto è così importante per me che ho esitato per tanto tempo. Però ultimamente sono successe delle cose che mi hanno fatto capire che... insomma, forse dovevo essere più chiaro, con te, più sincero. E dovevo esserlo anche con me stesso.
Yuki mi fissava in silenzio, in viso quella stessa espressione un po’ triste. Sapeva cosa le stavo per dire prima ancora che parlassi, ma non ha fatto niente per impedirmelo. Forse voleva che mi togliessi quel peso, come si fa con un sasso dentro lo stivale.
- Vedi, io... - ho continuato. - Tu... sei molto importante per me. Tutti sull’Arcadia sono importanti, siete stati la mia nuova famiglia. Ma tu lo sei in un modo speciale, sei molto più di una semplice sorella o di un’amica. Con te è sempre stato tutto molto naturale, come se ci conoscessimo da una vita. E’ solo da un po’ di tempo che ho iniziato a riflettere su questo, a fare caso alla nostra famigliarità. Non lo so, forse tu te ne eri già resa conto... di quanto il nostro rapporto fosse naturale, intendo. Io ero troppo preso dal mio rancore per le mazoniane per accorgermene, o forse ero semplicemente troppo giovane. So che ora, con le mie parole, potrei cambiare tutto, ma preferisco correre il rischio e fare queto salto. Un salto nel buio, ma verso di te.
Per il resto del discorso, io e Yuki non eravamo riusciti a guardarci direttamente negli occhi. Yuki dopo un po’ aveva preferito soffermarsi sul buio spazio oltre la finestra. In quel modo però io potevo vedere il suo riflesso. Era così pensosa, ma le mie parole... le mie parole non parevano averla emozionata.
- Tadashi... ti ringrazio per la gentilezza dei tuoi sentimenti e per avermene voluto parlare. Capisco benissimo che nons ia stato facile. Non è facile nemmeno per me. Confessare ciò che proviamo per una persona è complicato e preferiremmo che se ne accorgesse da sola e che piano piano iniziasse a ricambiare il nostro affetto. Ma non è quasi mai così che succede.
Mentre parlava, mi resi conto che Yuki non si stava riferendo a me. Pensava a se stessa. Pensava ad un altro uomo.
- Vorrei semplicemente poter accettare ciò che mi offri, davvero, - ha aggiunto. - Ma io... io sto ancora aspettando. E non voglio arrendermi, non ancora. Non finché lui è qui. Capisci, vero?
Era la risposta che temevo, quella che sempre si era aspettato da lei. Eppure non mi fece male come credevo, forse perché c’ero preparato, o forse perché ero più forte di quel che immaginavo. E neppure la mia reazione fu quella che tante volte mi ero figurato.
Non battei in ritirata, né rimasi muto a fissarla come uno stoccafisso. Capivo benissimo di chi parlava e sapevo che tra me e lui non c’era confronto. Non ancora. Ma non per questo mi sarei arreso.
- Anch’io continuo ad aspettare, - dissi soltanto. - Non mi sono ancora stancato di aspettare.
La guardai: mi sorrideva. Sperai con tutto me stesso che un giorno quel sorriso sarebbe diventato un sì.





Dal diario di bordo del capitano

Ogni cosa sembrava essere tornata al suo posto, alla più banale normalità, ma non era così. Una volta che si è provocato un cambiamento, nulla può ritornare come prima. Soprattutto quando il cambiamento avviene in noi. E di cambiamenti ce n’erano stati tanti, accuratamente mascherati dietro le più salde apparenze.
In questo di certo ero il più abile io. Sapevo da molto tempo come si porta un manto di oscura freddezza e sapevo anche quanto pesa. In questo, lo riconosco, io e Raflesia eravamo simili.
Raflesia. In quei giorni il pensiero di lei perseguitava i miei sogni ed ero in sua compagnia più spesso di quanto avrei voluto.
L’ultima trasformazione mi aveva lasciato spossato in un modo che né io né il dottor Zero avevamo previsto. I primi tempi restavo a lungo nella mia cabina e dormivo più del solito. Il dottore diceva che non poteva farmi che bene e che il riposo avrebbe aiutato il mio corpo a rigenerarsi. In realtà mi sembrava piuttosto di perdere le forze, perché nei miei brevi sogni agitati continuavo ad incontrare lei. E avevo anzi l’impressione che si trattasse di ben più che semplici sogni.
Forse davvero veniva a farmi visita mentre dormivo, quando persino Mime lasciava la stanza? Erano reali le mani che qualche volta mi sfioravano, riuscendo ad infilarsi fin sotto le coperte, facendomi svegliare di soprassalto?
O forse si trattava soltanto di un’allucinazione, il frutto del turbamento lasciato da quel bacio (reale o immaginario) che era riuscita a prendersi poco prima che mi svegliassi, là dentro quella capsula? Perchè, per quanto fossero annebbiati i miei sensi, io sono certo di averla vista chinata su di me, i lunghi capelli come rampicanti scuri che scendevano sul mio corpo nudo quasi a volerlo rivestire.
Da allora lei ha perseguitato indisturbata molte delle miei notti, spezzando il sonno e lasciandomi talvolta ad ansimare nel letto, gli occhi aperti nel buio, senza voler raccontare a nessuno cosa mi accadeva quando cercavo di dormire. Non ne ho parlato mai neppure con Mime. E il perché è semplice, anche se forse non tutti possono comprenderlo. Ma era una cosa tra me e la mia nemica. Il nostro conto in sospeso che pagavo un poco alla volta. Il prezzo per aver accettato il suo aiuto.
E’ stato durante una di queste notti che Yuki è venuta a farmi visita, molto più reale del fantasma di Raflesia.
Era da poco passata la mezzanotte. Lo ricordo bene perché, uscendo dalla doccia dopo uno dei consueti incubi, avevo guardato la pendola sul fondo della stanza. Poco dopo qualcuno aveva bussato. Credevo fosse Mime e avevo pensato di farla entrare senza lasciarla ad attendere sulla porta, anche se addosso avevo soltanto l’accappatoio.
L’ho riconosciuta dopo, dalla voce.
- Oggi compio diciotto anni, - ha detto Yuki, avvicinandosi un poco. Trasalendo, mi sono voltato verso di lei. Indossava un abito lungo e reggeva fra le mani una bottiglia di rosso dall’etichetta ricercata, qualcosa di pregiato tenuto in serbo per le occasioni speciali.
- Posso festeggiarlo con te, il mio compleanno? - aveva posato la bottiglia sul tavolino di fianco al letto e si era avvicinata. - Soltanto un brindisi.
Il suo compleanno, Yuki non l’aveva mai veramente celebrato. Una volta Masu-san, credendo di farle piacere, le aveva preparato una replica scipita della torta che cucinava sua madre, mentre l’anno scorso proprio Tadashi le aveva organizzato una piccola sorpresa, in sala mensa, appendendo un grande striscione con la scritta “Happy Birthday” sopra la tavola. Per cena c’era solo minestra, ma anche in quel caso mi hanno riferito che Yuki ne era stata ugualmente felice. Me l’hanno detto, sì, perché io non c’ero né la prima né la seconda volta.
Adesso invece voleva festeggiare solo con me.
Diciotto anni non si compiono tutti i giorni, ma forse non era soltanto questo che le interessava. Un pretesto? Ci avevo pensato, per un istante, ma ugualmente non l’ho mandata via. Avrei dovuto farlo, come capitano. La verità è che avevo piacere che lei fosse lì con me, e non per via degli incubi causati da Raflesia.
Avevo piacere di fare quel brindisi, e di vederla. Era bella come una nuova stella e profumava più del vino. E non l’ho mandata via. Mi rendevo sempre più conto che, dopo la nuova trasformazione, nulla era cambiato nei sentimenti che provavo per lei. Tutto ciò che i miei quindici anni avevano risvegliato era ancora lì dentro di me, vigile e pronto come una tigre rimasta troppo a lungo sedata. E la tigre, in quel momento, faceva le fusa.
Quello che è successo dopo non può essere scritto, e quello che accadrà da qui in avanti nessuno di noi può ancora saperlo. Tutto in apparenza scorre come prima, ma siamo su strade aperte ancora da percorre, Yuki, Tadashi ed io. E anche Raflesia. Ognuno sta su di un sentiero che ogni tanto si biforca verso direzioni impreviste, ma cosa ci sia alla fine nessuno riesce ancora a vederlo. Però questa volta non voglio pormi troppe domande.
Resterò su questa strada e farò come ho sempre fatto: cercherò di godermi il viaggio.

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