Non mi basti mai

di DonnaBart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


E se un'inaspettata coincidenza si rivelasse ciò che desideri da sempre? La spumeggiante Magda Liquore è dinamica, determinata e chiunque le si avvicini ne rimane irrimediabilmente affascinato; il sogno nel cassetto di fare carriera come Event Planner, una zia impicciona e parecchio sopra le righe e, ciliegina sulla torta, dalla sua anche il perfetto connubio di talento e fortuna. Proprio così, almeno, in teoria. In quella dei suoi sogni! Anni, sogno di Planner e zia stralunata a parte, ponete tutte quelle qualità al contrario e otterrete solo uno spiraglio di ciò che è Magda: unica figlia femmina di tre, i suoi fratelli sono tutto ciò che un genitore, (soprattutto i suoi) possa desiderare. E mentre loro sono laureati a gran voti, hanno una carriera medica avviata eccellentemente e tanto di fidanzate al seguito, lei... È una disoccupata incallita; il padre la considera un talento del fallimento; ed è stata tradita e mollata dal suo primo ed unico fidanzato. Certo, l'amore è diventato l'ultimo dei suoi pensieri, ma è sul podio delle sue sfighe. Sino alla svolta... Trasferimento in Australia per un lavoro temporaneo ed un incontro tutto testosterone e antipatia. È Nathan Green, un concentrato sensuale di serietà e diffidenza, e seppur ha infranto qualche cuore, molti anni prima anche il suo è stato rotto. Chissà, che le stupide profezie della matta zia non s'avverino? Il viaggio di una vita, un vulcano pronto a svegliare la donna che è in sè e, forse, a stravolgere la vita di qualcuno...

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


Se qualcuno mi avesse mai domandato come tutta quella faccenda avesse avuto inizio e come mai avessi preparato armi e bagagli per un'improvvisa gitarella in quel di Pisa, avrei potuto attingere a un vasto armamentario di scintillanti risposte:
—"Sono qui, per barattare il certo con l'incerto!";
—"Sono qui, perché ho la viva e vibrante intenzione di dare colore al mio monotono e grigio avvenire!"
Un tantino solenne, l'ultima. Roba da pronunciare impettita e imbrogliona come un politico alle elezioni, ma se mai qualcuno avesse avuto la curiosità di domandarmelo, ero paciosamente convinta di poter contare su una gamma di alternative vasta e degna di nota. Tanto, alla fine avrei tirato fuori sempre l’unica e sola ermetica risposta:
"Rosa."
Rosa e le sue folli previsioni.
Mia zia Rosa e i suoi ridicoli, profetici modi di dire...

...Quando, il pomeriggio della precedente settimana, avevo ricevuto il messaggio: “Raggiungici appena possibile, ho degli aggiornamenti per te!” dal proprietario della pizzeria presso cui svolgevo la mansione di tuttofare, la mia indole propositiva aveva già fatto una cernita fra le posizioni in cui sarei potuta avanzare, che spaziavano da “portatrice ai tavoli - livello manageriale” a “master in sparecchiamento rapido di tavole”; più tardi, quella stessa sera, avevo dovuto spiegare ai miei che la realtà era andata ben oltre la mia immaginazione...
"Hannodovutolicenziarmi!"
A furia di prendere e perdere coraggio al ritmo di un ballo caraibico, finalmente rivelai d'un fiato, all'incirca a metà cena, e il silenzio che seguì trasformò l'aria della stanza in ghiaccio antartico: la mia rivelazione generò in casa un clima talmente gelido che scommettevo avrei scorto da un momento all'altro Jack e Rose, a lottare per la vita su di un qualche segmento di ghiaccio disperso qua e là fra la mobilia, e li avrei aiutati; avrei cambiato il loro destino, quello del Titanic stesso, non altrettanto il mio.
"Dovuto, dovuto, hanno dovuto un corno!"
Ne diede prova mio padre, le cui mani si scatenarono pesanti contro il tavolo, provocando lo scricchiolio di piatti, bicchieri e posate, e di mia madre, quasi strozzata dallo spavento causato dal timbro iper carico di mio padre.
Pur seccata da quella situazione, che aveva tutte le caratteristiche della normale amministrazione familiare negli ultimi tempi, ero naturalmente ben disposta a concedere loro tutte spiegazioni del caso, consapevole che così come mio padre aveva ripugnato ogni desiderio o propensione professionale da me avanzata, che non fosse diventare l'avvocato, tutt'al più medico che aveva sempre preteso fossi, qualsiasi motivazione avessi addotto al mio licenziamento, non sarebbe stata abbastanza.
Era ufficiale: il gazzettino di casa Liquore riportava che stava per abbattersi una discussione categoria quattro della scala di pericolosità degli uragani, quando l'unica e sola che aveva il potere di stroncare ogni tempesta fece il suo ingresso trionfale, sfornando una delle sue imprecazioni improponibili in una ramanzina tutta dedicata a mio padre, che, battibeccato blandamente con sua sorella, fiondò iracondo il tovagliolo sul tavolo, strisciò indietro la sedia e turbinò fuori dalla stanza.
Per fortuna mia madre non soleva inveirmi contro come lui, nemmeno mettersi dalla mia considerato che la pensava esattamente come mio padre, non a caso tamponò le labbra con fare regale, rivolgendosi a mia zia col tono di superiorità che la caratterizzava.
"Tuo fratello è esagerato nei modi, lo riconosco e mi dispiace, ma devi convenire che ha ragione: Magda negli ultimi tempi è una mina vagante; una laurea in giurisprudenza cestinata, velleità mediocri che non rendono giustizia a lei, men che meno alle aspettative che nutrivamo nei suoi riguardi! Siamo i suoi genitori, ci spetta indirizzarla sulla giusta strada."
Mia zia puntò su di lei uno sguardo micidiale, non guizzava un muscolo né batteva mai le palpebre, confinandola a un silenzio assoluto, suo personalissimo modo di snobbarla senza ritegno, stimolando i sintomi d'irritazione sorti sul volto di mia madre e con i quali anche lei abbandonò infuriata la scena...
A quel punto toccava a me, che con la forchetta tra le mani e la bocca ancora piena di un impavido boccone intercettai con la coda dell'occhio Rosa torreggiare sulla mia figura con terrificante candore, mani issate sui fianchi e un'aria che definire bellicosa era un eufemismo.
"Dove stanno le valigie?"
Non avevo l'elmo.
Non avevo uno scudo.
E quando gli occhi le si stringevano fino a rimpicciolirsi, riuscivo a sentire il sottofondo di Profondo Rosso.
Non le risposi subito, perché non avevo preparato alcuna valigia, cosa che aveva ovviamente subodorato dall'atteggiamento di negazione con cui avevo bocciato il suo suggerimento poco prima...

Terminato l'incontro col proprietario di Miracoli di Pizza, appena rincasata avevo incontrato mia zia Rosa, madre di Roxy nonché abitante del mio stabile—stesso pianerottolo, appartamento di fronte a quello della mia famiglia—in attesa di risposte.
"E parla! È andata bene, sì o no?
La mia risposta aveva trasformato il suo sguardo color oceano nelle profondità inesplorate di abissi oscuri e, sul baccano di lampi, tuoni e fulmini, aveva lugubremente proclamato:
"Sai che ti dico? Va' a preparare le valigie! Andrai a trovare Roxy per qualche giorno!" Spaventosa, più del Dottor Frankenstein nella sua più celebre citazione: “Si-può-fare!”, aveva continuato: "Ne uscirà qualcosa, qualcosa di buono! Me lo sento!"
E mentre lei sigillava la decisione col frastuono categorico di un battito di mani, io trascinavo le mie guance verso il basso, sentendo la mia calma interiore farsi sempre più vicina a quella de L'urlo di Munch...

"Roxy è sempre chiusa in laboratorio." Tornai di nuovo a rifiutare. "Che dovrei fare lì, raggiungerla per interagire con le sue cavie? Non ci andrò."
La mia obiezione ebbe quel tanto di irremovibile da farle dismettere i panni da osso duro, per irrompere in atteggiamenti dispettosi pari ad una bambina da nido, ma ben più efficaci.
"Ah sì?"
Una delle sue dita vorticò nell'aria, un piglio di sfida si annidò sul suo volto. "Quella di oggi sarà solo una delle conseguenze che dovrai affrontare dopo la buona nuova di stasera, tutto il giorno, tutti i giorni. E, malgrado il suo linguaggio forbito del cavolo, tua madre non ha tutti i torti: è un periodo in cui qui, per te, non c'è niente. Ma se a te sta bene, chi sono io per fermarti? Accomodati pure, funghetto!"

L'amara consapevolezza che Rosa aveva pienamente ragione mi investì con l'ineluttabilità di un treno in corsa e la settimana dopo eccomi lì, a Pisa, a barattare il certo per l'incerto; un monotono e pressoché grigio avvenire per qualcosa di migliore. Qualcosa, che in quel momento corrispondeva a starmene compressa in modalità sardina nella scatoletta che era diventata il tram, con tanto di signora talmente spalmata sul mio fianco che entro la prossima svoltata in scioltezza del tram mi avrebbe dovuto caparra e prime dieci fermate di fitto, una giornata trascorsa fra colloqui peculiari e distribuzione di curriculum sotto la pioggia ininterrotta alle spalle, e la voce di mia cugina Roxy, giovane e affermata biologa trasferitasi in quel di Pisa per un progetto di ricerca in collaborazione con l'università, a stordirmi concitata persino dall'altro capo del cellulare, facendo saettare me e la signora che mi albergava addosso, come due alici sott'olio.
"Si può sapere dove sei finita?! E perché non rispondi? È la terza volta che ti chiamo!" Per me, Roxy era più semplicemente una ricercatrice che qualche collega aveva a sua volta tramutato in cavia, iniettandole intrugli dallo sproloquio come effetto collaterale.
..."Perché oggi ho esaminato per dodici ore Crestina, la gallina che adoro. Così ribelle, femminista... una stronza, pure! Appena l'ho riportata dalle comari, non mi ha degnata di un saluto. Gallinaccia spelacchiata..." Mentre Roxy continuava a ciarlare il suo monologo, pensai che un po' la capivo, con la faccenda della gallina: la signora che era diventata una specie di mio filamento era scesa un paio di fermate prima, e non mi aveva nemmeno ringraziata.
..."E ora sto morendo di fame, ho mandato Stefano a prendere qualcosa da mangiare, ma non so se riesco ad aspettare: riesci a rincasare fra, diciamo, dieci nano secondi?" Mezz'ora più tardi averle rimbeccato il via libera per cenare anche senza di me, che avrei provveduto alla mia cena facendo un salto presso il ristorante indiano più vicino all'appartamento di Roxy, mi apprestai a depositare un paio di litri d'acqua piovana sullo zerbino, prima di entrare in casa: ed ecco mia cugina e Stefano, la sua frequentazione fresca di laboratorio, accoccolati sul divano, con i rimasugli della cena sul tavolino di fronte.
"Hola, compañeros!"
Urlai, avevo anche battuto un piede sul pavimento in perfetto stile Mahori da stadio, lo scopo di riscuoterli da quella che aveva tutta l'aria di essere una monotona, noiosa serata di coppia.
E, okay, in realtà l'avevo fatto solo perché invidiosa della loro tresca...
Nel mentre ciondolavo fino al divano, al di fianco del quale lasciai cadere la borsa, abbandonando il mio umido didietro sull'invitante piazza.
"Dovessi ammalarmi di broncopolmonite acuta, ce la prenderemo con zia Rosa e le sue stupide macumbe."
Soffocato involontariamente uno stranuto, avvertii un'effervescente pizzicore percorrermi le narici per salire fastidiosamente sulle tempie, e chi avrebbe mai immaginato che la mia innocente battuta avrebbe assalito Roxy in una tosse convulsa, creando un effetto domino per cui la sua testa picchiò contro il mento di Stefano, che la reclinò con un guaito addolorato.
"Non ti avrà rifilato il “me lo sento!”" sbiancò Roxy tra un arresto cardiaco e l'altro, il un tono e sgomento a darmi ragione di pensare che mi trovavo nell'incipit di un film horror.
"Bingo?!"
Replicai incerta, e volto e palmi della scienziata si scagliarono gli uni contro gli altri, grondanti di disperazione.
"L'ultima volta che mi ha rifilato quella sentenza, nel giro di un'ora mi hanno scippata, ho battuto contro una vetrata trasparente spuntata improvvisamente da qualche universo parallelo e poi, beh poi..." Roxy si chiuse nelle spalle, tentennando il capo in direzione di Stefano. "Ho incontrato lui."
Sollevato lo sguardo suo compagno ancora dolorante, colsi lo sguardo di mia cugina intiepidirsi, senza tuttavia ammorbidire la convinzione con cui aveva deliberato sulle massime di nostra zia.
"Sei una donna di scienza, non ti è concesso credere a certa roba." Mugugnai stanca. "E comunque, parliamo di zia Rosa, sarà solo uno dei suoi mille ambigui modi di dire."
Il mio sbadiglio chiuse l'argomento, in realtà Roxy blaterava argomenti a promuovere la sua tesi, ma avevo già reclinato il capo sul poggiatesta e socchiuso le palpebre, in corsa verso un po' di agognato relax.
"Stavo pensando, i turni di laboratorio non ci hanno permesso di fare una chiacchierata da cugina a cugina..."
I miei occhi scattarono aperti: dagli ondeggiamenti del divano, non avevo bisogno di voltarmi per scoprirla con le sembianze del peggiore degli strizza cervelli. Addio, relax.
"Bagno caldo, broncopolmonite in arrivo."
Scattai in piedi prima che fosse tardi, ma in effetti era già troppo tardi, a detta della presa assassina della sua mano intorno al mio braccio.
"E dai! Sto sempre chiusa in laboratorio, la mia vita sociale è ridotta a cavie, galline menefreghiste e topi da esaminare, qualche chiacchiera sui ragazzi che frequenti non ti farà venire l'orticaria."
"Le soap opera, Roxy: ecco, come compensare le tue carenze di inciuci."
Stavolta mi sollevai in una mossa fluida e decisiva, azzerando le chance di ulteriore placcaggio.
"Dico solo che dovresti divertirti di più, è parecchio che non esci con qualcuno. Devi superare le cattiverie di Daniel, sei giovane, e lui solo un coglione." Le sue labbra si arcuarono pensose. "Mezzo", rettificò, e serrai a fatica le mie, dandomela a gambe per il breve corridoio verso il bagno.
"E non sottovalutare Rosa!"
Mi redarguì con intonazione seria. "Sii preparata per la profezia! Con lei funziona sempre così: disastri atomici, tanti guai, e poi forse, ma dico forse, un po' di fortuna."
Profezia. L'aveva davvero chiamata profezia.
Santo cielo.
"Tranquilla, su di me non farà alcuna presa!"
Strombazzai di rimando, orbitando gli occhi al soffitto e sigillandomi dietro la porta del bagno. "Ero messa male già prima delle sue predizioni..."
Borbottai con per niente velato sarcasmo, mentre mi preparavo a una doccia veloce per poi raggiungere il ristorante indiano più vicino.

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***


Giunta al ristorante indiano situato nei pressi dell’appartamento di Roxy e ordinato il mio amato pollo al curry, lasciai vagare lo sguardo nella sala arancio sgargiante popolata da coppiette affamate, amiche sorridenti, un tizio carino e solo, e, in un angolo, una famiglia con i bambini intenti a lanciarsi sui pouf colorati, sotto la stressata attenzione dei genitori.
“Dico solo che dovresti divertirti di più, è tanto che non esci con qualcuno…”
La voce scientifica di Roxy corse alla mente e in un battito di ciglia il tizio sexy e solo ai miei occhi: bruno, muscoli da wrestler dopato, sfoggiava anche un manto piuttosto villoso mentre sfogliava il menù. Non esattamente il mio genere quello latino e mannaro, ahimè Roxy non aveva tutti i torti: a ben dire, si prospettava la perfetta occasione per dare un po’ d’olio alle doti seduttive arrugginite.
D'accordo.
Sospirando tesa, lisciai il tessuto del mio vestitino a fiori, ravvivando i capelli con le dita mentre il ragazzo volgeva lo sguardo intorno a cercare qualcuno.
Un cameriere forse?
Ad ogni modo, prima o poi avrebbe incontrato il mio volto, quindi ne approfittai per dar vita al tentativo di seduzione: arrotolando una ciocca scura dei miei capelli intorno all'indice, mordicchiai il labbro inferiore, curandomi di inclinare lentamente il capo da un lato; la caviglia mi accarezzò l'interno del polpaccio in fare languido, tutto in un'ardua impresa, più che seduttiva, di mantenere la posa senza rovinare per terra.
E, oh. Energumeno peloso mi aveva notata.
Cavoletti di Bruxelles, se mi stava squadrando tutta!
Erano mica denti quelli che spuntavano dalle labbra sottili? Mi stava sorridendo.
E chi se l'aspettava, un gioco da ragazzi! Se con la Bellucci avevo in comune a stento il colore di capelli, e alle sciocche macumbe di Rosa non ci credevo mica, tutto si riduceva ad una grandiosa, generosa botta di...
Era il momento: Energumeno si stava dirigendo verso di me.
Respira, Magda. Che saranno quattro chiacchiere?!
Posso farcela.
Peccato che non uscendo con un ragazzo in un formale appuntamento più o meno dai tempi di Twilight, mi sfuggiva un tantino la natura delle chiacchiere leggere, da primo approccio. Poco male, la sua peluria mannara e la mia esperienza in materia di flirt rimasta all'anno dei Cullen ci avrebbero legati in un imprinting di tutto rispetto.
Ormai prossimo, Energumeno mi si avvicinò con movimenti fluidi, rifilandomi un'occhiata secca per poi mirare avanti: non è che ci volesse un professionista per capire che stava usando la strategia da playboy che non deve chiedere mai. Roba trita e ritrita.
Imitando il suo fare smargiasso gli indirizzai quello che nelle intenzioni doveva essere un occhiolino seducente, quindi ripiegai verso il bancone in un movimento che speravo, pregavo sinuoso. Lo spostamento d'aria alle mie spalle segnalò che il tizio mi aveva appena superata a passo spedito, dunque il grosso era fatto.
Il dado era tratto.
A quel punto avrei dovuto ignorarlo nell’attesa che attaccasse bottone. Certo, il fatto di essere all’oscuro di ciò che accadeva alle mie spalle per un intero minuto rischiò di farmi piantare radici nel ristorante...
Stufa marcia, più veloce di un pistolero del west rigirai su me stessa per capire che intenzioni avesse il tizio e perché diavolo ci impiegasse così tanto per affiancarmi al bancone, giusto in tempo perché mi colpisse uno schiaffone metaforico in pieno viso: altro che Bellucci e allure fatale.
Era la rossa attorcigliatagli contro come un rampicante, intenta a slinguazzarlo senza un domani, quella che doveva raggiungere! Ed era talmente preso dal suo preliminare di accoppiamento che in realtà non mi aveva notata nemmeno per errore. Ottimo, perché la coppietta accanto a me aveva visto molto e intuito abbastanza, ragion per cui mi stava deridendo con nonchalance.
Mi voltai per afferrare la cena che Tajin, il proprietario del ristorante, mi sventolava sotto il naso, pronta a fuggire via da quella stupida sala e desiderosa di divorare nient’altro che il mio pennuto speziato in assoluta solitudine anacoretica. Non a caso la mia andatura spedita era talmente veloce che, appena uscita dal ristorante, non riuscii ad evitare la collisione con un caterpillar: un uomo.
Ma certo. Chi altri, sennò?
In pochi attimi mi ritrovai sbalzata all'indietro, a roteare le braccia all'aria nel disperato tentativo di recuperare terreno, finendo solo per perdere l'equilibrio e il mio tanto agognato pollo.
Furono due braccia possenti a interrompere la mia maratona verso il suolo: le sue mani artigliarono i miei fianchi fino a ridurli di qualche taglia nel giro di secondi, a dispetto dei lunghi anni di diete mal riuscite, ed un profumo di fresco e pulito mi riempì le narici. Il mio sguardo atterrò casualmente sul suo profilo, celato per metà a causa della precaria posizione in cui ci ritrovammo abbracciati: solo mezza mascella, ma incredibilmente squadrata; un solo occhio, ma parecchio azzurro, e capelli di un biondo non troppo scuro, uniti al movimento brusco con cui mi aveva improvvisamente catapultata a testa in giù, furono sufficienti a provocare il reset immediato delle mie facoltà cognitive.
Come un intruglio che stordisce istantaneamente dimenticai dov'ero, perché mi trovavo in posizione da casquè argentino fuori da un ristorante indiano, e tutti i disastri del periodo, con la vista occupata da nient'altro che quei tratti e le narici inondate dal suo odore che stava accedendo direttamente alle mie sinapsi.
L'omicida staccò un braccio dal mio corpo per chinarsi a raccogliere la mia cena, permettendo agli avvenimenti della serata di rifluire al loro posto. Compreso il ricordo della fresca figuraccia nel ristorante, scatenando un disappunto tale da convincermi a non perdere altro tempo: dovevo tornare a casa senza degnare quell'uomo, come tutti gli altri, del mio tempo. In fondo avevo il mio pennuto da ingerire, ed una coppietta felice di scienziati da invidiare per il resto della serata.
"Ti sei fatta male?"
Sgranai gli occhi al pensiero che Roxy avesse ragione, che avevo davvero bisogno di immettermi nuovamente nel giro degli appuntamenti perché, da quando una voce virile riusciva ad agitare parti intime a mo’ di maracas?!
"Andavo di fretta, credevo ti saresti scansata per tempo. Dovresti stare più attenta quando cammini."
Cioè… a momenti mi mescolava all'asfalto, a momenti mi riduceva ad una stampa in stile CSI - Scena del crimine, e il tipo osava davvero bacchettare?
"Veramente, sei stato tu a piombarmi addosso. Avendomi vista, avresti dovuto scansarti tu per tempo!" Scimmiottai senza cercare il suo volto, ma riuscii a percepire il ghigno che affiorò sulle sue labbra, abbastanza irritante da portarmi a strappargli il mio pollo, ormai tramutato in schiacciatina, dalle mani.
"Le ragazzine sbadate dovrebbero avere il coprifuoco, a quest'ora."
L’ombra di un sorriso oscillò sul mio volto mentre lo aggiravo per allontanarmi, consapevole del suo sguardo che mi bruciava la schiena e del suo profumo fresco di montagna che inalai un’ultima volta.
"Anche i mentecatti."
Mi sentii rimbeccare a gran voce, filando via.

~

L'indomani pomeriggio mia cugina mi aveva trascinata al parco, dove ci sarebbe stato Stefano ad attenderci, per assistere ad un concerto di una band locale.
"Ieri hai accennato ai colloqui. Racconta."
Roxy sovrastò la musica portando la sua voce urlante direttamente nel mio timpano.
"Ne ho sostenuti due per commessa" biascicai prendendo un sorso d'acqua, "e quello all'università. Il selezionatore era così sordo che mi ha chiesto di ripetere ogni singola parola! Avrei potuto perdere i sensi, dopo ore di continui bis, e scommetto che avrebbe chiesto di ripetere anche lo svenimento!"
A lei, invece, le orbite stavano per uscirle di fuori.
"Hai incontrato il Professor Scianse!"
Saltellò sul prato inglese del parco, con le parvenze di una moderna cavalletta. "È un angelo custode, mi ha inserita nel miglior gruppo di ricerca dell'intero ateneo! Presidente e Papa farebbero la fila per un appuntamento con lui, capisci, Mag?"
Dondolavo la testa su e giù al ritmo dei suoi balzi entusiastici.
"Ti dirò di più, c'è un trucco per ingraziarselo: colpirlo, Mag. E farai affari sensazionali."
Io stavo pensando che avrei potuto suonare con quella band locale… non perché me la cavassi con la musica, esattamente per il contrario.
"Non è un tantino tardi per certe perle? Avresti potuto avvertirmi prima che colpirlo avrebbe tirato acqua al mio mulino, avevo mille motivi per picchiarlo dopo le ore di continui bis..."
Roxy incrociò le braccia sul petto, stringendo le labbra in una smorfia seccata.
"A dirla tutta—parlando sottovoce e con fare cospiratorio—m’intriga molto uno dei colloqui per commessa.
Gli occhi le si rimpicciolirono, stuzzicata dall’improvvisa aria di segretezza.
"Curiosità e inesperienza faranno di me la commessa ideale per un negozietto di oggettistica erotica!" Sparata così, a gran voce con tanto di braccia spalancate, era probabile che ricordassi qualche esaltata presentatrice tv.
Le braccia di Roxy caddero pesanti ai lati del busto. "Sarà, io non ti ci vedo fra verghe e dildi." Liquidate le mie fandonie, proseguì con le sue. "E poi, colpirlo in senso positivo: intendevo, entrare nelle sue grazie, Mag! E credimi se ti dico che con lui è tutta, solo, questione di alchimia. Spero tanto sia il tuo caso!"
La giornata calda, il parco colmo di gente ed il baccano della band facevano da scenario perfetto per un po’ di relax. Negli ultimi tempi, proprio ciò che serviva. Per fortuna i due piccioncini non amoreggiarono troppo, per cui il tempo trascorse velocemente fra chiacchiere e aneddoti divertenti.
"Ehi, comunque ieri sera mi è preso il panico quando non ti ho trovata in camera. Un avviso, un messaggio, un segnale di fumo, no, eh?" Inveì mia cugina dal sedile anteriore, mentre Stefano ci riportava a casa.
"Sono stata via il tempo di prendere la cena, e ho anche pensato d'avvisarti, ma ho inavvertitamente intercettato il vostro dibattito... scientifico?"
Stefano rise, captando il riferimento alla loro notte bollente, Roxy fremette sul sedile. Poi gli assestò una gomitata leggera al braccio.
"Rilassati, mia sexy ricercatrice, non ho ascoltato altro! Sono corsa via immediatame—
Una vibrazione mi scosse le gambe, spaventandomi a morte.
"Signorina Liquore?"
"Sì?"
"Sono il Professor Scianse, abbiamo intrattenuto ieri un colloquio presso il polo universitario. La chiamo per comunicarle delle informazioni interessanti quanto urgenti."
"Certo, mi dica!"
Strillai, nel timore che se non era riuscito a sentirmi a mezzo metro di distanza, figurarsi all'altro capo del telefono.
"Ho visionato la sua documentazione e devo dire di aver preso a cuore la sua situazione. A tal proposito, ho provveduto ad inserirla in un progetto lavorativo che si terrà all'estero, in seguito al forfait di una delle partecipanti."
Ah. La mia gola era completamente secca.
"Un progetto di tale portata, inserito sul suo Curriculum, le aprirebbe naturalmente molte porte... la durata è di due mesi, le spese a carico del progetto, ma dovrà dare risposta positiva entro domattina, via telematica, o il posto vacante verrà automaticamente sostituito. Vede, il primo gruppo, il suo perlappunto, partirà per Sydney il prossimo lunedì."
Oh. Ora la mia gola era completamente andata.
"Signorina, capisco che venirne a conoscenza una settimana prima potrebbe rendere il tutto confuso e spaventoso..."
Ci poteva giurare! Va bene il gene dell'avventura, ma quello del preavviso, no?!
"Sono grata che abbia tenuto in considerazione il mio nome, professore, è... è fantastico." C'era sincerità mista ad esitazione nella mia voce.
"Inutile dirle che si tratta di una chance imperdibile per il suo futuro lavorativo. Qualsiasi dovesse essere la sua scelta, potrà visionare i dettagli nella mail che le ho inviato. E porti i miei saluti a sua cugina! Una delle ricercatrici più scrupolose mai conosciute. Avete lo stesso carisma, voi due. Buona fortuna."

~

"Siamo d'accordo, al tre?"

Stefano si rivolse a Roxy, che gli regalò un sorriso complice ed un cenno d'assenso. Imitandoli, alzai il mio shot verso il centro del tavolino.
"C-AAANGURI! CANGURI! CANGURI!"
Più tardi, quella sera, il tintinnio dei bicchierini in vetro fece sciabordare la tequila al loro interno, versandola sul tavolino in legno del pub scelto per brindare, proprio di fianco al ristorante di Tajin. Decisi che partire sarebbe stata la scelta migliore di quel periodo, sebbene i miei non si fossero dimostrati esattamente propensi, motivo in più per farlo, convinti che se avevo mandato all’aria la carriera di avvocato in Italia, figurarsi cosa avrei potuto combinare in Australia.
"Bleahhh!"
Mi sciolsi in un'espressione disgustata, dopo aver mandato giù il contenuto di un bicchierino.
"Quest'intruglio mia madre lo userebbe per disinfettare i sanitari di casa. E lo chiama acido muriatico, non tequila!"
"I brodi di zia Rosa contengono il quaranta percento di veleno: sei equipaggiata a sopportare ben altro. Andiamo a farci un giro in pista!"
Scatenandoci senza il minimo interesse per il mondo che ci attorniava, eseguimmo passi di danza degni di Dirty Dancing versione Alcolisti Anonimi sotto le note di Bailando dirottate in quelle di Hot line blink, sino a che Stefano decise di tamponarmi sulla pista per ballare con Roxy, lasciandomi come un carciofo sul posto. Imbronciata, li osservai tubare felici prima di avviarmi giravoltando verso il bancone del bar. Finendovi spiattellata contro.
"Che ti porto?"
Il barista tentò di sovrastare la musica del locale, mentre io riprendevo fiato.
"Una bombola d'ossigeno?!"
"Spiacente, l'ultima l'abbiamo venduta a lui." Accennò con un’alzata del capo alla pista, dove un sessantenne ci provava con una ventenne. No, con tutte. Qualcuna sembrava starci.
"Andrà bene una flebo in ghiaccio." Conclusi sorniona, mentre il barman si apprestava a prendere altre ordinazioni.
La tequila muriatica, la musica assordante e il mio stomaco da astemia mi rendevano talmente allegra che il senso di leggerezza della testa e le vampate s'impossessarono, prima di quanto programmato, delle mie facoltà cognitive. Eppure, in tutto quel marasma dei sensi, fui certa di sentire una voce dal tono suadente, che accelerò il flusso di alcol e adrenalina nelle vene all'istante.
"Guarda un po’ chi si rivede. Credevo che le ragazzine sbadate avessero il coprifuoco, a quest'ora."

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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***


Voltandomi per dirigermi ad infastidire la coppietta di scienziati—giusto per non ostentare il fatto che me ne stavo abbarbicata a quel bancone come se non avessi nulla di meglio da fare in una serata piena di musica e gente—non avrei mai pensato di trovarmi di fronte alle iridi del celeste più carico che potessero esistere. Incredibilmente luminose, persino alle luci soffuse del locale riuscivo a scorgere le pagliuzze blu che creavano il netto contrasto col celeste, rendendolo inverosimilmente intenso.
Delirare al primo shottino di tequila.
Considerato il bagliore che quasi emanavano nell'ambientazione opaca, ne approfittai per regalarmi una panoramica che partiva dal suo volto: i capelli di un biondo scuro, piuttosto corti, il setto nasale impercettibilmente frastagliato, le spalle ampie e i pettorali torniti racchiusi in una camicia bianca, a sigillare l'immagine che si insinuò nella mia visuale.
E non solo lì…
Gli effetti dell'alcol muriatico, ecco cos'erano. Non a caso…
"Freccia verde!"
Mi sentii risolvere bruciapelo, come se avessi appena azzeccato la soluzione alla domanda da un milione di euro di un immaginario show televisivo.
Brilla, ero brilla, bono, era bono, la tequila è tequila... ma non mi sbagliavo mica! Quell'uomo era davvero una degna copia del giustiziere del telefilm, forse più affascinante, perché le mie parti basse presero a fremere di gradimento.
Ti va di giustiziare un po' io e te e te, supereroe?...
Come se avesse intuito ognuno dei singoli pensieri libidinosi che turbinavano nella mia mente, la sua espressione venne inondata da malizia pura, plasmandogli le labbra non eccessivamente carnose né scarne in un sorriso degno di cambiale.
"Che hai detto?"
"Niente."
Graffiai a tempo zero, rigirando con uno scatto verso il bancone: mi ci avvinghiai come se di sotto avessi le gole del Grand Canyon, godendo della refrigerante sensazione della superficie in acciaio sulla quale Roxy mi avrebbe impedito di scatafasciarmi—"Hai una vaga idea dei posti in cui quelle cavie da discoteca abbiano posato le manacce, prima di disseminare i loro germi su quel bancone?"—e tutta la faccenda mi risultò indicibilmente irritante: non capivo perché il mio corpo reagiva con febbri da cavallo, terremoti cardiaci 5.5 scala Mercalli e tremori non identificati in zone abbandonate dall'uomo. Dopotutto lui era solo un uomo, ed io non ero mai stata un tipo cedevole, nemmeno alle prese con patrimoni genetici da patrimonio UNESCO. La mia esperienza non imbrattava molte pagine, quella che possedevo mi aveva reso gagliarda abbastanza da non lasciarmi abbindolare da grandiose masse testosteroniche molto spesso combinate a giganteschi inutilizzi di massa grigia.
"Whisky single malt, doppio."
Appresi nel baccano, percependo che non si era nemmeno rivolto al barista: l'uomo aveva parlato fissando me, che non smettevo di scrutare, decifrare e memorizzare la selezione di bottiglie come se avessi dovuto sostenere un esame da bar lady da un momento all'altro.
"Riuscirai a guardarmi questa volta?"
La domanda si librò nell'aria e lì restò sospesa, in attesa che qualcuno esaudisse risposta. Aggrottai le sopracciglia tanto da trasformarmi in Frida: ma, ce l'aveva con me?
“Riuscirai a guardarmi questa volta?”
Rifletti.
“Guarda un po' chi si rivede...”
Ricorda.
Conoscevo quella voce.
“Le ragazzine sbadate dovrebbero avere il coprifuoco, a quest'ora.”
Avevo già sentito quelle parole.
Riflettei, ricordai, il risultato fu che i miei occhi si sgranarono, forse anche la bocca quando gli ultimi neuroni rimasti sobri giunsero alla conclusione che...
Freccia Verde, il caterpillar, tanti nomi, una sola identità.
Lui, era...
Strappai d'impulso il bicchiere che il barman gli aveva servito dalle sue mani, portandolo alla bocca soppesai l'uomo che mi mirava con piglio astratto. E bevvi. Lentamente, assaporai un singolo sorso, lo trattenni sul palato a degustarlo, a ispezionarlo, a interrogarlo silenziosamente, tutto sotto il suo sguardo abbagliante.
Lui era... ilsexyomicidadelgiornoprima!
E a giudicare il modo in cui mi puntava, sembrava non avesse mai visto qualcuno bere...
"Quindi mi stai pedinando."
Debuttai impavida, passando in rassegna l'idea che potesse eventualmente trattarsi di uno stalker.
"O tu stai pedinando me."
La sua risposta fu altrettanto istantanea.
Il bicchiere che stringevo mi venne improvvisamente strappato dalle mani.
"Ehi!"
Composi un muso stizzito, attirandovi istantaneamente la sua attenzione che nella scarsa luce offerta dal locale parve accendersi. Mordicchiai le labbra per reprimere il principio di un sorrisetto immotivato, in fondo mi erano consentite certe idee romantiche: era tequila.
"Parlare non fa per te."
Un moto di energia, irritazione e adrenalina ripristinarono la mia lucidità abbastanza da inveire. "Eri decisamente meglio quando tacevi: almeno avevo solo il dubbio."
"Dubbi su cosa?"
Incalzò la sua voce, a malapena interessata alla risposta.
Un leggiadro movimento della testa mi riportò nei suoi occhi svogliatamente incuriositi, un sopracciglio sollevato, potevo definirlo annoiato.
Non sapevo chi fosse, non sapevo come e perché ci stessi bisticciando col talento di una bambina, ma avevo la certezza che quel tizio conoscesse tutti i segreti per indispettirmi.
"Che fossi uno stronzo."
Beccai senza esitazione, santa tequila muriatica del coraggio.
"Strano."
Il fare da guascone consumato, Freccia incurvò in alto un solo lato delle labbra, accostando la schiena contro l'acciaio del bancone come se fosse il padrone del locale. E del mondo intero.
"La dilatazione delle tue pupille e la pelle d'oca sembravano apprezzare la mia attenzione da stronzo."
Che deficiente presuntuoso!
Ma, in effetti...
Per essere bello, sembrava piuttosto sveglio.
Virai di nuovo verso il bancone ignorando la vampata: la sua voce risuonò irritabilmente suadente.
"Visto? Adesso mi hai tolto ogni dubbio." Saltellai una, due... non smettevo di saltellare sul posto. Dovevo pur mandare l'aria da grande femme alle ortiche col singhiozzo, che gli aveva strappato un sorriso divertito ed una mia occhiata in tralice.
"E anche tirchio. Immagino, che per te sia una pratica amorfa, ma, sai, capita che i ragazzi offrano da bere alle ragazze nei pub. Funziona così" istruii con voce da maestrina, grondando sarcasmo.
Un sarcasmo prontamente ricambiato. "La pratico spesso... ma solo con le ragazze con cui intendo provarci."
Se qualcuno non le fermava, le mie ciglia non avrebbero placato lo svolazzamento inconsulto mentre assimilavo il senso delle sue parole. Touché, Freccia. Il colpo basso con cui sbandierò che non ci avrebbe provato con me mi urtò di sfuggita, quindi optai con una dose di orgoglio condito da indifferenza, ignorando il lieve sogghigno convinto di aver fatto breccia nel muro della mia sicurezza, sgretolandone qualche frammento.
Sbruffone, pure.
"Dì un po', sei con qualcuno? Fidanzato, amici..."
"Non dovrebbe interessarti, alla luce dei fatti."
"Non ho detto che m'interessa, o che m'interessi tu. Alla luce dei fatti, è solo una domanda. Mettila così,"—un braccio sul bordo del bancone, protese il capo in mia direzione, attento a mantenere una certa distanza ondeggiò gli occhi alla sua destra in un guizzo accennato. Sensuale. "Sei... simpatica."
Simpatica.
Un sorrisetto compiaciuto e miscredente mi colse alla sprovvista, la coda dell'occhio lo sorprese a ricambiare quel sorrisetto consapevole, e una domanda proruppe fra i miei pensieri col frastuono di un sasso scagliato contro una finestra: avevo vissuto momenti più accesi di una casuale baruffa con uno sconosciuto, eppure quand'era stata l'ultima volta che mi ero sentita così... viva?
Un inatteso tiro delle somme alcolico mi estraniò dal mondo esterno, insinuandosi bruscamente nel pacioso equilibrio in cui sonnecchiavo da un tempo indefinito: quand'ero scivolata in quell'esistenza grigia come cielo di Londra, slittando di giorno in giorno in una routine priva di colori e sapori?
"Quindi..."
La voce responsabile di tanto scombussolamento riuscì a interrompere le mie elucubrazioni, pretendendo tutta la mia attenzione.
"Quindi non posso dire tu sia altrettanto simpatico. E no, non sono con nessuno."
L'uomo manifestò un sorriso spudorato.
"Cioè, con qualcuno, in effetti sì." Farfugliai in aggiunta, lasciando che i fumi dell'alcol ritrovassero il loro seguito nel mio corpo.
Freccia Verde posò entrambi i gomiti sul bancone contraendo inavvertitamente gli avambracci, la sua mascella virile in bella mostra, il suo sguardo era segnale lampante che non aveva afferrato. A giudicare dal suo cipiglio sembrava anche meno annoiato, vagamente divertito, decisamente incuriosito.
"Non ti sei spiegata."
"Niente ragazzo, ma in compagnia."
Specificai meno piccata, piombando in un silenzio riflessivo, perché stava accadendo qualcosa: non ne avevo idea, ma era impossibile ignorare che avevamo preso a scrutarci troppo e troppo a lungo, troppo intensamente. Poteva essere attribuibile alla quantità di alcol che mi stordiva, l’impressione che quell'uomo mi contemplasse quasi tentasse di scavarmi dentro, ad interrogarmi silenziosamente se fossi stata sincera nella mia replica. Come se importasse, capirlo! Eravamo due perfetti sconosciuti che calpestavano lo stesso pavimento per pura casualità, e che non si sarebbero più rivisti.
"Quindi, ce la farai a guardarmi questa volta, o filerai via di nuovo?"
Pensai che fosse una gran volpe; il suo timbro sapeva toccare le tonalità dell'imperatività e sfumare nel mellifluo, e la strana reazione traditrice del mio corpo suggeriva che riusciva farlo molto bene, almeno quanto sapeva sfiorare il mio mento, finito dal nulla tra il suo pollice e indice, a rotearmi delicatamente a sé.
Mi trovavo in un locale pieno di coetanei, da sola, e lo sapevo che l'abbordaggio era all'ordine della serata. Ero single, ma non avrebbe dovuto piacermi così tanto che mi toccasse il primo che passava. Anche se, c'era da dire, si trattava di un primo molto attraente... sapevo anche che una donna le percepisce, certe cose: l'attrazione. Il mio radar non entrava in azione da parecchio, ma ero sicura che segnalasse il giusto: quel contatto così intimo e gentile si trattava solo di un gesto per reclamare l'attenzione, non di una tattica da flirt in corso.
Già, eppure quel modo di guardarmi...
Galoppavo agitazione, ma equivalevano ad emozioni infondate, perché il radar continuava a segnalare aridità.
Okay, la tequila doveva averlo messo fuori uso, perché... il suo volto si stava portando decisamente verso le mie labbra! E venni catapultata come in un mondo parallelo, fatto solo della sua vista e del suo profumo: fu di nuovo reset. Black-out assoluto.
Socchiudere gli occhi non fu una scelta, ma un istinto naturale. Passarono secondi, forse minuti, quando avvertii il calore del suo respiro caldo, vicino da fondersi col mio.
"Non ho detto nemmeno il contrario" sussurrò con voce calda e carezzevole.
"Su cosa?" Sbirciai appena, lottando per fuoriuscire da quella scia nebulosa che si era impossessata delle mie facoltà cognitive.
"Che non mi piaci".
Divenne cristallino, che stava per baciarmi. Eppure, malgrado le sue parole, il radar non dava alcun segno di vita.
Stava per baciarmi?
Una parte di me era tentata di respingerlo, ma l'altra mi ricordava che ero da Roxy per dare una svolta a quel periodo ridicolmente apatico, fosse stato solo per una piccola vacanza, e che non avrebbe fatto male a nessuno.
Sorrisi, troppo consapevole di me stessa per riservarmi simili giustificazioni: la verità era che mi sentivo tremendamente attratta da quell'uomo con il cielo negli occhi e la tracotanza nelle labbra, un rapimento emotivo che non mi capitava da troppo, per non assecondare certi segnali, le richieste del mio corpo. Non che mi fossi segregata sentimentalmente dopo la rottura col mio ex; mi ero concessa degli appuntamenti, il cui comune denominatore era il risultato: zero passione, nessuna scintilla, addio farfalle nello stomaco. Non si trattava della sfera dell'intimità, ma della passione capace di sorprenderti in un fugace di sguardi, in un gesto casuale, comune, e fu proprio in nome di quella passione che quella sera mossi, andando incontro al volto di quell'uomo.
Il suo respiro mi rimbalzò sull'arco di Cupido, appesantendo le mie palpebre di cieco desiderio. Stavo immaginando il momento in cui avrei sperimentato la morbidezza delle sue labbra sulle mie: l'accenno di barba mi avrebbe irritata o eccitata? Le punte dei nostri nasi si sfiorarono in un contatto sin troppo docile per il luogo e le circostanze in cui stava accadendo, ero pronta a lasciarmi andare, a spegnere la mente e lasciarmi guidare da nient’altro che...—
"BOOM."
Un tuono scosse dolorosamente il mio timpano, la bolla magica esplose bruscamente.
Spalancai gli occhi, atterrita e spaesata, con i battiti convulsi.
Avevo le labbra ancora sporte, incapace di capire cosa fosse successo, mentre lui si... allontanava? Stava tornando al suo posto, e a guardarlo meglio non sembrava esattamente coinvolto, men che meno sconvolto quanto lo ero io.
"Ti ho ordinato dell'acqua."
Il tono militare fu abbastanza per ricompormi, all'istante, proprio come stava facendo lui, senza nemmeno degnarsi di guardarmi. Non sembrava nemmeno volesse evitarmi, agiva come se non fosse successo nulla.
Porco scalogno, ero brilla al punto di avere davvero immaginato tutto?!
Ingrato, dannato e giusto radar dell'attrazione!
"Bevila e va' a casa."
Afferrando la giacca del suo completo, e dandomi le spalle, l'uomo marciò maestoso verso la folla, sparendo al suo interno.
Mi sembrava di essere in trance. Imbambolata, non avevo nemmeno afferrato cosa gli fosse preso, seppi solo che, per la prima volta dopo tanto tempo, il desiderio che aveva acceso e lasciato insoddisfatto aveva un sapore amaro, come mai prima d'ora. Senza riflettere, prima che me ne accorgessi, lo stavo inseguendo nella folla.
"Dove scappi? Siamo qui, olaaa!" Strimpellò allegra Roxy, forse appena brilla.
Continuai a correre, barcollante di passo in passo, mentre avvertivo i primi cerchi alla testa. Molti, moltissimi cerchi alla testa… negli occhi.
Fra un cerchio e l'altro, lo intravidi prossimo all'uscita del locale. In realtà lo vedevo in versione sfocata, ondeggiante e multipla, ma dato che aveva una buona manciata di personalità non lo considerai un problema; con pochi passi incerti riuscii a raggiungerlo, afferrandolo per un braccio, prorompendo con tutto il malcontento che quello sconosciuto era stato capace di provocare.
"Ma che diavolo..."—"Perché?" Inveimmo all'unisono.
"Voglio sapere..."—cosa? Che diritto avevo di placcarlo a quel modo? Di chiedere spiegazioni, solo perché non aveva ricambiato il desiderio che avevo provato per lui? "Perché mi hai spaventata?"
Ovviamente non era ciò che avrei voluto chiedere. Maledetta tequila muriatica del coraggio, dov'era quando serviva?
"Avevi il singhiozzo. Senti, devi essere ubriaca e io devo andare. Torna dentro se hai qualcuno ad aspettarti, o va' a casa."
Detto ciò, si strattonò dalla mia stretta, indifferente e inconsapevole delle reazioni che mi stavano scuotendo come mai mi era capitato.
"Ah!"
Esplosi in una risata per niente divertita, liberandolo, quasi spingendolo. "Hai messo su quell'insulsa scenetta sciogli mutandine solo per farmi passare il singhiozzo? Oh, che spirito nobile!"
Comunicazione flash: avevo perso la brocca.
"E che vigliacco!" Rigirai sui tacchi con grazia da mammut, avviandomi a passo di carica verso l'interno del pub.
La voce di Daniel sembrò alitarmi alle spalle, a deridermi; il mio solo ed unico fidanzato, traditore, a cui erano seguiti flirti talmente inconsistenti che, più che accendermi, avevano avuto il potere di farmi sentire spenta.
Fino a quella sera.
Fino a quell'uomo e al modo in cui i suoi occhi sembravano incatenarsi ai miei, pretendendo tutta la mia attenzione, tutto di me.
Fino alla tequila muriatica, che mi riempiva la bocca di stupidate...
Era già tutto finito.
O almeno fu ciò che credetti, prima di sentirmi torchiata per un gomito, ritrovandomi improvvisamente su un territorio composto da muscoli tesi e caldi, un braccio molto più che sviluppato a cingermi la vita, tenendomi vicina a sé. La sensazione era mica male, ma la rabbia tornò a montarmi come un uragano, quindi tentai di allontanarmi, ma la mia condizione brilla non prevedeva altro che il suo contatto, mentre la musica tuonava energica nelle casse, confondendo i miei sensi già di loro ottenebrati. Eravamo gli unici a ballare musica techno in un lento, isolati a pochi passi dall'uscita, come se non ci fosse altro intorno.
La testa prese a volteggiare leggera e forsennata, in totale anarchia, i timpani vennero assillati dei tonfi delle casse, la ragione cessò di funzionare, impedendomi di recepire e decifrare altro. Per l'equilibrio ormai precario, dovetti aggrapparmi alle sue spalle solide. Marmoree.
"Hai bisogno d'aria."
La sua voce era ormai solo un lontano eco quando l'aria fresca della notte mi investì; fu spontaneo rintanarmi contro il suo petto, che mi sosteneva insieme al braccio avvolto attorno alle mie spalle, conducendomi all'uscita del pub. Forse non aveva avuto tutti i torti a mollarmi lì. Non ero ubriaca, ma nemmeno sobria, e lui decisamente non sembrava avere bisogno dell’aiuto dell’alcol per indurre una donna ad andare a letto con lui. Il dubbio che una donna meno brilla di me potesse far colpo su di lui scivolò di soppiatto tra i miei pensieri. Ah, come se potesse importarmi delle attività di un perfetto sconosciuto!
Infastidita da quel turbinio di sensazioni che avevano trovato il loro ring nella mia mente, presi a divincolarmi.
"Lasciala! Tu, lasciala stare, ho detto!"
L'urlo femminile risuonò come un concerto di pentole, e in meno di quanto realizzai, venni strattonata dal tepore piacevole.
"Maniaco invertebrato, che pensavi di fare?"
L'unica che avrebbe potuto imprecare servendosi di termini scientifici?
Roxy.
Roxy... che lo stava frustando con una borsetta, peggio che un'indemoniata!
"Voleva solo aiutarmi!"
Emisi in un rantolo troppo basso perché lo sentisse. Traballante, tentai di raggiungere il muro più vicino, riconobbi Stefano correre nella nostra direzione.
Dio, per fortuna. Non avrei avuto la forza di placare la crisi isterica di mia cugina. Poggiata con la testa ed un braccio al muro, stavo per tirare un sospiro di sollievo, quando misi a fuoco il braccio di Stefano, che stava caricandosi all’indietro.
"No, Stefano! Fermati!"
Troppo tardi, perché gli aveva mollato un flaccido destro.
E ora...
Oh no!
Stefano ci guardava penzoloni in aria, sorretto dal colletto della camicia. E se solo Freccia Verde lo avesse sfiorato, lo avrebbe probabilmente ridotto in poltiglia data l'imponenza del suo corpo.
"Basta!"
Spremetti le ultime gocce d'energia, ottenendo finalmente la loro attenzione. "Voleva solo aiutarmi." Trattenni un conato, portandomi verso di lui. Un graffio appena sanguinante sul sopracciglio, la furia nei suoi occhi, tutta, solo per me.
Vacillai, mi sembrava di avvertire le sue sensazioni, le sue emozioni. E non sembrava sprizzassero gioia da ogni poro...
Eppure il mio sguardo implorante sembrò sortire effetti, perché lascio andare Stefano. In realtà lo scaraventò al suolo, tutto sommato ancora tutto intero. Poi, interrompendo la connessione dei nostri occhi, l'uomo si voltò, allontanandosi a grandi passi.
"Ehi, mi… mi dispiace!"
Berciai, provando a raggiungerlo, ma la mia andatura era lenta e la sua desiderosa di andarsene perché riuscissi a raggiungerlo.
"Si è trattato di un malinteso!"
Esclamai intontita, osservandolo infilarsi con poche mosse fluide in auto. Riuscii a vederlo puntarmi dallo specchietto, ricambiai il suo sguardo, che non aveva perso il rancore conquistatomi quella sera, e restammo immersi l'uno negli occhi dell'altro per pochi secondi. Di nuovo, avvertii una strana cappa di energia sospesa fra i pochi passi a distanziarci, fino a che il motore ruggì, e la macchina stridette, partendo a razzo in una manciata di istanti.
Immobile, la strada scura e bagnata dalla nebbia fredda allungò le distanze. In men che non si dica l'auto scomparve dall'orizzonte, lasciando solo fumi e foschia dietro di sé.
La settimana dopo ero in viaggio per Sidney.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro ***


"Devo portarmi a casa quest'affare. Lo mandi in malora e verrà rispedita dritto da dove è venuta. Chiaro?"
Trangugio d'un sorso il secondo bicchiere di vino raffinato e annuisco intimorita al vecchio bavoso e dispotico, tristemente noto come “capo”.
Seduta al tavolo del ristorante dov'è in corso la trattativa, sposto il mio peso da una natica sudata all'altra. Il terrore di un creare una chiazza in corrispondenza del mio didietro mi paralizza su una chiappa singola, in un'elegante posa da emorroidi.
Il capo, intanto, mi osserva come se avessi tre teste. Porca zucchina, ha osservato tutta la scena. E non sembra aver apprezzato i miei ondeggiamenti storpiati.
"Ma proprio a me la sciattona del gruppo..." Borbotta scuotendo la testa, le mani giunte in preghiera.
Alla faccia dei manager virili e sexy, il mio è un negriero schiavista e bastardo!
"Miss Magda, sono venuta a conoscenza del progetto di cui fa parte."
Simulo un sorriso per Madama Accordo Dorato, moglie del futuro—mi conviene, se voglio tenermi il posto—partner d'affari del mio capo.
"Dunque, come si trova in azienda?"
Dunque, lo vede il mio capo? Proprio una merda, mi trovo.
"Mi trovo proprio una mer...—lo sguardo del Negriero è eloquente: Ti sbatto fuori dal progetto, dall'Australia, peggio! Ti radio dal Sistema Solare, ora!— …aviglia! Mi trovo proprio una meraviglia."
Fra uno sguardo sdegnoso e l'altro, arriva la seconda portata: escargot raggrinzite, con tanto di improbabili tenagliette in acciaio, con cui... sventrarle? Sventolarle?
Nausea.
È un ristorante o il set di Saw l’enigmista?
Allungando il braccio verso l'altro capo del tavolo per afferrare il cesto di pane, ignoro i viscidosi nel mio piatto, che aspettano maligni il primo approccio errato.
"Cosa cavolo sta facendo?" Rimprovera il capo al mio orecchio. "Non sa che è maleducato propendersi sulle portate altrui? Non ha la lingua?" È indignato, ma ben attento a non farsi sentire dalla coppia di affaristi.
"La lingua?" Domando sibillina, l'alcol che mi rallegra, la testa che gira, la lingua che muove sconnessa dal cervello.
"Ma che lingua!" I commensali mi fissano inorriditi. "Il braccio è più lungo! C'arrivo prima, sa?" Accompagno il tutto da una dimostrazione pratica, mettendo in bella mostra il mio braccio disteso e scoppio in una fragorosa risata. Ma, sbaglio, o sono l'unica a ridere?
Mi dibatto come un'anguilla, ma Mr. Negriero non intende mollare la presa.
"Non è che una fallita, non si faccia più rivedere!"
Uno spintone e sono fuori dal ristorante. E, a quanto pare, dal progetto.
Mi pietrifico.
No, non può davvero mandarmi via! La prego!
"Se ne vada via, via! Sveglia!"
La voce del mio capo sfumò in toni più gentili, prettamente... femminili?
All'ennesimo spintone, spalancai gli occhi.
"Bella dormita!"
Due pupille nere, contornate da iridi verde cervone, erano a pochi millimetri dalle mie. "Fra cinque minuti, Sleeping Beauty, dobbiamo andarcene, se non vogliamo tardare. Toh." Esclamò Fabiana, appiccicandomi un fazzoletto su di un lato delle labbra.
"Provo già compassione per i miei talloni e dolore per i miei piedi" compianse, allontanandosi.
Con un po' di fatica ad orientarmi nella nuova sistemazione, scorsi il grande orologio quadrato, tutto nero, ravvivato dalle lancette fosforescenti, il solo ornamento per le mura pallide del salone-cucina.
Le sette di mattina in punto. Un incubo.
Era stato solo un incubo, realizzai, perché i primi cinque giorni di lavoro a Sidney si rivelarono ben distanti da quel sogno spiacevole.
"Cazzarola, è tardissimo!"
Mi ridestò la voce argentina di Lucrezia, che proprio in quel momento slittava sul pavimento bianco e liscio del corridoio, ripiegandosi su se stessa per sistemare rapidamente il collant. Per smagliarlo, a veder meglio.
"Mavvaffa..."
Mi sollevai dal divanetto magenta posto al centro della stanza, e mi avviai a prendere una tazza di caffè americano, celando un sorrisetto divertito.
"Siamo solo al quinto giorno, qui" emise la voce di Fabiana dalla terza stanza in fondo al piccolo corridoio. "Ma sarà un miracolo se arriveremo al week end, con questi tacchi."
Ecco spuntare di nuovo anche lei, saltellante su un piede, troppo concentrata ad infilare l'altra scarpa per accorgersi di Lucrezia, ancora chinata al centro del corridoio, finendo per rovinarle addosso con un urletto strozzato: ciò che mi si parò di fronte era un groviglio di braccia penzoloni, capelli lisci e scuri ricaduti in avanti, mescolati ai ricci rossicci di Lucrezia.
Sorseggiando il caffè, sghignazzai osservandole incolparsi bonariamente, ancora aggrovigliate l'una sull'altra: loro sarebbero state le mie coinquiline da lì a due mesi.
Le conobbi il giorno della partenza all'aeroporto di Pisa; il coordinatore — il signor Calli — consegnò ciascun membro del gruppo un foglio contenente la lista dei nostri nomi con i relativi coinquilini assegnati, indirizzi delle aziende presso cui avremmo lavorato e degli appartamenti dove avremmo vissuto a Sidney.
Fabiana aveva chiamato il mio nome nella sala d'attesa dell'aeroporto e dopo il cenno del mio braccio, levato in aria nella folla creata dal gruppo, era corsa con i capelli neri svolazzanti ed il sorriso solare per raggiungermi, seguita da Lucrezia, chioma riccia rosso fuoco e flemma tipica della ragazza che si aspetta sia Maometto a raggiungere direttamente lei, nessuna montagna.
Arrivammo a Sidney dopo ventiquattro, infinite ore di volo e scali plurimi, il che rimandava più un reality di sopravvivenza ad eliminazione: i primi avevano mollato tra il secondo e terzo scalo, il jet lag poi si occupò di radere al suolo la parte restante, appena giunti su suolo australiano.
Dopo aver sonnecchiato in taxi, fu la volta dell'appartamento. Nel suo aspetto era carino, benché semplice e spoglio nell'assetto: una stanza bianca adibita a salone e cucina, che dava ad un piccolo balcone, un corridoio corto, che dava alle nostre tre stanze. Riuscii a stento a scoprire che erano compagne di università, prima d'addormentarci vestite e sfinite sullo stesso letto.
Il giorno seguente, nonché primo a Sidney, ci dirigemmo a George Street, nei pressi della stazione dove avremmo incontrato il coordinatore Calli e le segretarie delle aziende presso cui avremmo lavorato, per affrontare il primo giorno di lavoro.
"Ce l'avete fatta ad arrivare!"
Richiamò la nostra attenzione la voce di un ragazzo, un brunetto fisicato, con la mano già tesa per le presentazioni, ma solo in mia direzione.
"Sono Michele, ma da oggi, se ti va, puoi chiamarmi Mike. È per calarmi meglio nella parte." Mi rifilò un occhiolino. "Australianizzare il nome è il primo passo verso il successo."
"Australianiché? Mic, dai, non è abituata alle tue stronzate, sparale gradualmente. Dalle tempo!" Lo abbracciò brevemente Lucrezia, in fare prettamente amichevole. Dopo la conoscenza di Michele e pochi altri del gruppo, ognuno si diresse alla sede aziendale con la segretaria aziendale di riferimento.
Ero un po' in ansia, non che lo fossi esageratamente, ma si trattava pur sempre del primo giorno di lavoro in una terra nuova, in un'azienda di dimensioni importanti, in una lingua che masticavo bene ma che dopotutto non era la mia. Grazia divina volle che al quarto giorno, per mia sorpresa, potei affermare non si trattava affatto dell’'ambiente lavorativo, quello a crearmi rogne: i colleghi erano sempre affaccendati e in corsa, ognuno sbrigava le proprie mansioni, ma la segretaria incaricata di seguirmi quando ne avessi avuto bisogno si era mostrata notevolmente disponibile, il suo inglese ed il suo accento facilmente comprensibili. Meglio di quanto sperato. Il solo, vero problema di quei giorni, dunque, si rivelarono… i chilometri.
"Mag, siamo in bagno!"
Strepitò energicamente Lucrezia, appena rincasata dal quarto giorno di lavoro. Le raggiunsi, placcandomi sulla soglia, lasciandole contemplare le dita dei miei piedi scrocchianti e malandate.
"Non ho mai desiderato un pediluvio così tanto..." sospirai, accedendo. Tutte avevamo bisogno di un pediluvio giornaliero e Lucrezia sembrava aver già provveduto, ora in tenuta casalinga: una semplice t-shirt rossa aderente, un pantaloncino nero con l'orlo arricciato e delle infradito in spugna blu. Sì, l'aveva appena fatto, usava solo dopo la doccia le ciabatte in spugna.
"Affogali pure coi nostri! Tanto, capirai, sono già morti per strada." Sbottò irritata e sarcastica Fabiana, mentre sedevo sul bordo della vasca in cui stava terminando la seduta d'urgenza per i suoi piedi.
"Ci conviene guardare il bicchiere mezzo pieno: rimedieremo corpi da modelle con questa maratona giornaliera." Suggerì allettata Lucrezia, un tipo molto attento a ciò che aveva a che fare con la bellezza. In effetti la sua semplice mise le donava neanche fosse un capo d'alta moda, ed era un semplice pigiama in cotone.
"Sì, beh, unica pecca, i piedi da hobbit. D'altronde nessuno è perfetto." Alzai di spalle.
"Le mie bolle concordano pienamente." Fabiana mostrò la pianta del suo piede, sicuramente reduce da un disastro nucleare nell'Area 51.
"Ragazze, sono infattibili due mesi in questo modo. Se ricordate, il signor Calli ci ha spiegato che il percorso alloggio-lavoro è calcolato strategicamente per distare, al massimo, venti minuti a piedi, per favorire la condizione di noi stagisti, così da arrivare a lavoro in orario, riposati e senza compiere peregrinaggi alla Compostela."
Aveva logica, in effetti. Una logica che per noi, però, non valeva.
"E invece, anche oggi ho impiegato un'ora e dieci per arrivare a casa." Confrontando le nostre esperienze, decretammo che eravamo messe maluccio. Lucrezia un'ora, ma il record lo detenevo io: un'ora e un quarto!
Quella stessa sera accennammo tutto al coordinatore Calli, il quale si interessò al caso, promettendo di contattarci l'indomani per aggiornarci sulla risoluzione al problema.
E, finalmente, l'indomani era giunto.
"Okay, pronte!"
Finalmente arrivarono alla porta della nostra nuova abitazione le mie coinquiline, Lucrezia con le calze ancora smagliate, celate dalla gonna del tailleur blu scuro, e Fabiana, ancora arrossata in viso nel punto in cui aveva tamponato la spalla di Lucrezia.
Nel corso della giornata, durante le pause a lavoro, ci tenemmo in contatto, ansiose di sapere se Calli avesse news positive, e fatta eccezione per gli acciacchi ai piedi che di tanto in tanto mi facevano grugnire, non riscontrai grosse difficoltà a lavoro. Qualche termine somigliava più al mandarino, ma nulla di ingestibile.
"Tra quindici minuti allo Stonehouse pub?" Scrissi un messaggio a Fabiana, appena uscita da lavoro.
"Sicuro! Vado un po' a rilento, ma quando riusciremo ad incontrarci, sarà bello sorreggerci l'un l'altra su questi maledettissimi trampoli. Hai notato che queste strade sono solcate da una miriade di buche invisibili?"
"Forse intendi affondarci l'un'altra sui maledettissimi trampoli." Digitai in risposta, continuando ad arrancare verso la meta, quando il trillo del cellulare segnalò l'arrivo del nuovo messaggio.
"Eureka! Calli ha appena comunicato a Lucrezia che ci raggiungerà stasera alle otto al nostro appartamento, dice di aver risolto il problema!"—"Ehi, ti vedo! Solleva la testa!" Seguì con due messaggi consecutivi.
Focalizzando meglio l'attenzione fra i passanti, scorsi il braccio di Fabiana a salutarmi, quindi proseguii frettolosa verso di lei, ricambiando il saluto con la stessa foga.
Stavo ancora scuotendo all'aria le braccia quando il terreno si fece più scosceso, ma lei mimava qualcosa in lontananza, mi ritrovai impegnata a decifrare la sua mimica al punto che ridussi l’attenzione dalla, fino a non avvertire più la terra su cui posare il passo. Rivolsi lo sguardo verso il basso appena in tempo per vedere una grossa, enorme, spaventosa buca, pronta ad inghiottirmi.
"Ahhhh!"
Pochi istanti di vuoto pauroso, seguiti dal tacco che si scontrò sul suolo, vibrò freneticamente da destra e sinistra, agitandomi come un prosciutto prima di infrangersi contro l'asfalto, lasciandomi rovinare tragicamente per terra, le braccia all'aria che avevano ormai perso equilibrio.
Appena il tempo di provare un dolore lancinante alla gamba sinistra, talmente forte, che tutto diventò improvvisamente... nero.

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque ***


"Magda? Apri gli occhi."
Neanche morta.
"Forza."
No.
"Su, aprili."
Ho detto di no, maledetta voce dell'aldilà! Adoravo bearmi dello stato di completa incoscienza in cui fluttuavo leggera, spensierata e... rincitrullita.
Magari la bocca impastata guastava un tantino l'idillio, ma quella condizione fra il non vivo e il non morto era troppo piacevole per decidere d'abbandonarla.
D'un tratto avvertii un tocco leggero sugli occhi, a sollevarmi una palpebra.
Poi successe.
"Il tunnel di luce", sussurrai attonita, atterrita.
Abbagliante, luminoso.
Capii all'istante.
"Sto per morire."
"Oh, molto peggio!"
Rimbeccò la voce dell’aldilà. "Ti conviene aprirli, o la luce ti forerà una retina. E allora sì che morirai, di dolore!"
Santissima verza! L'aldilà faceva schifo, ma aveva ragione: non avrei resistito a lungo. Quell’abbagliante tunnel di luce doleva eccome!
"Molto bene, bentornata."
"Grazie, grazie mille." Ovunque fossi andata, dovevo essermi trasformata nella De Filippi. "Ma, tornata da dove? Dove sono andata?"
Mi voltai verso il lato da cui proveniva la voce, lo stesso in cui trovai il coordinatore Calli scrutarmi con perplessa apprensione. Frattanto, un effluvio di chiuso misto a disinfettante si preoccupò di diffondersi su per le narici.
"Magda, io sono il Signor Calli, coordinatore dello stage cui hai preso parte. Adesso ci troviamo a Sidney, Australia. Mi riconosci?"
Scandì tutto in un rallenty insostenibile, neanche mi avessero ibernata per un secolo e mezzo.
"Considerato che a momenti un faro mi rendeva orba, direi ancora per poco."
Almeno la mia schiena ringraziava, adagiata su quello che, al tatto, avrei dichiarato un morbido e comodo materasso.
"Sei tornata combattiva, noto." Gongolò il coordinatore, perdendo improvvisamente l'aria pacioccona. "Tornata, nel senso, fra noi: devi sapere che rincasando da lavoro hai beccato una buca. Un accidentale incidente..." masticò con quella che aveva tutta l’aria di essere una critica, mentre la testa mi vorticava dolorosamente per i suoi irritanti scioglilingua.
Materasso, tunnel di luce, sentori di Amuchina, buche...
Cazzarola.
Ero in ospedale!
"Se non l'avesse sottolineato, avrei pensato di essermici fiondata di spontanea volontà."
Bofonchiai seccata fra me e me, salvo che lo stato di semi incoscienza mi avesse fatto parlare a voce udibile da tutti, compreso il coordinatore, che a ben dire pareva offeso.
"Magda, se a me piacciono i giochi di parole, a te non dovrebbero affatto."
Che permaloso. Neanche c'avesse il monopolio.
"Ci sei caduta in pieno! E ti saresti lussata una caviglia, se non avessi indossato i tacchi."
Nefasto peggio di una Cassandra, ma l'uso del condizionale mi rasserenò. "Be’, dal momento che li indossavo, niente lussazione!"
Sfoderai un sorriso speranzoso, tagliando corto per ringraziare mentalmente la mia sorte fortuita, quindi per dare credito al legame positivo stabilito fra me e il karma mi issai a sedere, in procinto di alzarmi.
Uhm, che strano. La caduta doveva avermi talmente prosciugato le forze da lasciarle al livello approssimativo di un bradipo assonnato.
Riprovai un'altra volta, ma di nuovo qualcosa andò storto nell'operazione. Qualcosa che mi tratteneva dal basso, impedendomi nei movimenti.
"Per l'appunto, fortunatamente niente lussazioni. In compenso l'hai direttamente fratturata, la caviglia."
La gola si serrò in una morsa. Una scossa di shock si dipanò dal fondo della schiena paralizzandomi i muscoli, bloccando l'ugola che avrebbe avuto tutto il diritto di prorompere sonoramente il suo disappunto, la mia testa si fiondò diritto, laddove una gamba ingessata, dalle parvenze letteralmente mummificate, giaceva immobile schiaffeggiandomi il volto con la realtà peggiore che mi fosse potuta capitare in un continente che conoscevo a stento e che mi ospitava per un’unica, principale ragione: lavoro.
Porca barbabietola, il lavoro! L’ansia mi assalì sotto forma di nausea, impedendomi di produrre qualsiasi pensiero razionale, qualsiasi idea risolutiva di quella disgraziata vicenda.
"Mag!"
Il fracasso provocato da voci strozzate mi costrinse ad abbandonare lo stato di shock per ripiegare l’attenzione alla mia sinistra. Nemmeno il tempo di percorrere con lo sguardo la sagoma di una porta bianca spalancata, che le mie coinquiline sfrecciarono impazzite, tuffandosi sul letto per travolgermi nel loro abbraccio. No, per soffocarmi, a giudicare dal collo tirato alla massima potenza, moderna riproduzione più che di un Modigliani, del cappone finito tra le mani del Tramaglino.
"Come stai? Come ti senti?"
Schioccarono convulse contemporaneamente.
Da schifo, ragazze.
"Oh, non saprei" buttai lì con nota ironica, intenzionata ad alleggerire la tensione che traspariva dai loro sguardi. "Direi, be’, come se mi fossi rotta...—
"Una caviglia."
Antecedette improvvisamente mogia Fabiana, palesando un certo senso di colpa, fraintendendo i miei intenti ironici. "È colpa mia. Eravamo a pochi passi, non avrei dovuto distrarti. Avresti visto quella buca e ora non saresti qui."
Attuando un'espressione scettica, la incalzai di slancio.
"Ma no, che hai capito! Intendevo dire, le scatole. Che mi son già rotta le scatole in questo postaccio barboso!"
Quando i loro volti mi riservarono sorrisi rasserenati, tirai un sospiro di sollievo; lo scopo di stemperare la loro preoccupazione, fortuna volle, andò a segno.
"Ehi, Luc."
Con fare cospiratorio Fabiana bisbigliò all'orecchio dell'amica, poco dopo. "Guarda un po' lì." Un cenno del mento indicò l'altro capo della stanza.
"Ah, sì! Dev'essere il tizio dell'incontro, quello per la faccenda dell'appartamento."
La replica circospetta di Lucrezia.
Con tutte quelle cerimonie, avrei avuto interesse a sbirciare anch'io, se solo non avessi avuto la visuale ingombrata dai loro corpi e non mi fossi sentita tanto affaticata da dover restare qualche altro minuto sdraiata.
"Come avrete notato, c'è una persona che vorrei presentarvi. Ora che Magda è tornata fra noi, prego, Signor Green."
L’annuncio di Calli manifestava una certa nota di riverenza, cui le mie colleghe reagirono alzandosi di tutta fretta per ricomporsi, liberandomi finalmente del loro peso, e io potei tornare a inalare ossigeno a polmoni piani. Almeno credevo, perché, si sa, in certi giorni anche riuscire a concedersi una boccata d'aria è un lusso impraticabile, soprattutto quando ciò che ti ritrovi dinnanzi è in grado di mozzare l’aria al centro della gola e accartocciare lo stomaco come una lattina vuota.
"Freccia... verde?"
L’esalazione evocava tutta l’incredulità di cui ero capace, perché non poteva essere reale che la persona meritevole di avermi salvata da una caduta fuori da un ristorante di Pisa e che si dava il caso essere lo stesso incontrato al locale la sera del brindisi precedente alla partenza, fosse davvero lì, in Australia, in quella stessa stanza d’ospedale, di fronte a me.
In quel clima confusionale, trassi la conclusione che l’uomo - ancora in dubbio se si trattasse di realtà o solo di una stordita riproduzione mentale - non doveva avermi riconosciuta, stando al cipiglio indifferente ostentato dal suo volto, e questo era l’unico fatto plausibile di quell'assurda situazione: rammentando le picche riservatemi quella sera, la cosa non mi colse certamente alla sprovvista.
Io, però, me lo ricordavo eccome. A dirla tutta, mi era capitato di ricordarlo almeno un paio di volte nei giorni seguiti al disastroso incontro...
Già, ma in tutto ciò una domanda costante mi assillava: e lui che porca cicoria ci faceva lì?!
Accadde quando prese a marciare verso il mio letto che il suo sguardo si animò, come colto da un’intuizione, e lo fece di colori tetri, simili a quelli dello scontento, contrarietà, anche una buona dose di imprecazioni fluì attraverso i suoi occhi grandi che puntavano con la precisione di un cecchino nient'altro che me.
Brividi di agitazione mi pungolarono il corpo alla realizzazione che Freccia Verde, riproduzione mentale o meno, adesso doveva avermi riconosciuta. E che proprio no, non era affatto contento di riconoscermi...
In un gesto istintivo mi ritrovai a lucidare le palpebre come fossero una lampada di Aladino, l’auspicio che sfregando come una matta il tizio potesse scomparire nei meandri della stessa fantasia che gli aveva dato vita, ma più frizionavo, più lo vedevo farsi vicino, e a ogni passo sempre più alto, sempre più minaccioso.
Subentrò la fase della disperazione a farmi ficcare sotto le lenzuola, issate sulla mia testa con la stessa prontezza con cui Frodo aveva celato se stesso e il suo fedele Sam alle porte di Mordor, con la sola differenza che quanto stavo vivendo, sforzandomi di crederci, non era affatto un film. E, a reazioni inconsulte come la mia, la stanza non potè reagire con altro che inquietato silenzio.
Il salvatore di donne dal passo impacciato e stagiste fuori sede, preso per molestatore di ragazze prima e a pugni subito dopo, non era decisamente entrato empatia con me. E in quel momento ci separava niente di più che un sottile strato di lenzuolo immacolato...
Okay, magari non ero completamente lucida: e se mi avessero somministrato medicinali per il dolore, invasivi da prevedere le allucinazioni fra le controindicazioni? Era probabile, mi trovavo in ospedale, avevo contratto una frattura, forse una lieve contusione alla spalla se assecondavo il pulsante fastidio, la somministrazione di simili medicinali era a dir poco scontata. La supposizione mi rasserenò, infondendomi coraggio per portare la testa fuori dal nascondiglio. Il cuore prese a battere furioso mentre prendevo atto che...
Per tutte le cipolle di Tropea, menomale! Mi accorsi solo in quel momento di aver trattenuto il respiro per la durata del mio soggiorno sotto il reame delle lenzuola, così il petto poté sgonfiarsi dal sollievo; fu il panorama metà bianco per l'immaginario orizzonte creato dalle lenzuola in cui ero ancora parzialmente trincerata, e per l'altra metà sempre bianco, del colore intonso delle pareti ospedalizie a tranquillizzarmi del tutto. Sondando il punto in cui lo avevo immaginato, mi regalai un buon numero di profonde boccate d’aria, quindi sgusciai completamente fuori dalle lenzuola e mi risistemai in posizione composta, meno faticosa per la gamba compromessa e la spalla dolente.
Date le circostanze della nostra conoscenza e la sua allegria nel rivedermi - seppur solo in una mia fervida allucinazione, l'avevo proprio scampata bella!
Ahimè, la ruota della fortuna riprese a girare proprio in quel momento e, quando il signor Calli schiarì la voce attirando la mia attenzione, capii che anche in quel caso mi aveva irrimediabilmente mancata, totalmente ignorata, perché un sopracciglio graffiato e un corpo scolpito da dèi malefici mi stavano spaventosamente sovrastando dall'alto.
Fu il caos.
"Magda!"
L’invocazione scalpitante di Lucrezia. "Sei bianca come un fantasma! Si sente male!" Strillò, rivolgendosi alla ciurma al seguito con timbro allarmato. Non mi venne concesso diritto di replica né parola: Lucrezia aveva già avviato una sequenza rapida di movimenti che la videro in fine posizionarsi di fronte al mio letto, minacciandomi con qualcosa serrato tra le mani, il braccio che caricava ferocemente all'indietro. Calcolai di avere pochi istanti prima che il cannone mi venisse sparato addosso, quindi con movimenti convulsi, impossibilitati dalla gamba fuori combattimento, tentai di eludere qualsiasi cosa intendesse scagliarmi contro; sudai freddo nel tentativo di strisciare via da quel dannato letto, da quella dannata situazione, da quei dannati occhi incredibilmente celesti che si stavano godendo lo spettacolo della mia disfatta come fosse una pena equa per i nostri dissapori.
"Ah!"
Come lo scoppio che scuote mille ali in fuga dalle fitte fronde di una foresta, mezzo reparto udì un urlo secco. Il mio.
Tempo scaduto, missione fallita: acqua fredda scoccò sulla mia pelle con l’incisività di una frustata riducendomi in pochi secondi ad un pezzo di carne grondante acqua e sconcerto. Ciliegina finale, le goccioline che mi solleticavano la mascella, quasi irridendomi, scivolando verso il mento per sgocciolare denigratorie al centro del petto.
"Ora ti senti meglio?"
Completamente infreddolita, trascinai con lenta meccanicità lo sguardo sul mittente della richiesta: Freccia Verde aveva parlato.
Per tutta replica, un rivolo fresco si avviò verso il collo, evaporando nello stato psicologico debilitato, allibito, sul punto di crollare che avevo cercato di ripudiare dall’istante in cui avevo aperto occhio; lo scintillio sollazzato affatto mascherato di Freccia Verde sancì la mia trasformazione a moderna giullare destinata al suo trastullo.
"La perdoni, è provata."
Suggerì piccato Calli a Freccia Verde constatando l'ovvio. "Sa, l'hanno abbattuta come un cavallo... non sapessi che l'hanno imbottita di analgesici e chissà che medicinali, penserei che una caduta di quella portata le avesse toccato il cervello."
"Ma non le orecchie!"
Strepitai acuta, scuotendo le braccia per scrollare l'acqua in eccesso.
Afferrato l'asciugamano che Luc mi stava tendendo, per un istante e solo uno tornai a quella sera al locale: lo strisciai lungo un braccio, rievocando il modo in cui mi aveva fatta sentire l'uomo quella sera, lo passai sul viso, rivangando il calore bruciante delle sue mani sulla pelle, talmente vivido da percepire il bisogno di ricevere un’altra secchiata raggelata. E poi mollai l'asciugamano, perché adesso avevo di fronte solo il sensuale guscio di un uomo che mi puntava come fossi la peggior sfiga che gli fosse potuta capitare in quel periodo.
"Mi sento meglio, grazie."
Mi forzai a dire, per evitare l’intensità sprezzante con cui mi sentivo scrutata, ammantata da una patina di disagio da cui non ero in grado di uscire.
"Benissimo, torniamo a noi. Nathan Green è il socio maggioritario della compagnia per cui lavora Lucrezia e Fabiana, nonché la persona che, in un atto di generosità e altruismo assoluti, ha messo le stanze di un suo alloggio personale, ora inabitato e prossimo alla vostra sede aziendale, a vostra disposizione."
Rifilandogli una sbirciata, notai che il colorito di Freccia Verde era sbiadito più o meno quanto il mio poco prima, e pur munendomi di tutta l'energia positiva presente sul globo, l'espressione pentita dell'offerta riservataci era un fotogramma fisso sul suo bel viso.
Neanche avessi zecche e pappataci.
"Condizione imprescindibile, trattare il luogo che vi ospita coi guanti e il dovuto rispetto. Che tradotto nel gergo di voi giovani significa evitare comportamenti pericolosi, incivili e indecorosi, mantenendo altresì la perfetta salubrità della casa quotidianamente. In caso contrario, l'affitto del vostro attuale appartamento è pagato, ogni permanenza gentilmente offerta verrà annullata, e tornete ad alloggiare nell'appartamento che vi è stato assegnato, percorrendo mezza Sidney a piedi se necessario. Cosa dite, ragazze?"
"Grazie, ma no, grazie."
Proruppi di getto, improvvisandomi capo gruppo. "Non possiamo accettare, noi amiamo i festini alcolici e un po' sguaiati, personalmente non rinuncerei mai alla mia dose di sconcerie giornaliere." Argomentai tutto d'un fiato.
Freccia Verde sollevò un sopracciglio, nascondendo l'ombra di un ghigno di stampo lungimirante, ma il modo con cui i suoi occhi mi tramortivano non aveva nulla di divertente, diceva chiaramente che se io non avevo voglia di alloggiare presso una sua proprietà, lui era il primo a non avere l'intenzione di ospitarmi e correre il rischio di avere eventualmente a che fare con la sottoscritta.
"Non le dia ascolto!"
Con occhi sgranati e animi scandalizzati dalla mia replica, le mie coinquiline si precipitarono a ingiungere. "Va' a letto alle sei la nostra Magda, è solo una burlona!" Risolse Fabiana, con la stessa espressione preoccupata di un cerbiatto al centro della strada colpito dai fari di un auto. "Dillo, Mag, che sei una burlona!" Finì per intimare con tono supplichevole, gli intenti minacciosi che risultavano dolci e buffi, strappandomi una sommessa risata.
"È affaticata, capiamo l'esigenza di fare dell'ironia. Dopo le recenti sventure, in fondo le spetta!"
Riferì Lucrezia, gestendo la situazione con più calma e freddezza di Fabiana.
"Ma, mettendo per un attimo da parte gli scherzi... la sua trovata è ciò di cui avevamo disperato bisogno."
"Sarà nostra premura comportarci in modo adeguato e decoroso. Ci ha davvero salvato da una vita di calli!"
Cinguettò ora più rilassata Fabiana, provocando il corrucciamento del coordinatore che, amante dei giochi di parole, aveva frainteso il significato dell’affermazione.
A quel punto, in un battibaleno tutti trasferirono le loro iridi eccedenti di aspettative su di me.
"Rin-gra-zia."
Mimò con esilaranti espressioni Lucrezia, mentre Fabiana mi incitava ad eseguire il suggerimento con uno strano tic della testa ripetutamente rivolto in direzione di Green, il tutto sotto lo sguardo indagatore del coordinatore, esasperato dal mio atteggiamento irresponsabile.
"Grazie."
Tirai fuori a denti stretti, perché se non avessi messo a tacere la mia inclinazione indisciplinata, ci sarebbero andate di mezzo le ragazze. D'altra parte, a dispetto del nostro misero incontro, conoscevo troppo poco quell'uomo per compromettere l'offerta ricevuta e tanto sperata per un'antipatia a pelle, che con ogni probabilità nutriva con maggiore intensità lui nei miei riguardi.
"Ah, no, spiacente, per te il discorso non vale, Magda."
Le sopracciglia mi si aggrottarono istantaneamente. Quel bizzoso di un coordinatore stava sperimentando su di me tutte le tecniche per mandare in crisi respiratoria una persona, guadagnando ad appannaggio esclusivo l'ansia di cui ero capace.
"Il signor Green non ci ha raggiunti qui per caso; è stato difatti messo al corrente anche della tua delicata situazione, ebbene, per il tempo di guarigione, alloggerai nella sua casa."
E la stanza prese a volteggiare come quella di Dorothy...
Quella buca. Voglio tornare a quella buca. Ho bisogno di tuffarmici, di testa! "La situazione non è grave, le spese sanitarie sono naturalmente coperte, ma i medici hanno imposto riposo assoluto. Necessiti pertanto di assistenza se intendi rimetterti in sesto entro il minor tempo possibile, dunque godrai dell'aiuto della sua domestica. Prevedibilmente, non appena starai meglio tornerai a condividere l'alloggio con le tue compagne."
'La stiamo perdendo, la stiamo perdendo!' Un dottore inveì nella sala rianimazioni. La mia, di rianimazione. Sfortunatamente, solo nella mia immaginazione.
"Devi essere grata al signor Green, Liquore. Non fosse per la sua gentilezza, il tuo stage rischierebbe di essere concluso per ovvi motivi."
Inveì Calli al mio indirizzo, spostando poi l'attenzione sull'uomo più caritatevole di tutto l'emisfero australe. "Le rinnovo la mia gratitudine e mi scuso", tuonò servile, occhieggiando in mia direzione carico di biasimo. "Le sono debitore."
Nella lista aggiornata dei miei fans, Calli occupava il podio.
"Se non c'è altro, dovrei andare."
Tutto ciò che pronunciò il sexy salvatore degnandolo di uno stentato assenso, l'aria di volersela dare a gambe da quel covo di matti il prima possibile.
Calli mi rivolse l'ennesimo sguardo ammonitore in attesa della mia dose di educazione; Freccia Verde non sembrava altrettanto coinvolto né smanioso a riguardo, ma, carpite le pretese di Calli, prese a osservarmi incuriosito, sfidandomi silenziosamente a oltraggiare i poteri superiori dai quali dipendeva il mio destino o a rispettarli servilmente, col talento di uno zerbino.
"Grazie."
Scandii con la leziosa malizia di un serpentello sibilante.
Ero cocciuta, in talune circostanze orgogliosa, in quel frangente indebolita, ma mica rincretinita! E poi, qualcosa mi diceva che sperava proprio nella seconda...
Il mio fittizio cenno di educazione pesò come un guanto di sfida, assottigliandogli impercettibilmente lo sguardo per un istante, prima che con poche falcate fosse fuori dalla stanza, rapido come un fulmine a ciel sereno nella mia vita.

~

"Vogliamo discutere del fatto che il nostro vice capo è tra gli uomini più sexy del pianeta?!"

Lucrezia esclamò in piena fibrillazione, fra un boccone di pizza ai peperoni e l'altro, il sabato sera seguente, weekend della prima settimana trascorsa in casa Green. Le ragazze avevano difatti deciso, testualmente, che le mie recenti avventure avevano raggiunto il limite di miserabilità accettabile perché lo sfondassi trascorrendo il sabato sera, oltre che immobile e allettata, anche in completa solitudine, così avevano mandato all'aria i loro piani mondani per l'avventurosa visione di un film, rintanate nella mia stanza. Optammo per Il Gladiatore; la mia silenziosa preghiera, che Massimo Decimo Meridio mi infondesse la sua determinata caparbietà per affrontare il colosseo di sfighe con cui si era avviata la mia esperienza australiana.

"Mi sono permessa di prepararti una tisana. Dev'essere stata una giornata movimentata per te."
Aveva esordito la domestica il primo giorno del mio arrivo in casa Green, una donna che aveva superato la mezza età, dalla fisicità morbida e lo sguardo gentile, mentre io studiavo la stanza che mi avrebbe ospitata di lì a tre settimane dal letto su cui le mie compagne mi avevano aiutato a sistemarmi. Agguantai la tazza tiepida trattenendomi dal sorridere: 'movimentato' non era esattamente l'aggettivo calzante... lo comprese la stessa domestica quando lo sguardo le cadde sul gesso che mi abbracciava la gamba, scoppiando di imbarazzo per la gaffe, facendo scoppiare le risa che avevo represso poco prima.

Il giorno seguente, il secondo in casa Green, fu la volta delle mie colleghe, con cui dovetti lottare per frenare le premure: loro avevano tutta l'intenzione di complicarsi la vita riposando a turni alternati nella mia stanza, io reagii borbottando qualcosa di abbastanza antipatico da farmi terra bruciata intorno. La mia tattica da Grinch, però, sortì risultati deludenti, e di fatto quella settimana trascorse fra le loro visite serali, la signora Hert e la sua disponibilità nell'aiutarmi in qualsiasi movimento e spostamento, rallegrata esclusivamente da film, serie tv da recuperare e svariate letture.
Piuttosto divertente, i primi giorni. Ma sette giorni di quella routine statica, e l'allegria... iniziava a sfumare in sangria. Nel senso che mi sarebbe servita della sangria per vivacizzare lo stato di noia in cui stavo letteralmente oziando!
Proprio perché in quella casa non accadeva niente, anche sul fronte Nathan non c'era molto da notificare: Freccia Verde, come suggerito da Lucrezia, era un uomo indubbiamente sexy, oltre che parecchio scomparso. Fu per questa ragione che, una delle sere in cui ero solita cercare una poetica crepa da studiare per conciliare il sonno, quando un rumore echeggiò in casa, mi allarmai nell'accezione più positiva che il termine avesse mai offerto: finalmente accadeva qualcosa!
Era Nathan?
Non ne avevo idea, trattandosi della prima volta in cui udivo segni di vita - che speravo vivamente non fossero di scasso - diversi da quelli della signora Hert.
Chissà se sarebbe passato in stanza...
Non molto plausibile, era quasi notte fonda. Già, ma Nathan era pur sempre il padrone di casa, e se condivideva le basi universali dell’educazione, presto o tardi sarebbe passato a farmi visita, no?
Non trascorse molto che, oltre al rumore, prese forma il suono di una voce; anche se parecchio distante per decifrarne le parole, mi bastò aguzzare l’udito comprendere che in realtà era più di una, e che se la prima apparteneva indiscutibilmente a Nathan, l’altra era di una donna diversa dalla gentile domestica.
Sommando all’ora improbabile l’elemento “compagnia”, dubitavo altamente in una sua incursione, e un paio di minuti di ascolto dal risultato silenzioso mi diedero ragione da vendere, quindi tirai giù le orecchie da segugio, dismessi i panni da agente FBI inconsciamente adottati e mi lasciai scivolare di nuovo sul materasso, proprio mentre una porta cozzava con troppo vigore contro il suo battente, scuotendo il muro di silenzioso relax di cui mi ero circondata; tirandomi a sedere, attesi l'eco di passi a suggerire l’arrivo di qualcuno, ma la casa ripiombò nel torpore silenzioso da cui era stata strappata. A quel punto non avevo la più pallida idea della linea che Nathan avrebbe intrapreso nei miei confronti, ammesso che ne avrebbe intrapreso una, ma, per intenderci, francamente a me andava bene così: forse non aveva ancora intenzione di interagire con me, ma ciò non toglieva che avrei comunque scroccato in casa sua!
Sorrisi sibillina; spensi l’abat-jour e la stanza mi riavvolse, finalmente, nelle ombre serene del relax.

Uno squarcio nella notte.

Uno strillo agghiacciante.

Il cuore pompò forsennato, minacciò di implodere, la spina dorsale venne percorsa da una scarica elettrica di puro terrore, il corpo issato dalle molle invisibili della paura.
"Aaaaaaaah!"
Mi sentii urlare di rimando ancor prima di rendermene conto, ancor prima di accedere allo stato di coscienza che segue ciclicamente quello del sonno, sprimacciando barbaramente la mano sul pulsante dell'abat-jour. Sfortunatamente, la mia vista dovette spaventare ulteriormente la donna che trovai a puntarmi con gli occhi iniettati di orrore: bionda e bellissima, l'espressione sgomenta rimandava a Tippi Hedren de Gli uccelli, sebbene io non fossi un rapace e nessuno stesse tentando di aggredirla.
"Nathan! – un milione di decibel si schiantarono contro il mio povero timpano - Dio, mi sento male."
Una mano premuta sul petto, che non smetteva di salire e scendere esattamente come il mio, la donna si sgonfiò come un palloncino contro il battente della porta, mentre dalla direzione sinistra del corridoio passi pesanti e concitati suggerivano l’arrivo in corsa dell’uomo. E, grandioso, da quello destro, anche quello della domestica...
Tutti insieme appassionatamente.
Ora riversi sulla soglia, gli spettatori si bloccarono a fissarmi come fossi la creatura del Dottor Frankenstein, chi carico di angoscia, chi di accuse. E seppure credetti negli occhi di Nathan un baluginio di indulgenza, nel vedermi stritolare il lenzuolo nei pugni e contro il petto, fu troppo fulmineo e prontamente sostituito da genuina insofferenza.
"Cosa diavolo hai fatto?"
Il tono grave e l'espressione adirata scacciarono ogni scia del torpore sonnolento in cui versavo poco prima.
"Dunque, da dove cominciare."
Battei un polpastrello sulle labbra, lo sguardo all’insu, preso a ponderare. "Più o meno sempre le stesse cose che faccio dal primo giorno: letto, mangiato, chiacchierato. Grazie per la visita di cortesia, adesso sto per aggiungere la quarta cosa che faccio in questi giorni: dormire." Esibii un sorriso rettangolare, palesemente finto.
"Cosa ha fatto?"
Rivolse esasperato alla donna, non prima di rifilarmi un'occhiata che mi consigliava l'internamento o l'incenerimento.
"Ma chi è? Natty, sono morta di paura!"
Deglutì la donna, così teatrale che mi sfiorò il pensiero stesse davvero inscenando il remake del film. Cingendo Natty con le braccia al collo, cercò sostegno nei suoi muscoli, che perfino dalla mia posizione sembravano caldi, avvolgenti.
Invitanti.
Mi sentii trattenere il respiro, mordicchiare le labbra, per fortuna il nomignolo “Natty” raffreddò con brividi gelidi i bollenti spiriti.
"Non è accaduto nulla, ma... ero per il corridoio, cercavo il bagno secondario, quando ho scorto la sagoma immobile di quella ragazza sul letto, in penombra, l'espressione così fissa davanti a sé... così macabra!" Diede volontariamente enfasi all'ultimo aggettivo, nel climax della perfetta recitazione. "Non me l’aspettavo. Mi sono spaventata, tutto qui." Non si servì di un timbro lagnato, al contrario. La trovai molto credibile, dovevo ammettere che mi sfiorò la tentazione di applaudire, salvo ricordare che ero io la protagonista del suo tetro monologo.
"Ma perché, qui in Australia quali usanze avete per dormire? A pipistrello?"
"Oddio!"
Nuovo shock per il premio Oscar Tippi. "Farnetica parole strane, in lingue... antiche!" Si accucciò atterrita nel petto possente del guerriero che l’avrebbe eroicamente tratta in salvo. "Hai portato in casa una ragazza che è in... in...—"
"Innocua, Ellen. È del tutto innocua, parla italiano."
Sbottò con spazientita calma lui, impedendomi di intercettare l'etichetta che la donna era sul punto di affibbiarmi.
"Stavo per accennarti il progetto universitario cui l’azienda partecipa di tanto in tanto." Posandole protettivamente un braccio sulle spalle la sospinse verso il corridoio con sé, congendandosi con un avviso intimidatorio, uno sguardo freddo da far rabbrividire persino la linea dell’Equatore.
Brrr, sto morendo di paura.
"Avresti potuto avvisarmi prima."
La voce di Tippi si faceva sempre più piccola, sempre più lontana, non abbastanza perché mi sfuggissero le note contrariate con cui stava accogliendo novità e rivelazione, di qualsivoglia natura fossero state.
La signora Hert, l'unica ancora rimasta sulla soglia, lanciò un'occhiata alle loro spalle, mi rivolse un cenno di solidale saluto e in fine anche lei si dileguò, lasciandomi a lambiccarmi su quale, fra macabra e innocua, fosse l'aggettivo che più si addiceva per un rincontro coi fiocchi.
Se ne prospettavano proprio delle belle.

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Capitolo 7
*** Capitolo sei ***


L'indomani sera assorbivo come una spugna ogni nozione che mi scorreva sotto gli occhi circa l'iniziativa al femminile di creare impresa, un articolo casuale ed interessante beccato sul web, prima che il mio pc avesse la brillante idea di lasciarmi con nient'altro che una schermata nera. Batteria annientata.
Inebetita, a rimirare la mia immagine allo schermo del lap top, avrei rischiato di sentirmi una moderna eroina Disney, se solo i miei capelli non fossero ridotti al crespo di Telespalla Bob, magnificati dall'allure elettrizzata alla Marge Simpson.
Acciacchi alla gamba che rendono lo styling un'utopia.
Inumidite con un fazzoletto imbevuto d'acqua, presi a sistemare le ciocche in una treccia cicciotta che fondava le sue radici sulla cima del capo, piuttosto prossime alla fronte — di modo che, quando si fossero asciugati, sarebbero apparsi di un mosso più composto e umanoide — pur sospettando che proprio con quell'acconciatura avrei perso ogni diritto umano di presentabilità.
D'altronde, data la vita sociale da Yeti che conducevo in casa Green, immaginavo che la signora Hert non si sarebbe lamentata del mio aspetto.
Le dita a placcare il lembo finale della treccia, mi ripiegai sul letto per cercare nel comodino un elastico, prima che la porta si spalancasse così energicamente da sollevare una folata, riducendo drasticamente le ore con cui avrebbero asciugato i capelli.
"Lei sì che sa entrare nel momento giusto, signora H—"
Non completai, perché il respiro si paralizzò al centro del petto allo spettacolo di Nathan Green, fermo sulla soglia della camera: perfetto abito da sartoria blu e sopracciglia aggrottate, l'espressione tendeva allo sbigottito ma sapeva di inorridito. Non ne aveva motivo, certo non poteva essere il mio braccio teso all'insù, per reggere il lembo della mia particolare acconciatura sparata verso il cielo ed il corpo in una posa del Twister, a scandalizzarlo. O forse sì.
Liberai immediatamente le mani dalla treccia, che ricadde sulla testa come uno stoccafisso, colpendomi con le punte le mie ciglia, facendomi strabuzzare gli occhi.
"Ciao!" Cincischiai sicura, per infondergli la sicurezza che qualsiasi cosa avesse visto era solo frutto della sua immaginazione.
...Solo frutto dell'immaginazione...
"C'avrà qualcosa di normale?" Mugugnò fra sé e sé, mandando all'aria ogni speranza di carriera da seguace del Divino Otelma. Ingoiando il groppo di tensione, assieme al suo elogio, recuperai ogni parvenza decorosa e ammodo. "Ho idea che il tuo malumore sia connesso al modo in cui voi australiani dormite."
"Qui si dorme come si dorme a casa tua." Si crucciò, mantenendo un espressione distaccata.
"Non sembrerebbe. Considerata la reazione terrorizzata della tua fidanzata, l'altra sera."
"Se è per quello, non direi che avesse tutti i torti."
Oh, questa mi mancava: per sommi capi, mi aveva più o meno della befana.
"Se non altro, oltre a ringhiare, hai imparato a borbottare negli ultimi giorni." Mimai una smorfia soddisfatta. "Di questo passo, imparerai ad interagire come i restanti 7.3 miliardi di persone al mondo!" Elargii un sorriso cento percento artificiale.
A dirla tutta, la sera prima avevo avuto dimostrazione che l'atteggiamento da orso era del tutto svanito in favore di pazienza e premure dinnanzi ai fremiti intimoriti di quella donna. Non riuscivo a capire il perché di tanta maretta, tra noi. Aveva mal digerito la vicenda del locale al tal punto? In fondo, un'accusa da molestatore ed un pugno costituivano solo un piccolo, accantonabile, malinteso. No...?
Se il problema era quello, avrei fatto lo sforzo di scusarmi, per garantirmi un soggiorno meno burrascoso.
"Ti ho portato una cosa."
Affermò con placido disinteresse, fattore che non impedì alla mia immaginazione di accendere una batteria di fuochi d'artificio scintillanti perché, per tutti gli ortaggi rossi del Connecticut, Nathan mi aveva portato un dono! Ergo, aveva pensato a me.
"Tieni."
Parlò, forse un tantino freddamente, ma il mio buonumore l'aveva già tramutato in miele d'api selezionatissime, porgendomi un...
Un cosa?!
Ammutolita, studiai l'oggetto come fosse materiale alieno.
"Si chiama quotidiano." Esplicò, dinnanzi alla mia perplessità. "È utilizzato per aggiornarsi su fatti di interesse mondiale quali cronaca, politica e attualità. Soprattutto, è utile per non stare con le mani in mano tutto il giorno." Concluse brusco, infilzandomi metaforicamente con mille aghi, uno più pungente dell'altro.
"Che gentile." Mi camuffai di sorriso e giovialità. "La mia apatia subirà un brutto colpo con tutto questo daffare."
Nathan non sembrò apprezzare il mio umorismo.
"Sei qui in qualità di stagista presso un'azienda, il fatto che ti sia fatta un graffietto non vuol dire che tu debba spassartela tutto il tempo. E non in casa mia." Battuti i tacchi, mi voltò le spalle, marciando verso l'uscio.
"Senti, io non me la sto spassando... ehi!"
Gli gridai dietro, perché aveva già voltato l'angolo al di fuori della porta, svanendo.
Stronzo.

~

"Cara, c'è una visita per te." Esclamò la Signora Hert dal corridoio, un mattino.
"Sorpresa."
Mi ritrovai a sorridere al volto che spuntava dalla porta.
"Ciao! Entra pure." Iniziai, sentendo le guance imporporarsi appena. Insomma, cosa ci faceva Mike, lì?
"Allora devo esserti rimasto impresso!" Si vantò, portandosi con una sedia accanto al letto.
"Già." Commentai, ridacchiando. "Non è facile dimenticarsi di un... —
"Di uno come me. Lo so, lo so. Lo dite tutte."
"In realtà, intendevo che è difficile dimenticarsi di un nome australianizzato come il tuo!"
Mike sbuffò, mostrandomi qualche istante dopo un sorriso bianco e diritto. "Come va? Non per dire, ma io avrei già prenotato la decima visita con lo strizzacervelli, chiuso qui per un mese intero."
Lo soppesai con una sbirciata rapida e assertiva. "Condivido, ma per il momento non credo di aver ancora dato grossi segni di squilibrio. Non nuovi, almeno." Commentai.
Mike mosse un lato delle labbra in su, restando silente, perché proseguissi.
Lo accontentai.
"Sì, beh, adoro stare in compagnia, ma la solitudine è sottovaluta. E poi, Lucrezia e Fabiana passano tutti giorni per un saluto, a volte si fermano a dormire qui, e la domestica è davvero simpatica."
Tutto vero, ma la mancanza degli impegni lavorativi, delle lunghe sedute di bagni rilassanti e le chiacchiere ad alto tasso di pettegolezzo con Fabiana e Lucrezia, iniziavano a farsi sentire. Impegnavo il tempo leggendo, e molto: dal gossip australiano, alle dispense di economia per acquisire la terminologia che avrei potuto sperimentare a lavoro, ma la noia certe volte mi sorprendeva in un crescendo così pedante che avevo finito per agognare perfino la sveglia alle sei per andare a lavoro, mia personale piaga d'Egitto.
"Mi hai convinto, Magda. In ogni caso, puoi aggiungere un nuovo componente alla lista delle visite." La mimica facciale di Mike era furbetta, ma potevo definirla bonaria.
"Già alle minacce?"
"Sei un bel tipo, Magda. Ho dovuto insistere un po' con le tue amiche per avere l'indirizzo di quest'alloggio... fantastico, direi." Mike roteò lo sguardo in panoramica, esaminando la mia stanza. O meglio, la stanza di casa Green. "Ma credo abbiano capito che mi piaci, e si siano arrese."
Rischiavo di arrossire, se mi fossi sfiorata le guance, le avrei sentite accaldate. A ragion veduta; Mike era un bel ragazzo: aspetto atletico, atteggiamento simpatico, di compagnia. Ebbene, perché non provavo turbamento, nemmeno l'ombra delle esagitate sensazioni provocate dal bellimbusto musone?
"Intendo conoscerti meglio, Magda Liquore, quindi passerò a salutarti, quando mi sarà possibile."
Ah, però, diretto! Mi crucciai.
"Potresti mica darmi la marca delle tue pillole del coraggio?" Tentai di eludere le terre del flirt che per me avevano lo stesso appeal di quelle di Mordor, ultimamente.
"Non mi sembri una che le manda a dire, anche se hai appena evitato una risposta. Toh."
Scuotendo la testa, afferrai la busta che mi aveva teso e che per mia gioia conteneva una colazione per due. Il mio palato ringraziava.
"Mike, accetto le tue sporadiche visite: averti amico avrà i suoi vantaggi." Esclamai briosa, tirando fuori il contenuto della busta.
"Wo, wo, wo!"
Mike scattò i palmi aperti all'aria, arrestando ogni discorso. "Mi hai appena appioppato il termine che inizia per... A?"
La fronte si stirò, dipingendomi in una smorfia confusa.
"Chiariamo: l'unico tipo di amicizia al femminile che conosco e consento, è quella con benefit, Liquore. A meno che non sia proprio quella che intendevi tu, e mi andrebbe benissimo, naturalmente."
La saliva compì un salto carpiato, prima di riuscire a seguire il suo corso lungo la gola. "No!"
"Allora avresti dovuto dirmi prima che sei fidanzata, avrei risparmiato i soldi per la colazione. O l'avrei rifilata a qualcun'altra, una disponibile."
Battei le ciglia un paio di volte, sbigottita, scegliendo la frase più evocativa per mandarlo al diavolo.
"Ehi, scherzavo!" Scoppiò a ridere. "Non sulla faccenda "fidanzata", comunque."
"Non lo sono, difatti!"
"Sei lesbica." Dedusse. "C'è almeno una vaga possibilità che tu sia bisex?"
"No e no, Mike!"
Mi era chiaro, era un giovane Casanova. Uno che si serviva di molta ironia, nel mio caso, motivo per cui mi imposi di rabbonirmi, trovandolo, tutto sommato, divertente. Di certo lo era la sua faccia, desolata e spaesata dal fatto che l'avessi respinto per una ragione diversa dalle sole che lui avrebbe ammesso per un rifiuto.
"Credo di essere immune al tuo sex appeal, Mike, tuttavia potremmo diventare amici. O qualcosa di simile. E senza alcun benefit." Specificai nuovamente.
"Perfetto, perfetto. Me ne sto andando, quindi."
Si sollevò dalla sedia, provocando le mie risa. Poi, con un ultimo occhiolino ed un sorriso accattivante, Mike Casanova andò a fare stragi di cuori... altrove.

~

"Cara, sei sicura che le tue amiche arriveranno presto? Posso attendere che arrivino." Domandò la signora Hert più tardi, quella sera.
"Vada pure, davvero. Arriveranno presto." La assicurai, mentendo nel modo più credibile che mi potesse riuscire. Di certo quello giusto, perché dopo qualche minuto, la signora Hert si dileguò.
Ero concentrata a pensare alle ultime cose da fare in giornata, e dubbiosa sul modo in cui avrei potuto svolgerle dato l'infortunio, quando un uragano sradicò la porta della stanza, portando con sé Nathan sulla sua soglia: camicia bianca immacolata, fuori dai pantaloni, parte dei bottoni ancora fuori dalle asole, le mani sui fianchi.
Uhm.
Iniziava a far caldo.
Era mica per quello che non aveva abbottonato la camicia?
"Se le tue amiche non hanno il dono dell'ubiquità, mi dovrai fornire un motivo valido per cui la signora Hert è appena andata via, a casa."
Incrociò le braccia, contraendo i muscoli vigorosi. Io stavo pensando che quel lembo di pelle lasciato scoperto aveva l'appeal della Nutella per i suoi adepti.
"Ed era convinta che non saresti rimasta sola, quando sappiamo entrambi che stasera ci sarà l'incontro con i manager obbligatorio per tutto il gruppo, eccetto te." Terminò aspro, come se fosse quasi una colpa, avanzando con le movenze di un leone non particolarmente misericordioso.
Tentai di non vedere che tremavo di ansia, consapevole di esser stata scoperta. "No, decisamente non hanno il dono dell'ubiquità..." Ripetei attonita, allo scopo di prendere tempo per sforzare gli ingranaggi del cervello a trovare una risposta adeguata. Ma, porca zucchina, perché anche da esasperato doveva essere così dannatamente sexy?! Non era d'aiuto per far funzionare i neuroni, solo gli ormoni.
Il ticchettio incessante del suo piede e la mascella indurita facevano da clessidra del tempo, innalzando la tensione, fino a farmi esplodere: "Loro... hanno il dono dell'invisibilità!" Sputai le parole in corsa, gli indici di entrambe le mani che lo puntavano, soddisfatta per aver trovato la soluzione al rebus, ma il sguardo raggelante suggeriva che non era una trovata geniale.
"Okay." Mi arresi. "È il giorno libero della signora Hert, quindi se n'è andata. Non ci trovo nulla di strano."
"Tu", Nathan sibilò furioso. "Sei fuori di testa! Avresti dovuto avvisarla! Dirle la verità, che le tue amiche non verranno!" Agitò in aria le mani.
Fosse stato un giocoliere, mi sarei data alle acrobazie. "O avresti dovuto per lo meno avvisare me, dannazione!"
No, a ripensarci, gliel'avrei scagliato contro, qualche birillo contro.
"E perché avrei dovuto avvisare te, di grazia?" La risposta volò fuori dalle mie labbra lontana, da ogni filtro logico. Poi gli risi in faccia. "Così saresti rimasto a casa per me?" Non c'era solo una sfumatura di scetticismo, ma altre mille di scherno.
Nathan non rispose, piuttosto strinse gli occhi. Sembrava genuinamente concentrato, forse a tentare di capire perché avessi accolto la sua soluzione con tanta assurdità?
News flash: a quanto dimostrato, Freccia Verde aveva un cuore. E molto generoso, per offrirsi di fare il baby sitter ad una che avrebbe preferito scivolasse nell'acido.
"È che quelle poche volte che abbiamo parlato..." non è andata granché bene. "Insomma, proprio non avrei pensato di avvisarti." Il mio timbro si fece sommesso, colpita da quella scoperta inattesa. Quando puntai i miei occhi diritti nei suoi, il suo sguardo fece da detonatore alle emozioni meno accessibili: intenso. Colpevole. Appassionato. E fissava le mie labbra, come se fossero tutto ciò che contava.
In un riflesso incondizionato le sfiorai lentamente, con i polpastrelli, ma quel gesto fu l'antidoto all'incantesimo: Nathan sgranò gli occhi, colpito in flagranza di reato, e scostò immediatamente l'attenzione, recuperando il solito muso tirato. E dannatamente sexy.
"Perché questo interesse improvviso?" Trovai il coraggio e la curiosità di domandare: Nathan non era l'uomo indifferente e distaccato che avevo pensato, o di certo non si sarebbe offerto di restare a casa, sapendomi sola.
"È ovvio, Magda."
Rimbeccò pronunciando per la prima volta il mio nome, in un modo così languido che non sfuggì al mio cuore già al galoppo.
"Perché cosi..." temporeggiò, facendomi rosolare nella suspense, mosse un passo avanti. "Te ne andrai da casa mia."
Lo stomaco si serrò in un groviglio. La bocca si prosciugò ai livelli sahariani.
Stupida.
Se ero una spina nel fianco di quell'uomo, girargli attorno il meno possibile era il minimo che dovessi concedere a lui. E a me stessa.
"Beh, sono una ragazza, Nathan, e..."
"E allora?"
"È imbarazzante lasciarsi accompagnare per ogni spostamento, per esempio in bagno, non credi?"
Il lato delle sue labbra si alzò svogliatamente, diabolicamente, ma i suoi occhi non sorridevano affatto.
"Posso garantire di aver molti anni d'esperienza nel fare entrambe le cose. Contemporaneamente." Scandì malizioso oltre ogni limite l'ultima parola, gustandosi il mio silenzio interdetto.
"Se non ti fidi, ho un buon numero di testimoni." Aggiunse sempre più indisponente, e non potei evitare di arrossire per quei suoi doppi sensi sfrontati e palesi ai quali non avrei replicato. Non sarei scesa a tale livello. Un cellulare squillò, rompendo il silenzio sceso in stanza; lo estrasse e ne fissò lo schermo, prima di riporlo in tasca.
"Il fatto che debba aiutarti negli spostamenti o prenderti fra le braccia non è un fatto di corteggiamento, tanto meno di avance. È solo una circostanza." Specificò serio. "Quindi smettila di ricamarci sopra. Intesi?"
La una punta di veleno centrò il bersaglio. Se ne andò senza interessarsi alla mia risposta.
Doveva essere diretto all'incontro che Luc e Fabi avevano quella sera. Era passata una mezz'ora circa, perciò doveva aver già lasciato casa. Ed io ne gioii a dovere.
Mantenendomi con una mano sul comodino ed una sul letto, riuscii ad alzarmi, attenta a non posare mai il piede per terra, per arrancare lentamente verso il bagno.
Avrei lavato i capelli. Ero tesa, nervosa, e dovevo occupare il tempo, o sarei implosa.
Ma la fortuna non era nella lista che il destino aveva creato per me, per ciò il peso del gesso iniziò a gravare sempre di più, rendendo l'equilibrio precario, e le movenze impossibili. Restai ferma, aggrappata al lavandino pregando che passasse, quando, stanca, urtai inavvertitamente il piede ingiuriato per terra: l'eco del mio urlo rimbombò nell'ambiente. Scintille di dolore mi fecero accasciare per terra, la vista annebbiata dal dolore.
"Ma che diamine hai..."
Scattai spaventata al suono di una voce, il suo volto perfetto si spostò verso il basso.
"Cosa ci fai ancora... —"
"Santo cielo, sei incredibile!"
La sua rabbia sovrastò la mia voce, scuotendomi per un attimo dalla sensazione dolorosa.
"Così dicono." Esclamai indispettita, strizzando gli occhi per gli spasimi.
"Maledizione, avevo detto di avvisarmi!"
"Non ho bisogno del tuo aiuto!"
Restammo pochissimi istanti a osservarci in cagnesco, prima che si allontanasse a grandi passi.
Bene! Un problema in meno fra i piedi!
Un solo piede…
Dolore e più tentativi falliti di quanti sperassi, riuscii finalmente a rialzarmi aggrappandomi al lavandino ma all'ennesima fitta mi ritrovai ancora ripiegata su me stessa a stringere i denti. Qualcosa urtò il mio braccio.
"Siedi qui".
Nathan, granitico ma meno rancoroso, mi si piazzò di fronte, indicando una poltrona da studio con le rotelle. Non avevo forze per opporre resistenza. E poi quei cuscinetti erano così invitanti...
Con un'occhiataccia, gli concessi di aiutarmi a sedere sulla poltrona, ammansita dall'acciacco. E dalla sorpresa di trovarlo lì, di nuovo, nonostante i nostri attacchi che avevano del bestiale più che dell'umano.
"Va meglio." Spiegai sincera, sperando che andasse via.
"Dovresti sciacquarli meglio."
Indicò i capelli con un'alzata del mento.
"Lo so."
Lo fissai mortalmente diritto negli occhi, a trasmettergli il messaggio che mi rimbombava in mente: vattene.
Senza proferire parola, ignorò i segnali per puntare al rubinetto, con cui armeggiò per far scorrere l'acqua tiepida. Mi indicò il lavabo, sospingendo delicatamente il retro della mia testa al suo interno.
"Ho detto che farò da sola."
Mi strattonai dalla sua presa, e per dimostrarlo apposi la chioma sotto il getto, quando avvertii le sue mani frizionarmi i capelli. Una scossa si dipanò, urtandole, costringendomi a ritrarre le mie di scatto. Purtroppo, le sue rimasero lo dov'erano. Intente a massaggiarmi così delicatamente il capo che l'istinto di mandarlo via e al paese andarono a farsi benedire.
Freccia Avvelenata ne approfittò per monopolizzare ogni centimetro del mio cuoio capelluto e, per evitare altri contatti, fui costretta a lasciarlo fare.
Nessuno mi aveva mai lavato i capelli, oltre a mia madre, immagino; nemmeno io stessa apponevo tanta delicatezza, nel farlo. Tutte le sensazioni si amplificarono in quel momento. Era un contatto sin troppo intimo, per il rapporto instaurato.
"Posso mettermi in contatto col tuo dottore."
Mi consegnò un asciugamano senza incrociare il mio sguardo, dopo avermi condotta sul letto. Mi fece sedere alla punta, in realtà era pronto ad avvolgerlo ai capelli, ma intercettai le sue mani prima che potesse pensare realmente di farlo.
"No, grazie."
Risposi in tono piatto, tamponando i capelli.
"Senti dolore?"
"Nathan, rilassati." Sbottai, ma senza urlare. "La mia permanenza in casa tua ha gli stessi giorni contati di prima."
"Bene."
Mormorò roco, per poi voltarsi. "Meglio così." Lo sentii aggiungere, prima di scomparire dietro l'angolo.

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Capitolo 8
*** Capitolo sette ***


"Mamma, va tutto alla grande." Esclamai iper felice. Iper falsa. Iper tesa.
"Ah." Pigolò lei, vivamente dubbiosa.
Anche se non avrebbe dovuto, mi faceva ridere la loro sfiducia nei miei confronti; poco ma sicuro, non avevo intenzione di piangermi addosso se loro vedevano in me tutto ciò che non avrebbero voluto in una figlia.
"Eri convinta che avessi spostato le falde terrestri e l'Australia fosse scomparsa per mia mano. Ammettilo, Madama Liquore."
"Non fare la scellerata, Magda, non credevo alcunché. D'altro canto, è notorio che il tuo feedback non esalti le tue capacità..."
Emisi un suono gutturale, la mia gola non si faceva problemi a prendere in giro mia madre. "Desolata, non ho capito niente." Recitai mortificata. "Sai che ho difficoltà a comprendere parole con più di cinque lettere e frasi con più di cinque parole e lettere... "
Dopo qualche istante silenzioso e spaesato, sbottò: "Ti basti capire che ti passerò tuo padre, allora!" Chiaramente urtata dal mio atteggiamento canzonatorio, inveì minacciosa.
"Te lo puoi proprio scordare!"
La mia replica, altrettanto irta: fine dei giochi. Riconobbi io stessa, nelle note dure di quel rifiuto, l'assolutismo con cui intendevo evitare la solita tiritera chiamata "capostipite Liquore".
"Mandagli i miei saluti, devo andare." Mi defilai arsa.
"Ma, aspetta un attimo! Non mi hai riferito nemmeno le cose più importanti… Magda!"
"Mamma." Rimproverai sospirando, ma poi mi bloccai perché, purtroppo, mi invase il senso di colpa. E della speranza. Dopo mesi di freddezza, che avevano mandato ancor più alla deriva i nostri rapporti, era la prima volta che avvertivo il suo interesse, quello che solo un genitore può avere per una figlia. Non persi altro tempo. "Dimmi pure." Invitai pacifica.
"Ecco, veniamo almeno a ciò che conta."
Mi concessi un sorriso silenzioso. Se i miei ci tenevano a sapere come stesse la loro figlia dall'altro capo del mondo, glielo dovevo. E ne ero anche sollevata, a dirla tutta. Probabilmente la mia lontananza aveva permesso loro di riflettere, di giungere alla conclusione che il nostro rapporto era prezioso, a prescindere dal lavoro che avrei intrapreso. O semplicemente la lontananza aveva addolcito le asperità. Da qualsiasi cosa fosse dipeso, ero rallegrata da quella vicinanza emotiva che, sotto sotto, sapevo aver desiderato, almeno un po'.
"Dunque, che genere di incarichi ti hanno affidato? Intendo, di quale tipo, grado di rilevanza..."
"Magda?" Domandò ancora, al silenzio che non chiarì i suoi interrogativi più importanti.
Le mie labbra si chiusero in una fessura, specchio del mio umore. Malgrado le distanze ed i silenzi, non era cambiato esattamente niente. Non potevo definirmi sorpresa, lo avevo preventivato, motivo per cui non ne rimasi eccessivamente delusa. La mia famiglia era l'emblema della forma, dell'altisonanza. E non discendevano da sangue nobile né possedevano sederi regali. Il loro era semplicemente carattere, forma mentis. La loro. Non era un caso che io non rientrassi in quei parametri né fra le loro grazie, e a dispetto delle difficoltà sparpagliate lungo il cammino dalle mie scelte, e dalle conseguenze riversatesi sul nostro rapporto, non sarei tornata indietro.
Avrei rifatto ogni cosa, forse avrei addirittura anticipato le mie mosse, senza assecondare il loro volere come avevo fatto pur di essere considerata una figlia meritevole della loro considerazione.
"L'ambiente di lavoro è molto serio." Il mio tono irrigidito era preludio di uno sfogo ricco in epiteti, dunque lo schiarii, scendendo a compromessi con la mia indole. "Ed il mio capo..."
Per un battito di ciglia mi sfiorò il pensiero di rivelare la mia reale, attuale, disastrata condizione: ‘Vedi, mamma, il mio capo non l'ho ancora conosciuto perché mi sono infortunata la caviglia sinistra dopo meno di una settimana di lavoro ed ora sto vegetando dal mattino alla sera, correndo il rischio di essere revocata dallo stage.’
Un fotogramma mentale del volto di mia madre, ridicolmente spalmata all'indietro, irruppe in un flash istantaneo. Un massiccio gruppo di risate premette per esondare dalla mia gola; le avrei comunicato quelle news volentieri, giusto per suscitare la loro scontata, nevrotica reazione, ma in fin dei conti non m'interessava provocarli. Ero volata in Australia per occuparmi di tutt'altro che mettere in scena la versione femminile di James Dean.
"Ecco, sì, parliamo del tuo capo. È importante che tu metta in luce le tue capacità, per guadagnarti la sua stima, affinché ti frutti la sua collaborazione. Per aspera ad Astra."
"Sì, mamma. Nel dubbio, specchio riflesso."
"Sempre la solita! Stiamo disquisendo di questioni serie, le tue insulse burle sono fuori luogo e non richieste!" S'inviperì, seccata. Allo stesso modo stavo per rimbeccare che, quello a cui avevo partecipato, si trattava di uno stage in cui ogni partecipante era sullo stesso livello, mirato al miglioramento professionale e personale, che non vi era spazio per la competizione né per spiccare dinnanzi al capo, ma qualcuno fece sì che tutto mi rimanesse proprio… sulla punta della lingua.
"Il capo? Ah, beh, chiappe di marmo e faccia da orgasmo: facile!"
"Come? Dovrai ripetere, non ho afferrato quanto hai espresso sul tuo capo, Magda." L'intonazione di mia madre si tinse di austerità mentre i miei occhi si sbarravano in direzione di Lucrezia, intimandole—con l'indice contro le labbra e le pupille di fuori le orbite—di tenere la lingua a freno e la bocca chiusa.
"Mamma, non ti sento più." Accostai una mano alle labbra, producendo suoni sconnessi. "Ci—rrrtr—risentiamo pre—rrrtr—sto. Ciao!"
Linea interrotta.
Finalmente, buttai giù. Sudata, stressata, agitata, eccoli i sintomi provati nell'interazione coi miei. Ed anche in quell'occasione c'erano tutti. Specialmente dopo la descrizione del mio capo fornita da Lucrezia...
Io l'avevo apprezzata! E condivisa, ma potevo scommettere che mia madre non sarebbe stata tanto solidale a riguardo.
"Allooora," appena arrivata, Lucrezia era pronta a metter su una delle sue scenette divertenti, aiutandomi inconsapevolmente a smaltire l'ondata di disagio che mi aveva investita dopo la chiamata. Fabiana mi sedette accanto, una pacca incoraggiante sulla spalla destra per l'imminente spettacolino della nostra amica.
"Parlavi del capo."
Aprì la danza di ragionamenti, pensosa. "E lui, mh... ci ha appena accolte con un sorriso rilassato. Molto, rilassato." Dondolò un polpastrello contro il mento, approfondendo il suo grado di concentrazione. Una miriade di teorie prendevano vita sul suo viso. "Per finire, entriamo qui e ti troviamo sudatissima." Lucrezia contemplò me, virò al soffitto e ripiegò nuovamente su di me, preparandosi mentalmente a formulare il verdetto finale: "Avete appena fatto sesso."
"Cosa? No!"
"Petting."
"Co… no!"
"Lo state per fare. Sesso e preliminari, o viceversa."
"No, no e no!"
"Quindi sei asessuata."
"No?!"
"Allora tira fuori il problema!"
"Hakuna matata!"
Luc aveva decisamente scambiato la mia reazione affannata, seguita alla chiamata di mia madre, con ipotetiche faccende riguardanti me ed il padrone di casa. Incrociate le braccia sul petto, restò in attesa di una risposta e, dato che non era il caso di avvelenarle con le chiacchiere su mia madre e sulla nostra fallimentare conversazione, l'accontentai, stando al gioco.
"In realtà, credo di non essergli esattamente simpatica" asserii casualmente.
"A me sei simpatica, ma è meglio così: l'avevo già abbondatamene adocchiato io, all'ospedale, quel colosso erotico. Ed intendo provarci. Anzi,"— ci degnò di un'attesa teatrale— "riuscirci."
"Oookay, mettendo i tuoi istinti riproduttivi un attimo da parte, Luc..." Tagliò corto Fabiana, con uno 'sciò' della mano, studiandomi come se scorgesse, in me, qualcosa che non mi spiegavo.
"Perché mai non dovresti stargli simpatica?"
Mh, ottima domanda. Mi domandavo la stessa cosa… salvo poi tornarmi in mente il locale di Pisa, borsette violente, pugni oltraggiosi, ed ecco la spiegazione. L'unica che mi venisse in mente, almeno. Magari era solo a pelle, una questione di antipatia innata. Comunque, preferii evitare di illuminarle circa quell'episodio sgradevole e ridicolo.
"Insomma, da cosa lo deduci?" Indagò ancora Fabiana, non accettando la mia assenza di replica.
"Non saprei... dal fatto che non mi rivolge parola?!" Consapevole di mentire, allontanai lo sguardo dalle loro amichevoli premure.
"Oh, Mag."
S'intenerì Lucrezia, fraintendendo il mio sguardo sfuggente con l'imbarazzo di una cotta. "Sto davvero per darle dei consigli sul tizio con cui avrei dovuto..." Lucrezia sospirò, riflettendo fra sé e sé, risparmiandoci fortunatamente la parte su 'cosa avrebbe dovuto' fare con lui, per venirmi incontro, chinandosi cosicché i nostri sguardi fossero alla stessa altezza.
"Ascoltami bene."
Puntò un dito contro la punta del mio naso, come approcciandosi ad una bambina. "Gli uomini, Mag, sono diversi, ma tutti uguali." Dandoci le spalle, prese a fare avanti e indietro nel perimetro quadrato della stanza.
Aggrottai le sopracciglia, giocherellando con le lenzuola, prima di lanciare un'occhiata a Fabiana.
"Ah, non guardare me!" Strepitò, intuendo la mia silenziosa richiesta di delucidazioni. "Dev'essere parente del signor Calli." Fabiana scrollò le spalle, rimandando alla passione per gli strani giochi di parole che accomunava il nostro coordinatore alla nostra amica.
Lucrezia la incenerì, ma sostanzialmente la ignorò, concentrata a proseguire la sua lezione di seduzione. "L'essere umano si è evoluto, ma gli uomini sono rimasti all'epoca della pietra. Hanno bisogno di smancerie, per sentirsi virili. E voi, giustamente, mi direte..." Si rivolse a noi come un predicatore fa verso la sua platea.
"Come fare?"
Il suo pubblico la contemplava inebetito.
"Semplice: dovete fargli sentire degli eroi!" Ululò soddisfatta, aspettando grandi applausi. "Tu, per esempio." Mi indirizzò i suoi grandi occhi color miele. "L'hai gratificato per averti aiutata? Che ne so, un discorsetto carino, un piccolo cadeau?"
"Non proprio." Nel duemila e mai, forse.
"E grazie, che non ti rivolge parola!" Ci si metteva anche Fabiana.
Le due mi guardarono.
Si guardarono.
L'aria che scorreva tra loro si intensificò di complici, ambigue iniziative.
Che stavano architettando?!
"Trovato!"
L'affermazione compiaciuta di Lucrezia, mezz'ora dopo, mi fece sbordare lo smalto rosso vermiglio che ero intenta a mettere con concentrazione zen e precisione chirurgica sulle unghie di Fabiana, lanciando chissà dove il flaconcino. Ovunque fosse andato a finire, avrebbe causato un bel pasticcio, a cui avrei dovuto rimediare.
Non trascorse molto, dopo che se ne furono andate, che la signora Hert portò via i piatti della cena, mentre io concludevo dei test avanzati di lingua inglese.
Osservando la donna allontanarsi, mi domandai se il regalo fosse arrivato.
Seppur controvoglia, avevo ceduto alla loro sciocca iniziativa: di per sé non avevo ordinato nulla di speciale, per Nathan. Il mio era piuttosto un tentativo di assecondarle, ma mi ritrovai comunque a sperare che apprezzasse più il gesto che il contenuto.
"Magda."
Esitò la domestica, rientrando in stanza. "Ti faccio forse delle porzioni ridotte? Sentiti libera di dirmelo, non c'è nulla di male!" Un carrello spuntò dal lato sinistro, e lei avanzò, trasportandolo in camera. Riciclata qualche scusa, mi avviai zoppicante, e guardinga, col carrello verso il corridoio, alla ricerca del salone. Fortunatamente non era ancora rincasato, ma avevo naturalmente calcolato tutto a dovere. Tranne che… la sua voce giungesse da una stanza del corridoio. Imprecai mentalmente, e senza ortaggi di mezzo: dovevo darmi una mossa.
Raggiunsi il tavolo che faceva bella mostra di sé, apparecchiato dal bon ton della signora Hert, ma ancora vuoto. Gioii all'istante per la scelta del dono.
Riuscita nell'impresa sgusciai verso la mia stanza, ma l'udito recepì un suono particolare, inviando al mio cervello l'input elaborato all'istante: a quella di Nathan, si era decisamente sommata una seconda voce. Una che di virile aveva poco. Mordicchiai le labbra, la portata ordinata era solo per uno; non avevo previsto che potesse avere compagnia, nonostante sapessi di quella misteriosa donna bionda che di tanto in tanto faceva la sua comparsa.

Sul letto, rigiravo il telecomando fra le dita, osservandolo come se fosse un oracolo proprio mentre la porta della camera che mi ospitava si spalancava, sollevando una folata da cui mi riparai teatralmente, ingigantendo un tantino la faccenda. Dopotutto, perché diavolo doveva essere sempre così avventato?
"Stai provando ad infastidirmi."
Detto ciò, Nathan si portò di qualche passo verso il letto, con incedere turbolento, per lanciarvi le buste col cibo indiano ordinato da me, per lui.
"Ci sei riuscita. Ora, puoi finirla con questi giochetti infantili? O forse mi perseguiti, tu e questo dannato pollo." Che rotolò, fermandosi vicino al mio gesso.
"Sei un povero pollo."
Affermai dolce, mirando ed accarezzando la povera busta, strattonata dalla sua maleducazione. Sollevai poi lo sguardo sull'essere più stupidamente odioso che il karma, o le profezie di Rosa, avesse potuto mettermi sul cammino.
"E tu, un povero stronzo."
"Vuoi anche accarezzarmi?"
Rimpallò, pentendosi quasi istantaneamente per il tipo di sarcasmo confidenziale con cui si era lasciato andare.
"Neanche sotto tortura."
Gli diedi le spalle, che presto tremarono di spavento quando la porta picchiò.
Poco dopo impilavo le portate una sopra l'altra nella busta. Annodandola, chiusi ogni possibilità di recuperare un contatto con quell'uomo, compreso il mio entusiasmo nel proseguire la permanenza nella sua casa. Certo era che non avrei avuto più niente a che fare col pollo al curry. E qualcosa mi disse che avrei fatto bene a pensare lo stesso di Nathan.

~

"Allora, come va la gamba?"
"Molto meglio."
Risposi a Fabiana l'indomani sera. "La signora Hert insiste per aiutarmi sempre. Pensare di fare qualcosa da sola ha le sua dose di infattibilità." Ripensai all'incidente del bagno, al massaggio dei suoi polpastrelli tra i miei capelli, sulla mia cute, con una delicatezza che non mostrava mai nella sua voce, men che meno nel suoi atteggiamenti. Così premuroso e attento, diverso dal Nathan che aveva spedito le buste di cibo direttamente sul mio letto.
"Non a caso ti è stato imposto riposo totale, no? Fra due settimane avrai le stampelle e il mondo tornerà in asse, per ora ti tocca semplicemente vegetare."
Appunto eseguii, chiudendo gli occhi. Ne sollevai solo una palpebra per citare: "È un sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo".
Fabiana mi aveva costretta ad uscire dalla mia stanza, eravamo sedute sul divano del salone, dove decisi di stravaccarmi al meglio che potessi. Visto che Nathan mi accusava di spassarmela in casa sua, bisognava pur dargliene prova.
"E come procede col mio capo?"
"C'è il Tonight Show di Jimmy Fallon, l'hai mai visto?"
"Sì, e non è ancora iniziato."
Dalla risposta, dedussi che aveva intercettato ed aggirato il mio tentativo di cambiare discorso. "Quindi? Voglio sapere com'è andata." Si intestardì, proprio nel momento in cui intravidi Nathan sbucare dal corridoio, in jeans denim, sneakers scure e passo spedito ma silenzioso.
Fosse stato un donatore di sperma, avrebbe fatto soldi a palate.
Preso atto della nostra presenza, si immusonì, forse provocato dalla mia presa di libertà in casa sua, o magari perché non si aspettava semplicemente di trovarci lì.
"Come l'ha presa quando gli hai regalato la cena?"
Con le palpitazioni che prendevano la rincorsa, mimai un segnale a Fabiana a suggerirle di cambiare argomento, quando vidi che Nathan proseguiva la marcia in nostra direzione.
"La tua faccia è programma!"
Commentò piccata la mia amica, mentre Nathan, ignaro di essere il centro dei nostri discorsi, si avviava al frigo bar presente in salone; non era esattamente a portata d’orecchio, ma immaginavo che a tv spenta la voce di Fabiana per niente sussurrata potesse fargli udire tutto. Pregai l'universo che Nathan provocasse un rumore, un piccolo suono, qualcosa che attirasse in tempo l'attenzione di Fabiana, sfortunatamente l'universo aveva altri piani in serbo per me, quindi restai ad osservarlo inerme voltare il capo verso di noi, appena realizzato di essere il protagonista della nostra chiacchierata.
Quella fu l'ultima immagine che vidi, perché non potei fare altro che serrare gli occhi, implorando Sauron di lanciarmi tra le mani l'anello, che avrei prontamente usato per scomparire, o di lanciarmi nella lava di Mordor.
"È un gesto gentile offrirgli una cena, Mag. Si tratta di riconoscenza, e tu gliel'hai espressa a dovere. Forse avremmo dovuto mettere in conto il fatto che la cucina indiana potesse non rientrare nei suoi gusti, ma non puoi dirmi che non ha apprezzato il pensiero."
"A me la cucina indiana piace eccome."
Fabiana sussultò con lo sguardo incollato al mio viso, sgranando gli occhi esattamente come stavo facendo io stessa: diventammo praticamente l'una lo specchio dell'altra..
"Cos'è che non avrei apprezzato, invece?" Proseguì Nathan, assettato di ripristinare l'immagine impeccabile, dinnanzi alla sua dipendente, che evidentemente qualcuno aveva leso.
"Nulla che io sappia!" Fabiana preparò un sorriso gentile e per niente preoccupato, quindi d'improvviso si voltò per rifilarglielo, affrontandolo come se regalasse caramelle a bambini. "Potrà parlarne meglio con Magda, in ogni caso. Sa, io c'entro poco, e so ancor meno." Parve talmente sicura di ciò che spiegava, che l'arciere più sexy del globo non poté far altro che rivolgerle un cenno d'assenso ed un meraviglioso sorriso. Quando puntò me, invece, sperai di pescare una museruola in qualche anfratto del divano: stava decisamente per ringhiare.
"Se non hai bisogno d'altro, io me ne andrei." Fabiana spostò l'attenzione su di me, felice di aver fatto da Cupido. E di avermi fiondato la patata bollente tra le braccia.
"Direi che hai fatto abbastanza, per oggi."
Replicai con l'acidità di uno yogurt greco, guadagnandomi prima un occhiolino, poi il suo pollice ed indice uniti in un cerchio perfetto, neanche avesse appena combinato un matrimonio fra casati.
Non appena si avviarono alla porta, inutile dire me la diedi a gambe.
A gamba, per la precisione, ma ciò non m'impedì di saltellare forsennata verso la mia stanza, pronta a fiondarmi in bagno. Mi scaraventai fiotti d'acqua gelida in viso, perché evaporasse l'incendio che attecchì sul mio viso, sul mio collo, al ricordo della sua espressione appena scoperto il vero destinatario di quella malcapitata cena indiana: un ventaglio di emozioni, che viravano dallo stupore all'ovvio senso di colpa, colorate da una tonalità mai vista prima d'ora, avevano spaziato sui suoi tratti decisi.
"Magda!"
Stringendomi al lavabo per lo spavento, roteai contemporaneamente su me stessa, tutto secondo i miei riflessi pronti e terrorizzati dallo strillo baritonale, quando un ammasso gigantesco si era già fiondato su di me, ancor prima che ne prendessi atto.
Il suo corpo era macchina rovente ed imponente.
Con una mossa fluida del braccio, Nathan riversò nella vasca tutti i prodotti posizionati ordinatamente sul ripiano collegato alla vasca da bagno, per afferrarmi alla base delle cosce e poggiarmi al loro posto, con intraprendenza vorace ma accorta.
Non realizzando cosa stesse accadendo, né cosa gli fosse preso, mi paralizzai; passare dagli sguardi da sicario al calore del suo corpo, era materia destabilizzante. Poco dopo, per aumentare il mio shock, Nathan decise di servirmi il colpo di grazia: le sue mani si stavano dirigendo al mio viso, ma solo quando ne avvertii il calore sulle guance realizzai di avere il volto racchiuso nei suoi palmi. Erano grandi. E rassicuranti. E calde. Il mio stomaco fluttuò leggero, i battiti spingevano, scalavano ad una marcia squassante. Sapevo che avrei dovuto ritrarmi, malgrado la sensazione piacevole del suo corpo aderito al mio, e che per qualche incognita ragione intendeva confortare il mio. Era mio dovere allontanarlo, per il rispetto orgoglioso nutrito per me stessa: non poteva evitarmi come se fossi la peggiore delle rogne e poi guardarmi con lo sguardo tiepido di attenzioni, quasi preoccupazione, per me.
Non ci pensai un istante, puntai i palmi sul suo petto e spinsi per allontanarlo, ma Nathan dovette scambiare il gesto come guizzo di dolore, finendo per allineare la sua fronte alla mia, permettendomi di sperdere i miei occhi nell'azzurro ansioso dei suoi. Dopo l'occasione a Pisa, fu la seconda volta che riuscii a scorgere quelle stesse pagliuzze che mi avevano stordita al locale.
"Dove sei ferita?"
"Lo sai, dove" replicai secca, con timbro lievemente tremante dello shock delle sue azioni fulminee quanto inaspettate.
Nathan sapeva benissimo che il mio disguido tecnico consisteva in una frattura di lieve entità alla caviglia. Lo sapevano anche i muri, ormai, per par condicio.
"Mag." Rimproverò con aria severa. "Non è il momento di giocare. È importante che tu me lo dica, subito."
La sua voce suggerì impazienza, ne bilanciò la rudezza sollevando il mio volto con una leggera pressione dei polpastrelli di sotto al mento, che sembrava una carezza.
Reprimendo l'istinto naturale di lasciarmi cullare il volto nel suo palmo destro, rimasto ad avvolgere la mia guancia, presi coscienza che l'uomo che aveva fatto quanto in suo potere per porre distanza e distacco tra noi in quei giorni, mi teneva stretta a sé, talmente vicina da essergli avvinghiata con le mani sulle sue spalle, bramose di avvicinarsi al calore del suo collo, abbastanza da potergli sfiorare il naso con la punta del mio, così tanto da inalare il suo profumo fresco, pulito, di montagna. Avrei voluto riprendere possesso, uno per uno, dei comandi del mio corpo che avevano optato per l'anarchia, perché il respiro mi si accorciò a lungo, visibilmente, perché lui non avvertisse la mia reazione. Capii che l'aveva decifrata perché nel suo sguardo guizzò qualcosa di simile al mio stesso desiderio.
I suoi occhi assorbivano le mie labbra, la mia lingua mi umettò appena il centro del labbro superiore, Nathan ne catturò il movimento come se lo stessi sottoponendo a ipnosi. Impercettibilmente, istintivamente, la distanza fra le nostre labbra diminuì: il cambiamento nel suo modo di respirare, di sfiorare, di pensare, rappresentava il mio.
"Il tuo broncio" mormorò. "Mi piace."
I suoi palmi scivolarono aperti sul fondo della mia schiena. Le palpebre gli si abbassarono, ma con cautela, la stessa che sembrava applicare a qualsiasi cosa mi riguardasse in quel momento. Appena i nostri respiri si intrecciarono, le nostre labbra entrarono in contatto, Nathan venne risvegliato, scattando il capo indietro con uno spostamento accennato ma repentino. Deglutii, frenando le reazioni inconsulte del mio corpo, recuperando il potere sui miei stessi sensi.
"Allora?" Riaperti gli occhi, indurite le spalle, domandò roco.
Avvertii il calore dei suoi palmi sfregolare lungo i miei fianchi, serpeggiare sulle mie gambe, per arrestarsi sulle mie ginocchia.
"Dimmi in che punto sei ferita, dovremo chiamare un dottore, se ti sei fatta male."
Recuperò un respiro profondo, a impossessarsi delle briglie che si erano sciolte per un po': stava per baciarmi. Questa volta non era singhiozzo, non erano ferite. Avrei voluto rivelargli che razionalizzare era impossibile, non c'era stata logica ad avvicinarci, solo istinto. Per quanto mi costasse ammetterlo, con quell'uomo condividevo molto più che sola antipatia.
Stava per baciarmi.
Ma io lo avrei lasciato fare, davvero?
"Non capisco. Io sto bene."
Rintuzzai, lasciandomi sfiorare dalla strana e folle idea di mentire, pur di non tornare alla normalità: quella in cui condividevamo niente, salvo l'indifferenza, la freddezza reciproca.
Ci scrutammo silenziosamente, poi lui volse lo sguardo altrove. Sembrava affogare nei pensieri ma, sempre presente alla situazione, afferrò un asciugamano. Non mi sfuggì il modo in cui si chinò per raggiungerla, tuttavia senza allontanarsi realmente da me, dal mio corpo. Poi il pensiero di quella donna m'invase la mente, colpendomi con la forza di un boomerang. Acciuffai l'asciugamano dalle sue mani con una certa veemenza: la sua vita privata non era mio affare, così come la mia, per lui. Adesso ero io a sentire la necessità di razionalizzare, e dovevo farlo perché Nathan Green rappresentava una casa in cui alloggiare temporaneamente, a tenerci sotto lo stesso tetto non era nient'altro che un infortunio, che presto sarebbe risanato.
"Però, di là, sul bordo del letto... quando sono entrato ho visto il fazzoletto intinto di sangue. Ed una chiazza di sangue vicino al letto." Nathan massaggiò la nuca, i dubbi insinuarono la sua vista, che chiedeva spiegazione alla mia.
Finii in una brusca apnea non appena visualizzai la scena che aveva appena descritto, comprendendo finalmente il motivo di tanto sgomento: ecco perché mi aveva accarezzata, guardata, svolazzata sul ripiano del bagno con tanta feroce apprensione!
"Okay, Nathan, dovresti mettere in conto il fatto di aver frainteso."
La bolla stava per esplodere da un momento all'altro, con un boato distruttivo e tanto di nuvoletta a forma di teschio, stile cartone animato giapponese.
"Non sono ferita."
Dichiarai, preparandomi psicologicamente non solo al fatto che quanto stavo per dire avrebbe messo fine a quel momento memorabile, ma anche all'ira che lo avrebbe sostituito. Mordicchiai nervosamente le labbra, perché non sarebbe mai più ritornato il Nathan docile e trattabile, ma nemmeno quello odioso che avevo imparato sfortunatamente a conoscere. Molto peggio: ne sarebbe tornato uno molto, molto più incazzato.
"Parla, Magda."
Come avevo fatto il giorno in cui rivelai a mio padre di esser stata licenziata, acquistai un lento respiro che confortò i miei polmoni, lo trattenni in apnea il più possibile, spingendolo ad esplodere fuori, trascinandosi dietro la verità: "Non era sangue, Nathan. Quello era solo… smalto!"
Ed io, chissà se ero fritta.

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Capitolo 9
*** Capitolo otto ***


"Senti, mi dispiace."
Anticipai prevenuta, sulla difensiva. Detta con quel tono supponente non è che sembrassi propriamente dispiaciuta, ma era il massimo che volevo offrirgli; non poteva pretendere di tenere sotto scacco ogni soffio di vento a questo mondo.
"So che è dura da accettare, ma i malintesi, gli incidenti, non sono materia aliena: succedono." Liquidai spregiudicata, nell'intento di stemperare il disagio del suo mutismo, ma i segnali lanciati dal suo volto invece che ammorbidirsi, parvero indispettiti dal mio scarso equipaggiamento di scuse, costringendomi ad abbandonare l'aria da dura, per tuffarmi in uno stagno di farfugliamenti agitati. "Oh, è andata che c'erano le mie amiche, io stavo adoperando il flaconcino, e poi Lucrezia ha gridato e io l'ho urtato e..."
Il becco mi si chiuse sotto il suo sguardo inceneritore.
Nathan restò immobile, a giudicare dalle sue sneakers scure fermamente incollate al pavimento, unico scorcio di mondo che osai sbirciare e, come sospettato, il bagno luccicante che ci aveva avvicinati adesso ci poneva nel più inglorioso dei silenzi.
Per il po' che conoscevo di lui me lo aspettavo, che da un momento all'altro quei sanitari profumati, ultramoderni e igienizzati sarebbero diventati teatro di una sfuriata, distruggendo lo sprazzo di positività che ci aveva collegati in un filo sottile poco prima. Per indole avrei voluto partire all'attacco, giocare d'anticipo e annientare la suspense mandandolo al diavolo prima che azzardasse accusa o insulto, ma dopo la scenetta CSI a cui l'avevo involontariamente sottoposto non è che mi sentissi nella posizione per farlo. Un po' me la sarei meritata una strigliata, ma il silenzioso mea culpa non mi risparmiò dal silenzio spettrale della sua reazione, calando su di noi come una un drappo a compressione. Accumulandosi sotto forma di tensione, gravò sul mio stomaco, pungolando la mia vena più spaventata, dalle tinte... prettamente noir.
'Wendy...' mormorava raccapricciante Jack Nicholson in Shining;
"Magda" frusciò arso Nathan;
Scappa, intimarono i miei sensi.
Un suono strozzato fendette l'aria, ammantandomi la pelle come una coperta di spilli; i miei occhi, iniettati di terrore, tentarono di carpirne l'origine, le mie mani si aggrapparono ai bordi del ripiano freddo nell'istinto di difesa, a volermici fondere.
Non può essere.
Se il mondo si era appena capovolto, io stavo assistendo alla scena completamente imbambolata, istupidita: il corpo massiccio di Nathan Green stava vibrando su e giù, incontrollato, la testa reclinata, un braccio sulla fronte, l'angolazione migliore per sfoggiare l'impeccabile mascella.
"Sei proprio un disastro!" Proruppe fra le... risate.
Ri.sa.te?
Nathan Green stava ridendo. Altro che Samantha Cristoforetti nello spazio!
"Andiamo a rimuovere quel casino prima che qualcuno ci resti secco!"
Nathan smise di ridere con le labbra, ma non con gli occhi. Smisi di ridere anch'io, perché una folgorazione mi suggerì che quel "qualcuno" non si trattava necessariamente della signora Hert. Non che mi riguardasse chiunque fosse! Né che m'interessasse scoprirlo... curiosità femminile, mi dissi, scervellandomi su chi diavolo fossero rivolte le sue premure.
Dopo avermi aiutata ad accomodarmi sul letto, Nathan avviò una fluida sequenza di movimenti che lo videro uscire da una porta ed entrare in un'altra, per poi fermarsi ai piedi del mio letto, indaffarato a imbevere un fazzoletto di solvente, talmente vicino ai miei da sembrare essersi dimenticato le coordinate della mia collocazione. Quindi, inginocchiatosi, prese a dedicarsi alla rimozione del misfatto rosso sangue dal pavimento.
Essiccate, dovetti inumidire più di una volta le mie labbra, tradite da quello spettacolo ipnotico: la virulenza delle sue cosce che spingevano contro i jeans, il torso muscoloso flesso verso la macchia incriminata; di qualità oscena, il carisma che trasmetteva in una posa casuale, semplice, ma che di comune aveva ben poco.
La voracità dei suoi movimenti crebbe al punto che il suo braccio sfiorò inavvertitamente le mie gambe, appresi di star rabbrividendo solo perché i suoi occhi guizzarono su di me, cogliendomi sul fatto, misurandomi prima con sorpresa e poi con arrogante realizzazione, velata subitaneamente da un fondo di incertezza insolita per uno personalità tanto spavalda. Pregai non indagasse né infierisse sul mio evidente momento di smarrimento, distogliendo lo sguardo dal suo per distendermi sul letto, e lui mi accontentò: pur trattenendo un cruccio che mi auguravo dettato solo dalla concentrazione, gli spintoni delle braccia tornarono a lavorare di fazzoletto in fazzoletto la macchia, in un andirivieni costante, dagli effetti più erotici di quanto avrei dovuto subire.
E l'attimo dopo stavo ipotizzando le sue capacità fra le lenzuola... che gli coprivano a stento le natiche in solido marmo di Carrara… confinandomi all'immaginazione della sua schiena che ondeggiava sul corpo di una donna senza identità, distesa sotto di lui. Tentai di deglutire mentre il desiderio serpeggiava nella mia fantasia, portando le unghie della donna ad affondargli in ogni rilievo della sua schiena contratta, ed il suo viso nascosto a fare capolino dalla spalla di Nathan, trasformandolo in un’agghiacciante scoperta: il mio. Il volto di quella donna era... il mio!
Per tutte le cipolle di Tropea, che problemi avevo?
Rinfrescai le febbricitanti fantasie con una secchiata di artici pensieri: non dovevo dimenticare che il protagonista di quelle calde suggestioni non era altri che un distaccato, sfuggente e presuntuoso pieno di sé. Il fatto che parte della mia coscienza sapeva che ne ero attratta proprio per quello era un dettaglio insignificante.
La mia mano sfrecciò a tarparmi la bocca, che aveva già espresso tutto il mio disappunto in un rantolo sfuggito alla mia repressione.
"Magda, dolore alla caviglia?"
Odore alla vaniglia. La mia mente bacata trasformò Nathan nel più goloso dei pasticcini.
"No!"
Starnazzai avventata, ammonendomi per modo in cui il mio corpo aveva apprezzato i disegni della mia fervida immaginazione. "Cioè, solo un po'. Ma c'è sempre, non è niente" contraffeci con un sorriso teso.
Per qualche ragione, Nathan non parve convinto della mai replica. "Hai preso i medicinali?" Neanche a domandarlo, si sollevò per afferrare i blister di medicinali in bella mostra sul comodino adiacente al mio letto, adagiandomeli su di un palmo. Riempito anche un bicchiere d'acqua—l'accortezza per i medicinali mi ordinava di tenere una bottiglia ed un pacco di bicchieri puliti sul comodino—me lo allungò.
"Posso?" Con un'alzata del mento, Nathan indicò un punto impreciso del letto.
Santo Cielo, no, che non poteva! Perché doveva invadere il mio spazio intimo, quando mi reputava una ragazzina giunta in Australia solo per infastidirlo! Afferrai il bicchiere, evitando accuratamente di rintracciare le sue dita e, senza annuire, feci leva sulle braccia per scostarmi, non perché avesse più spazio per sedersi, ma per evitare ulteriore contatto.
"Non è necessario."
Asserì, probabilmente nell'intento di tranquillizzarmi, prendendo posto sul bordo del letto, ma vicinissimo a me. Se avessi spinto il ginocchio a sinistra, avrei sfiorato il suo fianco. E a quel punto, se l'avessi mosso ancora, il mio ginocchio sarebbe scivolato lungo la parte esterna delle sue gambe, aderendo ai suoi jeans, ma nulla di tutto ciò accadde, perché ero impegnata ad osservare la sua mano avvolta al mio braccio. Avrebbe dovuto essere un gesto di riflesso, il suo, inteso ad evitarmi troppi spostamenti e affaticamenti, non sarebbe dovuto durare così tanto, da farmi perdere in dettagli mai considerati prima d'ora, come il contrasto della dimensione della sua mano sul mio braccio smilzo, o la consistenza della sua pelle contro la mia: mi piaceva, il modo in cui mi sfiorava. Azzardai a sollevare lo sguardo, trovandolo altrettanto immerso su quel contatto che durava da ormai troppi secondi.
"La macchia è andata via."
Sentendosi osservato, dichiarò con voce arrugginita, portandosi via dal letto.
"Senti, per quanto riguarda la cena di ieri... non ho colto il tuo gesto. Avevo compagnia... e delle faccende da risolvere." Massaggiò la nuca, ostacolato dal suo armamentario di scuse scarno almeno quanto il mio. Proprio non doveva piacergli scusarsi. O forse non gli piaceva il ricordo legato al pollo al curry, che gli aveva messo sul cammino una matta per cui era stato additato molestatore di donne.
Non aveva proprio tutti i torti… Beh, e a me non piaceva che qualcuno mi rivolgesse il pizzico di compassione per cui si era sentito costretto a scusarsi, quindi sollevai un palmo, arrestandolo con fermezza.
"Non hai mica le prove che sia stata io!" Sbottai scandalizzata e spazientita. "Mi hai forse preso per la tua geisha? Sai, in casa, di solito, siamo in tre. Anzi, quattro, la serata indiziata." Bacchettai, curandomi di usare un tono irridente, ovviamente ottenni tutt'altro esito: stuzzicato dal mio atteggiamento orgoglioso, Nathan incrociò le braccia muscolose sul petto.
"Ah sì?" Una smorfia accattivante plasmò i suoi tratti virili. "Parliamone."
Invitò e, per tutto il riso della Cina, sembrava un invito a figliare.
Nathan attendeva risposta conservando l'aria di sfida, quindi ordinai al mio corpo disciplina e avviai la mia filippica.
"Quattro ipotetici colpevoli. Annesso il rischio di un errore tra gli ordini del ristorante" per dare supporto figurativo, sollevai cinque delle mie dita. "Inutile sottolineare che il maggiordomo è quasi sempre il colpevole..."
"Che io non ho. Al massimo la signora Hert, che è già inclusa nei tuoi cinque, e non ordina d'asporto se non previo ordine. I miei, di ordini."
Lanciati gli occhi al soffitto, finii nella nube del suo profumo dalle note altezzose, ai sentori di superbia.
"Ma, vediamo… prendendo per buono che non sia stata tu, si suppone tu non sia nemmeno uscita dalla stanza dato il tuo acciacco. Dico bene?"
"Ma tu guarda, bello e intelligente. Dovremmo sposarci." Le mie ciglia svolazzarono come le ali di una graziosa farfalla. Nathan evitò di cedere a provocazioni, proseguendo diritto per il suo obiettivo, come una valanga che rotola ignorando e abbattendo ogni ostacolo.
"E quindi, Magda, come fai a sapere che in casa c'erano quattro persone, se di solito siamo in tre in casa, e tu non hai messo piede fuori dalla tua stanza quella sera?"
Oh, porca farfalla graziosa: appena spiattellata dalla roccia.
Imperturbabile, ma solo all'apparenza, gli indirizzai un sorrisetto disinteressato, pronta a distoglierlo in ogni modo, pur di non perdere.
"Hai un pennarello indelebile? È ora di porre fine alla moda del nonno di Heidi, e di iniziarne una tutta nuova, di cui sarai il fautore: baffetti alla Poirot!" Affiancai le mie gambe alle sue per sollevarmi e allontanarmi, disposta a tutto fuorché lucidargli l'ego con quell'ammissione che poteva anche sognarsi, visto il modo brusco con cui mi aveva fiondato il pollo—la cena che avevo ordinato per lui—contro.
"Non credo di averne bisogno: credo di riuscire a rimorchiare anche senza seguirne alcuna, di moda." Scandì in tono mefistofelico, placcandomi con un braccio per impedirmi di fuggire. "E di donna, anche."
Ah. Quindi, se lui non doveva seguirle, sottintendeva che fossero le donne, a cercare lui. E dopo questa, palmi posizionati sulle cosce, spalle diritte, sedere a papera, mi sollevai ufficialmente da letto, per lasciarlo nel suo brodo, scatenando di nuovo la presa della sua mano sul mio polso, tirandomi a sedere.
"Hai iniziato tu." Si difese, divertito dalla mia intransigenza alla sua boria. "E adesso, sei in grado di ammettere ciò che è successo, ragazzina?"
"Ehi! Io non ho proprio un fico secco da ammettere."
Il sorriso sbilenco gli distese i tratti.
"Ascolta, Mag..." la scintilla giocosa svanì improvvisamente da quella stanza. "Intendo ricambiare, uno di questi giorni."
"Penso di poter sopravvivere anche senza che tu lo faccia." Seppure se una minuscola parte di me avrebbe accettato, mi schermai di sarcasmo, rifuggendo la compassione con cui si sentiva in dovere di pareggiare i conti.
"Scusate, è permesso?"
La domestica entrò quatta dallo spiraglio della porta dopo il cenno affermativo di Nathan, che era già in piedi, già ricomposto, già con la solita parvenza impenetrabile. Avrei dovuto introdurre alla signora Hert il concetto di ottimo tempismo in discussioni perniciose.
"È arrivata la signorina Ellen" comunicò.
Oh. Avrei dovuto introdurre a quello di pessimo, invece, a lei? Ovviamente il fatto che non ne avessi alcun diritto era solo un insignificante, sciocco dettaglio...
"Nathan?"
La porta si spalancò, lasciando accedere la stridula vocina ed il corpo snello, avvolto in un abito da cocktail, di Tippi. Curioso, i suoi vestiti si rinnovavano ininterrottamente, ma la sua espressione era sempre la stessa.
Poi, il miracolo: improvvisamente l'ovale di Ellen venne tirato dagli invisibili fili dell'ira.
"Che cosa stai facendo qui?"
Domandò con un tono che somigliava ad un'accusa. Nathan sembrava sul punto di darle tutte le spiegazioni del caso, interrotto solo dalle iridi improvvisamente cristallizzate di Ellen. Vacue. Assenti.
"Oddio!" Aggredì tutti con la sua voce, dalle note più basse rispetto alla prima volta che non avevo avuto il piacere di incontrarla. "Lei ha provato a... a..." Le mani esili le tarparono la bocca, schiusa dallo sgomento; era esattamente come appariva: genuinamente contrita, spaventata dalla linea intrapresa dai suoi pensieri.
Trattenni uno sbuffo—chissà che aveva visto di tanto orripilante stavolta. Una formica? —imponendomi di seguire la traiettoria dello sguardo di Tippi-monoespressione-Ellen, per capire che problemi avesse, atterrando direttamente… sui
fazzoletti intinti di rosso.
"Ha tentato di..." di fallire nuovamente il misterioso proseguimento della frase, che ormai era chiara al mondo intero: almeno Nathan aveva pensato mi fossi casualmente, sbadatamente ferita, perché diavolo quella donna doveva insinuare istinti suicidi e macabre presenze ad ogni nostro incontro?
"Ellen, non c'è stato nessun tentativo qui. Va tutto bene."
Fu sufficiente la dispotica premura di Nathan a farla desistere dalle sue congetture.
"Andiamo." Le ordinò con dolcezza, adagiandole un braccio sulle spalle.
Finalmente libera, mi imbronciai, mi munii di cuscino e mi sistemai sul letto, quando avvertii l'insistenza di uno sguardo sulla mia pelle: Nathan, sulla soglia della camera, osservava il centro del mio petto, dove premevo il cuscino senza essermene nemmeno accorta. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, lanciai un'occhiata in direzione del bagno, rievocando l'accaduto rosso sangue, meditando se pronunciare la parola magica che avrebbe ringraziato la sua prontezza.
"Di temporeggiare, hai temporeggiato; sì, dovresti scusarti per la tua sbadataggine."
Nathan trattenne a stento un sogghigno, intuito il motivo della mia incertezza. Oltre che sexy, doveva anche possedere poteri divinatori, come zia Rosa.
"Certo, nel frattempo che accada perché non vai a farti fottere?"
Il mio sorriso artificiale venne ricambiato dalle sue note avvolgenti, allettanti, maliziosamente irritanti.
"Volentieri."
E, senza aggiungere altro, la stanza riverberò del tonfo con cui chiuse la porta alle sue spalle.

~

"Giorno, Rose!"
Tre pomeriggi dopo la mia camera subì un'incursione.
"Rose?!" Ripetei indignata. "Mi hai davvero confusa con qualcuna delle tue spasimanti?!"
"Macché, sei tu Rose!"
Dubbi ed enigmi scartabellati sul mio volto, riassunti in un'unica domanda: "Quella del Titanic?"
"Dal momento che per forza di cose io sarei Jack, spogliati: è ora di dipingere."
Un grugnito soffocato mi rigò la gola di risate. "Vedi di tenerti il pennello nei pantaloni, Magic Mike. Devi chiaramente avermi confusa con un'altra muse."
"Che tu ci creda o no, difficilmente ti confonderei con altre."
Risi apertamente, gustandomi la sua ironica vena... artistica.
"Riditela pure, Rose 2.0, ma è vero, che non ti confonderei con nessuna: tu sei speciale per il sottoscritto."
"Visto che lo sono così tanto, va' a prendermi un secchio, di grazia."
"Che, stai per rimettere?"
"No, per sciogliermi. Sentiamo, cosa avrei di tanto speciale, per te?"
Mike sistemò il pollice sul mento in una fase di profonda, mistica riflessione. "Il gesso?!"
Esagerato o no, qualche risata dopo, ammisi che era un portatore sano di buonumore. E di colazione. Fumante.
"Dì un po', perché non mi racconti cosa ti ha portato qui?" Domandò, intento a scacciare le briciole del cornetto dai pantaloni. Prima di andarsene le avrebbe spazzate via anche dal pavimento. "È una tattica" bisbigliò, portandosi vicino con aria da agente segreto. "Mostrarsi interessati. Sai, entrare nel personale per entrare nelle mutande."
Le mie pupille cercarono il soffitto. Scossi la testa.
"Lo stesso che a te." Saziai la sua curiosità.
"I crediti?"
"I debiti, Mike. L'aereo. Il caso."
"Valide alternative..."
"A te, invece? I crediti, dicevi?"
Michele si stiracchiò sulla poltrona girevole procuratagli dalla signora Hert. "C'è gente che si mutilerebbe le palle per accumularne, io ho scelto la via più facile. Di palle ne ho da vendere, ma non da mutila —
"Il concetto è chiaro!" Interruppi piccata.
Scrollò le spalle. "Forza, sbottonati un po', Magda Liquore! Che ci vorrà mai?! Voglio di più, da te."
I miei connotati composero una mimica inorridita.
"Non stare a fare la santa, e nemmeno la tonta! Sono solo curioso... metti che ci provassi con te, che fai la difficile, devo attuare strategie mirate: mi servono dettagli approfonditi sul tuo conto per capire se potrai essere la donna del mia vita."
Sbuffai. Esagerava, scherzava... con Mike faceva un po' lo stesso. Però, salvo i suoi blandi tentativi di flirtare, si stava rivelando un buon amico, una compagnia in quel periodo di fermo obbligato.
"Laureata in giurisprudenza, poi mi sono regalata uno stop dagli studi. Mi servivano soldi per un progetto e..." mimai una smorfia casuale. "Ed eccomi qui."
In realtà avrei dovuto spiegargli che dopo il diploma avevo dichiarato ai miei il sogno di diventare organizzatrice di eventi, matrimoni e festeggiamenti di ogni sorta, seppur conscia che non l'avrebbero presa bene. Auspicavano per me la carriera che mio padre aveva sempre sognato per se stesso, intrapresa dai miei due fratelli maggiori, medici di prim'ordine. Pochi corsi di orientamento post diploma e le mie ispirazioni bocciate da loro sul nascere, mi ritrovai ad intraprendere gli studi di legge; l'idea di avere un avvocato in famiglia colmava i loro petti e le loro bocche di orgoglio, facendo sì che in casa tornasse a funzionare tutto alla perfezione. Almeno fino alla scoperta della mia interruzione degli studi, volta alla ricerca di un lavoro che mi finanziasse un corso Planning, il sogno messo da parte che mai mi aveva abbandonata.
Fu scandalo a corte: la situazione precipitò come un calice di cristallo da un dirupo, non concepivano la mia pausa dagli studi né il mio cambio di rotta, soprattutto quella da me selezionata...
Il mio impegno nella ricerca di lavoro rese tutto reale, e mio padre prese a non rivolgermi parola. Non avrei mai creduto potesse farlo sul serio, non per così tante settimane. Demandava tutto a mia madre, nella speranza che il mutismo mi facesse da lezione per rinsavire e tornare a perseguire una carriera che non mi appassionava, lontana dalle mie corde, ma che loro preferivano. Non bastò a farmi demordere, ma i lavoretti che svolgevo non portarono grossi introiti, solo contratti brevi, possibilità irrisorie di realizzare i miei scopi, inasprendo il rancore nutrito dai miei verso le mie scelte. E verso di me.
La convivenza pre partenza portava i segni di quelle vicende.
"Io dico che i tuoi sogni si realizzeranno, bellezza. Mi sembri una sveglia, attiva. Mentalmente, se non fisicamente..." Mike rifilò un'occhiata alla gamba acciaccata e risalì il mio corpo. "Sessualmente, invece... che ne dici, potremmo scoprirlo subito? Non preoccuparti, per ciò che potremmo fare andrà bene anche una gamba sola. E non parlo della tua..."
Ridacchiando sonoramente, lo sfiduciai una volta per tutte. D'altronde non si sarebbe afflitto troppo; era un maschio, giovane e immaturo, caratteristiche ideali per tentativi di abbordaggio casuali e superficiali, fra una battuta e l'altra.
"Amici. Ricorda: niente benefit."
"Staremo a vedere. Curo la mia tartaruga abbastanza da farti cambiare idea." E per rendere l'idea, Mike prese a tirare verso l'alto i lembi della sua t-shirt.
La mia unica ciabatta gli contrasse gli addominali, di questo ne ero certa.
Mike finse di accusare dolore, poi un occhiolino e filò via. Non prima di spazzare le briciole della nostra colazione dal pavimento.

~

"Sveglia, bell'addormentata."
Una voce scampanellò a distanza inesistente dal mio timpano. Mi voltai dal lato opposto, restando nel tepore.
"Il capo che viene qui... interessante."
Un'altra voce indistinta produsse quell'affermazione. In un millesimo di secondo mi ritrovai ad occhi sbarrati, direzione soffitto.
"Addirittura! Non la svegliano i cannoni, ma basta parlare di grande capo che resuscita. Molto più che interessante..."
Tornando poco a poco alla realtà, riuscii ad associare alle voci i corrispettivi volti.
"Qui, Magda ci cova" Fabiana produsse un ticchettio ritmico dell'unghia contro una superficie. La scrivania, forse?
Mugugnai, sfregando gli occhi col dorso delle mani, ancora incapace di formulare pensieri e parole.
"Sia chiaro, noi vorremmo davvero ascoltare le tue news amorose..." Continuò quella che, ad occhio e croce, doveva essere Lucrezia.
"Lo vorremmo davvero, soprattutto dopo averti lasciata con un certo qualcuno, l'altro giorno..." Alluse Fabiana all'episodio del salone, sorprese da Nathan e dal karma bastardo.
Entrambe ai piedi del letto, mi tramortirono con occhi seri e braccia incrociate. Cos'era, mica un episodio di Happy Days?
"Sfortunatamente, dobbiamo andare." Rimpallò Lucrezia.
"Scusate, mi sono appisolata... Mike mi ha sfinita" sillabai, ubriacata dal sonno e un pizzico senso di colpa, per averle lasciate in attesa durante una delle visite che trovavano sempre il tempo di farmi, alleggerendo la monotonia del mio soggiorno e rallegrando il mio umore.
Per tutta risposta le due scattarono la testa l'una verso l'altra, vispe, pungolate dalla fame della curiosità e per niente risentite dalla mia siesta maleducata.
"E quando l'avresti conosciuto, questo?", "È un tuo collega di lavoro?" Domandarono contemporaneamente. Corrucciai le sopracciglia.
"Veramente l'abbiamo incontrato il primo giorno qui, alla stazione, e mi sembrava lo conosceste bene. Bruno, occhi verdi..."
"Michele."
Ottenne Fabiana, cambiando fototipo della pelle, che stava toccando in diretta ogni sfumatura del rosa: dal pallido all'acceso, soffermandosi sul rosso peperone andante.
"Aveva detto di volersi far chiamare—
"Pirla. Così, devi chiamarlo" gioco d'anticipo Lucrezia. "Quindi fate roba? Che schifo. E che strano... conoscendolo, non è da lui fare tanti chilometri per trovare ciò definisce cacciagione."
Non risposi, impegnata a notare che qualcosa proprio non andava in Fabiana, il cui colorito era ancora in fase arcobaleno.
"Comunque, diffida da lui. Oltre che beota, è un essere rivoltante, l'unica stagione che conosce è quella degli accoppiamenti" finì Lucrezia. Rabbrividii nauseata, poi mi lasciai andare in un cenno di sorriso, avendo immaginato qualcosa di molto simile sul Magico Mike, ma la reazione di Fabiana mi colpì abbastanza da interrompere il divertimento, per specificare: "Siamo solo amici, in ogni caso. Niente "roba". Inoltre si fa vedere di rado, ed abbiamo chiarito che sarà solo in termini amichevoli."
Intuii che il malessere di Fab avesse a che fare con Mike perché il conforto di quelle parole si dipanò in modo eloquente sul suo viso.
"Posso trovare un film, ordinare della pizza, se vi va." Mi tirai a sedere, sistemando alla meglio e buona i capelli che immaginavo uscito da un'esplosione chimica.
"Mentre ronfavi ti abbiamo aggiornata su stasera, che abbiamo un'uscita col gruppo. Siamo passate solo per un rapido saluto."
"Oh, menomale, credevo di dovervi passare la tessera per il partito delle zitelle convinte!" Scherzai mica tanto, mia zia mi aveva proposto davvero il tesseramento ad un club simile, uno del paese in cui affittava ogni anno, verso ottobre, una villa circondata dal profumo di grano, sole autunnale e castagne. Ero felice che uscissero, avevano dedicato pico spazio alla vita sociale per starmi dietro.
"Già, ma solo perché anche tu, come noi, stasera sei prenotata."
Certo, perché secondo loro avrei potuto unirmi alla ciurma con la gamba in quello stato...
"Alzati e cammina, ragazza!"
Fabiana mi tese una mano ed io l'osservai senza nascondere il mio scetticismo.
"Vabbè, alzati e basta, per camminare ti do una mano io..."
Dubbiosa, eseguii roboticamente, per rinsavire appena in piedi: "Ragazze, spiegare, grazie. E subito."
"Che dovremmo spiegarti? Semplicemente il nostro capo ti aspetta di là, nel salone, precisamente fra..."
Lucrezia calcolò silenziosa, osservandosi il polso. Salvo non indossare alcun orologio.
"Ora."

~

Ciao Donne!

Dunque, sto aggiungendo finalmente i nuovi capitoli. Avendone modificati alcuni, vi comunico che il primo capitolo è stato ritoccato e il nono e il decimo completamente rinnovati, pertanto vi consiglio di rileggerli, a partire dal capitolo otto in poi, in favore di una lettura scorrevole e facilitata per il resto della storia!

Baci!

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Capitolo 10
*** Capitolo nove ***


"Ragazze, ma..."
"Zitta e sbrigati!"
Ammutolita, seduta su una sedia posta di fronte al lavandino, osservai dal riflesso dello specchio le due mie due folli colleghe.
Alla mia destra, Lucrezia: velocità sovraumane e mimica da hair-stylist stressata, arricciava le ciocche frontali dei mie capelli con un ferro incandescente.
"Ahi!"
Brontolai quando il mio orecchio toccò circa i duecento ottanta gradi di incandescenza.
Dall'altro, Fabiana: attitudine da make-up artist impazzita e sguardo concentrato.
Rettifica, assatanato.
"Ahi!"
Rinnovai il volume acuto di dolore quando provò a rastrellarmi una gota con ciò che sospettavo un aratro, più che un pennello da fard.
E nonostante tutto mi mancavano.
Conoscevo Lucrezia e Fabiana da poco e avevamo avuto ancor meno tempo di conoscerci—causa il pessimo rapporto che il karma aveva stabilito con i miei arti—ma potevo affermare si fosse creato un bel feeling fra noi. Amicizia a parte, aveva tutto un che di inquietante in quel bagno e forse avrei perfino apprezzato quella seduta di make-up/tortura, se solo non stesse avvenendo mentre…
"P-r-ché tutto questo?"
Biascicai spazzolando i denti.
"Zitta e spazzola!"
Riuscii ad immusonire con lo spazzolino fra le labbra, provocando le loro risa. Mi mancavano, ma a breve le avrei mandate a quel paese senza sottigliezze.
Quando le mie due stronze amiche furono soddisfatte del risultato tagliarono la corda, lasciandomi a fissare la porta principale come fosse l'oracolo incaricato a dissolvere i miei dubbi: perché avevano preso ad acconciarmi?! E… Nathan mi aspettava?!?
"Magda."
Esplose voce più sensuale del mondo, facendomi eseguire una disarmonica piroetta, al termine della quale rintracciai la sua sagoma al centro del salone: braccia dietro la schiena, fondoschiena di marmo contro legno del tavolo, intensità dello sguardo di un leone contro una gazzella. Troppo sfrontati, i miei occhi lo scandagliarono dal basso, dove un denim chiaro e molto fortunato gli ricopriva sapientemente le fasce muscolari delle cosce, per risalire verso l'alto, dove una maglietta indaco metteva in risalto bicipiti, tricipiti, pettorali, e un buon numero di muscoli di cui scoprii l'esistenza solo in quel preciso istante. Mi sentii improvvisamente ad un supermarket riservato a sole donne.
"Mi stai consumando, ragazzina."
Per non parlare del fatto che, raggiungendomi in poche determinate falcate, la sua inattesa vicinanza mi fece mandare bruscamente giù perfino le tonsille. La reazione che il mio corpo aveva subito alla sua vista mi colpì con l'incisività una sberla, facendomi rinsavire quel tanto da imporre alla mia mimica facciale di restare completamente impassibile; il suo ego era sin troppo barocco per accogliere ulteriori incentivi.
"Dici che sono stata io ad averti consumato i pantaloni a quel modo?!"
Piantato sul pavimento con l'asprezza di una roccia, Nathan compose un piglio malizioso ai limiti del provocatorio, canzonando il mio insulso tentativo di insabbiare la reazione di spudorata attrazione che mi aveva colta pochi istanti prima.
"Senti, mi cercavi o no? Sei talmente egoista da non renderti conto che stare in piedi, per me, non è facile come lo è per te!"
Per sottolineare il concetto allungai un braccio verso il mobile adiacente alla porta perché fungesse da appiglio, ma la recitazione da vittima non portò i suoi frutti: la sua aria ostentata rimase ovviamente indenne mentre prendeva ad esaminare la mia capigliatura, virando sul mascara che mi esaltava le ciglia, chiudendo in bellezza sul mio rossetto arancio autunnale: fu proprio l'ultima parte dell'ispezione a sollevargli un sopracciglio. Mi avevano messo un po' di rossetto e sembrava avessi infranto la legge.
"Ti hanno conciata, così, o hai fatto tutto tu?"
Inutile sottolineare che, in base al tono volutamente derisorio con cui si era espresso, chiunque fosse stato il creatore del mio look non sembrava aver ottenuto un gran risultato.
"Se anche fosse?"
La mano libera mi si puntellò sul fianco, l'atteggiamento di sfida.
Nathan arricciò le labbra verso l'alto liquidando la faccenda con fare fastidiosamente disinteressato.
"Non c'è bisogno di tutto questo", centrifugò svogliatamente una mano in direzione del mio viso, guardandomi come se fossi pericolosa quanto un granello di polvere.
Cercai di tradurre la sua affermazione: o intendeva che la mia bellezza fosse talmente consolidata da rifulgere ogni forma di restauro, oppure, quella decisamente più papabile... "Risparmiami, ti prego." Incalzai velenosa. "Non dirmi che speri mi sia agghindata per te!"
Tronfio di strafottenza, mi guardava come se avessi appena ammesso l'insinuazione con cui l'avevo appena accusato.
"L'hai detto tu!"
Chiudere gli occhi e conficcare le unghie nei palmi non mi fruttò alcun effetto calmante: giurai a me stessa che, al tre, l'avrei morso con tutto il feroce sarcasmo di cui il mio corpo disponeva, quando Nathan mi batté sul tempo, bloccando ogni controffensiva.
"Dal momento stare in piedi, per te, non è facile come lo è per me, non perdiamo altro tempo: ti sono debitore, quindi… hai cenato?"
Non mancai di notare il modo in cui aveva scimmiottato il mio siparietto vittimistico, ma il mio olfatto subì il fascinoso richiamo delle pietanze fumanti che sbirciai già sistemate sul tavolo, intuendo il chiaro invito a posticipare ogni disputa. Da ottima forchetta qual ero, il sontuoso banchetto che mi stava offrendo era un'autentica festa per il mio palato, ma il mio orgoglio indispettito dalle sue battutastre mediocri non mi avrebbe mai permesso di fiondarmi sulla quella sedia.
Contrariamente al mio didietro... che vi si era posizionato in appena due saltelli su gamba sana.
Fu il calice che abbracciai tra le dita, inclinato verso l'affilato sorriso affiorato sulle sue labbra a dargli risposta: con andatura viva di compiacimento, Nathan incedette fino a raggiungere la sedia vuota dall'altro canto del tavolo.
E cena fu.

~

"Per inciso, più che debitore a me, lo sei nei confronti del pollo che hai maltrattato."
Dopo una serie di bocconi silenziosi reclamai così la sua attenzione. Il suo sopracciglio sollevato suggeriva di spiegare meglio.
"A Pisa, fuori dal ristorante indiano hai trasformato il mio pollo al curry in schiacciatina; potrei denunciarti per atti di violenza su pennuti molto speziati, se volessi."
Per tutta risposta, Nathan seguì con sarcastica attenzione il movimento secco con cui la lama del mio coltello sprofondò nella mia cena, testimone del viaggio che portò la porzione di pollo per direttissima fra le mie labbra.
Perplessità, l'unico aggettivo che poteva descrivere il modo in cui mi guardava mentre ingeriva un boccone, masticandolo senza alcuna fretta, prendendosi tutto il tempo del mondo, come se non fossi altro che un componente inanimato dell'argenteria destinato ad attendere la fine dei suoi comodi.
"Non credi che per diventare membro effettivo della protezione dei pollami, dovresti iniziare a smettere di torturarlo e farne la tua cena?"
Feci spallucce. "Può essere. Magari, se provassi cucine di altre provenienze, chissà..."
Degustato un sorso di vino abbastanza a lungo da poterne scrivere un manuale enologico, Nathan mi degnò del suono cavernoso della sua voce. "Così, la tua amica credeva fossi un molestatore seriale..."
"Che vuoi che ti dica? È un tipo accorto!"
Tamponai candidamente le labbra, mentre i suoi polpastrelli reggevano lo stelo del calice che roteava in mezze lune da destra e sinistra, in attesa di una risposta più sensato. Sbuffai. "E, quella sera in particolare, una svitata." Capitolai, sollevando gli occhi al cielo.
Evitai di confessare che ero perfettamente consapevole che in quella fatidica serata pisana si erano susseguiti una serie di fatti ben più irritanti che uno sciocco malinteso: essere accusati di molestie non doveva essere il massimo per nessuno, figurarsi per uno che non aveva nemmeno l'intenzione di provarci! Lo sapeva lui, lo sapevo anch'io, che mi aveva respinta con assoluta fermezza quando ero ad un passo dal fiondarmici addosso, e che l'unica ragione per cui si era dovuto accollare il mio peso su di sé risiedeva nella percentuale alcolica responsabile della mia andatura. Avere avuto la fortuna che nessuno avesse assistito alla baruffa, non significava che le conseguenze di un'accusa del genere, in pubblico, non avrebbero potuto causargli problemi più o meno gravi, se nei paraggi si fosse trovato qualcuno.
"È mia cugina Roxy."
Mi chiusi nelle spalle, come se citarne il nome adducesse abbastanza giustificazioni da potersi considerare una richiesta di scuse. Per me in effetti sì, naturalmente non per lui, che indagò il mio volto con aria cinica, come se non si aspettasse alcun tipo di correttezza da parte mia, fino a che l'esame lo portò a soffermarsi sulle mie labbra.
“Il tuo broncio... mi piace.”
Mi sentii serrare istintivamente le ginocchia.
Poteva un ricordo ardere così intensamente nel petto?
"Tutto sommato, capisco la reazione del tuo ragazzo. Ammetto di non averla presa bene sul momento, ma non avrei neppure lasciato così libera la mia donna in condizioni alterate come la tua."
L'uso di medicinali mi negava la possibilità di assaggiare il vino con cui Nathan stava accompagnando la sua cena, ma la possessività con cui aveva pronunciato "la mia donna" riuscì ugualmente a darmi alla testa. Mi ritrovai ad annuire, il suo discorso filava, anche se qualcosa di essenziale mi sfuggiva: il soggetto della discussione non è che mi risultasse più tanto nitido, considerato che si riferiva a qualcuno che, in base alla sua descrizione, evidentemente non ero io.
"Comunque avrei reagito allo stesso modo, fossi stato al suo posto. Molto peggio, a dire il vero."
Continuavo ad essere potenzialmente concorde, sostanzialmente non lo ero affatto visto che mi aveva ufficialmente appioppato un presunto fidanzato di cui non ero a conoscenza, mentre mi sfiorava il timore di esser pronta a condividere qualsiasi diavoleria venisse fuori da quelle labbra invitanti sotto effetto del movimento sensuale della sua mascella volitiva.
"Dovresti fare l'oratore, muoveresti grandi masse." Di ormoni. "O magari il politico. Se sei bravo nei brogli, saresti il candidato ideale."
Nathan spolverò un sorriso abbagliante, che non mi accecò solo perché venne subitaneamente sostituito da un atteggiamento che, a sensazione, classificavo spinoso.
"Non sono noto per la mia indulgenza, in certi frangenti... ma immagino di avere esagerato quella sera. Come gestisci la tua vita privata non è affare mio, d'altro canto loro avevano frainteso, di conseguenza ti stavano proteggendo."
Prendendo a scostare le nostre portate vuote in un angolo del tavolo, Nathan si apprestò a servire della macedonia di frutta già pronta per essere impiattata.
Continuava a parlare di me con la sicurezza di chi sa abbastanza da poter esprimere la sua, sebbene il suo atteggiamento adesso risultasse distanziato, controllato, come se ciò che sapesse sul mio conto lo portava a non voler avere a che fare con me. Non ricordavo di aver mai avuto occasione di ragguagliarlo sui miei trascorsi, sulle mie vicissitudini attuali, né di avere un fidanzato, ma nonostante la questione meritasse di essere indagata, non fu quella la perplessità che catturò uno per uno i miei pensieri, l'unica a cui la mia mente, o magari il mio corpo, scelse di dare priorità.
"E per cosa saresti noto?"
Parole arrochite mi fluirono di bocca prima che potessi arrestarle, impetuose come acqua che valica la soglia di un dirupo; liquide e leggere, inseguivano una risposta che si avventuravano in territori pericolosi. Territori che raggiunsero quando
Nathan, che stava versandomi più frutta di quanta ne avrei mai ingerita, si arrestò con il cucchiaio a mezz'aria dal piatto, squadrandomi dall'altro capo del tavolo con intensità paralizzante.
"Non vuoi saperlo."
Il suo sussurro roco vestì la sensualità di note vibrate, graffiandomi la pelle fino a insinuarvisi sotto, giungendo ad ogni mio centro nervoso, prendendone il comando.
"Non voglio..."
Mi sentii ripetere lieve come la neve, prigioniera del suo sguardo che da limpido cresceva tenebroso, ipnotico.
"O magari vuoi."
"Magari voglio..."
Diaboliche, le sue labbra dipinsero un ghigno di soddisfazione, risvegliandomi da quello stato di insidioso torpore con la potenza di un boato nella stanza.
"Non voglio!"
Scattai acuta puntando le mani sul tavolo, esagitata neanche stessero per ammazzarmi, strozzandomi con la mia stessa saliva. Acuendo il suo ghigno... "Non m'interessa." Falsai stabilità nella voce, sistemando con accuratezza il tovagliolo di fianco al mio piatto, preparandomi a dirottare la sua attenzione. "Piuttosto, quando parli del mio ragazzo a chi ti riferisci esattamente?"
Visibilmente spaesato, Nathan arricciò la fronte. "Non ne avrai più di uno!"
"Ne ho neanche mezzo! Se parli di Stefano, il ragazzo che ti ha procurato il graffio..."
Avrei potuto menzionarlo come l'artefice del destro che si era beccato, ma sarebbe stata una descrizione irrispettosa per il mondo del pugilato, considerato l'irrisorio graffietto che gli aveva a stento provocato e di cui non sembrava ci fosse più traccia. Non ne ero sicura, decisi di appurarlo in una mossa istintiva, portando il pollice sulla parte alta del sopracciglio, carezzandogli il punto in cui non era rimasta ombra di cicatrice.
Accadde in quel preciso istante, nel silenzio di quel contatto: sfiorare la sua pelle innestò qualcosa di caldo e inebriante sulla bocca dello stomaco, lasciandomi stordita e confusa a domandarmi se avessi mai provato una sensazione tanto vivida eppure inafferrabile. Come uno sfarfallio nello stomaco. E con la sua stessa caducità sì esaurì, ridestando la lucidità persa: era una cena di stampo cordiale, dal tenore risolutivo, con il proprietario che mi ospitava in modo inospitale: no, che non avrei dovuto fare nulla di ciò che stavo facendo! Ma sì, che avrei proseguito.
Avrei risalito la sua fronte, solcato le ciocche corte e dorate dei suoi capelli, e sarei discesa per lambirgli la guancia, aggirargli il collo e circondare la sua nuca, dove una leggera pressione avrebbe calamitato le sue labbra sulle mie, se solo… se solo Nathan non si fosse esibito in un grugnito che mi riportò alla realtà, facendomi prendere atto delle mie azioni: maledissi l'incontrollabile spontaneità con cui mi ero avvicinata a quell'essere sexy e scostante, e ritrassi la mano come scottata. Forse lo ero davvero, a giudicare le temperature laviche che stava toccando la mia faccia.
"Lui, Stefano, è il ragazzo di mia cugina. Si sono incontrati in laboratorio. Due biologi, unioni in vitro" sbrodolai in corsa, a casaccio, con lo sguardo che vagava sul tavolo nel tentativo di sopprimere l'imbarazzo fra piatti e sotto bicchieri.
"Quindi ho… frainteso tutto."
La sua voce si ridusse fino a diventare piatta, incredula. La mia curiosità subì una sferzata immediata che la condusse alle stelle: lo puntai con tutta l'attenzione di cui ero capace, esortandolo silenziosamente a spiegarsi.
"Ho dedotto... ero convinto fossi fidanzata."
Comunicò incerto, scuotendo il capo quasi a preferire di restare ancorato a quella ferma convinzione appena saltata all'aria. "Quella sera ti avevo chiesto se fossi impegnata e tu avevi negato. Ma poi, fuori dal locale, quel ragazzo… la sua reazione..."
"Veramente non mi hai chiesto se fossi fidanzata, mi hai solo domandato se fossi lì in compagnia!"
La sua smorfia supponente dava idea che per lui valeva praticamente lo stesso.
"Ho creduto che avessi mentito. Al tuo ragazzo, e a me."
Incrociando pigramente le braccia, mi lasciai invadere da quell'ondata di sincerità che stava sistemando tasselli sino a quel momento in disordine, dando senso ai suoi riferimenti sulla mia vita privata, al presunto fidanzato che mi aveva affibbiato poco prima...
"Il punto è che non sopporto chi mente. Odio le bugie, Magda."
Aggiunse duramente, come sulla difensiva, fraintendendo la natura del mio silenzio, forse sentendosi giudicato.
La linea della sua mascella si irrigidì come cemento armato, potevo vedere quanto il suo sguardo si fosse adombrato dopo avermi confidato una minuziosa parte di sé; il linguaggio del corpo e quanto sostenuto dalle sue parole mi tolsero ogni dubbio: quell'affermazione era legata a qualcosa che lo turbava nel profondo, qualcosa che immaginavo appartenesse ad un passato spiacevole. Probabilmente fu il mio inconscio a far presa sul mio modo di osservare le cose, perché l'aria tracotante con cui lo avevo sempre catalogato sembrò spazzata via da un volto contrito, dalle fattezze più umane di come lo avevo sino a quel momento valutato.
"Ed io che pensavo di esserti antipatica a pelle!" Sdrammatizzai, perché l'atmosfera si ammorbidisse, sebbene finii per stirare nervosamente le grinze della mia blusa, persa quanto lui nel flusso indisciplinato delle mie riflessioni.
Qual è il tuo passato, Nathan?
"Non ho mai sostenuto il contrario."
Lanciandomi un'occhiata di traverso, un sorrisetto casto gli ripristinò la parvenza che non appariva spocchiosa come solito.
Uno strano silenzio ci avvolse.
Mi ritrovai a ponderare quanto scoperto: una menzogna mi vedeva nei panni di una fidanzata disonesta, che in una serata qualunque stava per tradire il proprio fidanzato a cuor leggero, forse per noia, magari per alcol, o chissà per quali scuse; non avrei avuto una grossa opinione di me stessa nemmeno io, fossi stata realmente quella persona.
Quanto aveva dichiarato, seppur indirettamente, sottolineava qualcosa di lui: la sua sincerità nei rapporti, l'insofferenza per le falsità di ogni sorta, e la ragione di tanta diffidenza, l'abisso che aveva cercato di frapporre fra noi nei mie primi giorni di permanenza nella sua casa trovarono improvvisa giustificazione.
“Odio le bugie.”
Qualcuna avrebbe potuto giudicarlo esagerato, abituate a disonestà che per alcuni è un marchio di fabbrica, una tacchetta in più sul letto, un vanto di cui andare fieri, fino a reputarla accettabile, magari perfino attraente. Ma non io. Non conoscevo il suo percorso, i suoi trascorsi, né ciò che lo aveva portato ad essere la persona che mi stava di fronte: giudicare lui, la sua lealtà, non avrebbe qualificato Nathan, ma me stessa.
Di muto accordo, lasciammo cadere ogni discorso per gustare la macedonia di frutta, scambiando pochi convenevoli prima di lasciarmi condurre in camera; per quel giorno c'erano state abbastanza rivelazioni, chiacchiere e chiarimenti.
Raggiunta la soglia della mia camera, ero convinta avrebbe proseguito la sua marcia fino a scomparire dalla mia stanza senza aggiungere altro, quando il suo profilo si affacciò da una delle sue spalle imponenti.
"Il tessuto dei miei jeans..."
Le lenzuola sulle quali ero adagiata vennero stritolate dal mio pugno: sapevo dove sarebbe andato a parare ancor prima che completasse.
"È logoro secondo il modello, Magda." Il mio nome rotolò fuori dalle sue labbra stillando malizia, i suoi tratti si illanguidirono, cullandosi nell'astuzia. "Ma sono sicuro che questo lo sapessimo entrambi."
Smascherata.
L'attrazione che mi aveva colta a inizio serata, completamente snudata. Spiattellata ai quattro venti.
Nathan esitò, dandomi l'opportunità di controbattere, di smentire le sue convinzioni.
Non lo feci.

~

Il tête à tête di quella sera aveva segnato un punto di svolta nella mia permanenza in casa Green.
Con Nathan Green.
"Tisana?"
Domandò, armeggiando con la scatola in legno contenente una selezione di infusi pregiata, appena acquistata.
Era trascorsa una settimana da quella prima cena a due, e pochi minuti dall'ultima: per qualche inspiegabile ragione, Nathan aveva preso l'abitudine di invitarmi ogni sera a condividerla con lui, rendendomi chiaro che non avevo alternative che accettare: la sera successiva alla nostra prima cena, mentre lui era ancora a lavoro, domandai d'abitudine alla signora Hert quali bontà avesse in serbo per me.

..."Un bel niente, cara." Aveva candidamente replicato, sollecitandomi a ipotizzare quale pietanza prendesse un nome tanto sterile. "Il signor Green mi ha raccomandato di non preparare nulla, rassicurandomi che avevate concordato di cenare insieme."
Inutile menzionare che, non appena tornato, l'avevo accolto a braccia conserte e broncio indispettito, aggredendolo con un attacco a base di richiami al femminismo, al libero arbitrio, condendolo delle sanzioni previste per il reato di coercizione—in fondo la triennale di giurisprudenza era valsa a qualcosa—il tutto dissolto nell'istante in cui aveva sollevato le braccia da cui penzolavano buste con tre loghi differenti: cucina messicana, spagnola e indiana.
"Per promuovere la tua posizione a membro effettivo della protezione dei gallinacei..."

"No, grazie."
Rifiutai la tisana offerta, tutta storta sul divano del salone, intenta a frugare tra le piazze, quando la coda dell'occhio lo intercettò voltarsi in mia direzione. La mia attenzione venne calamitata da quell'istantanea: di profilo, una mano sulla mensola della penisola, i muscoli diramati come robusti rami, tesi per la posizione.
Ebbi l'impressione che l'equatore si fosse appena trasferito sull'altra piazza del divano.
"Argh, non trovo il telecomando." Tuffai di nuovo la testa fra le piazze, rimproverandomi non per il fatto di averlo fissato con insistenza, ma perché si era gustato tutta la scena con estrema consapevolezza.
"E allora cosa, Magda?"
"Mh?"
"Cosa vuoi?"
La sua voce ruvida mi graffiò la pelle.
Nathan strinse uno spigolo della mensola in marmo, le vene gli frastagliarono la mano, le braccia.
"Tè."
Affermai, e qualcosa nel suo modo di guardarmi cambiò. Come al calare delle tenebre, il suo sguardo si scurì.
Deglutii d'un colpo, sorpresa da un frastuono metallico, come di cucchiaini scivolati dalla presa, facendomi rabbrividire di ansia, adrenalina e qualcosa di simile a... desiderio.
"Ripeti cosa vuoi."
La distanza fra i suoi passi e il mio corpo si riduceva drasticamente, l'andatura predatoria non mentiva, le vibrazioni della sua voce ricordavano quelle di una corda di violino tirata al punto di esplodere. Osservai inerme l'ultimo passo che lo condusse ai piedi del divano; l'aria in stanza divenne così rarefatta che respirare divenne un atto impensabile, come stare in acqua senza alcun mezzo di erogazione d'ossigeno.
"Tè."
Bissai, del tutto incerta, per rompere l'incantesimo bieco che stava avvenendo tra i nostri corpi, e Nathan trattenne il respiro. Sembrava navigare nelle mie stesse acque, gravava nelle mie stesse difficoltà. Sguazzava nel mio stesso bisogno.
Poi, fu un attimo, e compresi.
"Verde!"
Specificai acuta non appena realizzai l'errore grossolano che avevo commesso, scioccata, accaldata e scossa dai battiti selvaggi del mio cuore.
Approfittando del mio temporaneo stordimento, Nathan fletté la sua sagoma imponente sul mio corpo, accartocciato sul divano, con una lentezza quasi dolorosa, senza interrompere il contatto visivo che ci teneva legati ad un filo sottile, roso dal calore dei nostri desideri, pronto a spezzarsi. Nel momento in cui portò un braccio oltre il mio fianco, sfiorandomi la vita perché il suo palmo incontrasse il tessuto lucido e liscio del divano, tremai.
"Verde..."
Scandì a pochi centimetri dal mio viso, il tono bollente come il fuoco. Quando il suo sguardo si spostò verso il basso, in direzione delle mie gambe, mi sentii afferrare una mano, sollecitata dalla sua ad aprirla, e qualcosa ricadere sul palmo, facendomi sobbalzare.
"Il telecomando."
Declamò restando a pochi centimetri dal mio viso, per più secondi di quanti avrei potuto resistere in apnea. La sua bocca era allineata alla mia, distante di poco, di troppo, invitante, inarrivabile. Mi sentii pizzicare in ogni fibra, pur tentando di restare completamente immobile.
"Avrai il tuo tè verde, se è quello che vuoi."
Detto ciò si issò in uno scatto possente e senza degnarmi di ulteriori attenzioni marciò a prepararmi il dannato tè verde, senza preoccuparsi di nascondere un sorriso beffardo.
Lasciandomi a domandarmi quanto tempo ancora avrebbe retto il filo su cui traballava l’equilibrio della nostra amichevole convivenza.

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Capitolo 11
*** Capitolo dieci ***


Qualche sera dopo eravamo sul divano del balcone, un posticino cautelato da un tetto automatizzato, un tavolino in vimini a donare un tocco lounge all'ambiente, le nostre tazze fumanti a decorarne la superficie e la nuova edizione italiana de L'isola dei famosi in onda sul suo computer. Non era stato semplice convincerlo, ma dopo un allegro alterco in cui professava tutta la sua indignazione per i programmi spazzatura, ogni reticenza venne abbattuta dal fondoschiena da urlo e il fisico statuario di una delle concorrenti. "Che nobili, i tuoi criteri selettivi su base ormonale. E comunque anche il modello con gli addominali perfetti è non è male, somiglia a David Gandy." A differenza sua io non avrei mai seguito un programma in relazione alla generosità della genetica sui protagonisti, che conoscessi a memoria ogni pixel di ogni pellicola in cui Viggo Mortensen o Brad Pitt dei tempi d'oro facevano da protagonisti era un fatto del tutto casuale... "Se volessi far colpo su di te," Nathan mi scagliò contro un sopracciglio ben sollevato, la mia affermazione infastidì il suo ego abbastanza da fargli sprigionare un'aurea di energia per proclamarlo l'unico maschio alfa esistente a questo mondo. "Mi basterebbe sollevare la maglia e mostrarti cos'è un vero addominale perfetto." Mi puntai un palmo sul petto, strabiliata dal suo talento. "Stasera sei ad un passo dal Nobel!" Poi la meraviglia venne improvvisamente meno e una vasca di succo di limone si riversò su ognuna delle parole che pronunciai. "E per la cronaca, grazie al cielo non corro il rischio!" Elusi così il perfetto bilanciamento tra sfacciataggine arrogante e materiale altamente osé racchiuso nei suoi sorrisetti oltre che il led rosso che vagava sul mio viso, tenuto sotto tiro dalla sua attenzione per chissà quale ragione divenuta taciturna e riflessiva, dichiarai che il vento fresco stava procurando beghe alla gamba da preferire andare a letto. Nathan eseguì, conducendomi in camera e di seguito a letto, ai bordi del quale sedette. "Quindi, mancano una decina di giorni." Proclamò in un calcolo veloce, reggendo il computer fra le mani mentre mi rimboccavo le coperte. Parlando del mio acciacco, in una delle nostre ultime cene infrasettimanali gli avevo spiegato quanto comunicatomi inizialmente dal medico: se tutto fosse andato bene avrei potuto usufruire di una stampella entro un mese, accaparrandomi la chance di ritornare finalmente al mio stage, alla mia vita, al corso di planning rintracciato sul web, cui avrei felicemente partecipato, e... al mio appartamento: presto, casa Green sarebbe stato solo un ricordo. Un brivido mi colse alla sprovvista; mi raccontai che doveva essere stato il cielo particolarmente blu, o magari la brezza serale a pervadere la mia pelle di umidità sul comodo divano del balcone—zona ad alta concentrazione rilassante che avevamo preso a raggiungere abitualmente con una tazza di tè fumante prima di andare a letto—il motivo per cui avvertivo l'esigenza di stringermi alle lenzuola come se ne andasse della mia vita. "Esatto." Mormorai, schiarendo la voce, per poi destinargli un tono paziente. "Sono appena dieci giorni, passeranno in fretta, e tornerai ad avere la casa a tua completa disposizione. Non lagnarti!" Ridacchiai. Nathan serrò le mascelle, lasciandomi alle prese con il suo profilo cesellato. Un broncio dubbioso si formò sulle mie labbra, conquistando la sua attenzione. "Quando serri le mascelle il tuo umore non è felice. Non è che ti sarò diventata simpatica?..." "Non esagerare, ragazzina" ribatté istantaneamente, annoiato. "Io, dico che ti mancherò. Dammi conferma, e può essere che mi tratterò qui ancora per un po'." Nathan rizzò aborrito le spalle alla sola ipotesi, bocciandomi con una risposta allarmata: "Neanche morto!" Sorrisi. Era evidente che tra noi ogni cosa restasse in un ambito leggero, pulito, decisamente passeggero, per ciò abbracciai la teoria che sarebbe stato bello finché sarebbe durato. Cioè solo una settimana e tre giorni. "Quando metti il broncio, il tuo umore non è felice." Le iridi azzurre di Nathan divennero limpide nelle mie, rischiarate da una testimonianza di conoscenza reciproca più profonda di quanto avrei creduto possibile. Con le palpebre appesantite e una guancia aderita al cuscino, non seppi cosa ribattere: forse aveva ragione. Forse l'idea di lasciare la sua casa non mi lasciava del tutto indifferente come avrebbe dovuto. Forse avrei dovuto rifilargli qualche battuta, schermare quell'irragionevole malinconia vestendola di sarcasmo, ma qualcosa mi indusse a non indossare filtri, a non obiettare per affermare il contrario, a restare in silenzio a guardarlo e a lasciarmi osservare con la stessa placida intensità. Nella quiete del momento, Nathan mosse appena il capo, quasi a rivolgermi un cenno affermativo, come se avesse compreso ciò che non avevo espresso a voce, come se potessimo comunicare anche senza parlare. "Può essere che tu non sia tanto male." Proruppe a voce bassa, arrugginita dalla sincerità che io stessa gli avevo donato, e che lui doveva aver percepito e deciso di ricambiare, le sue iridi tinte di una sfumatura di blu così profondo che mi sembrò di esservi smarrita per qualche istante. L'illuminazione in camera, soffusa ma pur sempre presente, non mi avrebbe concesso di imporporarmi senza destare attenzione, quindi dovetti distogliere lo sguardo dal suo e impiegarmi in manovre confuse volte a occupare la parte del letto più distante da lui, smaniosa di tenermi impegnata in qualsiasi modo, pur di smorzare i toni di una circostanza che nei film avrebbe portato ad un bacio romantico, ma che nella mia realtà non faceva piovere altro che imbarazzi abbondanti, fremiti diffusi e desideri sparsi. "Tra un po' comunicheranno chi è l'eliminato, dovremmo continuare a seguire." L'invito tossiva d'impaccio ma s'intendeva retorico, non a caso Nathan non si sprecò in parole, prese posto sulla parte destra del letto e, incrociando le gambe in modo tale da tenere le scarpe fuori dai bordi, sorresse il computer sul quale pigiò una sequela di tasti per ripristinare lo streaming. Solo quando il mio cuscino, posato contro la spalliera per comodità durante la visione, subì lievi affossamenti e qualche oscillazione, scoprii l'incidenza che può avere l'impulsività sul senno: in una sfida fra le due componenti, il mio carattere mi decretava un'imperdonabile stupida perché, con la spontaneità di un bambino e la dabbenaggine di un incauto, avevo appena sollecitato Nathan a condividere con me il mio letto. L'impatto della mia leggerezza si estremizzò quando la sua spalla combaciò perfettamente con la mia, i miei fianchi allineati al suo busto, la mia gamba imbalsamata almeno quanto divenne il mio corpo, immersi in un silenzio fitto dei suoi sospiri, fini come musica, ad istigare i battiti sempre più irruenti che tentavo di controllare, e... E Nathan Green era a letto con me. Il blando chiarore prodotto dalla lume sul comodino proprio non aiutava a rendere meno intimo il calore irradiato dalla congiunzione dei nostri corpi, pregai tutti i mantra del mondo perché dimostrassero il loro valore al momento giusto. Non accadde, ma una forza ancestrale subentrò ugualmente in mio sostegno, sprigionando in camera voci strombazzanti e rumori di fondo, miracoloso segno che lo streaming era avviato. Finalmente potei rilassarmi, canalizzando l'attenzione al monitor, appuntandomi che avrei dovuto rivolgere un ringraziamento al protettore di tutti Wi-Fi, salvatore di ragazze segretamente attratte dal proprietario di una casa che avrebbero presto abbandonato. ~ Non avevo più la coperta a scaldarmi, eppure continuavo a sentire caldo, un caldo insolito rispetto alle altre notti. Con sonnolenta capacità, in un momento imprecisato della notte formulai il pensiero che non era affatto sgradevole quel calore. Ne volevo di più. Rigirai allora su me stessa, nei limiti imposti dalla gamba, trovando la posizione ideale solo quando mi rovesciai sul fianco e quel calore mi avvolse come un manto, dolce e protettivo. Sospirando di serenità, unii i palmi e li accostai alla guancia, addossandoli ad un cuscino che quella notte era stranamente più ampio, rialzato, e nel confine fra sonno e dormiveglia la mia mente generò un nuovo pensiero, stavolta pregno, totalmente imbevuto di sonno: non era un cuscino quello su cui ero accucciata, rimandava più a un gruppo di muscoli estesi, sodi, come... quelli di un corpo prestante. Un corpo-cuscino che mi stava attirando ancora di più a sé, come se non vi fossi già spiegata contro tipo ali di gabbiano... Poi una realizzazione mi schiaffeggiò la mente facendomi sbarrare gli occhi, un tonfo del cuore mi percosse talmente forte la gabbia toracica che ne percepii il riverbero nella gola. Saettai il mio sguardo terrorizzato all'insù, oltre la mia fronte. "Nathan." Emisi in un sussurro veemente che poteva risultare un ammonimento quanto una preghiera, concretizzando che quel calore protettivo corrispondeva per davvero ad un gruppo di muscoli sodi ed estesi appartenenti ad un corpo prestante! Quello che avevo svegliato con la mia reazione inconsulta e che si stava issando a sedere sul letto con espressione corrucciata, occhi stropicciati e aria spaesata. "Ehi." Il suo esordio dal timbro impastato, appena colpito dalla mia stessa sorpresa. "Scusami. Devo aver preso sonno." "Lo vedo." Ribattei, presa dall'imbarazzo, la prima cosa che mi passò di mente, ma valutando quanto in quel frangente potesse suonare ostile, rielaborai: "Il reality ha fatto quell'effetto anche a me", indirizzandogli un sorriso tirato che lui non si disturbò a ricambiare. Appariva insonnolito, forse un tantino confuso, certo non mi pareva sguazzasse nel disagio che aveva interdetto me, mentre spostava le gambe per dirigere i piedi sul pavimento. "È tardi." Replicò di spalle dopo aver recuperato il cellulare dalle tasche dei jeans, gettando un fascio di luce flebile nella stanza, merito della quale notai la sua postura inflessibile come le sue affermazioni. Prima di addormentarmi dovevo aver avuto premura di spegnere la lampada, ma non di notare che mi stavo addormentando con Nathan. Su Nathan. "Certo." Acconsentii alle sue spalle, contrastando l'inatteso rammarico che stava connotando le mie emozioni, conscia che si trattava di un congedo. Nathan mi mostrò l'ombra del profilo del suo volto, che perse via, via definizione quando lo schermo del suo cellulare entrò in stand-by, inghiottendo la sua sagoma immobile nel buio; appresi che stava tirandosi su quando percepii il dondolio del materasso. "Aspetta!" Mi sentii catapultare una mano in avanti, scontrandola con la sua schiena solida e pronta ad allontanarsi, bussola per arpionargli un braccio in tempo. Sospettavo l'assenza di disagio nel ritrovarsi a letto con una donna nel cuore della notte dovuta all'essere avvezzo a simili evenienze, dal mio canto non ero sicura di conoscere e volere tutte le implicazioni scaturite da una sua eventuale permanenza notturna. Magari solo qualcuna... magari ero solo ubriaca di sonno e l'indomani, recuperato sonno e senno, mi sarei complimentata con me stessa per non aver commesso stupidaggini. Ma, volevo davvero non commetterne alcuna? "Il computer." Enunciai con voce spezzata mentre sollevavo lo schermo, lasciando che il bagliore del monitor delineasse nell'oscurità la larghezza delle sue spalle, a pochi centimetri da me, e le sue braccia, con i pugni serrati premuti sul materasso. Come se conoscesse le coordinate del punto in cui li avrebbe trovati, non appena si fu girato, gli occhi di Nathan intercettarono i miei e i suoi palmi presero a riabbassare lentamente il monitor del pc fino a chiuderlo, fino ad incontrare le mie dita, avvolgendole con le sue mani. Nel buio di quel contatto, le sensazioni furono talmente risaltate che mi sembrava non avesse semplicemente abbracciato le mie dita, ma inglobato ogni centimetro mio corpo. Avremmo dovuto scostarle; a quel punto, lui avrebbe dovuto afferrare il pc e adoperarsi per abbandonare il mio letto e la mia stanza, nella stessa misura in cui o avrei dovuto svicolare dalla sua avvolgente presa e augurargli buonanotte: nessuno dei due fece niente di tutto ciò. Deglutii a vuoto. Desideravo qualsiasi cosa comportasse una sua sosta nel mio letto? Potevo considerarmi pronta ad accettarne le ripercussioni, qualsiasi fossero state? "Devo andare." "Sì, devi..." Parole evanescenti si persero nel silenzio della notte, compensai la loro assenza annuendo ripetutamente, negandogli il mio sguardo, convincendomi che la cosa migliore che potesse accadere era che non accadesse niente e nell'istante in cui riuscii ad interrompere quel contatto, allontanando le mani dalle sue perché potesse voltarmi le spalle per andare via, una sequenza di fruscii vide il suo computer cadere entro un angolo del letto, il suo corpo smuovere la parte di materasso a me più vicina, e le sue labbra scontrarsi con le mie. ~ "Aspetta", bisbigliai alle sue labbra, insinuando dubbi e incertezze. "Non dovremmo, Nathan, siamo... amici." La verità era che poche cose mi erano chiare in quel momento, ma una la sapevo per certo: Nathan non stava solo baciando le mie labbra; Nathan le stava venerando e torturando al contempo. La sua risposta sussurrata non si fece attendere. "Non stanotte," la sua risposta sussurrata non si fece attendere.. "Faremo un'eccezione: torneremo ad essere amici domani." Nathan allontanò la mano dalla mia gamba ammaccata, che mi sorreggeva delicatamente per evitare che il suo peso la danneggiasse ulteriormente, e mi accarezzò il volto, forse percependo le mie reticenze, forse a tentare di rasserenarmi. In qualche modo dovette riuscirvi, perché ai dubbi di un bacio si contrapposero le certezze di una vita: ero andata da Roxy per staccare dal grigiore monotono in cui avevo sonnecchiavo, ed ero volata in Australia per conquistarmi una possibilità di vivere invece che di limitarmi a sonnecchiare. Probabilmente ciò che stava accadendo avrebbe portato un mucchio di danni, o magari non avrebbe portato a nulla; il punto era che in quel bacio si stavano avverando tutti i presupposti per cui ero partita, e se questo non bastava a farmi sciogliere fra le sue braccia ci avrebbe pensato il suo odore inebriante, fresco e pulito: fu come se le sue labbra avessero trasportato in quella stanza l'aria pura di montagna e il profumo caldo del bucato al sole, nel pieno della notte. Era questo che erano in grado di fare i baci? La sua mano giaceva ancora sulla mia guancia, i suoi occhi mi chiedevano silenziosamente se desiderassi fermare ciò che stava accadendo. Magia? Trovai risposta solo quando capitolai nella sua stretta, sollevando il volto per raggiungere il suo, ricambiando il suo bacio. Il giorno seguente Nathan mi aveva adagiata sul divano del salone, sedeva al mio fianco fresco di doccia ed espirava con l'aria provata e seccata di chi sta subendo una specie di martirio. Rincasato da poco, appena aveva messo piede nella mia stanza per salutarmi, lo avevo investito con la proposta per niente bene accetta di una partita a carte; A quaranta minuti dal suo arrivo, gongolavo festosa. "Che diavolo ho giocato a fare con te? Sei un'autentica schiappa, Nathan Green!" Diventavo un tantino competitiva, velatamente sborona nel gioco. Diciamo che mi si poteva tranquillamente definire il Balotelli del Burraco... E, se ancora non si fosse capito, diciamo che mi stavo comportando come se nessun bacio fosse stato scambiato la notte passata... esattamente come da accordo. Se era poteva considerarsi valido, un accordo avallato in un frangente in cui la mia lucidità si era pagata un viaggio per le Hawaii, squagliandosi sotto al sole di qualche sdraio, con tanto di cocktail dotato di ombrellino al seguito. "Non se ne parla!" Mi aggredì sulla soglia della sua camera da letto, appena messo al corrente del risultato delle sue cinque 'P': pegno da pagare per la perdita della partita. Inizialmente non avevo la più pallida idea di cosa arraffare, né intendevo azzardare richieste esagerate—dopotutto la ragione che si celava dietro la richiesta di giocare non era altro che sopperire l'imbarazzo generato dal nostro notturno avvicinamento, scongiurando eventuali disagi in quelli che costituivano a tutti gli effetti i miei ultimi giorni di permanenza in casa Green—. Poi, tutto d'un tratto, mi era saltato alla mente uno dei comandamenti di mia zia Rosa, che professava la disponibilità di un armadio una sorta di salvavita alternativo: sosteneva infatti che alcuni vi depositassero, per esempio nei cassetti, i medicinali che non trovano spazio negli appositi mobiletti da bagno, tali altri perfino gli amanti, ottenendo che se i due elementi si combinavano, ecco che l'armadio rivelava la sua azione salvavita, calcolando la vicinanza dei medicamenti nel caso in cui l'amante venisse scoperto. Zia Rosa e le sue astruse teorie... "Che razza di pegno è questo?!" Inveì esasperato. "Hai accettato la scommessa." Feci spallucce, liquidando la faccenda come un'inezia. "Magda, non ho accettato un bel niente." Grugnì di rimando, o forse ringhiò, non lo potevo dirlo con precisione perché, sfruttando la presa salda delle sue braccia che reggevano in equilibrio il mio corpo, gli piantai un bacio sulla guancia con tanto di schiocco. "Mi stai adulando o seducendo?" "Non so, ci sto riuscendo?" "No." Bofonchiò, suscitandomi un sorriso genuino e allegro. "E adesso, andiamo a fare un bel tè!" Cinguettai puntando le braccia in alto, che nel nostro linguaggio significava farmi sollevare sul suo castello di muscoli perché mi trasportasse qua e là per casa: l'impossibilità motoria non era mai stata tanto piacevole. "Spero tu te ne vada dannatamente presto." Proruppe in un burbero mormorio. "Stai prendendo troppo spazio nella mia casa e nella mia vita." Quello, poteva definirsi un campione di riferimento dei suoi sporadici e deboli tentativi di protesta, d'altro canto avevo dalla mia che Nathan non sembrava incline a dirmi di no. Almeno, così aveva dato prova, dinnanzi al broncio causato dal suo iniziale rifiuto della partita di carte, piuttosto che per la visione di programmi che giudicava spazzatura ma che alla fine non rinunciava a vedere in mia compagnia, o per le cene d'asporto a base di cucine che non gradiva, ma che non mancava di acquistare per me; concedergli un simbolico ascendente nella nostra discutibile accoppiata era quasi doveroso per la mia coscienza. "Okay. Cosa ti va fare, allora?" Nemmeno il tempo di indirizzargli un'espressione intenerita, che in un secondo mi ritrovai sollevata da terra e stretta al suo corpo, quello dopo, addossata al muro del corridoio e, l'altro ancora, con le sue mani grandi e forti avviluppate attorno le mie guance. "Questo, voglio fare questo." Nel giro di nemmeno ventiquattr'ore dall'ultima volta, la sua bocca si fuse di nuovo con la mia. "Avevi detto che—tentai di respingerlo come potevo, molto flebilmente considerata la passione che stava muovendo lui e innestando in me—sarebbe stata solo un'eccezione..." Freccia Verde stava conquistandosi il guinness dei primati per i baci più intensi che avessi ricevuto, e nemmeno lo sapeva. "Che oggi saremmo tornati ad essere amici." Nathan interruppe bruscamente il nostro bacio. "Ti sembra un buon giorno per tornare ad essere amici?—precipitò le sue iridi adamantine nelle mie —Quando i tuoi occhi m'implorano di baciarti, e il tuo sapore è così dolce che non smette sino a placare i battiti che ti scuotono ogni volta che siamo troppo vicini." Con discrezione, due delle mie dita andarono a tastarmi un lato del collo, nella zona in cui potevo controllare lo stato del mio battito cardiaco: c'era ancora; il mio corpo era andato a un passo dall'arresto cardiaco, ma alla fine ce l'aveva fatta, a differenza dei miei processi cognitivi, completamente andati. "Temo di dovermi riservare di rispondere a data da destinarsi, in questo momento non sono più tanto sicura neanche del mio nome..." Nathan si lasciò andare ad una delle sue risate vigorose e sexy da morire, da ridurmi in pappa le gambe. "Su, adesso andiamo a fare la tisana..." Cedette con espressione ammonitrice, depositandomi un bacio leggero per poi farmi segno di sollevare le braccia. Frattanto che eseguivo, Nathan mi chiuse le braccia dietro al suo collo per issarmi su di sé, ed io non potei evitare di sghignazzare sotto i baffi per averla avuta vinta, di nuovo; fu proprio a causa del mio risolino che Nathan si bloccò improvvisamente nel corridoio, facendomi discendere verso il pavimento per riposizionarmi su di sé, stavolta a mo' di sacco di patate sulle spalle, in una dinamica talmente veloce che non potei distinguerne i passaggi. "Ahi!" Ruggii quando buscai uno sculaccione. "Non tentare mai più di adularmi con quel broncio sexy, ragazzina." "Nathan!" Inveii più aspramente quando mi assestò un'altra pacca. "E questo perché?" Strillai furiosamente. "Perché ci ho preso gusto." Ridacchiò sereno come non l'avevo mai visto, mentre mi vendicavo con morsi e pizzichi che il suo corpo privo di grasso rendeva vani, quando ormai sulla soglia del salone, si paralizzò in un modo che mi mise a dir poco in allerta. "Nath..." Una voce gracchiante mi graffiò la pelle. Nathan mi aveva già fatto discendere per terra. Sorreggendomi sulle sue braccia, mi voltai per trovare in una posa di ghiaccio Ellen, verso cui Nathan muoveva un passo, relegandomi alla vista della sua schiena e creando una certa distanza fra noi. Provai lo strano presentimento che ogni risvolto della nostra relazione stesse per dissolversi nella breve ma oceanica distanza che Nathan frappose tra noi. "Avrei bisogno di parlarti." La osservai articolare in una posa talmente perfetta da eguagliare quella di una modella consumata e altezzosa, accompagnata ad un'intonazione risoluta eppure innegabilmente docile. "Certo." Ricambiò Nathan immediatamente, con un timbro dolce e solerte che non avrei pensato possibile per le sue corde vocali, prima di quel momento. Prima di quella donna. "Magda." Al mio nome invece riservò composta freddezza, una tonalità del tutto impersonale che pensai perfetta per liquidare un seccatore o uno sconosciuto con affettata educazione e tanta fretta, quindi senza nemmeno disturbarsi di avvicinarsi, voltò a stento il capo di lato per dichiarare. "Scusami, ma ho da fare. Ci si vede dopo." Sbrigativamente comunicato ciò, mosse verso la donna che lo aveva attirato come una sirena per Ulisse, piantandomi in asso sul posto senza nemmeno disturbarsi di attendere un cenno, un segnale di vita, portandosi dietro le attenzioni per la mia gamba, tutte azzerate per effetto della sola presenza di quella donna. Immobile e annebbiata, rimasi a guardarli allontanarsi nel corridoio sino a che restare in equilibrio su una sola gamba divenne faticoso, costringendomi a fare perno su ogni mobile incontrato lungo il cammino, battendo in zoppicante ritirata verso la mia tana.

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Capitolo 12
*** Capitolo undici ***


Il pomeriggio seguente stavo completando l'iscrizione ad un corso di planning organizzato dalla Women Power, associazione che promulgava il lavoro al femminile nota per competenza e professionalità, quando la porta della mia camera si aprì per rivelare l'ingresso di Nathan, passato per un breve saluto.
"Allora, faccio una doccia e torno a prenderti."
Comunicò con aria stropicciata e voce stanca, appena rincasato, e la coda dell'occhio mi partì all'esplorazione, registrando le sembianze da divinità impietosa e inclemente: mentre scaricavo il programma del corso—scoprendo che un test avrebbe dato l'opportunità a uno o più studenti di vincere una borsa di studio convenzionata con note scuole di planning di Sidney, Nathan si faceva largo nella mia stanza genuinamente convinto che dopo la doccia mi avrebbe sollevata fra le sue braccia e condotta in salone, per condividere come di consueto la cena e il resto della serata; Pur non avendo piena visuale, presa dal programmare il mio imminente ritorno alla realtà, quanto impresso sulla mia retina sottolineò che tutto di lui era in versione big: ego, carisma, muscoli e, sì, avendo avuto il suo corpo spalmato sul mio qualche notte addietro, avevo appurato che lo era anche... altro.
Insomma, si capiva, era uno di quegli uomini che avrebbe fatto presa su molte persone, solo, non quel giorno.
"E se per stasera avessi altri programmi?"
Nathan sollevò un sopracciglio, l'aria scettica, a tratti divertita come se avessi fatto la battuta del secolo, testimonianza di aver preso sotto gamba la mia insinuazione affatto ironica.
"Dubito avrai programmi migliori delle buste che ho portato: sono andato da Super Mario..."
Spifferò allusivo, facendomi strabuzzare gli occhi tanto da strappargli un sorriso maschio e soddisfatto: Super Mario era il ristorante italiano migliore in tutta Sidney, chiaro che Freccia Verde era arrivato a darmi già per scontata... ne andavo ghiottissima!
E, quella sì, che era una disdetta per il mio palato...
"Sai, oggi pomeriggio ho sentito le mie coinquiline, con loro mi sono organi—
"Piccola."
Il vezzeggiativo con cui mi apostrofò non giustificava l'arresto cardiaco per cui rimasi a fissarlo con faccia imbranata e lingua imbalsamata frattanto che versava con parvenza sciupata in mia direzione, sollevandomi il mento fra le dita. "Sto morendo di fame, faccio solo una doccia e mi racconti tutto a cena, d'accordo?"
M'incalzò con sorriso fiacco, impedendomi di riferirgli il piccolo fondamentale dettaglio degli impegni realmente presi per quella sera.
"No, aspetta, Nath..."
"Ho preso le penne al sugo, le ho fatte fare al dente."
Mi prevaricò furbamente, posandomi un bacio sulla fronte a mettere fine ad ogni discorso, sgusciando via oltre la soglia d'ingresso della mia stanza.
E, un po' mi dispiaceva per la pasta al sugo...
Nathan aveva scorto la buona forchetta che (non) sopiva in me: proporre una pasta al sugo, cottura al dente, equivaleva a giocare sporco! Perfino Sauron per un buon piatto di pasta asciutta avrebbe stravolto i suoi piani, sostituito la lava del Monte Fato con sugo al basilico, gli orchi con le nonne di tutta la Contea a produrre pasta fresca fatta in casa, e Saruman, tutt'al più, a fargli da testimonial per la più succulenta pasta al ragù della Terra di Mezzo! In aggiunta l'aver apposto attenzione a informazioni che sbrodolavo a caso, come il particolare che non fossi una fan della pasta scotta... e figurarsi quanto ci avrei impiegato, io, a disdire i programmi che Nathan mi aveva impedito poco prima di fargli presente...

Circa venti minuti dopo, Nathan faceva di ritorno nella mia camera coi postumi di una doccia ristoratrice che gli aveva lasciato i capelli umidi e i tratti rinfrescati.
Tratti, su cui fece irruzione un cruccio spaesato e stupefatto: colto completamente alla sprovvista, Nathan si arrestò sulla soglia della mia stanza, ritrovatosi a fare i conti con il mio... programma della serata.
"Salve, capo!"
Accolse Fabiana con fare inizialmente brillante, poi, al cospetto della sua faccia progressivamente disorientato, cui seguì a ruota la voce di Lucrezia. E non solo la sua...
"Ehilà!"
Si fece avanti il terzo membro dell'allegra combriccola, con enfasi energica ed entusiasta.
"Lui è Mike."
Presentai, schiarendo la voce. "Un altro collega di stage."
"Non fare la timida, qui siamo tutti adulti e vaccinati."
Appuntò serioso, mirandomi dall'alto della sua posizione con tempra che scommettevo prettamente scherzosa: "'Il prossimo per cui perderai la testa' non sarebbe poi tanto discordante come definizione..." Corresse sornione, virando su Nathan. "Il padrone di casa ti ospita gratuitamente, gli devi almeno un po' di sincerità, no?!"
La sua inclinazione a fare del blando cameratismo risultava chiaramente volta a rompere il ghiaccio, così impostai il mio volto su un sorriso accennatamente sollazzato.
"Dite che è ora di ordinare cena?"
Proposi puntando l'orario al cellulare e, accaparrandomi pareri positivi dalla gran parte dei presenti, presi a scorrere la rubrica in cui conservavo il numero di diversi ristoranti della zona, interrompendo la frugata per assegnare un'occhiata calcolatamente fugace.
"Allora... ci si vede dopo?"
Nathan si mostrò per l'uomo sveglio che era, cogliendo l'eco alla frase con cui si era congedato la sera prima annuendo impercettibilmente a qualcosa che andava oltre la mera domanda, muovendo per accomiatarsi con un sorriso a dir poco impertinente.
"Oh, ma, aspetti! Può cenare con noi se le fa piacere!"
Il suono soffocato prodotto dalla mia gola, rendeva abbastanza esplicativa la mia opinione sul richiamo appena fatto da Lucrezia? Probabilmente non per gli altri. ma abbastanza per la perspicacia di Nathan, che braccato sulla soglia della porta simulò di meditare a fondo sull'invito, prima di approdare a scontata soluzione: "Ma certo... perché no?"
Possibile che nessun altro avesse scorto il diabolico scintillio del canino, mentre enunciava in mia esclusiva direzione?

Nel giro dei dieci minuti successivi, in attesa che arrivassero le pizze Nathan allestì una sorta di aperitivo in salone, barcamenandosi da perfetto padrone di casa fra gli ospiti: simpatizzato superficialmente con Mike, cui offrì una birra consumata fra sommarie opinioni calcistiche, Freccia Verde si sprecò in umorismo incentrato sull'ambiente lavorativo, che solo le sue dipendenti furono ovviamente in grado di decifrare, sfoggiando brillanti capacità nel tenere le fila della serata e dimostrandosi un'autentica calamita umana. Contrariamente ai miei bistrattati interventi... continuamente impalliditi al cospetto di qualsiasi cosa si mettesse a cicalare lui dall'altro capo del tavolo.
"Che ne dite di spostarci sul divano e vedere un film?"
Ci riprovai non tanto per spirito d'ostinazione, quanto speranzosa di diversificare la serata dalle chiacchierate piuttosto elitarie che intesseva coi suoi interlocutori, consapevole delle micidiali probabilità che mia proposta, più che bocciata, sarebbe stata direttamente ignorata.
Non fu un caso che tutti fiondarono i propri sguardi su di me ma che nessuno osava fiatare, neanche avessi preteso la soluzione di un'equazione nucleare nel corso di un triplo salto carpiato.
"Mi pare un'ottima idea."
Proclamò paciosamente Nathan dopo attimi di pressante silenzio, le apparenze misericordiose che rievocavano l'imperatore prodigato a salvare il gladiatore con l'incurante sollevamento di un pollice, scatenando un esercito di consensi al suo indirizzo:
"Quoto."
"Un film è proprio ciò che ci voleva!"
"Già!" Mi aggregai briosa. Proprio una grandiosa idea, Nathan...

...Dovendo andare a lavoro presto l'indomani, a solo un'ora dalla fantasmagorica trovata di Nathan i miei amici dovettero interrompere la visione del film sulle prime battute, salutandoci appagati dalla piacevole serata e ringraziando il padrone di casa con confidenza rinnovata, senza tuttavia trascendere un certo distacco riverenziale che Nathan era abile a suscitare quando riteneva adeguato.
Ne fu un valido esempio il momento in cui Mike, prima di andare, si offrì di riportarmi in camera...
"Non è necessario, a Magda ci penserò io."
Sancì Freccia Verde, diramando una delle sue braccia nerborute per sorreggergli la porta bene aperta: "Le ragazze hanno bisogno di qualcuno che le tenga d'occhio nella strada di ritorno, amico."
Quindi, fracassandogli la spalla con una pacca amichevole, che ai miei occhi risultò più che altro un ceffone dell'uomo di Neanderthal, in pochi istanti la sua scultorea figura fu di nuovo al mio fianco, dove Nathan si barricò in un elettrizzante silenzio.
"Ha per caso a che fare con ieri sera?"
La sua voce mi sorprese quando non lo credevo più possibile, trascorsa ormai una buona manciata di tesi e silenti minuti di visione del film.
"Prego?"
Sillabai, con tanto di ciglia a svolazzare inconsulte.
"Non sembravi così lieta di includermi nei programmi della tua serata..."
Insinuò con fare discutibilmente tendenzioso. "Non avrà a che fare col mio allontanamento di ieri, il fatto che stasera volessi mettermi all'angolo?"
"Non capisco davvero di cosa tu stia parlando..."
Le mie fattezze incarnavano quelle dell’innocenza fatta persona. "E poi, ehi, nessuno mette Natty all'angolo!" L'accorato richiamo a Dirty Dancing fu la chiave con cui Nathan tradì l'ombra di un sorriso sul nascere.
"Sei una ragazzina vendicativa."
Rimbrottò con falsa severità, la stanchezza che traspariva dal timbro meno vigoroso, dalla posa meno granitica del solito.
"Però, a letto ti ci dovrebbero mettere, eccome."
Articolai senza particolare intonazione, tornando in direzione della tv. "Oltre a sragionare, sembri davvero stanco. Dovresti a riposare."
"Il film ti piace."
Obiettò repentinamente, come se la sua permanenza fosse in qualche modo vincolata a me. "E comunque, sono curioso di vedere sin dove arriva quel tizio." Indicò con un'alzata del mento la commedia romantica che col benestare della maggioranza femminile aveva sconfitto la proposta maschile di vedere un thriller d'azione alla tv.
"Il tragitto alla mia stanza non è mica l'interstatale! Ho fatto di ritorno in camera da sola anche quando ieri sei andato via, la mobilia si è rivelata un ottimo appiglio; scommetto che stasera farà lo stesso."
Lo illuminai, equamente divertita e irritata dalle sue intermittenti premure, scomparse all'arrivo della fascinosa Ellen, ora magicamente ritornate in sua assenza.
"Prima i tuoi programmi con ospiti a sorpresa..."
Buttò lì con nota scherzosa. "Poi un 'Ci si vede dopo', a sbolognarmi parodicamente, e ora questa: suona proprio una recriminazione bellicosa da parte tua, Mag."
Nathan mi solleticò un fianco col gomito. "Non sarà che sei gelosa?"
Il primo impulso fu di assecondare la scossa dipanata dai miei due globi inferiori, saettando dal divano al soffitto come in un cartone animato, per fortuna mi limitai solo ad orbitare gli occhi al cielo, conquistandomi il tipo di ghigno spassato che equivaleva ad aver confermato la sua giocosa tesi.
"Nathan, intendevo che non è necessario ti trattenga oltre."
Espirai spazientita. "Prodigioso ma vero: non ho riscontrato grossi impedimenti a tornarmene in stanza, anche senza il tuo aiuto!"
A proposito di prodigi, ne avevo un altro sottomano, e stava nel fatto che ricordassi ancora il suo nome, perché in barba all'ormai notorio ‘Ci si vede dopo’, il giorno prima, Nathan era praticamente scomparso: ad un certo punto della serata, la signora Hert si era fatta largo nella mia camera con un tramezzino improvvisato e la sterile comunicazione che il signor Green era in compagnia. E che tale compagnia si sarebbe trattenuta per l'ora di cena...
Le ore trascorse e il suo mancato ritorno corressero automaticamente l'informazione: probabilmente anche per l'orario del dopo cena...
"Certo, avrei impiegato meno a compiere la traversata del Pacifico su un salvagente a forma di donuts..."
E, certo, non è che mi fossi sentita particolarmente deliziata quando mi aveva piantata su una piastrella a caso di quel pavimento, con lo stesso grado di interesse rivolto a una bomboniera da cresima, allontanandosi con l'algida e bellissima (anche se, con quegli sguardi di ghiaccio acuminato che pareva volermi scagliare contro, un tantino antipaticissima) Ellen...
"Tutto sommato, dubito che un paio dei tuoi baci siano sufficienti a far perdere la testa per te."
"In effetti..."
Nathan appoggiò la mia teoria con fittizia creduloneria. "Ne è sufficiente già uno."
Per ospitare la convinzione di quell'uomo le zolle tettoniche dovettero incrinarsi per dare vita a un nuovo continente, grande più o meno quanto quello asiatico.
"In ogni caso non avresti dovuto."
Scattò in un repentino cambio di repertorio che lo stanziò su inflessioni serie e apprensive. "Camminare non è in alcun modo salutare per la tua condizione, ero convinto ci fosse ancora la signora Hert in casa, che ti avrebbe riaccompagnata."
Non sapendo cosa replicare, per scongiurare il rischio di cadere in pericolose discussioni mi chiusi nelle spalle, operando un frettoloso cambio di discorso.
"Quel tipo mi ricorda qualcuno..."
Emisi con enfasi piccata, imbastendo un frizzante dibattito sul film in visione: perfino Nathan aveva tacciato il protagonista di essere un indiscutibile stronzo, il quale nel film si fingeva lo studente universitario umile e segretamente sensibile allo scopo di portarsi a letto l'unica ragazza apparentemente immune al suo impudente fascino da stella del football, naturalmente ancora illibatassima.
"Magda, quel tipo ti ricorda qualcuno che con me non ha proprio niente a che fare."
Dibattito che, a giudicare dalla provocatoria rimbeccatura con cui mi tramortì Nathan, sembrava proprio aver male interpretato...
"Se io avessi voluto portarti a letto, non ci avrei messo tanto impegno."
La mia psiche tentò di attuare uno stato di placebo in cui mi rassicurava che non avesse pronunciato quello che aveva appena pronunciato, peccato che le mie orecchie avessero già inviato la frase al mio cervello, che ora me la riproponeva in loop.
"Oh, che gentiluomo!"
Elogiai a gran voce, le mani premute sul petto, il tono a dir poco strabiliato. "Anche se in effetti parlavo di un mio conoscente, e non di te. Ma, sai come si dice: sempre buono a sapersi!"
Con lo stesso tenore strabiliato, mancai di specificare che il riferimento spettava nello specifico al mio ex, che dal canto suo, un po' come il ragazzo del film, aveva camuffato la sua menzognera personalità, mascherandosi da principe azzurro all'incirca per gli stessi interessi, almeno finché la cosa lo aveva aggradato.
"Non mi sono espresso bene."
"Certo, certo... d'altronde, la tracotanza non è mai stata una delle tue caratteristiche preponderanti..."
I miei tratti sguazzarono nello stesso rio di sbruffonaggine con cui mi aveva poc'anzi congelata. "Il fatto è che, Nathan—soggiunsi candida, decisa a fargli le scarpe con la stessa moneta—se io avessi voluto finire a letto con te, tu lo avresti capito da un pezzo."
Approssimando le mie labbra al suo orecchio, iniziai il mio indice a un lungo e sensuale cammino che dalla gola discese oltre i suoi addominali, vezzeggiando il suo tonico basso ventre con l'andirivieni delle mie unghie: "Perché sarebbe già successo."
Così, interrompendo ogni contatto e tornando ad occupare la mia parte di divano, segnai il goal che restituì alla mia autostima lo splendore neanche lontanamente scalfito dalla sua uscita spavalda.
"Questo mi ferisce."
Nathan domò un sogghigno adescatore mentre cambiava ripetutamente posizione. "Ma si può sempre recuperare: dimmi quando sei disponibile, e potremo..."
Fiutando d'anticipo dove la sua maliziosa replica sarebbe andata a parare, lo fulminai prima che azzardasse ulteriore sillaba, ponendo fine a quel pepato scambio piegando verso la tv e pretendendo interesse alla visione del film, lasciando che Nathan esplodesse in una risata calda e profonda, godendo di quella conversazione e magari di tutta quella giornata, come fosse stata solo un gigantesco e divertente scherzo...
Ragion per cui lo invitai a togliersi dai piedi, tanto per cominciare spedendolo imbronciata a prendermi le poche pillole rimaste lungo la strada della mia guarigione, invitandolo poi a farmi gustare il resto della commedia al suo ritorno.
"Guarda che non scherzavo prima, ragazzina. Non mi sono espresso bene."
Freccia Verde mi depositò sul letto, rimboccandomi le lenzuola appena conclusa la visione del film, nessun pentimento a trasfigurare la sua autoritaria immagine. "Ma penso proprio che rimanderemo le spiegazioni..." Nathan si diresse alla porta della mia camera, di nuovo quel tono rovente a rimescolarmi le viscere nel cuore della tarda sera. "Quella cosa con le dita iniziata sul divano, potrebbe iniziare piacermi..."

Dopo averlo mandato al diavolo, scoprii solo successivamente che quelle spiegazioni, in realtà, s'intendevano rimandate a data sconosciuta e ancora da destinarsi, perché la sera dopo, al suo abituale orario di rientro da lavoro, fu la signora Hert a fare capolino nella mia stanza al posto di Nathan, rispondendo alle mie domande su dove fosse il padrone di casa, con la buona nuova che il signor Green, improvvisamente...
"È partito."

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