Solipsist

di giocampa22
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alba ***
Capitolo 2: *** Ego ***
Capitolo 3: *** Cogitas ***
Capitolo 4: *** Goya ***
Capitolo 5: *** Solipsista ***
Capitolo 6: *** Masakali ***



Capitolo 1
*** Alba ***


ARMENIA---C'era tanto rosso nel cielo quella mattina, sintomo che le giornate si stavano accorciando. Nel'erba volteggiavano mille goccioline, ricordo di una notte appena passata. Faceva freddo, l'estate se ne era ormai andata, ma non i dolci ricordi che tenevo nella mia testa, in uno di quei cassetti in cui tenevo i ricordi felici, come un vecchio che raccoglie la legna per prepararsi al lungo Inverno. Il Monte Ararat si stagliava imponente in lontananza. Era uno scenario magnifico. I colori del cielo erano quelli della nostra bandiera: arancio, rosso e azzurro. Non era una semplice coincidenza: era sacra quella montagna per noi armeni. ///// STATI UNITI---Era una mattinata caotica. La cittá, come al solito si era alzata molto presto, o forse non aveva mai dormito. I chioschi degli hot dog erano giá parcheggiati davanti a Central Park, come ragnatele pronte ad acchiappare le mosche di passaggio. I negozi, o perlomeno quelli che avevano chiuso durante la notte, stavano riaprendo i battenti. Le insegne a led stavano scomparendo alle prime luci dell'alba e la gente stava tornando a popolare le strade. Le ombre dei grattacieli giacevano lunghe nelle vie della cittá. Un nuovo giorno nella Grande Mela era iniziato.///// PAPUA NUOVA GUINEA---Le urla dei pescatori del mercato mi avevano svegliato. Era molto presto, il sole stava sbucando fuori dall'orizzonte illuminando i banchi del pesce del porto. Le barche stavano ormeggiate, aspettando di poter salpare di nuovo. C'era un odore di sale, di pesce e di sudore, un odore mare, che mi ricordava subito casa mia. Anche gli ultimi pescatori erano tornati al porto dopo una lunga notte. I clienti più mattinieri stavano comparendo e il traffico delle strade della cittá si sentiva in lontananza. Era un tipico inizio di giornata qui a Port Moresy.

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Capitolo 2
*** Ego ***


Mia madre se n'era andata in Germania sette anni fa. "Ci sono molte più opportunità di lavoro lì, potrei avere una buona paga e mandare a casa i soldi." Così diceva prima della partenza. L'ho vista l'ultima volta quattro anni fa, per Natale, faceva particolarmente freddo quel giorno. Successe qualcosa fra lei e mio padre, qualcosa che avevo capito non essere un buon segno, nonostante la mia giovane etá. Partì la mattina presto, per non svegliare nessuno, passò per camera mia, mi diede un bacio sulla fronte, mi rimboccó un'ultima volta le coperte... poi se ne andó come una tartaruga che abbandona la spiaggia natia per poi non farne più ritorno. Mi lasciò una lettera sul comodino, il comodino dove soleva lasciarmi i vestiti puliti da mettermi per andare a scuola. La lasció lì come un'esca per un pesce, come uno zuccherino, una caramella per addolcire la sua partenza. Ma i pesci non mangiano le caramelle, non abboccano all'esca di un pescatore poco accorto. ///// Mi chiamo Autumn, come l'autunno. Mi é sempre piaciuto il mio nome, in un certo senso mi rispecchia. All'aspetto l'Autunno é triste: le foglie cadono dagli alberi, le giornate di sole si trasferiscono altrove, la scuola inizia. É peró una stagione che riserva molte sorprese. Non é proprio in Autunno che succedono le cose più inaspettate? C'é l'Inverno, il periodo della neve e del Natale, la Primavera, il tempo in cui tutto rinasce, c'é l'Estate, la stagione del caldo e dei bagni al mare... e poi viene l'Autunno. Mi piace scrivere, molto più che parlare. Anzi, parlare non mi piace affatto. Trovo le parole così poco vere, così poco concrete, volano via in un attimo come in un attimo vengono pronunciate. È solo aria che gira, e di aria che gira che ce n'è già a sufficienza. Le parole su carta, invece, sono immutabili, nuove ed antiche allo tempo. Ho vissuto per 14 anni. Mi piacerebbe scrivere di me... ma non so neanche io chi sono veramente. ///// Vivo a Port Moresby al Porto Vecchio. Mia madre e morta sei anni fa, quando non avevo neanche dieci anni. Fu un evento doloroso e traumatico, lei era tutto ciò che avevo. Fui costretta a crescere in fretta e ad allevare i miei quattro fratelli più piccoli. Mi piacciono i miei fratelli, voglio bene a loro. Li ho accuditi fin dai loro primi passi come avrebbe fatto una madre, anche se io ho solo pochi anni in più di loro. Mio padre è un pescatore, come la maggior parte degli uomini in questa parte della città. Non lo vedo quasi mai: passa la notte in mare e il giorno al mercato a vendere il pesce o giù al Pub a bere. Solitamente porto una lunga treccia nera e dei vestiti comodi di colore scuro. Mia madre mi diceva che ero simile a Biancaneve, avevo le stesse labbra rosse scarlatto e la stessa carnagione pallida. È strano avere la pelle chiara se vivi in una città di mare come la mia... ma io ne avevo viste tante, niente sembrava più strano ormai per me.

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Capitolo 3
*** Cogitas ***


ARMENIA---La foresta si stava risvegliando, mille suoni indistinti formavano l'aria. Mio padre se n'era già andato. Lavorava come guardia forestale in quell'immenso bosco. Mi aveva insegnato ad amare la Natura, ad apprezzare il mistero che il Grande Bosco celava e a rassegnarsi ai suoi segreti. Mi piacciono i misteri, i segreti. Non capisco perché la gente voglia sempre avere una risposta a tutto. Perché non lasciare che certi misteri restino tali? Il Bosco aveva i suoi segreti, ed andavano rispettati. Mi vesto in fretta, prendo le prime cose che mi capitano. Mi piacciono  questo tipo di giornate, sono monotone, e la monotonia ha sempre un certo fascino. Mi da un senso di sicurezza, so cosa avrei fatto per il resto della giornata: prime due ore matematica, poi un ora di scienze e le ultime due di geografia. Mi piacciono le banali giornate di scuola. Mi rilassano, non devo prendere delle decisioni, non devo prendermi delle responssbilità. Ciò che non mi piaceva, invece, erano i weekend. Erano lunghi e vuoti, e mi davano troppa libertà. Mio padre se ne andava al bar del paese e se ne tornava solo quando era abbastanza ubriaco da non ricordarsi più il suo nome. Beveva per malinconia, o forse perché la cosa lo distraeva dalla vita reale. Passavo i fine settiamana nel Bosco. Mi piaceva dipingere, portavo sempre con me i miei acquerelli e un blocco di fogli. Raffiguravo la cascata vicino al Tempio, o il ruscello vicino alla casa di Sevan. Era rilassante starsene lì ad ascoltare il rumore dell'acqua che scorreva. Chissà in quanti posti era stata quell'acqua che correva instancabile a pochi centimetri da me, chissà da quanti anni che viaggiava... Era triste pensare che in fondo era solamente un ammasso di molecole si idrogeno e ossigeno. La scienza rende tutto così razionale e poco poetico. Mi piacieva invece pensare che ogni goccia d'acqua aveva una sua storia da raccontare. Una mi raccontava di quella volta che si era trovata congelata in Antartide, un'altra di quando era stata trangugiata da una balena per poi essere violentemente espulsa dallo sfiatatoio, un'altra ancora di qundo aveva fatto amicizia con un granellino di sale nell'Oceano Indiano... Raffiguravo il ruscello goccia per goccia cercando di non trascurarne alcuna. Era tardissimo, erano le 8 e 10 ed ero già in ritado per l'ora di matematica. Presi il mazzo di chiavi che stava in cucina e mi precipitai di sotto. La scuola era a sole poche centinaia di metri da casa mia, mi misi a correre il più velocemente possibile. Tutto sudato aprii la porta in fondo al corridoio, la porta della mia classe. Mi accolse la voce della prof. "Narek, è già il terzo ritardo in meno di un mese, sarò costretta ad avvisare i tuoi gentori!" ///// STATI UNITI---Dei pantaloni scuri e una maglietta nera stavano appesi nell'appendino difronte al mio letto. Owen, il maggiordomo mi aveva preparato la colazione, che ora se ne stava sopra al comodino. Non avevo tanta fame ma mi sforzai di mangiare qualcosa comunque. Mi vestii con calma: avevo ancora molto tempo. L'autista mi aspettava di sotto, ma me ne fregavo, avevo solamente voglia di fare una passeggiata. Passai attraverso Central Park per poi fermarmi nella panchina difronte a quello che io chiamavo "Il Grande Albero". Non sapevo di che che specie fosse, e neanche mi importava saperlo. Non volevo catalogarlo: magari avrei scoperto che aveva un brutto ed incomprensibile nome in latino che avrebbe tolto tutta la magia che solo quell'albero sapeva regalarmi. Mi piaceva sedermi davanti al Grande Albero, mi dava un senso di sicurezza, con quei suoi rami lunghi e possenti che sembravano abbracciare il cielo. Passavo molte mattine ad osservare quella magnifica pianta dalla finestra della mia camera che dava a Central Park. Lo osservavo mutare nel corso delle stagioni. Era Autunno, la "mia" stagione, il periodo dell'anno in cui il Grande Albero sfoggiava massimo splendore. Aveva un che di malinconico e rilassante che lo rendeva il mio compagno ideale con cui trascorrere le mattinate autunnali. Non avevo amici a scuola, o almeno amici nel nobile senso della parola con cui intendevo l'amicizia. C'erano compagni di scuola con cui parlavo, con cui andavo daccordo, con cui avevo un ottimo rapporto. Ma non mi piacevano le mille falsità che quel tipo di amicizie si portano dietro. Mi piaceva la Verità, la malinconia, mi piaceva stare assorta nei miei pensieri. Pensavo, riflettevo, formavo idee che poi tenevo solo per me, gli altri non avrebbero capito le mie opinioni, non avrebbero capito i miei pensieri. Le mie opinioni mi bastano, mi considero molto più intelligente degli altri e al di sopra delle opinioni altrui. Si potrebbe dire che io abbia un comportamento estremamente egoistico, e in un certo senso è vero. Sono egoista e sono superba, odio l'umiltà, la trovo di un ipocrisia assurda. Sminuire la propria concezione di se stessi quando si sa per certo che si è i migliori. Mi alzo dalla panchina e vado verso la macchina. L'autista mette in moto la Rolls-Royce. Mi siedo dietro e vedo il Grande Albero scomparire alla prima curva. L'auto avanza lentamente attraverso il traffico newyorkese. Chissà cosa stanno facendo tutte quelle persone nelle loro macchine, chissà dove sono dirette, chissà cosa stanno facendo e cosa hanno intenzione di fare? Io avevo un'idea ben precisa, invece, su cosa fare... volevo fare la Storia. /////PAPUA NUOVA GUINEA---Odiavo quel posto, lo odiavo con tutte le mie forze, non mi piaceva vivere lì. Alcuna gente lo trovava interessante, un miscuglio di lingue, di odori e di sapori. Ma la verità era che a nessun cittadino di Port Moresby piaceva la sua città, chiunque, se avesse potuto, se ne sarebbe andato alla prima occasione. A Port Moresby o avevi successo e riuscivi a fuggire in qualche modo opure restavi al porto a fare il pescatore, nel migliore dei casi. Avevo conosciuti tanti ragazzi che erano finiti al Ghetto, venivano chiamati raskol, che significava criminali in lingua tok pisin. Al Ghetto non ci ero mai andata, non almeno durante la notte. Mia madre mi diceva di stare lontana da quel posto, perche era pericoloso. Mi diceva che lì ci andavano le le persone che avevano finito i motivi per cui essere felici nella vita. Di giorno il Ghetto non faceva così paura, certo, non era proprio un posto tranquillissimo. Si trovava tra i villaggi di Gabutu e Kila Kila in una vecchia zona industriale abbandonata, trasformata in luogo di ritrovo e di battaglie per i ragazzi meno raccomandabili della città. Prima del tramonto si giocava a rugby nei capannoni abbandonati e mille writers venivano da ogni parte della città per esprimere la loro arte tragressiva. La notte, invece, i membri delle gang si riunivano per organizzare rapine, furti d'auto o negli appartamenti, ma anche operazioni di maggiore portata. Non mancavano gli scontri fra le gang. Le più famose erano i Kips Kaponi, i Kaugere e i Dame Carol Kidu. La notte neanche la polizia aveva il coraggio di entrare in quel posto... Il Ghetto era l'unica cosa che mi affascinava veramente di Port Moresby, l'unico motivo per cui non ero già scappata come le mie cugine, che se n'erano andate in Australia a cercar fortuna. Vivevo in una palafitta costruita alla "meno peggio" con delle lamiera arruginite prese dalla discarica del Porto. Ce ne erano tante come la nostra nel nostro villaggio, Poreporena, o come lo chiamavamo noi, il Porto Vecchio. Alcuni bambini giocavano a pallone nel piazzale di terra battuta. Mi lavai la faccia e i denti e mi vestii in fretta. La mia scuola si trovava Kaevaga, a quasi due chilometri di distanza da casa mia. Kalani, il mio vicino di "casa" si offrì di accompagnarmi, ma io non accettai. Mi piaceva correre, mi piaceva il vento in faccia che mi scompigliava i capelli, il monotono ritmo delle scarpe contro il terreno, quel senso di libertà che non avevo mai provato.

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Capitolo 4
*** Goya ***


NAREK--- Erano le 16:00, la scuola era finita da un pezzo. Mio padre solitamente tornava a casa alle 19:00, all'ora di cena. Non ho amici, ad eccezione di Sevan. Mi piace stare da solo a pensare, a pregare. Mi piace riflettere, credo che la solitudine mi permetta di esprimermi veramente. A volte mi soffermo a pensare sullo scopo delle azioni che facciamo ogni giorno. Perché andiamo a scuola, studiamo, ci  diplomiamo, cerchiamo un lavoro... Sono venuto fuori con questa semplice conclusione: noi viviamo per guadagnarci da vivere. Noi studiamo per prendere un diploma, prendiamo un diploma per trovare un lavoro, troviamo un lavoro per guagagnarci denaro. Noi facciamo tutto questo per i soldi. Facciamo tutto questo per una cosa che ha un enorme potenza, ma che allo stesso tempo è enormemente fragile. È così potente da permettere ad una persona di vivere, ma è così fragile da poterla bruciare, strappare, anche mangiare volendo. Sono il nostro primo Dio. Sono così potenti da avere la forza divina di permettere la vita. Sono lo scopo di una vita inutile. Il problema di questo Dio è che è fragile, incredibilmente fragile, non riesce a reggere il peso della Vita. I soldi sono cose materiali, inutili e indispensabili, potentissimi e fragili. Dei semplici pezzi di carta stanno controllando il nostro mondo, dei semplici, inutili, pezzi di carta. Non ci dobbiamo preoccupare dell'intelligenza artificile, di androidi e robot, qualcosa di più pericoloso, inventato dall'uomo ha già  preso il controllo del mondo. L'uomo ha costruito qualcosa che ha preso possesso di tutto ciò che abbiamo, o almeno di una gran parte: uno scopo, un perchè. Si sono presi il posto degli dei. I soldi e le altre sostanze materiali costruite da noi. Vogliamo certezze noi, vogliamo qualcosa che possiamo toccare, sentire, annusare, possedere, vendere, comperare... siamo degli animali materialisti. Lo scopo della nostra vita dovrebbe essere una presenza immateriale, non una cosa, una presenza. Se poniamo come obiettivo della nostra esistenza i soldi, o qualsiasi cosa che si può toccare, in quel modo non sappiamo neanche a cosa stiamo andando in contro: andiamo in contro ad una vita sprecata. Mio padre mi aveva regalato 20000 dram per il mio compleanno, l'equivalente di circa 40 euro. "Non sapevo cosa regalarti, con questi puoi comprarti quello che vuoi" mi aveva detto. Presi l'accendino che stava sopra al camino. Diedi fuoco alla banconota. Il fuoco avanzava lentamente lasciando tabula rasa ovunque passasse. Altro non rimase che un velo di umile cenere. Non avevo bisogno dei soldi. Un Dio mi era più che sufficiente.

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Capitolo 5
*** Solipsista ***


Guardavo le persone dal finestrino della Rolls-Royce, mille Sconosciuti occupavano la mia vita. C'erano nelle strade, c'erano nei negozi, c'erano perfino sotto a casa mia. Li dividevo in due categorie, li sconosciuti. C'erano quelli che avrebbero potuto essere dei miei amici, cugini, dei vicini di casa, quelli che ti basta fare una parola con loro per immaginarti già la loro famiglia, la loro vita, il loro modo di vivere. Poi c'era un'altra categoria di sconosciuti. Quelli che vedi per sbaglio, di sfuggita, in mezzo a tanti altri. Sono loro i veri Sconosciuti, quelli che compongono il resto dei 7 miliardi di persone. Gente che potrebbe anche non esistere, proiezioni della nostra mente, gente che non ti parla, che non ti fa domande, che non ti fornisce risposte, ma che ti crea molti dubbi. Il più grande limite della mente umana secondo me è proprio questo: non riusciamo a capire l'immensità del Mondo, l'immensità di un numero, tutte queste persone che Vivono contemporaneamente, che Vivono parallelamente, senza infastidirsi e senza fragarsene delle altre. Provate a pensare a cosa stiano facendo le altre persone in questo momento, proprio in questo istante... ci risulta già difficile capire le persone a noi vicine, figuriamoci tutti gli altri 7 miliardi di uomini e donne. Ci sembra strano perfino che ogni persona al mondo parli, pensi, vivi, proprio come facciamo noi. Siamo portati a vederci come attori protagonisti di un film girati da noi stessi, in cui gli altri svolgono ruoli complementari per il bene della trama, mentre gli sconosciuti altro non possono essere che semplici comparse. È complicato capire che le altre persone non si limitino semplicemente a "vivere". Questo ci risulta già difficile con le persone che conosciamo, che vediamo fisicamente, figuriamoci con le persone che non vediamo, gli invisibili, persone che abitano lontano da noi, persone di cui veniamo a conoscenza, o meglio, persone che iniziamo a considerare solo dal momento che le vediamo per qualche istante. Pensare che pure gli Sconosciuti hanno una Vita, dei problemi, dei pensieri, delle considerazioni da fare su tutto ciò e che non "vivono" solo nel momento in cui noi li vediamo. Ci sembra quasi impossibile tutto ciò perchè la "rete dei pensaieri" verrebbe in un qualche senso "intasata". Ero arrivata. La campanella sarebbe suonata fra poco tempo. Mi affrettati ad uscire alla macchina. Gli studenti spingevano per entrare. Non li conoscevo tutti di persona. Davo a loro un nome, cercavo di mi mettevo nei loro panni, cercavo di capire la loro vita, le loro emozioni, il loro carattere. Per cambiare il mondo serve conoscere le persone che ci abitano, nel mondo.

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Capitolo 6
*** Masakali ***


"Quanto è stata importante la figura di John Lock nella stipulazione dei diritti civili di libertà di opinione e di stampa che si sono affermati poi con la Costituzione alle base di moltissimi stati democratici e parlamentari e succesivamente come pilastro fondamentale della Dichiarazione dei diritti universali dell'uomo firmata a Parigi il 10 dicembre 1948." La traccia era stata scritta alla lavagna dalla prof. di storia. "Avete tutte e due le ore per motivare una risposta adeguata in non meno di tre colonne. Questa produzione scritta influenzerà molto il voto del primo quadrimestre quindi date il massimo. Buon lavoro." Comincia a scrivere nel mio foglio protocollo, direttamente in bella copia, sapevo già quello che avrei scritto. Qundo parliamo di libertà -iniziai- siamo sempre troppo superficiali. Secondo me si può conoscere la libertà solo dopo aver provato la prigionia o l'oppressione. Io sono sempre vissuta in un paese libero, con libertà di opinione e di stampa. Sono libera di fare qualunque cosa entro i limiti della legge. Eppure non so che cosa significhi, la libertà. Una persona oppressa, però, potrebbe essere più libera di me, di un mio compagno o di un mio concittadino. -era da tempo che credevo in questa considerazione, da quando avevo letto la biografia di Nelson Mandela- Qualunque persona può essere libera di pensare, può essere libera nella propria mente, nel pensiero stesso. Rinchiudi la tua mente, il tuo pensiero, e sarai una persona imprigionato dalla tua stessa testa. Non puoi avere libertà di opinione se non sei libero di pensiero, ti adeguerai alla massa, non penserai, la tua opinione seguirà quella dei tuoi coetanei, dei tuoi amici, delle altre persone. Una persona potrebbe essere libera da qualsiasi vincoli anche abitando nel più oppressivo dei paesi. Potrebbe essere libera nella propria mente, nella sua coscienza, dentro di lui il suo pensiero sarà svincolato da catene. Ma la più grande conquista non è la libertà di stampa, un giusto diritto, ma è il piacere personale dell'essere liberi dentro. Come diceva un politico italiano -credo che Einaudi fosse il suo nome- la libertà esiste se esistono uomini liberi. È proprio questa la più grande difficoltà. Non tutti si possono permettere di essere liberi, -l'avevo già sentita da qualche parte questa affermazione- è più facile eseguire degli ordini essere comandati, non si devono prendere delle responsabilità. Non è così, invece, se eseguiamo quello che ci viene detto da qualcuno. Ma una persona fino a che punto può essere libera? Credo che possiamo essere paragonati a dei palloncini. La nostra libertà finisce dove inizia la libertà altrui. Mano a mano che aumenta la libertà che prendiamo, più aumenta il volume del nostro palloncino. Quando il nostro palloncino tocca quello di qualcun altro allora è lì il nostro limite. Quando prendiamo l'autobus possiamo prenderci la libertà di non esseci lavati, ma se il nostro odore infastidisce qualcuno allora stiamo "attaccando" la sua libertà. Ma che senso parlare di libertà quando i primi a volerla opprimere siamo noi? -la mia testa pensava troppo velocemente per la mia mano- Anche la creatività ha bisogno di costrizioni, a nessuno piace il "tema a tema libero", specialmente a queli che più hanno da scrivere. Ma tutte queste altro non sono che considerazioni strampalate scritte su un pezzo di carta. Un tema sulla libertà di chi la libertà neanche sa cos'è.

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