Le regole del gioco

di Damnatio_memoriae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il mio Alfiere ***
Capitolo 2: *** Il mio Pedone ***
Capitolo 3: *** Gli scacchi sono un gioco collerico ed irascibile, addirittura oltraggioso per chi subisce lo scacco matto. ***
Capitolo 4: *** Gli scacchi si giocano con la mente, non con le mani ***
Capitolo 5: *** Non muovete nessun pedone e non perderete mai una partita ***
Capitolo 6: *** Nella vita, a differenza che negli scacchi, il gioco continua anche dopo lo scacco matto. ***
Capitolo 7: *** La partita a scacchi è sempre decisa da un errore, per impercettibile che sia. ***
Capitolo 8: *** Quando perdo un pezzo: se vinco era un geniale sacrificio, se perdo era uno stupido sbaglio. ***
Capitolo 9: *** Un giocatore di genio è colui che sa trasgredire le regole al momento opportuno. ***
Capitolo 10: *** Solo il giocatore con spirito d'iniziativa ha il diritto di attaccare. ***
Capitolo 11: *** Gli scacchi sono la lotta contro l'errore. ***
Capitolo 12: *** Un giocatore di scacchi preferisce lasciare la sua testa fra le fauci di un leone piuttosto che lasciare in presa una Donna. ***
Capitolo 13: *** Un pedone passato è come un criminale che bisogna a tutti i costi arrestare. ***
Capitolo 14: *** Un vero giocatore di scacchi preferisce una bella partita ad una vittoria. ***
Capitolo 15: *** A scacchi non guardare il tuo avversario come una pecora, ma come un lupo. ***
Capitolo 16: *** Non è una mossa, anche la migliore, che tu devi ricercare, ma un piano realizzabile. ***
Capitolo 17: *** Non affrettarti mai a fare qualche cosa che poi non potrai mai disfare. ***
Capitolo 18: *** Quando vedi una buona mossa, aspetta. Cercane una migliore. ***



Capitolo 1
*** Il mio Alfiere ***


Capitolo 1
 
Il mio alfiere
 

 
Da quello che riusciva a ricordare, Rebecca aveva sempre fatto parte della sua vita.
Non l’aveva incontrata in un momento esatto, non ricordava uno sguardo imbarazzato tenuto troppo a lungo, né una conversazione particolare o una lettera segreta nell’armadietto. Se le avessero chiesto quando l’aveva conosciuta, istintivamente avrebbe pensato di averla avuta con sé da sempre, come una sorella, un’ombra, un arto. Di fatto, avrebbe risposto solo che erano andate insieme alle medie, non nella stessa sezione, ma sullo stesso pianerottolo, e che sì, si saranno sicuramente incrociate di vista ogni tanto, all’entrata da scuola, in mensa, in palestra, in fila ai bagni. Ma questa era solo una parte della verità, quella più superficiale, che non permette di capire i reali legami tra le persone.  Lei e Rebecca erano amiche, sì, ma anche compagne, confidenti, complici, squadra; le parole e la musica di una canzone, il piede e l’impronta sulla sabbia, il vento e la vela, i pezzi e la scacchiera. Volendo, la pasta e il sugo (sicuramente Rebecca sarebbe stata il sugo). Le sembrava quasi di sminuire il loro rapporto definendolo con altri termini se non questi.
Se ripensava al loro primo incontro, non le veniva in mente un’immagine precisa, ma una serie di ricordi che un po’ si confondevano tra di loro e, dopo nove anni, iniziavano a sovrapporsi. Evidentemente non era stata una simpatia fulminea, immediata, come spesso ci si aspetta, ma un avvicinamento progressivo che le aveva portate a riconoscersi e a mischiare le proprie radici. Se avesse dovuto immaginarlo, il loro albero sarebbe stato un faggio: imponente, robusto, resistente, protettivo.
Dopo così tanto tempo il loro legame era cambiato, ma in fondo non troppo. Erano sempre riuscite a trovare un equilibrio, nonostante la crescita le avesse portate a prendere decisioni differenti e ogni volta era un po’ come scoprirsi di nuovo. Erano cambiate, a volte in bene, a volte in male, a volte erano state riportate sulla strada giusta, ma probabilmente ognuna ci sarebbe prima o poi tornata da sola, con i suoi tempi.
All’università Rebecca aveva deciso di entrare a Filosofia, ma dopo un anno l’aveva abbandonata. Sua madre e il suo patrigno le avevano offerto la possibilità di fare un viaggio d’istruzione in Austria per perfezionare la lingua e lei aveva colto l’opportunità al volo, senza pensarci due volte.
Non era stata la stessa cosa non averla vicina per così tanto tempo e aveva iniziato a pensare che, forse, era anche fisiologico che la loro storia arrivasse al capolinea. Anche il viaggio più lungo prima o poi deve finire.
«Vengo con te», le aveva detto prima di vederla partire, ma sapeva che il solo desiderio di raggiungerla non sarebbe bastato a bilanciare le difficoltà economiche di suo padre, così l’aveva aspettata. I tre mesi di soggiorno erano diventati sei, poi nove, poi un anno. Rebecca l’aveva riempita di cartoline che lei aveva conservato accuratamente in un cofanetto, sempre meno sicura che sarebbe tornata. Le aveva inviato una foto del duomo di Vienna, del Belvedere, del suo nuovo miniappartamento, dei disastri che aveva combinato con la lavatrice, del museo in cui aveva trovato lavoro, della sua scuola di lingua; la foto però che preferiva era di una semplicità disarmante e la ritraeva ancora in pigiama, vicina ad una tazza di caffè (sicuramente troppo annacquato per i suoi gusti), con i capelli scuri scompigliati ed il sorriso a metà tra il rilassato e lo stanco proprio di chi si è appena svegliato.
Rebecca era tornata quando il secondo anno di università era finito. Aveva scoperto una nuova passione in Austria, quella del restauro, e aveva avuto modo di fare pratica sui codici del museo presso il quale era stata presa a lavorare. Si iscrisse in fretta a Beni Culturali e scoprì che un paio di esami che aveva già sostenuto potevano essere convalidati, anche se il lavoro da fare era ancora molto per rimettersi al passo. La nuova sistemazione, in fondo, andava più che bene, visto che si trovava nella stessa facoltà dell’amica.
Sapeva che Rebecca non era mai stata una grande studiosa. Mai come per il suo caso la frase “E’ intelligente ma non si applica” sarebbe stata azzeccata e forse questa era l’unica cosa che l’aveva trattenuta dal vantarsi dei suoi risultati accademici. Rebecca era di sicuro la più svogliata delle due nello studio, ma questo non l’aveva mai fatta sembrare meno colta. Le erano sempre piaciuti i libri e leggeva ad una velocità incredibile. Forse per questa ragione riusciva a preparare gli esami nella metà del tempo. Si consolava col fatto che lei si sarebbe laureata per prima, visto che non si era mai presa delle pause, anche se la sua conoscenza delle lingue straniere ne aveva risentito.
La cosa che l’aveva sempre colpita di Rebecca era la sua personalità. Era piccante, ma non esuberante, istintiva ma non avventata; estroversa al punto giusto, riusciva a mantenere il discorso con tutti e su tutto. Ad un’occhiata superficiale, molti l’avrebbero descritta come il prototipo vivente della Donna Fetale. Forse un po’ lo era, o le piaceva sembrarlo. Di sicuro lo diventava con chi non riusciva a tenerle testa. Impugnava sempre il coltello dalla parte del manico, perché aveva imparato a giocare dal lato sicuro, quello dove non si perde mai e non si rischia di farsi male, cosa che le permetteva di essere sicura di sé quanto bastava per ingannare tutti. Tutti tranne lei.  

 

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Capitolo 2
*** Il mio Pedone ***


Capitolo 2
 
Il mio pedone
 

 
La prima cosa che le veniva in mente, pensando a Rachele, era che probabilmente tutti i libri che aveva letto l’avevano preparata ad incontrarla. Un po’ meno a capirla. Non era più introversa delle altre ragazze, né più timida, più introspettiva o più silenziosa. Aveva solo imparato a dosare bene le parole e, quando non lo faceva, diventava tagliente.
Era intensa, semplicemente, in qualsiasi cosa facesse. Nessun movimento era superfluo, nessuno sguardo privo di intenzione, nessun comportamento senza significato. Dava importanza ad ogni cosa, perché odiava perdere tempo e lasciare tutto al caso.
A degli occhi un po’ distratti sarebbe sembrata una ragazza tranquilla. Solo lei sapeva quanto si sbagliavano. “Can che abbaia non morde”, avevano detto e lei non aveva replicato solo per vedere cosa sarebbe successo se si fossero avvicinati troppo a quella ragazza.
Sapeva con esattezza quando aveva iniziato a parlarle. Il primo anno delle medie l’aveva trascorso nel corridoio, più che dentro l’aula. Non aveva voglia di studiare, restava a galla con la media che aveva e questo tanto le bastava. In fondo le piaceva quando i professori la sbattevano fuori dalla classe a metà lezione, perché nessuna materia le interessava davvero. Le piaceva un po’ meno quando tornava a casa e doveva far firmare la nota a sua madre. In quel corridoio così asettico, Rebecca era sempre stata sola e forse le piaceva tanto proprio per quello: c’era silenzio e poteva dedicarsi solo a sé stessa e ai suoi libri, che riusciva a finire in una settimana.
Il secondo anno non era stato troppo diverso dal primo, almeno all’inizio. Nel secondo trimestre, però, qualcosa era cambiato. Le sembrava strano che ci fosse qualcuno come lei e forse anche peggio di lei, nella sua stessa condizione, ma di certo mai avrebbe pensato si potesse trattare di una ragazza. Ogni volta che veniva messa in punizione, Rachele era già stata cacciata dalla sua aula prima di lei. Non faceva nulla, se ne stava semplicemente appoggiata al muro con lo sguardo basso, aspettando di essere richiamata.
«Sei nuova?» le aveva chiesto una volta Rebecca e l’altra aveva risposto con un secco “No”.
«Non ti ho mai vista» aveva continuato. Rachele si era limitata a lanciarle uno sguardo torvo e a girarsi dall’altra parte. Quando le chiedeva che cosa avesse fatto, le risposte erano più o meno sempre le stesse: «Ho fatto male a un bambino», «Ho picchiato un compagno», «Ho morso una ragazza». Rebecca pensava ci fosse nascosto un gangster in quel corpo da principessina, ma forse era solo una principessa molto prepotente. In effetti non aveva mai smesso di chiamarla “piccola bulla”.
L’unica volta che l’aveva vista piangere era stata anche la volta in cui aveva capito che loro due non erano fatte per stare da sole. Era andata in bagno e anche lì Rachele era arrivata prima di lei. Inginocchiata vicino al lavandino, con la mano destra si teneva la fronte, mentre la sinistra era sotto il getto d’acqua fredda. Era completamente sfatta. Piangeva e non c’era modo di calmarla. Rebecca le si era avvicinata e le aveva domandato se avesse fatto di nuovo male a qualcuno. L’altra aveva ribattuto che non credeva che il muro sentisse dolore, ma che se voleva poteva chiederglielo. Rebecca le si era seduta di fronte, offrendosi di andare dalla bidella per chiamare sua mamma e suo papà. Per un attimo era parso che Rachele avesse smesso di piangere. Poi le aveva buttato le braccia a collo e aveva continuato a singhiozzare. Non le importava abbracciare una sconosciuta se questo significava impedire di cadere in mille pezzi. Dalla sera prima, Rachele non poteva più dire di avere una mamma.
A differenza sua, Rachele aveva sempre saputo che facoltà avrebbe preso una volta finito il liceo e non si era mai pentita della sua scelta. Come per le superiori, anche all’università erano riuscite a stare insieme senza rinunciare ai loro obiettivi, scegliendo una l’indirizzo filosofico e l’altra quello artistico. Le piaceva la strada che si era scelta e le conoscenze che aveva acquisito. Lentamente aveva iniziato a prendere il giro, nonostante qualche sbandata. Rebecca si stupiva ancora di come la sua amica riuscisse a rimettersi in piedi da sola. Lei, al contrario, faceva semplicemente di tutto per non dover cadere mai, perché non era sicura ce l’avrebbe fatta a ricominciare da zero. Sapeva che era stato difficile per lei quando aveva deciso di partire e che anche il suo andamento scolastico ne aveva risentito. Non era mai riuscita a concentrarsi a dovere se una cosa la turbava. Ma quando era tornata Rachele era ancora lì e davvero poco era cambiato.
Quando giravano insieme, Rebecca sapeva che tutti gli sguardi erano per l’amica. Dopo tanti anni, però, continuava a sembrarle strano che qualcuno riuscisse a vederla in quel modo. Era bella, forse una delle più belle, cosa innegabile, ma per lei sarebbe sempre rimasta una bellezza pura, dolce, angelica. Non vedeva nulla nei suoi atteggiamenti che potesse ricordarle anche solo lontanamente il sesso e probabilmente non sarebbe stata provocante nemmeno se avesse deciso di provarci. In ogni caso la divertiva che i ragazzi la guardassero in quel modo, come se fosse una bambina innocente.
Se solo avessero saputo che Rachele, di innocente, aveva solo il sorriso… 

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Capitolo 3
*** Gli scacchi sono un gioco collerico ed irascibile, addirittura oltraggioso per chi subisce lo scacco matto. ***


Capitolo 3
 
Gli scacchi sono un gioco collerico ed irascibile,
addirittura oltraggioso per chi subisce lo scacco matto.
Burton
 


Rachele si sedette fuori dall’aula ad aspettare la fine della lezione precedente. Prese dalla tracolla il suo manuale e lo aprì alla pagina in cui si era interrotta la sera prima. Con l’evidenziatore sottolineò la didascalia a margine: “Cheronea, luogo di battaglia e tomba comune.  338 a.C”.
I ragazzi iniziarono ad uscire dalla sala 35 e Rebecca, quando la vide, si sedette di fianco a lei.
«Fare lezione dopo mangiato è una tortura» esordì, appoggiando i gomiti ai braccioli «Di quelle serie intendo. La vergine di Norimberga a confronto è solo una bella ragazza».
«Almeno tu hai mangiato» disse Rachele «Mi hanno anticipato il corso di codicologia di due ore perché prima della sessione non possono recuperare il tempo perso, così mi sono ritrovata a fare lezione sette ore di seguito».
Rebecca si limitò a scuotere la testa «E non hai pranzato? Per gli esami come sei messa?».
Lei si portò un dito sotto il mento con fare pensoso e rispose: «Vediamo, sono le tre e sto ripassando il manuale di storia greca anziché mangiare. E la vedi questa parola?”» avvicinò il libro per farle capire cosa intendeva «Ecco, per me sono quattro».
L’amica rise. «Va bene tigre, calmati». Frugò nella sua borsa e ne tirò fuori un cartoccio di alluminio. «Lo vuoi il mio panino? Mi è avanzato».
Rachele sporse la mano nella sua direzione per prenderlo, ma non alzò lo sguardo. «Questa sessione mi ucciderà» affermò sconsolata.
L’altra fece spallucce «Lo dici tutte le volte, poi ad ogni esame trenta, abbraccio accademico, corona di alloro e discensione dello spirito santo. Piuttosto ascoltami…».
La ragazza le lanciò un’occhiata torva, riconoscendo il tono di voce. «Che cosa vuoi?».
«Devi passare gli appunti a Lorenzo, ce li hai ancora? Ti prego, mi chiama sempre e io ho finito le scuse. Non ho voglia di rimanere in università fino alle cinque solo per lui!».
«Ma ti sei offerta tu di aiutarlo» ribattè prima di addentare il panino.
«Si, prima di sapere che fosse così…così…».
«Credo che la parola che stai cercando sia morboso».
«Esatto!» alzò le mani al cielo.
«Io te l’avevo detto» disse semplicemente, ancora la bocca piena. Ingoiò l’ultimo pezzo del suo panino e accartocciò la stagnola nel tentativo di fare canestro. «Mi dispiace, io questa volta non ti aiuto».
«Ma ti prego! Ne ho bisogno! Se torno un’altra volta tardi a casa mi tocca andare a prendere Betta ad arti marziali e sai quanto io odi quel posto!» le prese le mani tra le sue per dare più enfasi alla sua supplica. Inutile dire che non sortì l’effetto sperato.
«E’ proprio per questo che ringrazio ogni giorno di essere figlia unica. Coraggio Revy, libera il mastino che è in te».
«Ma sei tu il mio mastino!».
Il “blin-blin” del cellulare di Rebecca pose momentaneamente termine alla conversazione. La ragazza fece scorrere il pollice sul display per sbloccare lo schermo, ma quando vide chi le aveva scritto non lesse nemmeno il messaggio.
Rachele la guardò. «Sei già arrivata a questo punto?» chiese con una punta di rimprovero.
«Quale punto?» rimase sul vago.
«Quello in cui tu non vuoi più vederlo ma non hai il coraggio per dirglielo».
Revy si aggiustò la frangetta davanti agli occhi «Che vuoi che ti dica? L’ho baciato solo una volta e ora mi tratta come se fossi la sua fidanzata».
«Povero…vuole una storia seria, con te poi!» rise e l’altra le diede un piccolo spintone.
«Ehi piccola bulla, vacci piano. Aspetto la persona giusta».
«Sono anni che aspetti la persona giusta! Potresti trovarla iniziando a dare una possibilità ai ragazzi con cui esci».
Rebecca storse il naso «Nah. E poi, nell’attesa, mi diverto con le persone sbagliate» le fece l’occhiolino.
Il viso di Rachele si fece d’un tratto serio. «Certo. Le persone sbagliate…» la assecondò freddamente, prima di cambiare discorso. Alzò il suo libro e glielo mostrò. «Guarda, leggi qua» senza vedere cercò di trovare col dito il punto della pagina che le serviva.
Rebecca si avvicinò per poter leggere meglio. «Si distinse contro Sparta nella battaglia…».
«No, aspetta, non lì. Sotto l’immagine» spostò l’indice per aiutarla.
«Ah. Vediamo. Rovine della rocca di Cadmea, quartier generale del Battaglione Sacro della città di Tebe. Scudo e lancia del IV secolo a.C. Che cos’è il Battaglione Sacro?» chiese incuriosita.
Rachele chiuse il libro di scatto. «Pensare che dovresti essere tu a spiegarmelo!» sbottò «Era uno degli eserciti più forti dell’antica Grecia. Era composto da un centinaio di coppie ognuna delle quali combatteva al meglio delle proprie capacità per difendere la persona che amava». Dopo la spiegazione rimase in silenzio, aspettando la reazione di Rebecca.
«Bhe» iniziò lei dopo qualche secondo «Non ha funzionato molto come strategia se sono finiti tutti ammazzati».
Rachele alzò il libro e fece per tirarglielo in testa, ma l’altra lo scansò. «E’ vero!».
«Erano coppie omosessuali» specificò, mettendo il broncio.
La ragazza vicino a lei fischiò. Si sporse leggermente, allungandosi per scoccarle un bacio sulla fronte. «Stai cercando di suggerirmi qualcosa, forse?».
«E’ questo l’amore giusto che stai cercando. Un amore romantico!» ribattè.
«Non è romantico vedere il tuo compagno che ti muore di fianco».
Rachele le lanciò un’occhiataccia.
«Ecco, quello è lo sguardo da mastino che mi serve, così ti voglio con Lorenzo!».
 
Ormai aveva smesso di farci caso, da quanto tempo non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei.
Rachele non aveva mai pensato che Rebecca fosse profonda quanto l’oceano, ma da qualche anno sembrava volesse fare concorrenza alle pozzanghere. Avevano due modi così diversi di vedere l’amore, loro due. Rebecca sembrava perennemente alla ricerca di qualcosa, ma se le avessero chiesto cosa probabilmente non sarebbe stata in grado di fornire una risposta convincente. Meglio di una fotocopiatrice, scannerizzava qualsiasi ragazzo che le capitava a tiro. “Tu no, tu no, tu no, tu no, tu no”. Non che ogni volta non ci sperasse, ma dopo così tanto tempo e così tante relazioni scadenti aveva smesso di dare importanza a qualsiasi tipo di rapporto. Sembrava quasi che continuasse a cercare per inerzia, o per abitudine, e aveva smesso già da un po’ di ricordarsi i nomi di tutti i ragazzi con cui era uscita, a volte anche contemporaneamente. Il più delle volte si convinceva di aver trovato quello giusto, anche se l’euforia non durava più di qualche mese (e ultimamente qualche settimana). «Questa volta ne sono sicura!» le diceva sempre. Si, sicura. Così sicura che era anche capitato non si ricordasse il suo nome. Bhe, tanto fra un Marco, un Giorgio o uno Stefano non c’era tutta questa differenza.
Per questo Rachele aveva smesso di prestarci attenzione. E pensare che lei di relazioni ne aveva avute così poche e nemmeno troppo convincenti...
Ma non si illudeva, non cercava qualcuno che le facesse sentire le farfalle nello stomaco, o il cuore accelerato o i brividi lungo la schiena. Non aveva mai pensato che fossero queste le basi dell’amore. Ma Rebecca sì, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Aspettava qualcuno che le facesse provare esattamente quelle sensazioni. Qualcuno come Riccardo. Possibilmente, qualcuno molto simile a Riccardo. Non erano stati insieme a lungo. Come se si potesse giudicare l’importanza di un amore dal tempo che si è trascorso insieme e non da quanti anni occorrono per rimettere insieme i pezzi. E, in fondo, Rebecca non era mai tornata a respirare dopo di lui. Ogni tanto le era scappata, senza volerlo, la frase «Mi piace, anche se non come mi piaceva Riccardo» o «Il sesso va bene, ma non è com’era con Riccardo». Ormai era diventato il suo unico metro di paragone.
Quando Rachele tornò a casa, più tardi del previsto, la cena era pronta e il padre stava apparecchiando la tavola.
Dopo la morte di Giulia, Tommaso era stato obbligato ad improvvisarsi cuoco, babysitter, maestro e donna delle pulizie in pochissimo tempo, ma ora sembrava si trovasse addirittura a suo agio a lavare i piatti la sera. La prima lavatrice che aveva fatto era stata un disastro: i pantaloni si erano ristretti, le magliette si erano rovinate e il pupazzo di sua figlia aveva cambiato colore. Aveva pianto così tanto davanti a quel peluche, anche se si era ripromesso di essere forte per Rachele. Ma a lei non serviva un papà supereroe. Gli aveva tolto il coniglietto dalle mani e se l’era stretto al petto dicendo: «Lo preferisco così. E’ un po’ rotto, come noi».
Tommaso, sentendola entrare, le chiese il perché del suo ritardo. Rachele rispose con la verità: non si poteva dire di no a Rebecca. Lui rise. «E’ da una vita che non vedo quella ragazza! Pensare che avevo imparato a fare la torta al cioccolato solo per lei e non è nemmeno venuta ad assaggiarla!».
«Papà, sembri la nonna quando fai così. Ed entrambi sappiamo cosa pensa la gente della nonna». Posò lo zaino per terra e si sedette a tavola.
«Come è andata oggi la giornata?» chiese mettendo in tavola la cena.
Rachele fece spallucce «Stancante, calda, lunga…il solito. E hanno fatto confusione con gli orari. Di nuovo. Ringraziando Dio fra poco è estate».
«Avevi in programma di fare qualcosa quest’estate?».
«Intendi a parte studiare? Studiare».
«Pensavo a qualcosa che contemplasse meno i libri e un po’ di più il sole. Abbiamo il mare! E tu sei stupenda tesoro, lo sai che sei la donna più bella della mia vita, però…ti vedo così bianca» la punzecchiò.
«Ehi! Nell’antichità il candore era simbolo di nobiltà!».
«Si, peccato che tu faccia parte della classe operaia».  
Rachele rispose con una linguaccia. «Comunque credo che da domani mi porterò la merenda all’università, come quando andavo all’elementari. Sono stanca di scroccare il cibo a Rebecca, poi mi sento in colpa».
«Va bene, stasera ti preparo un panino. Con qualsiasi cosa?».
«Mettici la prima cosa che ti capita, tanto non sono schizzinosa».
Il padre le lanciò un’occhiata allusiva «E si vede…» sussurrò.
Rebecca non ingoiò il cibo che si era messa in bocca. «Come sarebbe a dire, scusa?».
«Nulla, è solo che ti trovo…in forma, ecco. Più in forma, diciamo».
«Mi stai dicendo che sono grassa?» sbottò lei.
«Ma no! E’ solo che sei sempre stata una buona forchetta».
Rachele strabuzzò gli occhi, poi con la mano allontanò il piatto «E’ solo perché si avvicina la sessione» chiarì.
«Ma come, non la finisci la cena?».
«No» mise il broncio la figlia «Mi è passata la fame».
Tommaso le diede un buffetto sulla spalla «Non fare la sciocca. Anche Laura dice che sei bella».
Rachele emise un piccolo sibilo nel sentire quel nome «Ah, se lo dice Laura allora tutto a posto…».
«Lele» la chiamò come faceva sua moglie quando doveva rimproverarla «Non iniziare».
Lei alzò le mani in segno di tregua, ma il suo sguardo prometteva tutto tranne pace «Non sapevo vi sentiste ancora, tutto qui».
«E’ una storia seria, pensavo avessimo già chiarito questo punto tempo fa».
«E io pensavo di aver già dato il mio parere a riguardo».
«Ed è stato recepito e anche molto chiaramente, ma è una cosa che riguarda me e Claudia. La devi solo conoscere meglio».
«Ma se non mi sopporta!» alzò il tono di voce.
«Non è vero e lo sai, sei tu che parti prevenuta. Nessuna delle mie compagne ti è mai piaciuta».
«Direi che fino adesso ho avuto ragione, visto che non state più insieme».
Tommaso posò i piatti sporchi nel lavandino e si tirò su le maniche «Con Laura è diverso e sarà meglio che lo accetti. Non ho più vent’anni, è arrivato il momento di iniziare a fare le cose seriamente…».
A quelle parole Rachele scattò dalla sedia «Stai scherzando, vero? Vi conoscete a malapena!».
«E’ abbastanza».
«E cosa vorresti fare? Sposarla? Farla venire ad abitare qui? Ma certo, perché non ci ho pensato prima! Apro l’armadio e butto i vestiti di mamma, così Claudia può metterci i suoi!».
«Rachele smettila!».
«E’ questo quello che stai suggerendo. Già che ci sei mettila nel letto dove dormivate tu e…».
Tommaso si girò bruscamente e due bicchieri caddero a terra. «Non una parola di più Rachele! Non una!» urlò, fremendo di rabbia «Sei solo una viziata. Non voglio più vederti né sentirti fino a domani. E questa discussione finisce adesso».
Rachele si ritirò in camera sua sbattendo la porta. Si buttò sul letto e iniziò a prendere ripetutamente a pugni il cuscino. Prese il cellulare e cercò nelle chiamate rapide Rebecca, ma anziché premere la cornetta verde si fermò a fissare la foto che aveva allegato al suo numero. Dopo qualche secondo il display si oscurò e Rachele decise che le avrebbe detto tutto di persona. Posò il telefono sul comodino e si mise sotto le coperte ancora vestita e truccata. Con quel nodo che si sentiva in gola e che sembrava la volesse soffocare, il sonno si fece attendere a lungo e quando arrivò non fu dei più sereni. Neanche il suo coniglietto le impedì di fare brutti sogni, quella notte.  

 

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Capitolo 4
*** Gli scacchi si giocano con la mente, non con le mani ***


Capitolo 4
 
Gli scacchi si giocano con la mente, non con le mani
Khan
 


Il 14 maggio sarebbe stata la Festa della Mamma. Rebecca lo sapeva, perché era una delle poche feste che si prendeva la briga di annotare sul calendario. E la sua agenda era sempre piena di impegni, ma non quel giorno. Quel giorno era sempre stato solo per Rachele e non era mai accaduto che Rebecca non fosse presente. Tranne quando, due anni prima, era partita. Quell’anno la Festa della Mamma era caduta l’ultima domenica di marzo, se lo ricordava ancora. Aveva preso il cellulare per chiamare Rachele, ma lei non le aveva risposto. E non aveva risposto nemmeno alla quarta chiamata, né alla sesta, né alla decima. Era arrabbiata e Rebecca lo sapeva. Forse era una cosa che non le aveva mai perdonato davvero, anche se nessuna delle due era più tornata sull’argomento.
Era stata una cosa nata quasi per caso, quella ricorrenza. Rebecca aveva accompagnato Rachele al cimitero mentre tutti i loro compagni erano tornati a casa per dare i loro biglietti di auguri alle mamme. Neanche a farlo di proposito, diluviava. Rebecca seppe solo più tardi che la sua amica aveva paura dei temporali, ma i tuoni sembrava non li sentisse quella mattina. Ricordava che Rachele si era inginocchiata davanti alla lapide, mentre lei era rimasta un poco più indietro. Non le erano mai piaciuti i cimiteri e d’altronde la sua famiglia non era mai stata credente. Anche se più lontana, era riuscita a vedere l’immagine che avevano incastonato nel marmo: una donna giovane, con il viso tondo, le labbra sottili e i capelli castani; anche se era solo una foto, gli occhi erano quelli di una persona dolce e sincera. Erano gli occhi che chiunque si sarebbe aspettato di vedere in una mamma. Rebecca aveva preferito rimanere in silenzio piuttosto che ripetere le solite frasi di circostanza e credeva che Rachele si fosse anche dimenticata della sua presenza. L’unica cosa che fece fu quella di allungare il braccio per coprire con l’ombrello la sua amica e proteggerla dalla pioggia. E se questo significava bagnarsi, poco importava. Il giorno dopo le venne una febbre da cavallo e sua madre passò tutto il pomeriggio a rimproverarla, ma se fosse potuta tornare indietro avrebbe rifatto la stessa cosa.
Si era aspettata di vedere Rachele piangere, quel giorno, e questo un po’ l’aveva spaventata. Invece lei era rimasta fredda e impassibile. «Inizio a pensare ci sia una quantità limitata di lacrime che si può spendere per un’unica persona. Altrimenti soffriremmo per sempre» aveva risposto quando Rebecca le aveva chiesto se si sentisse bene.
Non erano più andate al cimitero, loro due. Da quel momento, però, Revy si era sempre impegnata per fare in modo che la sua amica non dovesse passare da sola quella giornata. L’aveva tenuta occupata in tutte le maniere, pensando ogni anno a qualche sorpresa nuova: una cena, un cinema, una gita, un po’ di shopping, una vacanza, un regalo. Ormai era diventata una tradizione. E anche quella volta tutto era organizzato.
Si alzò dal letto abbastanza presto. Non era da lei, ma visto che quel weekend sarebbe stata via doveva portarsi avanti con lo studio. Accese il cellulare controvoglia, perché sapeva già che Mattia l’aveva riempita di messaggi, anche se lei credeva di essere stata abbastanza chiara a riguardo. Per non rischiare di essere disturbata nel fine settimana, decise di rispondergli. Non era la prima volta che tagliava i ponti con un ragazzo, anche se odiava fingere di avere una delicatezza che, in realtà, non possedeva affatto. Non le sembrava giusto comunque trattarli male, specie se non avevano fatto nulla a parte essere loro stessi. Scrisse, come al solito, quattro o cinque righe e cercò di infonderci tutto il tatto di cui era capace. Se fosse stata una situazione differente avrebbe anche chiesto l’aiuto di Rachele, che sapeva utilizzare le parole meglio di lei, ma non le sembrava il caso di svegliarla per una cosa di così poca importanza. In realtà quando inviò il messaggio a Mattia vide che lei le aveva già scritto il “Buongiorno”.
Le rispose con il suo solito “Buongiorno a te, piccola bulla” poi scese al piano di sotto per fare colazione. Carla era già uscita, mentre Elisabetta era seduta a fare colazione e Paolo stava accendendo la macchina del caffè.
«Betta spostati, lo sai che quello è il mio posto» disse solo, prima di andare a prendere la propria tazza dalla credenza.
Sua sorella non disse nulla e, ancora un po’ addormentata, spostò la tovaglietta nel posto di fianco.
«La porti tu Betta a scuola stamattina?» le chiese l’uomo.
«Dipende. Tu me la dai la macchina?» contrattò.
«Te l’avrei data comunque per il weekend» prese le chiavi della BMW e le posò sul tavolo.
«Ah, allora Carla se l’è ricordato» disse stupita »Oggi pomeriggio la vado a riprendere io» indicò con un cenno del capo la sorella «Così mi aiuta a fare la spesa».
«No, Becca, non voglio! Ho il test di italiano domani, devo studiare».
«Ha ragione» disse Paolo «Se prende un altro brutto voto tua madre le prepara la cuccia in giardino».
«La aiuto io a studiare, tanto oggi non vado all’università. Devo solo mettere la casa a posto prima che arrivi Rachele».
Paolo si annodò la cravatta blu «Ricordati di accendere il riscaldamento quando arrivate, che prima di partire l’avevo spento. Farà un po’ freddo all’inizio».
Rebecca si strinse nelle spalle «Ho già messo le coperte in macchina».
L’uomo annuì, poi prese un altro mazzo di chiavi e gliele lanciò. «Ricordati che se trovo anche solo un graffio sulla macchina, questa volta ci vai tu dal carrozziere».
«E’ successo solo una volta!» ribattè stizzita, prima di dare uno spintone a Elisabetta per invitarla a mangiare più velocemente.
 
Quando Rachele si svegliò, la mattina dopo, era ancora troppo presto per uscire. I corsi all’università sarebbero iniziati solo in tarda mattinata, ma lei non aveva nessuna voglia di rimanere in quella casa e fingere con suo padre che fosse tutto a posto. Aspettò di sentire Tommaso chiudersi la porta alle spalle per andare a lavorare e quando ebbe il via libera si alzò. Preparò la ventiquattrore con i suoi libri e il blocco per gli appunti, prese i vestiti dall’armadio e andò in bagno a prepararsi. Quando si accorse che aveva messo la maglia all’incontrario scosse la testa, se la tolse e se la rimise con un sonoro sbuffo. Prese le chiavi dalla cucina, dove suo padre le aveva lasciato sul tavolo un sacchetto con due panini, come gli aveva chiesto ieri; accanto c’era un post-it giallo con su scritto “Uno è col prosciutto, l’altro con gli spinaci. Ti ho lasciato i croissant in frigo. Buona giornata <3”.
Rachele, impassibile, accartocciò il biglietto e, pur sapendo che quello equivaleva a un segno di pace, uscì di casa senza prendere il suo pranzo.
Anche se erano solo le 7,30, il cielo era chiaro e per le strade c’era già movimento. Aspettò il suo pullman e dopo una cinquantina di minuti arrivò davanti al bar davanti all’università. Era piccolo ma pulito e i ragazzi che ci lavoravano erano sempre tutti molto gentili. Si sedette ad un tavolino un po’ appartato e aspettò di ordinare. Si stropicciò gli occhi con le mani, come fanno i bambini, e pensò che aveva fatto bene quella mattina a non truccarsi. Tirò fuori dalla tasca dei jeans il suo cellulare e mandò il buongiorno a Rebecca, che di sicuro stava ancora dormendo visto che il venerdì non aveva lezione.
L’unica ragazza che lavorava nel bar arrivò a prenderle l’ordinazione. «Ciao, cosa ti porto?» chiese con la sua voce cristallina e con un sorriso che a quell’ora Rachele non riuscì proprio a spiegarsi.
«Ciao» provò a dire con la sua stessa enfasi, ma era troppo stanca «Emh, si, mi porti un latte macchiato e una brioche ripiena, per favore?».
La ragazza annuì mentre velocemente annotava il suo ordine.
«Anzi, no» la interruppe Rachele, ripensando a cosa il padre le aveva detto la sera prima «La brioche non la voglio ripiena».
«Va bene, latte macchiato e brioche semplice?».
«Fai solo latte macchiato…» concluse poco convinta.
La ragazza sorrise «Va bene, te lo porto subito».
Rachele si appoggiò allo schienale della sedia guardando fuori dalla vetrata i ragazzi che entravano e uscivano dal rettorato. Si rigirò tra le mani il charm che Rebecca le aveva regalato da attaccare al cellulare. Lampeggiava anche quando stava per ricevere un messaggio o una chiamata. La sua utilità era discutibile visto che il display si illuminava già da solo, ma era un pensiero che le aveva portato da Vienna. Prese il libro dalla tasca anteriore della sua borsa e lo sfogliò svogliatamente: era arrivato il momento di mettersi a studiare seriamente.  
Quando la ragazza tornò con il vassoio, le posò davanti il suo solito bicchierone di latte macchiato e un piattino più piccolo con tre o quattro biscotti al cacao a forma di cuore. «Questi li offro io» le disse semplicemente, consegnandole lo scontrino.
Rachele la guardò imbarazzata «Oh, no, davvero non ce n’è bisogno».
«Insisto. Vai all’università? Lavoro qui da un po’ e ti vedo spesso. Sei sempre allegra» arricciò le labbra e fece una piccola pausa «Oggi lo sei un po’ meno, però».
«E’ per gli esami!» si affrettò a mentire Rachele.
«Bhe, magari questi ti tirano un po’ su il morale» le mise il piattino più vicino.
Rachele prese un biscotto «Allora grazie» disse e questa volta s’impegnò per fare uscire un sorriso che non avesse la forma di una smorfia.
«Non c’è di che». Quando un suo collega dal bancone la chiamò, quasi urlandone il nome, la cameriera lo raggiunse. Prima, però, salutò Rachele facendole un rapido “Ciao” con la mano.
Il charm si illuminò e pochi secondi dopo un blin-blin la avvisò che le era arrivato un messaggio. “Buongiorno a te, piccola bulla”.
 
Sabato mattina la sveglia di Rebecca squillò e lei, anche se non prontamente quanto avrebbe voluto, trovò la forza di alzarsi. Con quel cielo così nuvoloso avrebbe preferito rimanere sotto le coperte tutto il giorno, ma sapeva che il viaggio era lungo e non poteva fare tardi. Entrò in doccia e il vapore dell’acqua calda appannò in fretta lo specchio. Si pettinò i capelli raccogliendoli in una coda alta –che prima di quella sera sarebbe comunque scesa- e mise la spazzola, il phon, i trucchi e lo spazzolino in un beauty abbastanza capiente. Fece in fretta il punto della situazione sperando di non essersi dimenticata nulla di importante e chiuse il trolley.
Scese le scale facendo attenzione a non svegliare nessuno, nonostante le rotelle della valigia sbattessero rumorosamente contro ogni scalino. Guardò l’orologio. Secondo il progetto che aveva fatto, a quell’ora sarebbe dovuta essere già a casa di Rachele. Sbuffò sonoramente. Decise di saltare la colazione, ma la macchinetta del caffè la accese comunque: cinque minuti in più non avrebbero fatto differenza. Bevve il suo espresso tutto d’un sorso, scottandosi la lingua, e lasciò la tazzina sul tavolo della cucina. Uscì di casa in fretta, attraversò lo stretto vialetto acciottolato e raggiunse la BMW di Paolo.  Cercò in borsa le chiavi, poi d’un tratto si ricordò di averle lasciate sul suo comodino. «Accidenti!» disse, battendosi una mano sulla fronte e tornando indietro. «Pensare che le avevo messe lì proprio per non dimenticarle!».
Mezz’ora dopo aveva lasciato la macchina vicino ai bidoni del palazzo di Rachele. Sperava davvero che nessuno prendesse quella curva troppo velocemente o Paolo non si sarebbe dovuto reoccupare soltanto di un graffio.
Suonò il campanello.
«Chi è?» chiese dopo una manciata di secondi la voce assonnata dell’amica.
«Sono io, aprimi» rispose sbrigativa.
«Che ci fai qui?».
«Eh, se mi fai salire te lo spiego!».
Non prese l’ascensore e si fece i tre piani di corsa, ma già al secondo aveva il respiro affannato.
«Permesso» disse quand’era già nell’appartamento, poi si girò per guardare Rachele che chiudeva la porta alle sue spalle. «Ti prego, dimmi che quello che hai addosso non è un pigiama ma solo un brutto completo che sembra un pigiama» disse sconfortata.
«E’ sabato Rebecca».
«Sono le dieci!» se l’avesse sentita Carla dire una cosa del genere avrebbe pensato ad un cambio di identità.
Rachele si strofinò la faccia e ripetè «Si, ma è sabato!».
«Ok, bella addormentata» posò su una sedia la borsa «Ti sto portando via. E non ti posso fare uscire in questo stato. Sono orsacchiotti quelli?» indicò la sua maglietta.
«Smettila! E non ho voglia di andare in centro oggi, è tutta la settimana che faccio degli orari fuori dal mondo! Potevi almeno avvertire prima di piombare qui…».
Rebecca entrò nella stanza di Rachele e tirò su le serrande che erano ancora abbassate. Il letto era sfatto e sulla scrivania c’erano appunti sparsi ovunque. «Ma noi non stiamo andando in centro» si mise le mani sui fianchi e la guardò sorridendo «Stiamo andando fuori città. Per tutto il fine settimana».
«Come sarebbe a dire fuori città? E dove?».
Rebecca estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un mazzetto di chiavi e gliele fece dondolare davanti al naso «Campagna» disse scandendo bene le sillabe «Dì grazie a papino».
Rachele rise. Sapeva che usava quell’appellativo solo quando il suo patrigno le era tornato utile per qualcosa.
«Bhe, non so che dire…è fantastico! Non me l’aspettavo».
Rebecca aggrottò la fronte «Come sarebbe a dire che non te lo aspettavi?» chiese.
Lei agitò la mano «Non mi avevi fatto intuire nulla».
«Si, questo è vero. Ma domani è…» lasciò la frase a metà e la guardò allusiva.
Rachele non capì «Domani è domenica».
L’altra cercò di capire se stesse dicendo sul serio o se stesse solo facendo finta di non capire. «Si, ma è quella domenica. E’ la Festa della Mamma».
La ragazza rimase in silenzio. «Oh…» disse solo, mettendo insieme i pezzi.
Rebecca le si avvicinò e le diede un buffetto sulla guancia «Davvero te ne sei dimenticata?» chiese seria.
Rachele si passò una mano tra i capelli con fare colpevole «E’ perché…» cercò le parole «Sono stati giorni lunghi» balbettò «Sono successi un po’ di casini».
«Va bene, mi racconti tutto in macchina. Ora facciamo la valigia, altrimenti non riusciremo mai ad arrivare per pranzo con il traffico che c’è» le diede veloce un bacio sulla tempia «Vedi? Io arrivo sempre al momento giusto».
Prima di uscire di casa Rachele appiccicò al frigo un post-it con cui avvertiva suo padre che quella notte non sarebbe rientrata e che si sarebbero visti domenica pomeriggio. Forse stare un po’ lontana le avrebbe fatto passare l’arrabbiatura che ancora si sentiva addosso quando c’era lui.
In effetti l’autostrada era piena di macchine e a mezzogiorno decisero che fosse meglio mangiare in Autogrill un panino e rimettersi in viaggio.
«Stanno insieme a malapena da un anno» spiegò Rachele raccontando cosa era successo con suo padre «E all’improvviso, non so…ha deciso che è la donna della sua vita».
Rebecca, al volante, storse il naso. «Si, ho capito».
«Ha ancora la fede al dito!» continuò come se quella frase, da sola, valesse a chiarire tutto «Non se l’è mai tolta. Poi quando la invita a casa si mette a nascondere tutte le foto di mamma, è una cosa odiosa».
«Perché lo fa?».
«Evidentemente perché a Laura danno fastidio. Non mi stupirebbe. La prima sera che me l’ha fatta conoscere ha passato dieci minuti a criticare i quadri scelti da mia madre. Quando le ho fatto vedere la riproduzione della Dama con l’ermellino sai cosa mi ha risposto? Ma è quello l’ermellino?».
Rebecca rise sguaiatamente «No, non ci credo».
«Te lo giuro! Sì che quel quadro ha una moltitudine di soggetti eh…ci sono giusto la dama e l’ermellino, non è stata in grado nemmeno di andare per esclusione!».
«E tu cosa le hai risposto?».
«Nulla, come la correggi un’ignoranza simile? Le ho solo detto che di certo l’ermellino non poteva essere la ragazza» scosse la testa, sconsolata «Ha anche aggiunto che il dipinto di mia madre non le piace perché, cito, non è il suo stile».
«No…» fece Rebecca distogliendo lo sguardo dalla corsia per guardare Rachele «Quello con le camelie?».
L’altra annuì «Pensa che l’aveva disegnato per mio padre quando l’aveva conosciuto. Vorrei sapere a chi cazzo importa del suo stile, poi».
«Calmati piccola bulla» le posò la mano destra sul ginocchio per farle una carezza «Vedrai che anche senza il tuo contributo questa storia non durerà molto. Sposare un’insegnane d’arte e poi trovarsi con una che pensa che Giotto sia la marca dei pennarelli non è un salto da nulla».
«Già…» sospirò Rachele guardando fuori dal finestrino le gocce che facevano a gara per rincorrersi.
La casa in cui aveva deciso di portarla Rebecca si presentava come una piccola villetta recintata ad un solo piano. Nel giardino c’era giusto lo spazio per parcheggiare una macchina e la BMW di Paolo ci entrò a pelo, dopo mille manovre. Quando arrivarono aveva già iniziato a piovere forte, così presero in fretta le valige e, senza ombrello, corsero verso l’ingresso coperto da un tettuccio. Quando Rebecca trovò le chiavi e aprì la porta per farla entrare, Rachele si fermò nel piccolo corridoio dalle pareti bianche su cui si affacciava, sulla destra, un’ampia arcata in mattoni scuri che faceva intravedere un pezzo della cucina. Sulla sinistra due porte chiuse nascondevano il bagno e la camera matrimoniale. Rebecca entrò in quest’ultima stanza e posò il suo trolley ai piedi del letto e consigliò a Rachele di fare lo stesso. Dovette ripeterglielo un paio di volte, perché la sua amica si era imbambolata davanti all’enorme quadro di caccia che occupava interamente la parete più lunga della cucina.
«Ti piace?» le chiese Rebecca, appoggiando una spalla al muro e fissandola.
«Tantissimo» sussurrò l’altra senza girarsi.
«Ho fatto bene a portarti qui? Abbiamo anche il camino».
«E’ il regalo più bello che tu mi potessi fare!» disse entusiasta, battendo le mani.
«Allora vieni qui» aprì le braccia per farle capire cosa intendesse e subito Rachele le si lanciò addosso. Quando Rebecca le circondò i fianchi e la strinse forte a sé, lei si sciolse.
«Era da un po’ che non stavamo insieme» sussurrò, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo e respirandone a pieni polmoni il profumo.
L’altra le accarezzò i capelli «Vero, ma almeno questi due giorni sono tutti per te». Strofinò la punta del naso contro la sua guancia, poi, prendendola per mano, la portò a vedere la camera da letto.
«Sono già venuta ieri qui” spiegò Rebecca «Per mettere a posto e accendere il riscaldamento. Ci mette una vita a diventare calda questa stanza» posò la mano sul termosifone che era ancora tiepido.
«Tu che metti a posto? Ci devo credere?» la sbeffeggiò Rachele mentre apriva la zip della sua valigia.
«Ehi ingrata! Ho fatto anche la spesa!».
«Da sola?» le chiese.
«Betta ha spinto il carrello» replicò come se fosse una scusante. «Ho comprato un sacco di cibo! E indovina un po’ cosa ho nascosto in credenza?» disse con fare cospiratorio.
«La cioccolata?».
«No, meglio. Due barattoli di nutella!».
«Ma io non la mangio la nutella» tirò fuori dal fondo del trolley una felpa ben piegata.
«Tu no, ma io sì. Scusa, non può esserci altruismo se c’è di mezzo la nutella».
Rachele rise e si mise addosso il capo.
«Questa è mia» disse Rebecca mentre le tirava su la cerniera e le aggiustava il cappuccio.
«Questa era tua» chiarì Rachele.
«Oh, le piccole bulle crescono... » le scostò una ciocca di capelli dal viso «E’ davvero un peccato che il rosso non ti doni».
«E’ amaranto!» proruppe «E poi con questo cosa vorresti insinuare, scusa?».
Rebecca liquidò il discorso con un gesto rapido della mano e uscì dalla stanza «Sai cosa c’è peggio di una teppista? Una teppista permalosa».
«Io non sono permalosa!».
Lei fece finta di non sentirla. «Aiutami a preparare la cena, così stasera possiamo guardarci tutti i film che vogliamo».
Tirò fuori dal frigo quello che aveva comprato lo scorso pomeriggio e mise sul piano di lavoro in legno qualche utensile da cucina.
«Quali DVD hai portato?» chiese Rachele mentre guardava l’amica cercare una casseruola.
«Vediamo…abbiamo La storia infinita, Grease, the Labyrinth…».
Storse il naso. «Sono così vintage!».
«Sono classici» specificò Rebecca prendendo in mano un coltello abbastanza affilato, poi le lanciò una patata e la ragazza la prese al volo con due mani. «Tieni. Lo sbucciapatate è nel secondo cassetto».
«No, preferisco usare il coltello, alla vecchia maniera. E’ un classico». Si sciacquò le mani sotto il rubinetto prima di iniziare. «A parte film anni ’70, abbiamo qualcosa?».
Rebecca alzò gli occhi al cielo «Spielberg perdonala perché non sa quello che dice. Ho un sacchetto pieno di film strappalacrime, come piacciono a te».
«Il Re leone?».
«Preso».
«Le follie dell’imperatore?».
«Me lo stai chiedendo davvero?» domandò sconcertata.
Rachele fece spallucce. «Mulan? Tarzan? Dragon Trainer?».
«Si, si e…no!».
«Come sarebbe a dire no? E’ il mio preferito!».
«Lo so, infatti è già dentro al lettore. Rilassati, ho pensato a tutto io». Tirò fuori dal frigo il burro e le uova. Forse non era una cuoca, ma almeno un paio di cose le sapeva fare.
«Questa casa è di Paolo?» si informò Rachele.
Rebecca fece un cenno di assenso con la testa. «Il bello di avere un patrigno ricco è che non userà mai tutte le case che possiede contemporaneamente. Praticamente questa villetta la utilizza solo a capodanno, se non lavora».
«La trovo stupenda. È molto intima. E quel quadro è bellissimo» indicò con la punta del coltello la parete opposta.
«Si, sapevo che lo avresti apprezzato. Pensa che se l’è fatto portare da Barcellona».
«Credi che quella sia Diana?» chiese riferendosi alla donna dipinta con l’arco e la faretra.
«Probabile. Forte, vero? Da piccola volevo essere come lei».
«Casta?» la prese in giro Rachele e di rimando Rebecca le spruzzò addosso l’acqua del rubinetto.
«Pensa che io volevo essere Mercurio» confessò Rachele «Il protettore dei ladri» rise «Ero un caso dispera…Ahia!» lasciò cadere il coltello sul tavolo e agitò la mano.
Revy rimase immobile prima di capire che l’amica si era tagliata. Buttò il guscio d’uovo che aveva appena aperto e fece per avvicinarsi. «Che hai fatto?» usò un tono canzonatorio.
Rachele strappò un foglio dal rotolone di carta e se lo avvolse intorno al dito. «Nulla, nulla, mi sono distratta».
«Confermo: sei un caso disperato» incrociò le braccia «E pensare che Carla me lo aveva insegnato che non si devono dare oggetti pericolosi ai bambini. Dai, vieni in bagno così ti posso mettere l’acqua ossigenata».
Rachele si nascose subito la mano dietro la schiena «No. L’acqua ossigenata non la voglio».
«Rachele…».
«No, Rachele niente, è solo un graffietto, va bene così. Prendo un cerotto».
«Ma ti devi disinfettare prima, hai toccato il mondo».
«Se mi disinfetto poi brucia» spiegò.
Rebecca la squadrò «No, invece. E non farti venire a prendere, perché sai che lo faccio».
Lei scosse la testa.
«Non fare la lamentosa» fece un passo avanti e istintivamente l’altra ne fece uno indietro.
«Quando ti sei fatta male al piede non volevi nemmeno metterti il ghiaccio!» le rinfacciò Rachele.
«Avevo tredici anni!» rispose esasperata.
«L’età non è un’attenuante».
«Oh, sì che lo è. Madre avvocato, ricordi? Mettiamola così: se non vieni davanti a me di tua spontanea volontà entro tre secondi ti assicuro che tutte le preghiere che conosci non ti basteranno a fermarmi quando ti farò il solletico».
«Io non soffro il solletico» disse sollevando altezzosamente il mento.
«Rachele…non mi istigare. Conosco ogni centimetro del tuo corpo e, credimi, so perfettamente quali sono i tuoi punti deboli. Uno…» iniziò a contare, sollevando un dito.
«Rebecca aspet…».
«Due» Sollevò l’altro.
«Per favore!».
«Tre».
«Va bene, va bene, arrivo!» si affrettò a raggiungerla.
«Brava ragazza» sorrise compiaciuta, poi le prese la mano e la accompagnò in bagno. La fece mettere vicino al lavandino e le rovesciò sul dito qualche goccia di disinfettante. Quando Rachele si accorse che non bruciava affatto, si lasciò scappare un piccolo «Oh…» di sollievo.
«Già. Ti ho preso quello che non brucia. E solo perché tu lo sappia, sono dovuta andare nel reparto bambini».
«Gne, gne, gne» le fece il verso passandole la scatola dei medicamenti.
Rebecca strappò un cerotto trasparente e lo aprì. «Però, sai, è quasi un peccato» iniziò a dire mentre lo faceva aderire bene «Che al mio tre tu non fossi già arrivata».
Rachele la guardò senza capire. «E quindi?».
Rebecca le accarezzò una guancia e avvicinò le labbra al suo orecchio «Quindi ti conviene iniziare a scappare» spiegò in un soffio «Hai un due secondi di vantaggio. E io sono veloce. Molto veloce».
 

 

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Capitolo 5
*** Non muovete nessun pedone e non perderete mai una partita ***


Capitolo 5
 
Non muovete nessun pedone e non perderete mai una partita
Tarrasch


Finirono di cenare abbastanza presto, nonostante una lunga discussione su quale film vedere per primo. Alla fine Rachele suggerì di andare in ordine alfabetico.
«Eh, certo» replicò Rebecca mentre attivava la lavastoviglie «Così Big Heroes Six te lo puoi vedere subito».
«Guarda che prima c’è Aladin» le ricordò l’altra sedendosi a gambe incrociate sul divano.
Rebecca parve pensarci un po’ su. «Allora te lo concedo» sentenziò alla fine «Ma ti avviso fin da subito che non mi costringerai a guardare anche Biancaneve».
In verità tre ore e quindici minuti dopo stavano entrambe cantando a squarciagola la canzone dei Sette nani, ma Rachele ebbe l’accortezza di non farglielo notare, perché Rebecca le stava tenendo la mano fra le sue e non voleva che smettesse di giocare con le sue dita.
«Sei stanca?» chiese quando Rachele appoggiò la guancia sulla sua spalla. Le toccò il naso e sentì che era gelato, come al solito.
«Solo un pochino» sussurrò, spostando lo sguardo dal televisore a lei.
«Vuoi andare di là?» Rebecca indicò con un cenno del capo l’altra stanza.
Rachele le strinse più forte le mani «No!». Sporse in fuori il labbro inferiore.
L’altra rise «Guarda che il televisore domani non scappa. Possiamo andare via di qua anche di pomeriggio tardi, tanto basta tornare a casa per la cena».
«Mhmh». Rachele non sembrava troppo convinta.
«Dai» la incitò Rebecca, lasciando andare la presa sulla sua mano e alzandosi. Rachele sentì subito più freddo. «Tu vai a pure in bagno, io finisco di mettere in ordine qui».
Rachele si spogliò in camera e si infilò il pigiama e anche se la maglia era a maniche lunghe, tenne con sé la felpa. Poi andò in bagno, si struccò velocemente il viso e si lavò i denti. Lasciò lo spazzolino appoggiato al lavandino, vicino a quello dell’amica, perché tanto lo avrebbe utilizzato la mattina dopo.
Quando sgusciò in camera, Rebecca aveva appena finito di chiudere la custodia del DVD di Biancaneve. «Tranquilla» la rassicurò quando vide che la stava guardando «Ti assicuro che finiremo di vederlo domani. Come se non sapessi come va a finire!».
Dopo aver spento tutte le luci e abbassato le serrande per impedire che la pioggia entrasse dalle fessure delle finestre, Rebecca entrò nella camera matrimoniale e si chiuse la porta alle spalle. Appoggiò sul comò la lampada ad olio che aveva portato da casa, perché sapeva che Rachele aveva paura del buio e che senza una luce di cortesia non c’era modo di farla addormentare. Quando schiacciò anche l’ultimo interruttore, la lampada gettò per la stanza una luce più calda di quella del lampadario a led.
Rachele era ancora seduta sul bordo del letto. Aveva scelto il lato sinistro, come faceva sempre. Rebecca le lanciò un’occhiata. «Non te lo sei ancora tolto il vizio di dormire senza pantaloni?».
La ragazza scosse la testa. Sollevò le coperte e si infilò nel letto. «Ti dispiace?».
«Non voglio che prendi freddo» spiegò, slegandosi i capelli e appoggiando l’elastico sul comodino.
Gli occhi di Rachele si fecero maliziosi, anche se il suo tono di voce, sempre un po’ acuto, non cambiò. «Vorrà dire che troverò un modo per rimanere al caldo».
Rebecca inarcò un sopracciglio ma non disse nulla. Sgusciò anche lei nel letto e le lenzuola fredde la fecero rabbrividire. Si avvicinò fino a quando non riuscì a percepire il calore del corpo di Rachele. Lei colmò la distanza che rimaneva allungando una mano e posandogliela sul solco della vita.
«Scusa» disse a bassa voce «Sono ancora un po’ fredda».
Rebecca scosse appena la testa. «Non importa». Fece girare un paio di volte il dito intorno a una ciocca di capelli.
«Sono diventati lunghi» notò Rachele, rannicchiandosi contro di lei. Sembrava sempre che il suo petto fosse fatto apposta per quello. Inspirò ed espirò profondamente il suo odore come chi non avesse desiderato fare altro per tutta la giornata.
«Si, anche se non quanto i tuoi. In ogni caso credo li taglierò. Iniziano a darmi fastidio».
Rachele pensò che sarebbe stata bella lo stesso, ma non glielo disse. Strofinò il naso contro la sua clavicola e vi depose un bacio. A Rebecca venne la pelle d’oca.
Fece scivolare le dita lungo il fianco, ma quando fece per insinuarsi sotto i pantaloni la mano di Rebecca la fermò, trattenendola per il polso.
Rachele si ritrasse un attimo per guardarla, ma il suo viso era indecifrabile. «Non vuoi?» chiese dopo una manciata di secondi.
L’altra ci mise un po’ più tempo a rispondere. «Siamo venute qui per te. E’ la tua giornata, puoi fare quello che vuoi» lasciò la stretta, ma non rispose alla sua domanda e Rachele non potè fare a meno di notarlo.
«Lo so. Infatti mi sto prendendo quello che voglio» replicò un po’ risentita, ma anche lei ritirò la mano, senza andare oltre. Non sapeva più come muoversi, né se muoversi. L’aveva respinta tante di quelle volte che ormai pensava di averci fatto l’abitudine ed era umiliante constatare per l’ennesima volta quanto si fosse sbagliata.    
Fece per girarsi dall’altra parte ma Rebecca la trattenne.
«Che c’è, sei un po’ meno sicura di te stessa adesso?» la rimbrottò.
«La tua capacità di mortificarmi, specie in momenti come questo, migliora anno dopo anno. Mi chiedo dove trovi il tempo per allenarti».
Rebecca scostò le coperte per essere più libera nei movimenti e salì a cavalcioni sul suo corpo. «Devi solo imparare ad andare più lentamente, tigre…» bisbigliò, portandole entrambe le mani sopra la testa e sfiorandole il viso con il suo.
Rachele evitò di incrociare i suoi occhi «Per cosa? Per quelle due o tre notti all’anno che decidi di concedermi? Più piano di così si va all’indietro».
«Se è così allora possiamo anche smettere» decise, ma quando vide lo sguardo che fece Rachele tornò sui suoi passi e aggiunse più dolcemente «Ascolta…ne abbiamo già parlato, non torniamo sull’argomento proprio oggi, ok? Non mi piace quando hai gli occhi tristi». Seguì con le labbra il profilo della mascella e le lasciò libere le mani per tirarsi su e togliersi la maglietta. Rachele emise un lungo e basso sospiro nel guardarla mentre si scopriva la pelle. Era passato così tanto tempo…
 «Questa volta faccio io» decise Rebecca, abbassandosi le spalline del reggiseno «Te l’ho detto che conosco bene il tuo corpo».
Rachele si mise a sedere e le circondò la schiena con le braccia. Non le piaceva stare sotto, ma decise comunque che l’avrebbe assecondata. Le sganciò con dita malferme il ferretto e appena l’ebbe tolto affondò il viso fra i suoi seni e li baciò voracemente.
«Quanto mi sei mancata» sussurrò e credette di poterci morire in quelle parole.
Rebecca la aiutò a togliersi quello che aveva addosso e sotto la maglia la trovò subito nuda.
Rachele le affondò le unghie nella schiena e cercandole le labbra con le sue chiese «Revy…mi baci?».
L’altra si irrigidì immediatamente.
Rachele tornò a sdraiarsi tra i cucini e la prese per i fianchi, come per modellarglieli. “Per favore…”.
Rebecca cedette e, anche se forzatamente, la accontentò. Le prese il viso tra le mani e le baciò a lungo la bocca. Era piccola proprio come se la ricordava. La morse piano e Rachele schiuse immediatamente le labbra in un invito esplicito. Tra sé sorrise: in fondo le piaceva il modo in cui Rachele rispondeva ai suoi stimoli. Molti ragazzi non erano così ricettivi.  
La tenne stretta fino a quando non la sentì inarcare il bacino e solo allora la accontentò. Continuò a baciarla e mentre la sfiorava e lei si tese come una corda di violino sotto il suo tocco. La sentì rabbrividire ed emettere un unico e breve gemito, ma non la guardò quando venne. Non lo faceva mai. Questa volta però si stupì di quanto fosse durata poco, anche meno delle altre volte.
Si addormentarono vicine e nessuna delle due soffrì il freddo quella notte.
Quando Rachele si svegliò era già tardi e la luce di un tiepido sole filtrava dalle persiane. La candela si era spenta, ma lei non aveva più paura. Si alzò dal letto e cercò a tentoni la maglia e la felpa e quando le trovò se le andò a mettere in bagno. Accese la luce più piccola che c’era in cucina e iniziò a cercare due tazze, i cucchiaini e la caffettiera. Sapeva che Rebecca beveva il caffè solo dalla macchinetta, ma non le sembrava che li ci fosse. Decise che l’avrebbe fatto più corto, così l’avrebbe bevuto comunque volentieri.
Pochi minuti dopo anche Rebecca si alzò e la raggiunse in cucina. Si sedette su uno sgabello e dal bancone Rachele le passò la sua tazza. «Buongiorno. Non te l’ho messo lo zucchero».
«Io lo prendo amaro» disse ancora intontita.
«Lo so».
«Ti sei svegliata presto».
«Dieci minuti prima di te» mescolò lo zucchero con il cucchiaino e bevve un sorso.
«Mhmh…mi sono svegliata e non c’eri».
Rachele la raggiunse e fece per stringerla da dietro, ma lei si scansò “Che ore sono?” chiese mentre andava a prendere il cellulare. Si rese conto che non l’aveva spento la sera prima. Aveva quindici nuovi messaggi.
«Sono le undici» disse Rachele guardando l’orologio a muro. «Perché?».
«Così» fece Rebecca mentre iniziava a leggere le conversazioni aperte.
Rachele provò un’altra volta ad avvicinarsi. Le posò una mano sulla spalla per farle una carezza, ma quando vide che non c’era reazione tornò a bere il suo caffè. Pensava che quella giornata sarebbe iniziata nel migliore dei modi, perché era una vita che non si alzava con Rebecca di fianco e, per lei, non poteva esserci risveglio migliore.
Evidentemente, se per Rachele questa era la soluzione, per Rebecca era un problema e non tardò molto a darle la conferma.
«Ascolta, lo so che ieri ti avevo detto che saremmo potute andare via tardi. Per te andrebbe bene lo stesso tornare qualche ora prima, tipo per le tre o tre e mezza?» chiese.
Rachele sentì lo stomaco aggrovigliarsi su sé stesso «Andare via di qua per le tre o essere a casa alle tre?».
Rebecca parve un po’ titubante «Io pensavo di arrivare lì alle tre…Magari potevamo andarci a preparare fra una mezzoretta. Scusa, mi sa che Biancaneve la finiremo un’altra volta».
Rachele le diede le spalle e annuì distrattamente «Va bene». Si sentiva ogni volta più stupida a pensare che i suoi momenti sarebbero durati più a lungo.
«Grande!» disse Rebecca finendo il suo caffè e posando la tazza nel lavandino «La lavi tu? Io vado di là a vestirmi».
Quando si chiuse la porta della camera alle spalle inviò il suo ultimo messaggio e aspettò la risposta.

Ciao Giorgio! Che ne dici se ci vedessimo oggi pomeriggio? Non so, magari potrei passare io da te…se hai casa libera, intendo. Io per le 3 dovrei liberarmi, fammi sapere!

 

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Capitolo 6
*** Nella vita, a differenza che negli scacchi, il gioco continua anche dopo lo scacco matto. ***


Capitolo 6
 
Nella vita, a differenza che negli scacchi,
il gioco continua anche dopo lo scacco matto.
Asimov
 


Rachele sbattè la portiera della BMW più forte di quanto avrebbe voluto e Rebecca ripartì dopo un saluto affrettato.
Rachele stentava a credere che fosse riuscita a rovinarle un momento come quello, ma si disse che ormai avrebbe dovuto saperlo: con Revy era impossibile che andasse come avevi programmato, perché avrebbe sempre detto qualcosa di troppo e fatto sempre qualcosa di meno. Ma l’ingenua era lei, che ogni volta sperava sarebbe andata meglio.
Le persone continuavano a dire che la speranza era l’ultima a morire, come se questo fosse un bene. Rebecca la speranza gliel’aveva calpestata tante di quelle volte che ormai Rachele pensava di non averne più nemmeno un briciolo a disposizione, e ogni volta si stupiva di come invece riuscisse ancora a credere che, prima o poi, sarebbe andata come aveva desiderato.
Si chiese come fosse stato possibile affondare così tanto nelle sabbie mobili senza accorgersene, invece di scappare quando ancora si aveva una possibilità di salvarsi decentemente. Non ricordava nemmeno più quando aveva smesso di tenerle testa. Solo, all’improvviso, si era accorta che era Rebecca quella ad impugnare la pistola, mentre lei non aveva più nulla per difendersi.
Era già da qualche anno che viveva con la sensazione di essere nuda, vulnerabile, con il sentore di essere sotto i fuochi nemici, senza alcun riparo. Non era un bel modo di sentirsi, quello. Quando hai paura che tutto possa farti male, allora tutto diventa pericoloso.
La faceva diventare pazza sapere che era stata Rebecca a fare la prima mossa e a metterla in quella situazione. Arriva sempre il momento in cui inizi a chiederti che cosa accadrebbe se con la tua amica ci fosse qualcosa di più. Rachele era convinta che quel momento, così com’era venuto, sarebbe passato, se solo Rebecca l’avesse lasciata in pace. Invece l’aveva baciata, di sua spontanea volontà, e non era passato poi molto tempo prima che i baci iniziassero a non essere abbastanza.
In verità, non era passato molto tempo nemmeno prima che Rebecca iniziasse a stufarsi. Sapeva che sarebbe successo, solo aveva sperato che non accadesse così in fretta. Non era stato nient’altro che un gioco per Rebecca, una nuova esperienza da aggiungere alla sua lista, mentre Rachele da quel gioco non era stata più in grado di uscirne. E ogni anno che passava non faceva che peggiorare.
Quando Rebecca le aveva detto che sarebbe partita, la situazione era degenerata. Lì, Rachele aveva pensato, Rebecca aveva usato la sua pistola. Poi l’aveva ricaricata, e aveva sparato ancora. E ancora. E ancora. Aveva dell’incredibile come riuscisse sempre a centrare il bersaglio.
La notte prima della partenza Rebecca aveva fatto l’amore con lei. Era stata l’unica volta, perché il resto non si poteva definire in altri modi che con “sesso”. E il sesso da solo aveva davvero poco di importante. In quel momento Rachele era anche riuscita a credere che sarebbe andato tutto per il meglio. “Ho una possibilità, sono l’eccezione!”, aveva pensato. Sì, l’eccezione…arrivavano tutti a pensarlo con Rebecca, chi prima e chi dopo. Per lei l’unica eccezione si chiamava Riccardo e il resto non era che semplice regola.
Le aveva detto che l’amava, prima di vederla andare via. Rebecca si era fatta una lunga risata. In quel momento si era portata via un pezzo di Rachele, un pezzo importante, che non le aveva ancora restituito. «Si,si, certo» aveva risposto con noncuranza, poi le aveva dato un bacio sulla fronte ed era partita.  
Rachele aprì la porta di casa. Suo padre, seduto in cucina a leggere il quotidiano con vicino un portacenere, appena la vide spense il sigaro con aria colpevole.
«Papà» gli disse esasperata, alzando le braccia e facendole ricadere lungo il corpo.
Lui chiuse il giornale. «Giuro, ne fumo solo uno quando non ci sei».
«Questo non è rassicurante. Hai detto che avevi smesso» portò la valigia in camera. Decise che l’avrebbe disfatta solo più tardi, quando le sarebbe venuta voglia.
L’uomo continuò «Comunque perché sei tornata così presto? Il biglietto diceva che tornavi stasera».
«Non cambiare discorso papà» lo rimbeccò Rachele, che non voleva affrontare quell’argomento. Andò in bagno e si fermò i capelli con una grossa pinza.
«Ascolta Lele, stavo pensando…» iniziò Tommaso titubante «Che non siamo stati insieme molto, ultimamente. Tra una cosa e un’altra intendo, e…» si grattò la fronte «Ho pensato che magari sabato pomeriggio, visto che sono a casa, potevamo andare insieme in centro. Se ti va. Ecco guarda» estrasse dalla tasca due biglietti gialli un po’ stropicciati «Ho saputo che fanno questa mostra al museo. Lo so che il…» dovette rileggere il titolo per ricordarsi il termine «Il surrealismo non ti piace. Non piaceva nemmeno a tua madre, però ho visto delle foto e sembra una mostra carina. Che dici?».
Rachele prese in mano i biglietti e lesse velocemente quello che c’era scritto.
«Solo noi due?» si assicurò prima di dare qualsiasi conferma.
Tommaso si mise una mano sul cuore «Giuro, solo noi due».
Rachele sorrise e gli buttò le braccia al collo. Il papà la sollevo appena da terra per farla girare, poi aggiunse «I biglietti però tienili tu. Un giorno nella mia tasca e guarda come si sono ridotti!».
Rachele pensò che quella giornata, in fondo, non fosse completamente da buttare.
 
Rebecca si stiracchiò prima di mettersi a sedere sul bordo del letto. La stanza in cui si trovava era piuttosto angusta per i suoi gusti e ogni luminosità era stata tolta dalle spesse tende alle finestre. Il ragazzo di fianco a lei la osservò mentre si rivestiva.
«Allora?» chiese con occhi maliziosi.
Lei rispose «Nella media. Ma possiamo migliorare» gli fece l’occhiolino.
«Se vuoi possiamo migliorare già adesso».
«No, domani ho l’università e mi devo svegliare presto».
«Quanti anni hai?».
«Ne devo fare ventitrè».
«Siamo piccole, eh? Ti piacciono i ragazzi più grandi? Io ne ho ventinove».
«E io non te l’ho chiesto» si mise le calze e si allacciò le scarpe.
Giorgio fischiò «Non sei una ragazza tutta fiocchi e cuoricini, vero?». In realtà sapeva già la risposta.
«Questo lo lascio scoprire a te» si allungò sul materasso per dargli un bacio.
«Sabato hai qualcosa da fare?» la trattenne lui per un braccio.
«Prova a chiedermelo venerdì».
«Reputati già occupata, allora» le sorrise e la lasciò andare «Tanto non sai stare senza di me».
«Si, è una cosa che mi hanno detto spesso». Rebecca aprì la porta della camera, aggiungendo: «Non ti scomodare, l’uscita la trovo da sola».
 
Quella mattina Rachele sarebbe rimasta volentieri a casa, per studiare o, meglio, per rimuginare su quanto era successo. Aveva tenuto il cellulare spento e così sarebbe rimasto per il resto della giornata. E se la curiosità non l’avesse travolta prima, anche per quella seguente. Non le andava di sentire Rebecca, né di leggere quello che lei le aveva scritto. Ancora meno le andava di accendere il telefono e constatare che non le aveva scritto affatto.
Non ricordava nemmeno più l’ultima volta che avevano litigato, non tanto perché Rachele fosse una persona incline a lasciar correre, quanto perché aveva capito che qualsiasi cosa le avesse rinfacciato, a Rebecca sarebbe comunque scivolato addosso.
Le aveva anche chiesto scusa, qualche volta, ma Rachele non pensava avesse davvero capito per che cosa scusarsi. Chiedeva scusa e basta, per fare pace, ed era capace due settimane dopo di rifare lo stesso errore. Era fondamentalmente una persona distratta, che non si soffermava mai molto su come le sue parole e i suoi gesti potessero essere interpretati dagli altri. E Rachele aveva una spiccata propensione alla mala interpretazione.
Quasi per noia accese il computer, giusto in tempo per vedere che il professore le aveva spostato l’appuntamento per discutere della sua tesi a quel pomeriggio. Se avesse potuto tornare indietro, probabilmente Rachele avrebbe cambiato relatore, ma ora come ora l’unica cosa che poteva fare era andare nel suo ufficio per sentirsi dire, forse per l’ennesima volta, che quel testo, così come era stato scritto, non andava bene. E Rachele iniziava a chiedersi quanti modi potessero mai esistere per esprimere sempre lo stesso concetto.
Nonostante le avesse scritto di vedersi alle sedici, Rachele riuscì ad incontrarlo solo alle diciotto, dopo che ebbe ascoltato tutti gli altri laureandi in fila prima di lei, e riuscì a lasciarlo ancora più tardi, e con più tardi si intende quasi un’ora dopo, con la sua tesi tutta piena di scarabocchi.
Attraversò la strada per andare a sedersi al suo solito tavolo, nel bar davanti all’università, con l’intento di controllare, ovviamente di malavoglia, le annotazioni che le erano state lasciate. Quando però fece per aprire la porta, la ragazza che l’aveva servita qualche mattina prima la spalancò a sua volta per uscire. Nella mano destra teneva il bastone per abbassare la saracinesca del negozio.
«Ciao!» la salutò quando la vide e fece un passo indietro prima di andarle a finire addosso.
«Ciao» contraccambiò Rachele, sempre un po’ meno entusiasta. Come fai, pensò istintivamente, a sorridere sempre?
«Oh, scusa, stavi entrando? E’ che stiamo chiudendo».
«Già, lo vedo».
«Noi chiudiamo un po’ prima rispetto agli altri…non ci sono molti studenti a quest’ora» si scusò, interrogando Rachele con lo sguardo visto che lei si trovava ancora lì.
Lei sollevò la tesi e spiegò «Gli studenti no, ma i tesisti sì».
«Senti» la ragazza si guardò un po’ intorno «Tanto sono io a dover chiudere, farti un caffè non mi costa molto. Dai, entra».
Rachele si tirò subito indietro. «Oh no davvero, figurati, non ti preoccupare. Colpa mia che non ho guardato il cartello, non c’è bisogno che riaccendi tutto solo per me».
Fece per andarsene ma l’altra continuò «Se non vai troppo di fretta, posso portarti dalla concorrenza. Conosco una caffetteria carina un po’ più in giù che rimane aperta fino a tardi. Ci faccio sempre un salto quando stacco da lavoro, se vuoi ci andiamo insieme. Pago io!».
Rachele ribattè «L’ultima volta mi hai praticamente offerto la colazione».
«Erano solo biscotti» precisò la ragazza.
«E’ uguale, sono in debito. Vengo con te, ma questa volta pago io».
«Touchè» fece l’altra, imitando con la mano il gesto di togliersi il cappello e dopo aver abbassato la serranda accompagnò Rachele per una via traversa.
«Io comunque mi chiamo Serena».
«Lo so. Ho sentito il tuo collega che ti chiamava l’altra volta».
«Si, in verità credo l’abbiano sentito anche fuori dal negozio. Io però non so come ti chiami tu. È vero che ti vedo spesso, ma sei quasi sempre da sola».
«Rachele» rispose mentre Serena le teneva aperta la porta per entrare nel bar. La ragazza salutò il barista e poi fece la sua ordinazione «Un Gin-Tonic e…?».
«Una coca-cola» terminò Rachele, prima di andarsi a sedere in un tavolo lì vicino.
Serena si sedette davanti a lei poco dopo con i due bicchieri. Ora che la guardava più da vicino e senza il completo da lavoro, sembrava una ragazza completamente diversa. Aveva i capelli biondo cenere e gli occhi marroni, ma più chiari di quelli di Rebecca.
«Quindi…» iniziò a dire dopo aver bevuto un sorso del suo Gin-tonic «Rachele, eh? Che nome carino».
«Pensa che a me non è mai piaciuto».
«Io trovo che ti stia bene. E’ ebraico» aggiunse poi con disinvoltura, ma subito sembrò pentirsene «Scusa, forse lo sai già. O non ti interessa. E’ che facevo lettere classiche e ho dovuto dare anche un esame di ebraico e il tuo nome non mi è nuovo. Non farci caso, a volte parlo senza pensare».
Rachele la tranquillizzò subito «Ma no, figurati. Lo so come ci si sente, quando ti piace tanto una cosa e ne parleresti tutto il giorno. Tu ti sei già laureata?».
Serena tentennò prima di rispondere «Si, ma non ho potuto continuare gli studi. Al terzo anno ho dovuto lasciare perché i miei genitori non potevano più permettersi la retta, così sono andata a lavorare eh…bhe, eccomi qui».
«Ti è dispiaciuto lasciare?» Rachele si rigirò il bicchiere ghiacciato tra le mani.
Lei fece spallucce «Un po’. Ero brava in quello che facevo, mi piaceva. Ma non sono drastica, conto di poter ricominciare prima o poi. Spero più prima che poi. Tu invece?» fece un cenno con la testa verso la borsa dove Rachele aveva messo la sua tesi «Magistrale?».
 «Triennale».
Serena la guardò stupita «Ah», disse solo.
«Ah, cosa?» chiese.
«Nulla. Sei piccola. Sembravi più grande».
«Perché, tu quanti anni hai?» risultò più acida di quanto avrebbe voluto.
«Più di te» le sue labbra si incurvarono in un sorriso «In cosa ti laurei?».
«Storia dell’arte» rispose Rachele, drizzandosi subito sulla schiena come faceva di solito quando qualcosa le piaceva e attirava la sua attenzione.
Serena pensò che sembrava sua nipote quando le chiedevano di andare a vedere uno di quei cartoni per bambini al cinema.
«Però ho fatto anche degli esami di lettere» continuò Rachele portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Hai dovuto fare l’esame di latino?».
Il sorriso di Rachele sparì all’istante «Si» disse sconfortata «L’anno scorso».
«Malaspina?» si riferì al professore.
«È stato l’esame più brutto della mia vita» disse a mo’ di conferma «E in effetti non è andata molto bene. Più che altro direi che sono negata per questa materia, ma mi serve assolutamente per poter leggere i codici miniati».
«Pensa che è stato il mio esame preferito. Ho avuto Malaspina anche come relatore. Dai, non fare quella faccia, non è così terribile come sembra!» si fece una risata. «Io avrei voluto insegnare latino all’università. Non per vantarmi, ma era una lingua in cui me la cavavo piuttosto bene» prese un altro sorso di Gin-Tonic.
Rachele tirò su un sopracciglio «Pensa che il prof che mi segue per la tesi non mi fa passare nemmeno una traduzione».
«Cosa porti come argomento?».
«Ho deciso di concentrarmi sull’uso dei colori nei manoscritti miniati, ma visto che per lui era un argomento troppo semplice mi ha allegato la traduzione del manoscritto di Bodley».
Serena storse il naso «Non farò finta di sapere cos’è solo per fare bella figura, ma mi sembra comunque una lettura un po’ ostica».
«Solo un po’?» chiese ironicamente Rachele “Mi sono dimenticata il latino subito dopo aver sostenuto l’esame”.
Serena si passò una mano dietro il collo «Io do ripetizioni ai ragazzi del liceo qui di fianco. Se vuoi posso darti una mano. Gratis ovviamente, per leggere qualche pagina».
Rachele avvampò all’istante «No, davvero questa volta devo proprio rifiutare. Già così mi sembra di star abusando del tuo tempo, figuriamoci darti un testo noioso come questo da correggere».
«Se non avessi voluto invitarti qui non l’avrei fatto, Rachele» e sul suo nome indugiò un po’ più a lungo «E poi te l’ho detto che ero brava in questa materia, non mi pesa fare una traduzione».
Rachele rifiutò ancora una volta e Serena gettò la spugna «Va bene, non insisto. Però il mio numero te lo lascio lo stesso. Così se ti viene qualche dubbio te lo posso chiarire» prese un foglietto dalla borsa e ci scrisse su velocemente prima di allungarglielo.
«Bhe, ma se mai avessi bisogno basterebbe attraversare la strada, anche senza disturbarti al telefono» precisò Rachele, ma piegò ugualmente il biglietto in quattro parti e se lo mise in tasca.
Serena finì di bere il suo drink e si alzò. Senza smettere di guardarla aggiunse maliziosamente «Hai ragione, infatti il mio era un pretesto per poterti sentire. Si vede che sei ancora piccola. E ti ricordi quando ho detto che ero d’accordo che offrissi tu?» chiese prendendo in mano il portafoglio «Bhe, era una scusa anche quella».

 

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Capitolo 7
*** La partita a scacchi è sempre decisa da un errore, per impercettibile che sia. ***


Capitolo 7
 
 
La partita a scacchi è sempre decisa da un errore,
per impercettibile che sia.
Tartakover
 


«Forza, dimmi cosa ho fatto questa volta» disse dall’altro capo del telefono.
«Ho detto nulla, Rebecca» rispose spazientita Rachele mentre usciva dalla facoltà e scendeva le scale.
«Si e il tuo nulla ti ha fatto sparire per due giorni».
«E’ un modo goffo per dirmi che ti sono mancata?».
«No, è un modo per dirti che non ti leggo nella mente. Invece di renderti irrintracciabile potresti dirmi per cosa te la sei presa tanto».
Rachele sbuffò e si mise in disparte per non intralciare gli altri studenti che andavano a lezione «Ma davvero non lo capisci da sola?».
«No! E poi lo sai, tu ed io diamo importanza a cose diverse».
La ragazza si grattò la fronte «Questo è poco ma sicuro» borbottò e quando l’altra non le rispose aggiunse: «Ok, va bene, Revy, ascolta, sinceramente…» si fermò quando vide Serena uscire dal bar per servire i ragazzi nei tavolini in piazzetta. Aveva raccolto i capelli in una treccia laterale e si era arrotolata le maniche della camicia bianca fino ai gomiti.
«Ehi, piccola bulla? Ci sei ancora?» la chiamò Rebecca al telefono.
«Si, si, ci sono… Emh. Sinceramente» riprese il filo del discorso «Non capisco perché tu sia dovuta scappare così di fretta domenica, specie quando potevamo stare un po’ da sole. Non l’ho trovato carino Rebecca, non è stato affatto un bel risveglio».
«Lo sapevo che era per questo».
«E allora perché me l’hai chiesto?» sbottò Rachele.
«Perché devi imparare a dirmi le cose, non puoi sempre aspettarti che io interpreti ogni tuo malumore!».
Rachele fremette per un secondo «Evito di dirti le cose che sono scontate».
«Ma lo sono per te, non per me».
«Ma se la notte…!» si accorse di parlare a voce troppo alta e riprese bisbigliando «Se la notte facciamo certe cose, la mattina dopo non puoi comportarti come se non esistessi!».
«Non l’ho mai fatto!».
«E invece lo fai di continuo, mi eviti come se stessi covando il germe della peste nera!».
Sentì Rebecca inspirare rumorosamente prima di rispondere «La mattina alle nove per me sono tutti potenzialmente portatori di peste! Non avevo nemmeno preso il caffè!».
«Ma non è una scusa! E poi erano le undici!» le rinfacciò lei.
«Il caffè! E ci siamo addormentate tardi, cosa pretendevi? Che mi svegliassi per darti il bis?» domandò con fare spazientito, ma Rachele non rispose.
«Oh, dai, Rachele, non dirmi veramente che volevi…».
«Zitta, zitta, zitta!» la interruppe prima di sentire qualcosa di sconveniente.
Rebecca rise «Dio, non ci posso credere, sei davvero peggio di un uomo».
«Quanto sei stupida! Non volevo il bis!» mentì lei «Volevo solo…oh, nulla, lascia stare».
«No, ora me lo dici».
«Invece no!».
«Non fare la prepotente con me, Rachele. Lo sai che odio quando lasci le frasi a metà».
«Volevo solo che non mi trattassi in quel modo, tutto qui. Come se ti vergognassi di quello che…succede».
«Lo sai che non è affatto così. Non mi vergogno di te, né di quello che ti riguarda. Carla aveva bisogno che tornassi a casa perché il capo le aveva chiesto di sbrigare delle pratiche e qualcuno doveva andare a prendere Betta, visto che Paolo non c’era».
Rachele si dondolò prima su un piede, poi su un altro «Bhe» disse un po’ meno sicura «Se era solo per questo potevi dirmelo».
«Non volevo ci rimanessi male».
«Oddio, Rebecca, ma mi conosci? Non ci sarei mai rimasta male per una cosa simile, è tua sorella!».
«Scusami, per cosa pensavi che fosse allora?».
Rachele rimase in silenzio.
«Uff…l’hai fatto ancora? Un altro bel film dove puoi inventarti cose senza senso?» la prese in giro.
«Forse un paio. Scusa, io che ne sapevo? Per me potevi essere andata da Nicola, o da Marco, o da Giulio o come si chiama l’ultimo con cui sei uscita».
«Lo sai che non ti farei mai una cosa simile, Lele. E con Mattia» puntualizzò «Ho chiuso sabato» e in quel frangente disse la verità.
Rachele storse il naso «Questo è il momento in cui io faccio finta di essere sorpresa per la fine della tua relazione e tu mi credi?».
«Aahahaha! Ma quanto sei stupida?».
Anche Rachele rise, più sollevata di prima «Un po’ meno di te».
«Ascolta, che ne dici di organizzare un’uscita sabato? Andiamo a prenderci un gelato, o a farci un giro vicino al porto, ci stai?».
«Non mancherei mai» rispose dolcemente.
«Brava, piccola bulla. Allora ti tengo aggiornata. Sei in università? Io fra un’oretta dovrei essere lì, hai qualche lezione?».
«No, io ho finito…» guardò il bar di fronte a lei e aggiunse «Rimango qui ancora cinque minuti per fare delle fotocopie e poi vado a casa».
«Va bene, allora nulla, tanto ci sentiamo più tardi».
Dopo averla salutata Rachele riattaccò e si diresse verso la caffetteria. Visto che il tavolo a cui si sedeva solitamente era già occupato ne scelse un altro vicino alla vetrata colorata. Tirò fuori dalla tracolla la tesi rilegata e iniziò a buttare giù, poco convinta, qualche correzione a matita.
«Ciao bimba» le sussurrò Serena all’orecchio mentre la sorpassava, facendola sobbalzare. Rachele fece per rispondere, ma la bionda era già andata a servire il tavolo di fronte.
Qualche minuto dopo spostò la sedia vicino a Rachele e le si sedette di fianco. «Allora?» chiese.
«Ciao» disse lei sorridendo e l’altra le fece l’eco.
«Non sei al lavoro?».
«Ho concordato una piccola pausa col mio collega. E il tuo latte macchiato arriva tra poco».
Corrugò la fronte «Ma non ho ancora ordinato nulla».
Serena alzò le spalle «E’ vero, ma prendi sempre quello. Come quel ragazzo laggiù prende sempre il marocchino e quell’altro sempre il caffè».
«E se proprio oggi avessi deciso di provare qualcos’altro?» la provocò.
Serena si fece più vicina, posò un gomito sul tavolo e appoggiò il mento al palmo della mano «In questo caso hai tutta la mia attenzione. Mi piacciono le persone curiose» disse con occhi furbi.
Rachele inarcò un sopracciglio «Non diventerò rossa per battute come questa, sappilo».
«No, ma è da quando sono arrivata che hai iniziato a dondolarti su quella sedia».
«Non è vero!».
«Invece sì. Sei troppo piccola per queste sottigliezze. Forse ti agito?».
L’arrivo del latte macchiato interruppe la loro conversazione e permise a Rachele di fingere di non aver sentito quella domanda. «Ti ho vista, prima. Quando eri fuori a servire. Ho pensato di fare un salto».
«Si, ti ho vista anche io».
«Ah» fece Rachele imbarazzata.
«Per fortuna che non diventavi rossa, eh? Ti avevo vista già quando avevi iniziato a scendere le scale» spiegò «Posso?» chiese indicando la tesi.
Lei gliela allungò poco convinta «La traduzione è al fondo».
Serena annuì distrattamente «Era una conversazione animata? Quella che stavi facendo al telefono?» iniziò a seguire con l’indice le righe.
«Mhmhm…no» esitò, aggiungendo un po’ di zucchero di canna e mischiandolo con il cucchiaino.
«Capito. Era il tuo fidanzato?» girò il foglio.
«No, era una mia amica».
La bionda si fermò un istante, come se stesse vivendo un flashback. Poi le rivolse un sorriso malizioso «Solo un’amica, eh?».
«Non è certo la mia ragazza!» si affrettò a dire Rachele.
«Sai cosa succede alle persone che non sanno mentire?» la guardò di sottecchi prima di continuare a scorrere la pagina «Sono le prime a non capire quando gli altri mentono».
Rachele aggrottò la fronte «Non è la mia ragazza» ripetè risentita.
«Oh, tranquilla, ti credo. Sono le situazioni peggiori quelle in cui non sai come definirla» Serena le restituì la tesi senza perdere il segno «In verità la traduzione non è così male, ma questo è un piuccheperfetto, non un perfetto passivo».
L’altra la guardò senza capire. Passava da un argomento all’altro così velocemente da far fatica a seguirla.
«Non ti ricordi il piuccheperfetto, vero?» le rubò la matita e scrisse tra parentesi la traduzione corretta in una calligrafia piccola e regolare.
«Ah, già…è vero» annuì Rachele sconfortata, rispolverando quelle poche nozioni che aveva assimilato di latino.
«Hey, tranquilla piccola. Non devi mica diventare una latinista. Ripeto, se vuoi posso darti una mano, quando ti va». Si alzò per tornare a lavoro.
Rachele iniziò a pensare che forse era stato un bene non buttare il suo numero di telefono.
 
Rebecca aveva deciso che sarebbe passata a prenderla sotto casa verso le ventidue, quel sabato sera. Probabilmente sarebbe stato uno degli ultimi weekend liberi prima della sessione e lei lo avrebbe sfruttato al meglio. Prima di uscire di casa inviò un messaggio vocale a Rachele per avvisarla di tenersi pronta e salì in macchina. Avvicinò il sedile al volante pensando che sua madre non potesse trovarsi comoda a guidare in quella posizione e che sarebbe stato meglio iniziare a pensare di prendersi un’auto propria.
Poi ci ripensò. «No, me la faccio prendere da Paolo per Natale, tanto non sa mai cosa regalarmi». Si tolse i tacchi per avere più controllo sui pedali e partì.
Suonò un paio di volte il clacson per far capire a Rachele che si era fermata sotto il suo portone, ma lei era già nell’atrio che l’aspettava. Si chiuse la porta alle spalle e si diresse verso la sua macchina. Indossava un corto tubino rosso che le fasciava stretti i fianchi e la vita. Rebecca pensò che su chiunque altro quel vestito sarebbe risultato rozzo e volgare, ma che indossato da Rachele faceva tutto un altro effetto.
«Come siamo carine stasera» la prese in giro quando aprì la portiera.
Rachele le fece la linguaccia «Lo sono sempre».
«Vero. Forse il rosso non ti sta poi così male. Scusa» si corresse subito «L’amaranto».
Rachele la guardò esasperata «E’ cremisi!».
«Ma tu colori normali mai? Tipo giallo, bianco, azzurro. Presente?».
«Non hanno dipinto la Cappella Sistina con colori normali».
«Già e nemmeno il tuo vestito, a quanto pare. No, bulla, aspetta» la fermò prima che si sedesse «Vai dietro». Si sporse di lato per trovare la maniglia e abbassare il sedile.
«Perché mai dovrei andare dietro?» chiese divertita lei, senza capire.
«Bhe, perché davanti si siede Giorgio».
Vide Rachele irrigidirsi, ma non ci fece troppo caso.
«Ah. E chi sarebbe Giorgio?».
«Un ragazzo che sto sentendo da qualche giorno».
«Che ci vada lui dietro allora, non sono mica un barboncino».
«Senti, ne parliamo in macchina? Siamo un po’ in ritardo» si mise la cintura e Rachele si sedette sul sedile posteriore.
«Ed esattamente» iniziò, incrociando le braccia al petto «Quando pensavi di dirmelo? Che non saremmo state da sole?».
Rebecca la guardò dallo specchietto retrovisore «Ma te l’avevo detto».
«No» Rispose freddamente.
«Si, te l’avevo detto quando ho organizzato questa uscita».
«Pensavo fosse un’uscita solo tra noi».
Rebecca rimase in silenzio qualche secondo «Si, ma mi aveva chiesto prima lui di uscire e io me ne ero dimenticata. Così gli ho detto che poteva aggiungersi» ammise. «Non ti dà fastidio, vero?».
«No, perché mai?».
«Meno male».
«Mi è sempre piaciuto fare il terzo incomodo, credo che il ruolo sociale del reggimoccolo sia stato sottovalutato e vorrei portare questa categoria di lavoratori alla ribalta. E poi, sai com’è, adoro conoscere gli uomini da cui ti fai sbattere, mi mette a mio agio».
Rebecca picchiettò due dita sul volante «Mi sembrava fosse stato troppo facile, in effetti…».
«Se vuoi accendo un paio di candele e creo un’atmosfera romantica».
Passò una rotonda. «Guarda che non è poi così male, davvero. Senti, se vuoi gli dico che è saltato tutto».
«No, no, figurati. Andiamo da Giorgio» disse il suo nome con un tono beffardo «Ora sono curiosa».
Al semaforo rosso Rebecca girò la testa per poterla guardare negli occhi «Stai irradiando particelle cancerogene, lo sai vero?».
La bocca di Rachele si curvò in un ghigno «Se è tanto bravo saprà evitarle».
«Lele, per favore…».
«Che cosa?» mise il broncio.
«Almeno permettigli di presentarsi, prima di iniziare a giocare al gatto e al topo».
«Ma certo, d’altronde è il mio compito cercare di metterlo a suo agio» mostrò un sorriso che parlava da sé.
Rebecca appoggiò per un secondo la fronte al volante «Fai come se non ti avessi detto nulla…».
«E poi lo sai che lo hai appena paragonato ad un roditore? Prova a tirare da sola le somme».
Rebecca fermò la macchina vicino al marciapiede e sporse un braccio fuori dal finestrino per farsi vedere da Giorgio.
«Che carina la camicia alla boscaiola...» iniziò Rachele quando lo vide avvicinarsi «Pensa che è anche la mia preferita. Inizia a farti due domande».
«Contieniti».
«Magari al prossimo appuntamento ti porta nella foresta a cacciare cervi».
«Rachele!».
«Vuoi davvero uscire con chi potrebbe aver ucciso la mamma di Bambi? Chiedi a Carla se è concorso in omicidio. Non vorrei mai doverti portare i giornalini in cella. Ciao Giorgio!» si stampò in faccia un’espressione felice quando lui aprì la portiera.
 
A Rebecca era sempre piaciuto camminare sul filo del rasoio. Quella sera dovette ammettere che il filo si era spezzato e lei era caduta e probabilmente anche di faccia.  Sapeva che non sarebbe riuscita a tenere sotto controllo Rachele, perché le sue allusioni erano così corrosive da poter sciogliere qualsiasi camicia di forza.
Rebecca aveva smesso da molto tempo ormai di presentarle i ragazzi con cui usciva, un po’ per evitare prediche, un po’ per evitare il suo sguardo. E anche se si ripeteva di continuo che la prossima volta non ci avrebbe fatto caso, che avrebbe dovuto comunque farci i conti, non poteva far finta di non notare quegli occhi. Non era solo rabbia, né solo tristezza, compassione o sconforto. Erano gli occhi di una persona delusa, lo sguardo di una persona rassegnata. Rachele era quello: una ragazza che si era abituata alle delusioni. E a Rebecca quegli occhi davano immensamente fastidio. Ancora di più, la irritava pensare che i suoi occhi avessero perennemente quella luce addosso solo per colpa sua.
Aveva come l’impressione che qualsiasi cosa facesse non fosse mai abbastanza, per nessuno. Ma aveva sperato andasse diversamente, almeno con Rachele. Aveva creduto che non l’avrebbe mai forzata a dare più di quello che Rebecca era disposta a cedere, a correre più di quanto le sue gambe non potessero fare, e all’inizio era stato così. L’aveva scelta per quello. Ma ora sentiva che ciò che faceva, diceva e provava, per Rachele non era sufficiente: doveva fare, dire e sentire di più e Rebecca non era convinta le fosse rimasto qualche “più” da poter utilizzare, dopo Riccardo.
Rachele era in perenne attesa di un altro suo passo falso, di un’altra mossa sbagliata, di un ennesimo errore. E ormai Rebecca sentiva di essere un equivoco su tutta la linea, con lei. La teneva tra le mani e non era più in grado di capire quando stringeva tanto da farle male, né quando stringeva così poco da farla cadere. Ma una cosa la sapeva: qualunque decisione avesse preso, sarebbe stata comunque pessima. “Appena ti muovi fai danno”, le diceva sua sorella e in effetti non poteva darle tutti i torti. Le sarebbe piaciuto se almeno una volta Rachele fosse stata soddisfatta di lei. Ma soddisfatta fino in fondo, senza se e senza ma; se fosse arrivata da lei e le avesse detto «Revy, sei stata brava, non potevi fare di meglio».
Non voleva la responsabilità che Rachele le aveva affidato. Essere l’unica persona a poterle fare male, ma male davvero, non era poi così divertente, specie quando ci riusciva anche senza averne l’intenzione. Era tutto così facile quando erano piccole. Lele si prendeva una cotta per un ragazzo e, se lui la trattava male, Rebecca imparava gli orari di uscita della sua classe e lo aspettava davanti al cancello. Ora che quel ragazzo era lei, non c’era più nessuno con cui potersela prendere. Se avesse visto in quegli occhi almeno un briciolo di soddisfazione, forse le cose sarebbero andate diversamente, anche se sospettava che Rachele non se ne sarebbe andata in nessun caso.
La prima volta che erano state insieme aveva appena lasciato Riccardo. Non era abbastanza lucida per prendere decisioni sane e di sicuro quella era stata la mossa peggiore di tutte. Ma Rachele non l’aveva fermata e lei aveva continuato. Non si ricordava molto di quella notte, solo che aveva pensato fosse stato strano. Né bello, né brutto, solo strano. Forse un po’ aveva sperato di sentire qualche fremito, la tensione, il fiato corto, ma non era accaduto nulla di tutto ciò. Col passare del tempo le cose non erano cambiate molto. Aveva anche avvisato Rachele di non farsi illusioni. Ricordava che lei aveva riso prima di risponderle che non ci sarebbe mai stato questo tipo di pericolo; Rebecca non sapeva se l’avesse detto per non farla preoccupare oppure perché in quel momento lo pensava veramente.
Doveva ammettere che la situazione le era sfuggita di mano con Rachele e quella sera non vi furono altro che conferme. Giorgio incassava meglio i colpi di quanto avesse creduto, ma sapeva anche che non era un ragazzo molto paziente e temeva potesse farsi scappare qualche informazione di troppo. Di sicuro non si aspettava che la baciasse proprio davanti a Rachele. E dall’espressione che le vide in faccia, non se lo aspettava nemmeno lei, perché finalmente, dopo un’ora, rimase in silenzio. Anche se Rebecca lo avrebbe definito un silenzio molto rumoroso.
A mezzanotte erano già sulla strada del ritorno, Rachele che guardava ostinatamente fuori dal finestrino, Rebecca che evitava in tutti i modi di usare lo specchietto retrovisore e nessuno che parlava. Giorgio accese lo stereo e alzò il volume della musica.
«Che canzoni noiose» commentò mentre scorreva l’mp3.
Rachele non disse nulla sul fatto che quelle melodie le aveva scelte lei, né che le aveva dedicate a Rebecca e non puntualizzò sul fatto che ogni testo era importante perché le ricordava un momento passato insieme.
La macchina svoltò nella sua stradina privata e Rachele, senza pensarci, borbottò «Guarda che lui era più vicino».
Rebecca tirò il freno a mano «E invece ho riportato a casa prima te, guarda un po’». Scese dalla macchina per farla passare.
«Buonanotte» le augurò senza guardarla, ma Rachele non rispose nemmeno.
In auto fu Giorgio a rompere il silenzio «Simpatica la tua amica. Non devo andarle molto a genio» disse ironico.
«Già, è una persona loquace. Grazie per non averle detto nulla di domenica».
«Mi avevi chiesto di non farlo e io non l’ho fatto, anche se non mi hai spiegato il motivo» le appoggiò una mano sul ginocchio.
«Non c’è bisogno che tu capisca. Ascolta, non mi va di rimanere a casa tua oggi. Ti va se parcheggiamo un po’ più avanti e abbassiamo il sedile?».
Giorgio rise «Vuoi una cosa veloce?».
«Velocissima. Per te non dovrebbe essere difficile».
Lui si slacciò la cintura «E’ successo solo una volta!». 

 

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Capitolo 8
*** Quando perdo un pezzo: se vinco era un geniale sacrificio, se perdo era uno stupido sbaglio. ***


Capitolo 8
 
Quando perdo un pezzo: se vinco era un geniale sacrificio,
se perdo era uno stupido sbaglio.
Koltanowski

 
 
Rachele non era così sicura che le persone sognassero davvero tutto quello che dicevano di aver sognato. Anzi, spesso pensava esagerassero solo per il gusto di farlo, o per raccontare qualcosa di diverso, o per convincere qualcuno che era diventato talmente importante da entrare addirittura nel loro riposo. Anche a Rachele piacevano i sogni, ma era convinta che il suo subconscio le tirasse brutti scherzi. Non aveva mai avuto incubi, nemmeno da piccola e, stranamente, nemmeno quando sua madre era venuta a mancare. Allo sportello d’ascolto dove l’aveva iscritta Tommaso, su consiglio degli insegnanti, la psicologa le aveva chiesto spesso cosa sognava la notte. Erano tutte immagini tranquille, storie ovviamente senza senso, piene di colori. Anche se aveva da sempre avuto paura del buio, non si era mai addormentata col terrore dei mostri sotto al letto o degli spiriti dentro l’armadio.
Ma aveva iniziato a desiderare di addormentarsi il prima possibile per vedere Rebecca. Quando aveva cominciato a sognarla, non ci aveva dato troppa importanza: pensava fosse una cosa normalissima quando si condivideva così tanto del proprio tempo con un’altra persona. Poi aveva iniziato a sognarla più spesso, più spesso, più spesso, sempre più spesso e ora il suo sonno era pieno di lei, sempre. Anche quelli erano stati sogni tranquilli, all’inizio, ma quando Rebecca era partita per Vienna era cambiato tutto. Rachele aveva avuto coscienza fin da subito che qualcosa dentro di lei aveva ceduto, che qualcosa si era staccato senza fare rumore, come un pezzo di intonaco da una parete troppo vecchia. Ne ebbe la prova tangibile non quando cominciarono ad andare male gli esami, né quando smise di gioire per le piccole cose e neanche quando iniziò a non avere più il ciclo, ma quando fece il primo di una lunga serie di incubi. Non erano propriamente brutti sogni e se li avesse ripetuti a voce alta probabilmente si sarebbe sentita una stupida a temere visioni come quelle. Erano la cosa che Rachele sentiva più vicina alla descrizione di un buco nero, perché al mattino quei sogni le avevano portato via le energie, l’attenzione, la luce, la forza di essere felice nonostante Rebecca. E lei era una costante di quegli incubi, anche se Rachele non riusciva mai a vederla. Solo, sapeva che c’era, che era lì da qualche parte, perché ne rimbombava il nome ovunque; a volte la cercava senza riuscire a trovarla, altre volte la inseguiva senza mai raggiungerla, altre volte ancora ne sentiva la voce, ma non riusciva a capire da quale direzione provenisse e rimaneva ferma ad ascoltare. Erano sogni a metà e Rachele era giunta alla conclusione che se solo avesse potuto avere nel sonno quello che non poteva avere da sveglia, allora la mancanza di Rebecca non le avrebbe fatto così male.
Le uniche volte in cui non sognava era quando si addormentava piangendo e infatti quella notte Rachele cadde in un sonno profondo dal quale si svegliò intontita e senza alcun ricordo.
Era avvilita, ma non sapeva bene per cosa. Non era la prima volta che Rebecca le faceva conoscere un nuovo ragazzo, né la prima in cui la vedeva baciare un’altra persona – anche se le veniva spontaneo domandarsi da dove venisse la necessità di farlo proprio davanti ai suoi occhi.
Rebecca non l’aveva scelta, di nuovo, così come non l’aveva scelta dopo la rottura con Nicola, con Giulio, con Giovanni, con Dario, con Luca, con Matteo e con tutti gli altri. E Rachele rimaneva ferma ad aspettare che si accorgesse di lei dopo un’altra storia inconcludente, che iniziasse a pensare che, per provarci con tutti, forse valeva la pena provarci anche con lei. Non voleva funzionasse necessariamente a tutti i costi, anche se ovviamente l’avrebbe preferito. Le sarebbe stato sufficiente avere una possibilità, così come l’avevano avuta gli altri, e provare, provare davvero a vedere cosa sarebbe successo. E se anche non fosse andata bene almeno non avrebbe avuto rimpianti, almeno avrebbe avuto la certezza che erano incompatibili e se ne sarebbe fatta una ragione, almeno non si sarebbe domandata di continuo come sarebbe stato. Dopotutto non pensava di avere nulla in meno rispetto agli altri, né Rebecca aveva nulla da perdere nel provare a far funzionare le cose con lei. Ma ogni volta spuntava fuori qualcuno di nuovo, qualcuno che le aveva preso il posto e Rachele era stanca di vedere tutta quella fila di gente che le passava davanti e Rebecca perdere tempo mentre si concedeva a tutti tranne che all’unica persona che la desiderava veramente. E adesso c’era anche questo Giorgio che spuntava fuori dal nulla per farla tornare un’altra volta in panchina. La cosa che più temeva era immaginarsi fra dieci anni, più grande ma ancora martoriata da quei dubbi. E se allora Rebecca fosse arrivata per dirle «Magari saremmo state felici, noi due insieme», Rachele non gliel’avrebbe mai perdonato.  
Non se la sentiva proprio di uscire per andare a vedere quella mostra insieme a suo padre e quando lui le disse che aveva già programmato di passare la giornata con Claudia non ci rimase neanche male. «Io ti avevo detto che ci saremmo potuti andare sabato pomeriggio, ma eri impegnata» le disse dispiaciuto «Chiedi a Rebecca di venire con te» le suggerì pensando di farle un favore «Tanto i biglietti non sono nominali, ma la manifestazione finisce oggi».
Rachele annuì distrattamente e anche se il suo umore non era adatto per un programma come quello, né per qualsiasi altro programma che non contemplasse il rimanere a casa a compatirsi, acconsentì ad andare alla galleria, giusto per non sprecare i soldi che suo padre aveva anticipato. Si vestì svogliatamente, prese il telefono per digitare il numero e lo lasciò squillare.
 
Quando scese dal pullman, lei era già lì che la aspettava. Si era raccolta i capelli in uno chignon morbido ma qualche ciuffo, troppo corto, era scappato incorniciandole il viso, che ora sembrava più tondo. Indossava un completo che secondo Rachele era fin troppo elegante per una mostra come quella, o forse era lei che si era vestita troppo sportiva.
«Ti assicuro che è strano trovare qualcuno che arrivi più in anticipo di me» le disse a mo’ di saluto.
«Quindi ti ho battuta?» chiese Serena e quando la vide sorrise.
«O forse ti ho lasciata vincere». Estrasse i due biglietti dalla borsa e gliene porse uno.
«Perciò in entrambi i casi vinco io» si girò il biglietto d’ingresso tra le dita ma non lo guardò neanche «Sinceramente mi ha stupito la tua chiamata. E ti assicuro che non sono una persona che si impressione facilmente».
«Guarda che non sei stata la mia prima scelta, eh» disse con noncuranza, ma Serena non sembrò essersela presa.
«Ma se gli altri ti hanno dato buca, sono l’unica scelta che ti è rimasta».
Rachele si dondolò su un piede prima di risponderle «Vedi sempre il bicchiere mezzo pieno, vero?».
«So solo che, prima scelta o meno, io sono qui con te e gli altri no. E’ la prima volta che vado a vedere una mostra d’arte, sai?».
«E’ per quello che ti sei vestita così?» si informò Rachele mentre le faceva segno di entrare nella hall.
Serena fece spallucce «Mi sono vestita così perché prima di venire qua ho dato un’occhiata al sito della galleria».
«E…?».
«E se i biglietti costano cinquanta euro, la ragazza alla reception è firmata Armani e due pinguini si aggirano per i corridoi offrendo champagne, direi che ho fatto bene».
Rachele la trattenne per un braccio «I biglietti costano cinquanta euro?» chiese a voce un po’ troppo alta, ma Serena non ci fece caso.
«Non lo sapevi?».
«No, me li ha regalati mio padre. Dio…» si passò una mano sul viso «Sono una figlia pessima. Non ci sono andata nemmeno con lui, ci sarà rimasto malissimo». Si guardò le scarpe «E sono in jeans» aggiunse sconfortata.
«A me piacciono i tuoi jeans».
Rachele le indirizzò un’occhiataccia.
«Va bene, va bene. Vuoi andare a casa a cambiarti?».
Sbuffò «Potrei prendere davvero in considerazione l’idea, ma non credo farei in tempo».
Serena la prese sotto braccio «Sai cosa diceva mia nonna? Che l’eleganza si vede dagli atteggiamenti e non dai vestiti».
«Si, perché non mi ha vista oggi».
«Ti avrebbe trovata molto graziosa» le fece l’occhiolino «E sai dopo cosa facciamo? Usciamo da questa galleria finto-parigina e ci andiamo a prendere un bel cheeseburger».
Rachele subito annuì entusiasta, poi aggrottò la fronte «Chi ti dice che io non abbia impegni, scusa?».
Serena inarcò un sopracciglio «Per un cheeseburger gli impegni si spostano, fidati» prese due flûte di champagne quando il cameriere si avvicinò con il vassoio «E poi questi damerini mangiano caviale…non fa proprio per me» sussurrò.
Un ragazzo in smoking indicò di procedere per il corridoio di sinistra per iniziare la mostra. Il cartello di fianco a lui portava a chiare lettere il titolo della mostra, “Il surrealismo fotografico di Ionut Caras” e invitava a non fare foto e a spegnere i cellulari. Rachele, prima di andare oltre, estrasse dalla borsa il suo telefonino. Nessun messaggio e nessuna chiamata. Premette il tasto di spegnimento e quando lo schermo si fu completamente oscurato lo ripose nella tasca interna.
Ogni sala, ampia e luminosa, ospitava cinque o sei canvas di diverse grandezze protetti da una spessa lastra di vetro. Lei e Serena procedevano fianco a fianco, passando da un’immagine all’altra. In quasi tutti gli scatti c’era una bambina, sempre la stessa, con i capelli dorati e ricci. Non doveva avere più di quattro anni.
«Tu ti occupi di questo?» le bisbigliò nell’orecchio Serena.
Rachele non distolse lo sguardo dal quadro ma rispose «Decisamente no. Non mi piace l’arte contemporanea».
«Quindi se non piace neppure a me posso dirtelo?».
Lei si coprì la bocca con il dorso della mano e rise silenziosamente «Se non ti fai sentire dagli altri, sì».
Pensava che Serena si trovasse perfettamente a suo agio in quell’ambiente. Con quel vestito, le decolté nere e il bicchiere di champagne, osservava i quadri come una vera critica francese. La vide fermarsi più a lungo davanti ad una foto che immortalava un albero dalle foglie rose frustato dal vento e una barca che dondolava sull’acqua. I due soggetti erano ben definiti, mentre lo sfondo era tratteggiato con colpi decisi di pennello, per dare l’idea del movimento. “Pastel” lesse il nome Rachele.
«Ha dei colori molto belli» disse sommessamente Serena.
«Ti piace?».
«Credo di sì» rispose lei, allontanandosi di qualche passo per vederlo nell’insieme «Mi piace la barca di legno».
«E’ questo che mi piace dell’arte» disse Rachele «C’è sempre un quadro che ti colpisce particolarmente. Che cosa vedi?».
«In che senso?» chiese Serena, senza capire la domanda.
Rachele si prese le mani tra le mani «Intendo dire» cercò le parole «A cosa ti fa pensare? Ci sono una barca, un albero e un tronco spezzato… ma tu cosa vedi?».
La bionda la guardò negli occhi per lungo tempo prima di rispondere e Rachele pensò di essersi spiegata male un’altra volta. «Mi dà l’impressione» disse poi «Di qualcosa che sta per spezzarsi e che rischia di essere trascinato via» fece per allungare una mano, ma poi si trattenne e la riabbassò «Mi ricorda una persona, quella barca» disse in un soffio e per la prima volta Rachele la vide seria, senza nemmeno l’accenno di un sorriso sulle labbra.
«Sei tu?» sussurrò.
Serena scosse la testa «No. No, non sono io. E tu? Hai trovato qualcosa?» cambiò argomento e Rachele, intuendolo, la assecondò.
«Non ancora».
«Bhe, ci sono altre quattro sale. Andiamo a cercare questo quadro, no?».
«Non sei tu che trovi lui, è lui che trova te».
«Questo è ancora da vedere» disse decisa Serena, poi la prese per mano e la condusse in un altro corridoio. Le fece vedere almeno dieci quadri che, a suo dire, erano quello giusto per lei, ma a Rachele non trasmettevano nulla. Alla fine, come aveva previsto, lo trovò quasi per caso. Non avrebbe saputo dire cosa la affascinava, ma quando ne lesse il titolo capì. Serena le rimase di fianco in silenzio, divertita dal fatto che la foto l’avesse distratta a tal punto da farle dimenticare persino di avere ancora la mano stretta nella sua.
Nel suo dipinto la bambina dai boccoli dorati c’era e procedeva lungo un ponte di pietra, circondata da enormi lanterne in ferro battuto che scendevano minacciose da un cielo nuvoloso e il temporale che imperversava le faceva oscillare pericolosamente.
Serena si sporse quel tanto che bastava per leggerne, di fianco, il nome: “One against all”.
«Che cosa vedi?» domandò questa volta lei, stringendole la mano e anche se a quel punto Rachele si era accorta di tenerla ancora, non lasciò andare la presa.  
«Coraggio» rispose e tornò a guardare la foto «E paura, forse. Fra tutte quelle luci, la lanterna che porta lei con sé è quella che brilla più di tutte. E’ piccola e luminosa. La protegge in mezzo a tutto quel fumo». Le venne in mente Rebecca, con la sua risata genuina, e i suoi occhi, che quando era felice diventavano lucidi, e allora sentì un nodo stringerle la gola.
«Sei tu quella piccola lanterna?» le domandò Serena.
Rachele fece un sorriso cinico e si limitò a dire con voce malferma «No. Io non sono in grado di illuminare un bel niente». Tentò di ritirare la mano, ma Serena gliela strinse più forte e quando fece per allontanarsi tirò, per farla tornare vicino a sè. Rachele non le era mai stata così vicino e doveva ammettere che si sentiva in soggezione.
«Chi te l’ha fatta credere questa stronzata?».
«Nessuno» si affrettò a dire lei «Io l’ho sempre…» le parole le morirono in bocca.
«Cosa?» domandò Serena quando vide che Rachele non accennava a finire la frase. Ma lei non le rispose e si limitò a ritirare la mano dalla sua stretta, continuando a guardare dritta davanti a sè. Serena sentì che le sue dita erano diventate fredde e che le era venuta la pelle d’oca.
«Rachele?» la chiamò preoccupata. Seguì la traiettoria del suo sguardo e vide una ragazza mora venir loro incontro.
 
Per tutta la mattinata aveva fatto attenzione al cellulare, aspettando che Rachele le mandasse un messaggio o decidesse di chiamarla. Ad ogni bip del telefono, Rebecca lasciava quello che stava facendo per andare a controllare. E per una volta che le interessava sentire solo lei, sembrava che tutti gli altri avessero deciso di comune accordo di farsi vivi: prima Giorgio, poi un’e-mail del professore, poi sua madre, una sua compagna di università, il ragazzo del circolo dei lettori… E quando era arrivata alla conclusione che probabilmente Rachele non si sarebbe fatta sentire neanche per qualche giorno, aveva lasciato il cellulare in camera ed era andata a studiare in salotto. E ovviamente Rachele l’aveva chiamata, come se avesse deciso a farlo di proposito, nelle uniche ore in tutta la giornata in cui Rebecca non avrebbe potuto rispondere. Quando vide la chiamata persa la ricontattò subito, ma a rispondere fu la voce fastidiosa della segreteria telefonica. Provò anche a chiamarla a casa e quando Tommaso le disse che era andata alla mostra artistica, le disse di essere stupito del fatto che non le avesse chiesto di accompagnarla.
«No, ha provato a chiamarmi» spiegò Rebecca «Ma non ho sentito il telefono».
«Se vuoi raggiungerla ti posso dare l’indirizzo. Dovrei averlo scritto da qualche parte. E’ uscita da un’oretta, ma conoscendola starà lì dentro ancora per un po’».
Aveva pagato il biglietto alla reception senza badare troppo al costo e aveva imboccato la serie di corridoi, sperando di non essere entrata per nulla, e quando l’aveva trovata, mezz’ora dopo, si era accorta che non era da sola.  Non le sembrava di averla mai vista quella ragazza prima, né ricordava che Rachele gliene avesse parlato, ma il suo viso aveva un chè di familiare. Pensò che avesse un volto abbastanza comune e che aveva visto mille ragazze come lei.
Sembrava che Lele le avesse lasciato una certa confidenza, cosa che faceva raramente, perché quando le aveva trovate erano particolarmente vicine e la bionda la teneva per mano.
«Rebecca» disse Rachele quando la vide, più per la sorpresa che per saluto.
La ragazza bionda fece un passo indietro quando le si avvicinò e contraccambiò il saluto di Rebecca con voce piatta.
«Cosa ci fai qui?» le domandò Rachele e non le sembrò contenta, ma nemmeno dispiaciuta. Di sicuro era ancora arrabbiata con lei, perché si teneva a debita distanza.
Rebecca estrasse il cellulare dalla tasca e lo fece dondolare tra le mani «Ho ricevuto la tua chiamata, ma non ho fatto in tempo a rispondere. Ho provato a richiamarti ma avevi il telefono spento o scarico».
«L’ho spento prima che entrassimo» spiegò Rachele.
«Bhe, ho chiamato a casa e tuo padre mi ha detto che eri qui, così ho pensato di fare un salto. Magari volevi…» guardò con la coda dell’occhio l’altra ragazza «Parlare».
Calò per qualche secondo un silenzio imbarazzante e Serena, capendo di essere di troppo, posò una mano sulla spalla di Rachele e disse a voce bassa «Vado a prendere qualcosa da bere. Ti aspetto nell’atrio, fai con calma». Sorrise anche a Rebecca prima di sorpassarla e lasciarle sole.
«Scusa» iniziò Rebecca «Avevo capito che fossi da sola».
«Certo, perché io sarò sempre da sola, dico bene?».
«Non ho detto questo».
«Non importa».
«Bhe, un po’ sì, importa. Non volevo disturbarti» si avvicinò di qualche passo e per risposta Rachele indietreggiò.
«Sei arrabbiata» constatò con semplicità.
«Sei venuta per dirmi cose che già so?».
“Pensavo potessimo chiarirci su quello che è successo”.
«Che cosa pensi ci sia rimasto ancora da chiarire, Rebecca? A me è sembrato tutto abbastanza ovvio».
«Non pensavo sarebbe stata la tua uscita ideale, ma non mi aspettavo la prendessi così male».
Rachele incrociò le braccia al petto «Vorrei mi spiegassi il ragionamento che hai fatto, perché io proprio non riesco a vedere come avrei potuto prenderla bene».
Si strinse la radice del naso fra il pollice e l’indice, con fare stanco «Non ci hai nemmeno provato, però».
«Quindi ora la colpa è mia?» sbottò.
«Sto solo dicendo che non puoi sabotare ogni uscita che facciamo solo perché non va come vorresti tu».
«Non va mai come vorrei io».
«Bhe, a volte succede».
«Sì, ma con te succede sempre. Io ti…» si lasciò scappare un lungo sospiro «Ti ascolto quando mi dici che hai conosciuto un nuovo ragazzo, ti ascolto quando mi dici che ci sei finita a letto, ti ascolto anche quando mi dici che ti è piaciuto, almeno permetti che io non voglia averlo davanti? Non mi va, non scenderò a patti con te su questa cosa. Io non voglio vederli e pensavo di essere stata sufficientemente chiara a riguardo. Anzi, mi stupisce ancora che sia io a doverti spiegare queste cose, perché dovresti arrivarci da sola. Non hai tatto Rebecca, a che cosa pensi quando fai queste cazzate?».
«Io continuo a non trovarci nulla di così sbagliato, Rachele».
L’altra strabuzzò gli occhi «Ma allora sei stupida».
«No, solo non sono plateale come te. Vedi qualsiasi cosa che faccio come se fosse un affronto personale, ma ti assicuro che non è così. Ok, forse non sarò esattamente la persona più delicata di questo mondo, ma non lo sono mai stata Rachele. Mai. Vuoi davvero farmi credere che te ne sei accorta solo adesso? E negli ultimi dieci anni dove stavi guardando?».
«Non può essere sempre questa la tua scusa, lo capisci? Che cosa vuol dire? Visto che sei fatta come sei fatta, se ti comporti male non te lo devo dire? No, non ci sto in questo gioco».
«Ma mi stai ascoltando, almeno?» chiese Rebecca esasperata.
«Io ti ascolto sempre!».
«Ascolti, ma capisci solo quello che vuoi tu. Io voglio sapere se faccio qualcosa di sbagliato, il tuo parere mi importa! Ma io sono fatta così. Non voglio cambiare… perché tu vuoi che io cambi?».
«Eh? Io non voglio cambiarti, a me piaci così come sei!».
«Non si direbbe, visto che mi critichi sempre».
«Perché non pensi mai alle conseguenze delle tue azioni!».
«Conseguenze? Ieri sera saremmo dovuti uscire noi tre insieme, divertirci per un paio d’ore, prendere un caffè e tornare a casa. Era così che sarebbe dovuta andare! Sei riuscita a complicare anche un programma semplice come questo, non hai resistito nemmeno venti minuti».
«Ti ha baciata, Rebecca! E non è nemmeno questo il problema, perché non sarà stata di certo l’unica cosa che ha fatto, il problema è che io c’ero, io ti guardavo ed è stata una cosa…subdola. E meschina e tu non ti sei neppure tirata indietro; hai almeno pensato che c’era la remota possibilità che io ci rimanessi male o non te ne è fregato nulla?».
«Se devo essere sincera non ci ho nemmeno pensato. Ok, su questo hai ragione, avrebbe dovuto risparmiarselo e io avrei potuto fare più attenzione per evitarlo. Ma io e te non stiamo insieme, Rachele, non puoi fare la gelosa».
Lei la interruppe «Ma almeno ti stai ascoltando? Te ne stai lì, tutta tranquilla, come se stessi parlando di un bambino che ha rubato le caramelle al compagno di classe. Per me è importante!».
«Rachele, cerca di venirmi incontro invece di darmi addosso! Ti sto chiedendo scusa!».
«E’ inutile che chiedi scusa se pensi di aver fatto tutto giusto».
«Ti sto chiedendo scusa perché sono due settimane che non ne facciamo una giusta e sono stanca! Non ho più voglia di litigare con te e non mi va di trattenermi quando voglio scriverti solo perché siamo arrabbiate, o perché non mi risponderesti, o perché bisogna vedere chi delle due cede per prima. Oh, Rachele, no…non fare così» Rebecca le si avvicinò quando la vide asciugarsi gli occhi con il dorso della mano.
«Sto bene» replicò lei, evitando il suo sguardo, ma per quanto fosse delusa dal suo comportamento, quando Rebecca l’abbracciò non potè far altro che ricambiare e il suo profumo le invase i polmoni.
«Non piangere, dai» le accarezzò i capelli «Posso anche essere stronza, ma non mi piace vederti piangere».
Rachele nascose il viso nell’incavo del suo collo «Perché non posso essere come loro?» chiese «Perché non mi tratti come tratti quelli con cui esci?».
«Eh?» fece Rebecca sorpresa «Dici sul serio?» e quando non sentì risposta continuò «Allora vedi che sei proprio ottusa. Vuoi passare la notte con me e ricevere la mattina dopo un messaggio in cui ti dico che è meglio se cancelli il mio numero?».
«Non intendevo questo» borbottò Rachele.
«Infatti, ma è quello che mi hai chiesto, perché pensi che io dia più cose a loro che a te. Non è così, piccola bulla. Non vado ai loro compleanni e non li invito ai miei; non conosco le loro famiglie e loro non conoscono la mia, non gli faccio gli auguri per Natale, Capodanno, Pasqua, onomastico o ferragosto; non li lascio dormire da me, non gli faccio regali e non ne voglio ricevere; non mi interessa sapere il loro colore preferito, la loro stagione preferita, l’animale preferito, il film, la musica, la città o qualsiasi altra cosa che possa riguardare i loro gusti personali. Non voglio sapere che cosa hanno fatto durante la giornata, né cosa hanno in progetto per il giorno dopo. Non me ne frega nulla di conoscere il loro passato, ancora meno il loro futuro e spero mi parlino il meno possibile del loro presente. Non mando loro il buongiorno, né la buonanotte, né rimango sveglia fino alle ventitré e cinquantanove per essere la prima a fargli gli auguri di compleanno. Andiamo Rachele, non ho più soldi nel portafoglio perché li ho spesi tutti per entrare qua dentro e non avevo nemmeno la certezza che ti avrei trovata! Davvero vuoi barattare tutto quello che abbiamo noi per un paio di scopate in più la settimana? Pensi siano importanti? Perché se è solo questo il problema lo possiamo risolvere in fretta: che cos’hai da fare il martedì e il giovedì?» le prese il viso tra le mani e la costrinse a guardarla.
Rachele rise «Forse niente».
Rebecca strofinò il naso contro il suo «Non so se sottovaluti me oppure te. Per sicurezza non fare nessuna delle due cose. Io ti voglio bene, smettila di dubitarne di continuo. E rilassati. In queste settimane non ti ho vista ridere molto» la prese per mano «Allora? Raggiungiamo la tua amichetta».
Rachele annuì entusiasta. Si mise sulla punta dei piedi e le sussurrò all’orecchio «Ma dicevi sul serio per martedì e giovedì?». 

 

 

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Capitolo 9
*** Un giocatore di genio è colui che sa trasgredire le regole al momento opportuno. ***


Capitolo 9
 
Un giocatore di genio è colui che sa trasgredire le regole
al momento opportuno.
Teichmann

 
Rebecca raggiunse la hall della galleria e una ragazza in tailleur la invitò cordialmente a visitare la sala dedicata ai souvenir. Non lo avrebbe ammesso con Rachele, ma l’unico motivo per cui varcò quella porta in vetro fu perché vide la sua amica bionda aggirarsi tra i banconi pieni di gadjet, piccoli quadretti, volantini, libri e cartoline. La riproduzione dei quadri che erano stati ospitati nella galleria per quelle due settimane non dicevano nulla a Rebecca, che non aveva fatto nemmeno caso alle opere. E, ora che ci pensava meglio, non avrebbe neanche saputo dire il nome dell’evento, visto che l’unico motivo che l’aveva spinta ad entrare lì era stato Rachele.
Quando la raggiunse le tese la mano. «Scusami, non ci siamo presentate prima. Rebecca».  
L’altra accennò un sorriso, ricambiando il gesto «Piacere, Serena». Rebecca quasi si stupì della sua stretta energica. Con quel tubino rosa confetto e i capelli raccolti in maniera così aristocratica, avrebbe pensato tutto di lei, tranne che fosse una ragazza decisa. Rimase qualche secondo di troppo ad osservarla, ma Serena non abbassò lo sguardo.
«Dov’è Rachele?» chiese poi, aspettandosi di vederla arrivare con lei.
Rebecca ritirò la mano «E’ andata in bagno. Ha detto che ci avrebbe raggiunte. C’era un po’ di coda».
Notò che Serena aveva scelto una cartolina che riproduceva un soggetto di una foto che forse aveva visto. «Posso?» allungò una mano per prenderla e Serena gliela avvicinò. Raffigurava una bambina con in mano una lanterna e, anche se l’immagine era stata ingrandita per riprendere solo quel particolare, lo sfondo sembrava molto cupo. Comunque non le diceva nulla di che. «E’ un’opera esposta?» le restituì il cartoncino.
«Si. In realtà…» iniziò Serena, prendendo in prestito una penna e scrivendo una dedica sul retro «Se ne è innamorata Rachele».
«Si, è da lei, in effetti».
«Che cosa?» quando ebbe finito di firmare ripose la penna e sventolò la cartolina per far asciugare più in fretta l’inchiostro.
Rebecca si strinse nelle spalle e si appoggiò al bancone «Rimanere affascinata dai dipinti a tinte fosche».
Serena annuì «E’…intensa. Per avere ventidue anni, intendo».
Rebecca inarcò un sopracciglio «Deduco tu sia più grande».
Sorrise. Aveva un sorriso diverso da quello di Rachele, più duro e arrogante. «Deduci bene».
«Ventotto?».
«Trenta. Ma ci sei andata vicina» sfogliò gli altri volantini esposti.
Si tirò su «Ti trovi bene con quelle più piccole, eh».
«No» rispose Serena e quando fece per sorpassarla le urtò una spalla «Evidentemente non con tutte quelle più piccole» disse allusivamente.
Si mise in fila per pagare quello che aveva preso e Rebecca la seguì.
«Mi sembra di averti già vista da qualche parte».
“Credo di sì. Lavoro davanti all’università, al Genesi”.
Rebecca riflettè per qualche secondo, poi disse sovrappensiero «Sì…la cameriera».
«Già, la cameriera» tagliò corto Serena.
Revy la osservò meglio «Si, bhe, non ti avrei mai riconosciuta così».
«Si, bhe» ripetè lei «Mi piace stupire».
Una signora davanti a loro fece cadere a terra le monetine.
«Come hai conosciuto Rachele?».
«Le do una mano con la tesi» spiegò e quando vide la faccia che fece Rebecca continuò «Già, sono una cameriera laureata. E lei fatica nelle traduzioni latine».
Rebecca storse il naso «Anche io so il latino».
Serena fece un altro dei suoi sorrisi «Evidentemente una delle due lo sa meglio».
«Strano, non mi ha parlato di questa tua dote. In realtà, non mi ha parlato proprio di te».
«Pensa, stavo per dire la stessa cosa» tirò fuori il portafoglio e pagò la ragazza in cassa.
«E da quanto tempo la…aiuti?» la fece passare tenendo aperta la porta. Nell’atrio non c’era ancora nessuno, se non la ragazza alla reception.
Ci pensò su «Non molto. Una settimana, forse. E’ una ragazza sveglia, comunque».
«Sembri averla inquadrata bene. Fin troppo, visto che la conosci da così poco tempo».
Serena mise in borsa il suo regalo e accese il cellulare «Sono brava a capire le persone. Con Rachele, poi, è facile, il suo viso parla da sé. Basta guardarla. Prova a farlo anche tu, magari scopri qualcosa di nuovo».
Questa volta fu Rebecca a sorridere «Grazie del consiglio, ma ti assicuro che ormai c’è rimasto veramente poco, per me, da scoprire».
Serena non provò nemmeno a rispondere e l’arrivo di Rachele, comunque, le avrebbe impedito di farlo.
«Scusate. A saperlo la tenevo fino a casa, le signore ci hanno messo una vita» passò lo sguardo da una all’altra. Avvertì una certa tensione, ma scacciò il pensiero perché forse era solo nella sua testa e si stava facendo più problemi di quanti in realtà ce ne fossero.
Quando furono uscite dalla galleria, Rebecca prese per mano Rachele. Pensava sarebbero potute andare a casa, magari a fare pace nell’unico modo che sapeva convincere Rachele che fosse tutto passato. «Che dici, andiamo?» chiese e senza aspettare iniziò a camminare, ma quando sentì che lei non la stava seguendo si fermò, accigliata.
Rachele sembrò titubante «Serena mi aveva chiesto di andare a mangiare qualcosa dopo la mostra. Scusa, non sapevo saresti venuta» guardò la bionda in cerca di consenso e continuò «Vieni con noi? Dai, ci divertiamo e dopo torniamo a casa insieme».
Serena fece un passo avanti. «Sì, Rebecca, vieni con noi?».
Lei pensò di rispondere affermativamente, più per non lasciare Rachele da sola in sua compagnia che per il piacere di mangiare insieme. Ma in realtà, dopo molto tempo, temette di non essere in grado di controllarsi davanti ad una persona così fastidiosa e per nessuna ragione le avrebbe dato la soddisfazione di vederla perdere la pazienza. Declinò l’invito e quella sera, alla fine, non mangiò affatto.
Abbracciò Rachele e per obbligo strinse la mano della sua nuova amica, prima di andare a prendere la macchina.
Quel giorno fu Serena a sorridere per ultima.
 
Come aveva detto, l’aveva portata in un pub tranquillo lì vicino e, anche se non erano troppo distanti dalla zona del centro, Rachele non aveva mai visto quel locale. Visto che fuori era ancora chiaro e il sole aveva scaldato a sufficienza, Serena decise di sedersi nel dehor e aspettare che venissero a prendere le ordinazioni. Consigliò a Rachele quale panino scegliere e prese un piatto di patatine da dividere in due.
«Mi sono divertita oggi» le confessò mentre prendeva un sorso d’acqua «Anche se molti si sarebbero annoiati, forse. Ma tu l’hai reso interessante».
Rachele sorrise «Si, mi sono divertita anche io, anche se non è propriamente il genere che mi interessa» poi aggiunse «Scusami se ti ho lasciata da sola, alla fine. Rebecca era proprio l’ultima persona che mi aspettavo di vedere».
«Nessun problema. Me l’avevi detto che avevi chiamato anche altri prima di me, come non me la sono presa prima, non me la prendo ora».
«No, però capirei se lo facessi. Non è stata una cosa carina, me ne rendo conto».
Serena rimise a posto un altro ciuffo che le era scappato dallo chignon «Puoi stare tranquilla. E’ stata comunque dolce a venire».
Rachele arrossì «Si, suppongo di sì» rimase sul vago. «Vi siete dette qualcosa? Quando io non c’ero, intendo».
Serena si strinse nelle spalle «No, nulla, ci siamo solo presentate. E’ una ragazza…interessante. Andate all’università insieme?».
«Si, ma corsi diversi. Lei fa beni culturali. È molto brava».
«Mi è sembrata parecchio sveglia, infatti. Molto, molto furba».
«Già, lo è…».
«Avete la stessa età?».
Rachele annuì «Però io non so ancora quanti anni hai tu. Non me l’hai detto».
«Trenta» rispose e si aspettò di vederla sorprendersi, ma lei non batté ciglio. Si scostò quando il cameriere portò loro i piatti.
«Buon appetito!» augurò Serena, prima di addentare il suo panino e la conversazione si interruppe fino a quando Rachele non finì la sua cena.
«Mangi in fretta, eh?» la prese in giro Serena, ancora a metà della sua cena.
«Già…sono abbastanza vorace. Quando si avvicina la sessione, poi, non ne parliamo…».
«Mi piacciono le persone che mangiano. Le trovo più simpatiche e alla mano. Non se ne stanno lì a contare quante calorie stanno ingurgitando ogni volta che prendono un’insalata».
Rachele sorrise imbarazzata «Qualche anno fa ero anche io così» ammise «Ma direi che ora ho recuperato» si allungò per prendere una patatina fritta dal piatto davanti a lei «Anche se mio padre dice che sono una cavalletta».
«Che lavoro fa tuo padre?» si informò, per fare conversazione.
«E’ un operaio, lavora in fabbrica. Il tuo?».
«Esercito. Per un paio di anni è stato anche nei marines e io, mia madre e mio fratello siamo andati in America con lui. Ti parlo di tanti anni fa, eh».
Rachele si incuriosì «Bhe, è affascinante, no? Pensa che anche io volevo fare il militare e entrare in accademia».
«Io ho fatto il concorso perché mio padre voleva diventassi come lui. Sono anche riuscita a passarlo. Mi dispiaceva aver tolto il posto a qualcuno che probabilmente voleva stare lì per davvero, mentre io avrei preferito fare tutt’altro. Ho resistito un anno a Scienze Strategiche e ho mollato».
«Niente ballo delle debuttanti, eh?» fece sarcastica, riferendosi al ballo che aveva visto fare in televisione ai cadetti.
Serena storse il naso «Avrei dovuto vestirmi con un abito bianco di fru-fru e farmi scortare da un ragazzino che non sapeva ballare e, probabilmente, anche più basso di me? No, grazie. Se avessi potuto indossare l’uniforme e andarci da sola, forse l’avrei anche fatto. Il posto non era nemmeno male, tutto ben organizzato e professionale, ma erano molto rigidii, come mio padre. E i marines sono anche peggio».
«La tua passione era lettere, vero?».
«Si, lo è sempre stata. Fin da piccola. E poi quando do ripetizioni ai ragazzi mi diverto. Secondo me sarebbe meglio che imparassero le cose da qualcuno che gliele fa amare, com’era successo a me. La mia professoressa di latino al liceo era splendida, piena di voglia di fare, e quando spiegava glielo vedevi negli occhi che amava quello che insegnava. Era follemente innamorata di Ovidio, me lo ricordo ancora. Avrei voluto essere come lei, non certo imparare a passare le trincee».
«Sei una di quelle persone che si è laureata a pieni voti, vero?» la prese in giro Rachele.
Serena prese tra le dita una patatina «Ovvio, sennò non me ne potrei vantare con gli altri». Si pulì le mani col tovagliolo «Ti ho preso una cosa, alla galleria». Tirò fuori dalla borsetta un sacchettino bianco di carta e glielo porse «Per ringraziarti del biglietto».
Rachele tirò fuori il suo regalo e quando vide che cosa Serena aveva scelto per lei, rise. Sul retro c’era una piccola dedica, scritta sempre con la sua calligrafia perfetta: Alla mia piccola e lucente lanterna. Sono sicura che illuminerai il mondo. Con affetto, Serena.
«Lo sai che non ce n’era bisogno, vero?» le chiese, rimettendo la cartolina dentro la busta.
«Lo so, ma l’ho fatto lo stesso» sorrise.
Rachele si sporse oltre il tavolo per ringraziarla con un bacio sulla guancia «Allora lo metto in camera mia. Sarà un bel ricordo».
Serena finì il suo bicchiere d’acqua «Oggi però lascia pagare me, senza fare storie. Per entrare lì dentro tuo padre avrà speso sicuramente più di una decina d’euro». Le diede un buffetto sulla spalla e andò in cassa a saldare il conto.
«Ci hanno fatto pure lo sconto» disse stupita «Ascolta, ti andrebbe di venire a casa mia? Ti faccio un caffè».
«Oh, no, credo sarebbe meglio tornare a casa e…».
«Non sono neanche le venti. Giuro, solo per altre due chiacchiere. Rimarrei davvero volentieri con te fuori, ma c’è Aria a casa che mi aspetta, non mi va di lasciarla da sola tutto questo tempo».
«Chi è Aria?» chiese distrattamente Rachele. Aveva visto che Rebecca le aveva mandato un messaggio e aveva anche provato a chiamarla; il lampeggio del cellulare le faceva solo venire voglia di mettere Serena in pausa per leggere quello che le aveva scritto.
«E’ la mia cagnolina. Cagnolona, in verità. Lavoro tutto il giorno in caffetteria e la signora del piano di sotto mi fa il favore di portarmela a spasso, però a quest’ora sarei già dovuta essere a casa. Quando Aria inizia ad abbaiare in quel condominio scoppia un putiferio, perché poi i cani del piano di sopra iniziano pure loro ad abbaiare e il neonato del secondo piano inizia a piangere e…hai capito. Ho la macchina in garage, dopo ti posso riaccompagnare, lo faccio volentieri» quando vide che Rachele non le diceva di no, e neanche di sì, continuò «Solo un’oretta, davvero. Non voglio che vai a letto tardi e anche io domani devo trovarmi a lavoro alle sei, quindi…non ho davvero cattive intenzioni. Non sono il tipo che forza le persone a fare quello che non vogliono».
Rachele guardò un’ultima volta il suo cellulare. Un altro messaggio. Lo coprì con il portafoglio per non farsi venire la voglia di rispondere immediatamente e, quasi controvoglia, seguì Serena.
Il suo appartamento era un bilocale abbastanza piccolo, ma ben tenuto. Non c’era neanche una cosa fuori posto o, se c’era, Rachele non la vide. Il parquet un po’ cigolava sotto i suoi stivaletti, ma l’atmosfera che Serena aveva creato era molto rilassante. Una grande finestra illuminava la cucina spaziosa, ma i raggi del sole erano quasi tutti andati via, per cui Serena accese la luce e automaticamente anche la ventola. Quando fischiò, un grosso cane dal pelo lungo e bianco corse dall’altra stanza per fare le feste alla sua padrona. Sembrava che anche Aria fosse stata scelta per fare pendant con i colori della casa. Subito dopo andò ad annusare Rachele e le leccò la faccia.
«Aria!» la richiamò Serena con tono perentorio, ma il cane non sembrò darle ascolto.
«Non fa niente, davvero, mi piacciono gli animali. Ho sempre voluto averne uno» si mise in ginocchio per farle le carezze sul collo. Aveva davvero un pelo lungo e morbido. «Che razza è?».
«E’ un incrocio con un pastore dei Pirenei. Per quello è così grande, doveva essere un cane da scalata. Scusala, è che non vede troppo spesso ospiti e quando succede sono sempre gli stessi. Però è brava, non ti preoccupare. Se entrasse un ladro probabilmente gli porterebbe la pallina da lanciare».
Rachele le accarezzò il muso. Aveva al collo un collare con un’etichetta con inciso il suo nome. «E’ bellissima! Ce l’hai da quando era piccola?».
Serena scosse la testa mentre appoggiava sulla poltrona la sua borsa e si toglieva le scarpe. Invitò Rachele a fare lo stesso prima di rispondere «L’ho presa al canile che non era proprio piccola, quando vivevo con i miei e avevamo una casa più grande. Poi ho litigato con mio padre…non approvava alcune scelte che avevo fatto e mia madre non è mai stata in grado di tenergli testa. Forse si sono trovati per compensazione. Quando mi ha detto che dovevo andare via di casa, l’ho portata con me» si avvicinò per giocare con le sue orecchie «Certo, un po’ mi dispiace lasciarla qui da sola, ma lo spazio è quello che è e un mutuo più basso non me lo davano, quindi eccoci qui. Vero, Aria?».
La invitò a sedersi sul divano e le portò il caffè, mentre per lei aprì una bottiglia di birra. Si sciolse i capelli e tirò un sospiro «Non so se mi stessero ammazzando di più i tacchi o lo chignon. Odio quando devo tirarmi i capelli in quel modo, perché tanto non ci stanno mai. Sei comoda Rachele? Ti posso portare qualcos’altro?» lanciò un’occhiata ad Aria che era salita sul divano e aveva appoggiato la testa sulle gambe di Rachele «Magari un cane che non salga dove sa che non deve salire?». Avvicinò una piccola poltrona e si stravaccò.
Lei rise «Se lo dici per me non mi dà fastidio, davvero. Ho anche la maglia bianca, quindi i peli non si vedono».
Serena annuì «Infatti da quando c’è lei io ho smesso di comprarmi vestiti neri. Era diventata una cosa impossibile». Bevve un sorso della sua birra e rimasero in silenzio per qualche secondo.
«Quindi…» attaccò poi Serena, senza troppi giri di parole «Da quanto tempo state insieme?».
Rachele fece finta di nulla, ma quasi le andò di traverso il caffè «Chi?».
«Andiamo bambina…sei un po’ cresciuta per giocare a questo gioco, no?».
L’altra fece spallucce.
Serena si chinò in avanti per poterla guardare meglio e posò la bottiglia sul tavolino «Va bene, allora da quanto tempo vi siete lasciate?».
«Ma non ci siamo lasciate» ribattè Rachele a disagio «E non stiamo neanche insieme!».
Rise «Mi verrebbe da chiederti se lei almeno lo sa, ma mi sembra evidente» la prese in giro.
Rachele la guardò di sottecchi «Ok, che cosa ti ha detto Rebecca?».
«Te l’ho detto, non abbiamo parlato molto, ma non ce n’è stato bisogno. L’ho capito da sola» si appoggiò allo schienale della sua poltrona e giunse le mani in grembo «Anche se sono indecisa, non so se l’ho capito al terzo secondo oppure al quarto».
Rachele borbottò qualcosa.
«Ti imbarazza parlare con me di certe cose?» addolcì il sorriso «Guarda che non devi, sono solo curiosa. E poi si vede da come la guardi, è sconcertante quanto sia evidente. In effetti non so se è così palese perché non ti va di nasconderlo oppure perché non sei capace di mentire. E la seconda era una cosa che avevo già accertato».
«Non è vero, la guardo normalmente!» si mise sulla difensiva Rachele. Non era così sicura fosse un bene che Serena sapesse leggere le persone in quella maniera, come se non ci fossero segreti da poter tenere per sé.
«Questa è una cazzata enorme e lo sai. Non è normale guardare qualcuno in quel modo, come se il mondo avesse appena smesso di essere un posto di merda solo perché c’è lei. Io la trovo una cosa fantastica. E se per Rebecca è così scontato avere davanti degli occhi che la osservano in modo così speciale, allora significa che non è cresciuta abbastanza, o non ha fatto sufficienti esperienze».
«Oh…ti assicuro che di esperienza ne ha parecchia…» si lasciò scappare Rachele.
Serena arricciò un angolo della bocca «Bisogna fare le esperienze giuste, altrimenti non è esperienza, solo passatempo. Vedrai, lo rimpiangerà. Io lo so».
«Cosa sai?» aggrottò la fronte.
 «So cosa succede quando capisci troppo tardi quello che avevi davanti» il suo sguardo si fece per un attimo cupo «Succede che non hai più tempo a disposizione».
Calò di nuovo il silenzio. Rachele pensò che con Rebecca non succedeva così spesso di rimanere senza parole o senza parole opportune. «Eri innamorata?» chiese alla fine, sperando di non aver fatto il passo più lungo della gamba ed essere andata a toccare un tasto dolente.
Serena scosse la testa e sorrise, ma questa volta era un sorriso diverso, cinico «No, decisamente non ero innamorata. Ma lei sì. Lei lo era…Ramona era innamorata di me» addolcì il tono di voce nel pronunciare quel nome «Credo come nessun’altra persona, né prima né dopo. E io lo sapevo, eccome se lo sapevo. Sai» le disse «Mi guardava come tu guardi Rebecca. Praticamente come un bambino che aspetta un bacio da una madre troppo distratta. Ma io non ci avevo dato importanza» riprese la bottiglia e bevve un sorso, più per cercare le parole che per sete «Non so, forse pensavo le sarebbe passata o che avrebbe trovato qualcuno con cui poter fare chiodo-scaccia-chiodo. Ma lei non desisteva, era irremovibile. Praticamente una quercia. Il bello è che non ne conosco nemmeno il perché, non so cosa ci trovasse in me che non potevano avere altre mille persone. Ma forse è normale per noi non saperlo…sono gli altri che trovano le ragioni al posto nostro. Non c’era modo di allontanarmi, perché anche la strada più distante non sarebbe stata lontana a sufficienza. Bhe…non ci prestai molta attenzione. Anche per me era una cosa scontata. Lei era sempre lì e devo ammettere che, in fondo, mi ci ero anche abituata. E poi era bella, anche dentro, era una bella persona. Sempre così estrosa, sorridente, sembrava che nulla potesse scalfirla. Un po’ all’inizio mi sono anche divertita a vedere quanto in fretta riuscissi a farle perdere il buon umore e lei ci cascava, con tutte e due le scarpe. Decisamente non era abituata a persone come me. E poi ha…iniziato a perdersi, a scolorirsi. In un certo senso è appassita, lentamente, e nessuno di noi se ne è accorto. Anche se forse si aspettava che io ci prestassi più attenzione. Quando camminava non faceva nemmeno più rumore, se rideva non le si illuminavano neanche gli occhi. Ce l’avevo lì davanti e l’ho vista andare alla deriva» fece una pausa «Era lei la mia barca. Per quello quando ho visto quel quadro mi sono fermata, aveva un’idea che mi era fin troppo familiare. Incredibile quanto possano essere cieche le persone anche quando possono vedere, eh? Ero convinta che non mangiasse a causa del lavoro, o dei genitori, o degli amici o di qualsiasi altra dannatissima cosa. L’avevo presa anche in giro, quando non c’era. Però lo sapevo che era anche colpa mia, solo non me la sentivo di fare alcunché. Non detti importanza alla cosa nemmeno quando me lo disse chiaramente. E a dire tutta la verità, non lo feci nemmeno quando sua madre mi chiamò per chiedermi di andare a trovarla in ospedale. Pensa, non ci andai nemmeno di mia spontanea volontà. Che stronza, giusto?» bevve ancora.
«Non lo stavo pensando» sussurrò Rachele.
«Si, invece sì. E hai ragione, non posso darti torto. Quando la vidi in quel letto…Bhe, di sicuro doveva far effetto, specie perché era sempre stata una ragazza in carne. Era magra da fare senso, nessuno di noi era abituato a vederla così. Forse lì avrei dovuto accorgermi di tutte le mie mancanze, ma non era ancora abbastanza» rise forzatamente «L’avevo spinta al limite e non era ancora abbastanza. Aveva solo le guance più scavate e gli occhi più stanchi, ma non aveva smesso di guardarmi come aveva sempre fatto. Era ancora una quercia, solo…spezzata. Quando la lasciarono uscire, sospettavo che sarebbe venuta a parlarmi. Nemmeno quando mi disse addio mi importò, sapevo già che mi amava ed era solo questione di tempo prima che accettasse il fatto che stava amando una persona a vuoto e che non le sarebbe mai tornato nulla indietro. Ci volle tempo e esperienza, se la vogliamo chiamare così. Pensiamo tutti sia un obbligo essere amati da qualcuno. A venti, a trenta, a quarant’anni. Anche se una storia finisce pensiamo sempre ce ne sarà un’altra dietro l’angolo, è un errore comune. Ma ti posso assicurare che non è così, Rachele. Sì, puoi avere un sacco di relazioni, ma non saranno mai tutte importanti; quante persone pensi di poter amare davvero in, non so, sessant’anni? Quindici? Venti? Figuriamoci, dire cinque mi sembra già troppo. Però lo pensavo anche io, per me e per Ramona. Ma più frequentavo gente e più mi rendevo conto che nessuno mi guardava come faceva lei. Ho avuto storie importanti, non mi fraintendere, ho amato e sono stata amata, ma anche se con Ramona non c’è mai stato nulla…non sono più riuscita a trovare qualcuno che provasse per me l’amore che provava lei. E mi è bastato un secondo, solo uno, per capire quello che non avevo capito negli otto anni in cui c’era stata lei. Per quello posso dirti che Rebecca è una stupida. Ero stupida anche io».
«L’hai più rivista…Ramona?».
«Si. Una volta. La cercai io. Volevo rivederla, chiederle come stava. Mi avevano detto che si era fidanzata. Ci incontrammo in un bar, ma non andò esattamente come avevo previsto. Speravo di avere una seconda possibilità. Era bellissima e solare e in forma e divertente e…esattamente come me l’ero immaginata dopo tutto quel tempo. E la cosa più bella era che mi fissava ancora con quegli occhi e io, sì, magari non ricambiavo esattamente allo stesso modo, ma avrei potuto provarci perché mi sentivo pronta a farlo. Ma non era tornata ad essere così per merito mio. Io l’avevo ridotta come non dovrebbe mai succedere ad una persona e non me lo potevo dimenticare. Non conoscevo il suo ragazzo, non l’ho mai visto, ma sapevo che sarebbe stato più attento di me e la prova ce l’avevo davanti: lei stava bene, non era mai stata così perfetta. Se le avessi chiesto di tornare da me l’avrebbe fatto senza pensarci e io sarei stata la persona più felice di questo mondo, ma non potevo farle questo sgambetto un’altra volta, non a lei, non se lo meritava. Non avevo il coraggio per chiederle di saltare un’altra volta il burrone. Almeno questo glielo dovevo».
«…e non vi siete più sentite?».
Serena scosse la testa e si fece dondolare tra le mani la bottiglia di birra.
«Forse sareste state felici, insieme».
«Forse lo saremmo state, se io le avessi dato una possibilità quando me l’aveva chiesta. Mi manca ancora, ma è il mio scotto. Ramona ha pagato un prezzo decisamente più alto del mio. Per questo adesso presto più attenzione alle persone, a quello che dicono, a quello che fanno. Non commetto mai lo stesso errore due volte. So che vorresti sentirti dire che per te e Rebecca andrà diversamente. In realtà non è mai diverso. Sai cosa diceva Qoelet? Che anche quello che sembra una novità è un inganno, perché tutto si ripete. Sostanzialmente, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. E io il tuo sole l’ho già visto, con Ramona. E non è finita bene». Si alzò dalla poltrona e posò sul tavolino la birra. «Comunque non sono affari miei. Che dici bimba, è l’ora del coprifuoco?».

 

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Capitolo 10
*** Solo il giocatore con spirito d'iniziativa ha il diritto di attaccare. ***


Capitolo 10
 
Solo il giocatore con spirito d'iniziativa ha il diritto di attaccare
Steinitz
 


Un po’ mi manchi. Non troppo, il giusto. Avrei preferito tornassi a casa con me stasera, ad essere sincera. Avremmo potuto finire di vedere Biancaneve ma capisco che avevi preso un altro impegno, visto che non ti avevo avvisata…
 
Hey, piccola bulla, quando arrivi a casa mi chiami, ti va? Possiamo parlare un po’.
 
Rachele, ma stai ancora fuori? Ho provato a chiamarti ma non rispondi.
 
Le aveva scritto, ma ancora non aveva visualizzato, e l’aveva chiamata, ma lei non aveva risposto. Pensò che quella dovesse essere la giornata delle chiamate perse. Rebecca si era messa a letto senza cenare, aspettando che Rachele la ricontattasse. Non le piaceva l’idea di averla lasciata con quella ragazza, ma sapeva che se anche Serena avesse deciso di provarci – cosa di cui non era sicura perché era stata molto ambigua -, Rachele non le avrebbe dato corda da tirare. E fu felice di questo, per una volta. Da sempre era lei la prima che spingeva Rachele a conoscere nuove persone, a frequentare altri ragazzi. Era lei la prima a buttarla fra le braccia di altra gente, perchè la loro non era una relazione esclusiva (a dirla tutta non la considerava nemmeno una relazione) e non voleva sentirsi legata o dare l’impressione che dovesse esserlo lei. Ma, ovviamente, Rachele non era così. Anche se le aveva ripetuto più volte che sarebbe stata felice di vederla fidanzata con qualcuno, lei si era ostinata a rifiutare qualsiasi tipo di proposta. E anche le poche volte che l’aveva accettata, Rebecca non si era ingelosita. Perché mai avrebbe dovuto? In ogni caso, Rachele riusciva a far durare le relazioni meno di Rebecca, il che era tutto un fatto. Avrebbe preferito di gran lunga se fosse stata come lei, se avesse deciso di divertirsi, di provare nuove esperienze; se si fosse data la possibilità di capire che Rebecca non era e non sarebbe mai stata la persona giusta. Chissà, forse sperava che con qualcun altro si sarebbe svegliata dal suo sogno per capire che con qualcun altro si trovava meglio che con lei. Ma non era mai successo. Era sempre tornata, più convinta del fatto che non riuscisse a stare con nessun altro perché l’unica persona che voleva era Rebecca.
Le aveva sempre rinfacciato che non si era mai impegnata veramente per far funzionare le cose con lei, quando Rachele era la prima a non impegnarsi per far funzionare le cose con gli altri.
La prima volta che aveva fatto sesso era stato con un ragazzo che le aveva fatto conoscere Rebecca. Quando Rachele glielo aveva raccontato era stata felice, felice davvero, per lei e per quello che questo poteva significare. Ma Rachele si era arrabbiata. Le sembrava un controsenso che si fosse adirata così tanto solo perché Rebecca si era dimostrata sinceramente contenta per lei. Ma non era forse amore quello? Darle una via d’uscita, aiutarla ad imboccare la scappatoia? Non poteva forse definirsi amore? Sapeva che cosa si era aspettata Rachele da lei, non perché glielo avesse detto, ma perché tutti prima o poi arrivavano a pretenderlo. Rebecca doveva essere gelosa. Quello era il vero amore, per loro, perché se sei gelosa ti importa e se ti importa sei innamorata. Questi sillogismi inventati sul momento solo per giustificare il fatto che non si è abbastanza sicuri di sé stessi. E poi si chiedevano perché lei non volesse averci nulla a che fare, con l’amore.
Però quella volta era diverso. Rebecca non aveva mai pensato al fatto che a Rachele potessero piacere altre ragazze. Non ne avevano mai parlato, ma nessuna delle due aveva preso seriamente in considerazione l’idea di provarci con qualcun’altra. A Rebecca piacevano sicuramente tanti ragazzi, ma se si parlava di ragazze…non le veniva in mente nessun’altra a parte Rachele. Aveva sempre avuto l’idea di uomini intercambiabili e nei fatti, alla fine, non aveva trovato tutta questa differenza fra uno e l’altro. Ma con le donne era diverso. Se le guardava non provava nulla che la spingesse a desiderarle, ancora meno a pensare di averle nude nel suo letto. Ora si chiedeva se avesse commesso l’errore di dare questo per scontato anche con Rachele.
Sinceramente quella Serena non le diceva molto, ma sembrava essere abbastanza sicura di sé, come se Rachele le avesse già dato una risposta in merito. Non aveva mai storto il naso ad immaginarla insieme ad un maschio, ma a letto con un’altra ragazza…quello sì, un po’ le suonava strano, quasi impossibile. Però non riusciva a darsi una diversa spiegazione, visto che si era fatto tardi e Rachele ancora non l’aveva contattata. Teneva il cellulare tra le mani, per rispondere appena l’avesse chiamata, ma il display non si illuminava mai. Intorno a mezzanotte si addormentò e si svegliò di soprassalto, quando sentì il letto vibrare. A tentoni cercò sulle coperte il cellulare che le era scivolato e quando lo trovò rispose. Non aveva guardato neanche il nome del contatto, perché sullo schermo era comparsa la foto di Rachele che aveva deciso di allegare al suo numero.
«Pronto…» rispose con voce impastata.
«Ciao Revy» la salutò a bassa voce Rachele.
«Piccola bulla…finalmente».
«Stavi dormendo? Scusami, ho visto i messaggi e quando sono tornata a casa ti ho richiamato».
«No, no, hai fatto bene. Ti stavo aspettando, ma quando mi sono messa a letto sono crollata».
«Eri preoccupata?» le chiese.
«No» mentì «Solo che di solito rispondi subito. Come è andata la serata?».
«Bene» rispose semplicemente Rachele, come se non fosse una cosa importante.
Rebecca rimase in silenzio qualche istante «Non mi hai mai parlato di questa Serena».
La voce di Rachele si fece malinconica «Non abbiamo parlato molto, ultimamente…».
«Anche questo è vero» acconsentì «Ma se vuoi possiamo recuperare. Domani hai qualcosa da fare?».
Dall’altra parte Rachele sorrise «La mattina ho lezione, ma per pranzo dovrei liberarmi».
Rebecca si mise a sedere sul letto e si stropicciò gli occhi con la mano libera «Vieni domattina, saltiamo le lezioni. Ti ricordi come facevamo alle superiori?».
«Vuoi che venga da te in pigiama?» rise.
«Una volta l’hai fatto» ricordò «Sei venuta da me senza nemmeno cambiarti e quando ti ho aperto la porta siamo tornate a dormire insieme».
«Mhm…vuoi che lo rifaccia?».
«Si. Però non venire in pigiama, così dai meno nell’occhio».
«Ok, va bene, vorrà dire che mi inventerò qualcosa».
«Brava teppista…» sbadigliò «Allora è meglio se andiamo a dormire, altrimenti domattina non troverò le forze di venirti ad aprire».
«Allora Buonanotte Revy» le augurò dolcemente.
«’Notte piccola».
«Ah, Rebecca aspetta…!» la chiamò prima che riagganciasse.
«Sì, dimmi».
«Sei la mia lanterna» bisbigliò, ma Rebecca non capì.
«In che senso, scusa?».
«Nulla…non ha importanza».
Rebecca sospirò «No, sono curiosa, ora lo voglio sapere».
«Non c’è bisogno che tu capisca, solo…ricordatelo, ok?».
 
Anche se le parole di Serena le rimbombavano nella testa, quel mattino non poteva non pensare che tra lei e Rebecca le cose sarebbero funzionate. Anche se doveva ammettere che le sue speranze erano molto condizionate dal suo umore. Aveva dei sogni, possedeva degli obiettivi e aveva intenzione di raggiungerli, perché non aveva mai creduto che per avere qualcosa bisognasse necessariamente rinunciare a qualcos’altro. Non credeva che ricevere da una parte significasse perdere dall’altra, non credeva esistesse equilibrio o giustizia in questa visione del mondo. Ancora meno credeva alle persone che le dicevano di riporre le sue speranze in un cassetto, perché i sogni, Rachele, voleva appenderli come se fossero quadri, per guardarli e ricordarli ogni giorno. E Rebecca era uno di quei quadri, forse il più prezioso che aveva, anche se era un sogno non troppo ben definito: non sapeva se sarebbero state insieme, non sapeva se avrebbero mai condiviso una casa, per viversi l’un l’altra ogni giorno, se si sarebbero sposate, se avrebbero viaggiato, se avrebbero raccontato della loro storia a qualcuno…e quante cose ci sarebbero state da raccontare! Non lo sapeva. Rebecca non le aveva mai dato quel tipo di certezza, ma Rachele non aveva mai smesso di pensarci, perché un futuro senza Rebecca avrebbe davvero significato che per ottenere era necessario perdere. E lei non aveva intenzione di perderla. Avrebbe rinunciato alle sue ambizioni, ai suoi sogni, ai suoi progetti, se fosse stata messa nella condizione di dover scegliere. Ma conosceva troppo bene Rebecca per non sapere che, dopo una scelta simile, non avrebbe più avuto rispetto per lei, perché non aveva mai dato all’amore quell’importanza: l’amore era in grado di rimpiazzare altro amore, ma non di sostituire le aspirazioni mancate o i treni persi.
Forse era un po’ anche quello che le faceva paura, che la faceva tremare, a volte. Dover fare i conti con la possibilità di vivere un futuro senza Rebecca. Nessun amore, nessuna casa da condividere, nessun viaggio, niente da raccontare se qualcuno glielo avesse chiesto. Sarebbe stato strano lasciarla andare e sentire nostalgia per qualcosa che non era mai accaduto. Avrebbe detto: “Una volta conoscevo una ragazza…”. Già. E poi con quale forza sarebbe riuscita ad invitare gli altri a credere, ad andare sempre avanti, a non desistere? Che consigli avrebbe più potuto dare dopo aver constatato che anche quando ti impegni al massimo e non ti fermi, non ottieni quello che vuoi? Un po’ era anche per quello che non aveva messo la parola fine alla loro relazione, anche quando l’aveva voluto e anche quando Rebecca l’aveva voluto. Smettere di provarci avrebbe significato buttare all’aria anni di promesse, ammettere di aver gettato la spugna per la persona a cui teneva di più. Più di tutto, avrebbe significato dire, da quel momento in avanti, “Una volta conoscevo una ragazza…la amavo. E ora non so chi sia”. Avrebbe potuto, o dovuto, tirarsi indietro quando immaginarsi da sola senza Rebecca non era un pensiero che le facesse così male. E’ quello che intendono le persone quando dicono che “ormai è troppo tardi”.
Non era sempre stato tardi per avere una possibilità di uscirne indenne. Una volta avevano litigato così tanto e così tanto a lungo, che Rebecca non si era fatta sentire per un mese. Rachele aveva pensato “Bhe, non fa così male. Pensavo peggio. Se è solo questo l’amore, posso resistere”. Poi era ritornata e avevano litigato ancora, e ancora, e ancora e ogni volta che se ne andava faceva più male, più male, più male, al punto da non sopportarlo più. Aveva già passato da troppo tempo il punto di non ritorno per vedersela scivolare dalle mani senza provare a trattenerla.
Ma quel giorno le parole di Serena non le avrebbero guastato il buonumore. Rebecca aveva fatto una cosa solo per lei, come ne aveva fatte tante altre in passato, e Rachele questo non se lo dimenticava. Non doveva permettere che una cosa brutta oscurasse le tante cose belle. Mise la sveglia alle sette e si preparò per uscire. Il lunedì a quell’ora i pullman erano strapieni, ma a lei non importava. Scese alla fermata e aspettò il secondo tram. Alle otto e dieci era davanti a casa di Rebecca a suonare il citofono. Sapeva che erano già tutti usciti, per portare Elisabetta a scuola e per andare a lavoro. Non suonò una seconda volta quando Rebecca non le aprì: prima delle undici bisognava accettare i suoi tempi di reazione. Dopo un paio di minuti sentì dei rumori al citofono e il cancelletto si aprì cigolando. Entrò in casa e vide Rebecca farle cenno di seguirla in camera. Portava dei boxer da uomo e una maglietta che le aveva regalato al suo diciassettesimo compleanno e che, anche se le andava stretta, non si era decisa a buttare. Salì le scale dietro di lei e quando la vide sgusciare di nuovo nel letto si tolse le scarpe e chiuse la porta. Sollevò le coperte e le andò vicino. Rebecca si girò su un fianco e lasciò che la abbracciasse da dietro, come faceva sempre. Rachele appoggiò la testa sulla sua spalla e aspettò di sentire il suo respiro farsi più regolare e profondo. Solo quando si fu addormentata scivolò anche lei nel sonno e quando si svegliò Rebecca era ancora fra le sue braccia.
Pensò che fosse bello guardarla mentre dormiva, perchè quando sognava muoveva impercettibilmente le labbra e le arricciava. Le sarebbe piaciuto sapere cosa vedevano i suoi occhi in quel momento e ancora di più le sarebbe piaciuto sapere se c’era lei dentro il suo sogno. Ma non avrebbe mai trovato il coraggio di chiederglielo se non fosse stata Rebecca a confessarglielo spontaneamente.
Le spostò una ciocca di capelli e passò la bocca sul suo collo, fino alla spalla. Il corpo di Rebecca ebbe un fremito e lei si svegliò, ancora intontita. Rachele si puntellò su un gomito e rimase ferma una manciata di secondi, poi la vide stiracchiarsi e girarsi verso di lei, con gli occhi ancora pieni di sonno. Sorrise mentre Rebecca affondava il viso nel cuscino. Le cercò la mano e, trovatala, se la portò alle labbra.
«Hey…» sussurrò Rebecca.
«Hey» ripetè.
«Da quanto tempo sei sveglia?» le accarezzò una guancia.
«Un po’» disse solo, senza smettere di guardarla.
«Mi hai svegliata…».
«Lo so. E’ stato un gesto volontario» sgusciò fuori dal letto.
«Dove stai andando? Rachele, cosa fai?».
Lei si aprì la cerniera del maglione e lo lasciò cadere a terra «Mi spoglio».
«…ma non ho ancora preso il caffè» si lamentò, senza distogliere lo sguardo.
«E noi non abbiamo ancora fatto pace» disse maliziosa «Fai finta che sia martedì o giovedì» scherzò e quando fu rimasta solo in intimo tornò vicino a Rebecca, che borbottò qualcosa.
«Ti serve un qualche tipo di incentivo?» le chiese quando l’altra le passò le dita sul seno.
«Si, la colazione».
Rachele sbuffò «Stai cercando di dirmi che è il tuo bisogno primario?».
«Perché, il tuo no?».
«Non è in cima alla mia lista in questo momento» le prese la mano e gliela spostò lungo il fianco, poi sempre più in basso.
«Pizzo?» chiese Rebecca, tirando l’elastico delle culotte.
Rachele fece spallucce «Poteva essere un buon incoraggiamento».
«Oh, piccola…» sussurrò, prendendole il mento fra due dita «Io non ho bisogno di incoraggiamenti» le morse le labbra fino a quando non la sentì emettere un breve gemito. Rachele sorrise contro la sua bocca, poi si mise a sedere e invitò Rebecca a fare lo stesso.
«Cosa c’è?» chiese lei quando la sentì scivolarle alle spalle e circondarle i fianchi con le ginocchia.
Rachele insinuò sotto la sua maglietta le mani per accarezzarle la schiena e sentirne il calore della pelle sui polpastrelli. «Così non scappi» le bisbigliò a un orecchio.
«Non avevo intenzione di farlo» trasalì quando le dita fredde di Rachele le sfiorarono le scapole. Si sfilò la maglietta da sopra la testa e la lasciò cadere sul pavimento accanto ai suoi indumenti.
Rachele le accarezzò la piccola cicatrice alla base del collo e ne seguì il contorno con la punta della lingua. Dio, quanto le piacevano le sue piccole imperfezioni…
«Sei bellissima» disse in un soffio nel suo orecchio.
Rebecca piegò la bocca in una smorfia «Sei un po’ di parte» ribattè, accarezzandole l’incavo del ginocchio.
L’altra le strinse i seni tra le mani e si compiacque di sentirli pieni e nel vedere Rebecca inarcarsi sotto il suo tocco per venirle incontro. «Non è affatto vero. Fosse per me ti farei mia ogni giorno…ma questo già lo sai» la costrinse a girare la testa per poterla guardare. Iniziava a chiedersi se sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarebbe riuscita a non perdersi in quegli occhi. «Voglio baciarti» disse solo, ma non si mosse «Anche se non ti piace quando lo faccio».
Rebecca scosse la testa «Non dire scemenze. Io…» iniziò, ma Rachele la interruppe.
«Voglio baciarti» ripetè «Ed è così dura vedere che non desideri la stessa cosa… almeno oggi non farti pregare. Non voglio dover arrivare ad elemosinare per una cosa simile…baciami e basta. Ma baciami davvero, come hai fatto la prima volta».
Rebecca corrugò la fronte, poi si avvicinò e le esplorò le labbra con la lingua, fino a quando Rachele non la reclamò per sé, ricambiando con passione. Sentì il suo respiro contro la bocca e la cedevolezza delle sue labbra quando le mordeva. Si tolse il reggiseno e quando Rebecca sentì sulla schiena la forma del suo petto, non potè fare a meno di tremare. Non era la stessa cosa quando si trovavano pelle contro pelle.
«Mi piace l’effetto che ti faccio» mormorò Rachele, sentendo i capezzoli diventare turgidi contro i suoi palmi. Ne strinse uno tra le dita, mentre con l’altra mano scendeva lungo lo stomaco, fino alla pancia e al basso ventre. Quando sentì l’elastico dei suoi boxer si fermò.
«Dimmi che posso…» disse quasi implorando, ma Rebecca, anziché risponderle a parole, le prese una mano e la spostò dove le avrebbe dato più piacere e quando Rachele iniziò a toccarla si lasciò scappare un gemito silenzioso.
 
«Rachele…» iniziò Rebecca, mettendosi seduta sul letto. Tirò il lenzuolo fino al mento per coprirsi. Fissava un punto imprecisato davanti a lei, ma qualsiasi cosa sarebbe andata bene pur di non guardarla, o di non guardarsi.
«Ti prego, qualsiasi cosa hai intenzione di dire risparmiamela» la interruppe. Raccattò dal letto il reggiseno e se lo allacciò sulla schiena, dandole le spalle.
«Sono cose che succedono» ripetè, forse per la terza volta, ma anche se glielo avesse detto una quarta Rachele non avrebbe ascoltato.
«Si, ma con me succede sempre» ribattè mortificata.
Rebecca tirò su le gambe e appoggiò la fronte alle ginocchia «E’ solo un caso...» sussurrò.
«No, non lo è» si infilò la maglia «Non ti piace. Non ti piace mai».
«Mi piace sempre, invece».
Cercò i pantaloni a terra «Evidentemente non abbastanza».
«Pensi non mi sia mai successo con i ragazzi?» sbottò esasperata.
«Pensi che non sappia che, quando è successo, non hai più voluto sapere nulla di loro?».
«Ma cos...quindi credi che adesso io non vorrò più sapere nulla di te solo per questo? Non è una cosa così importante».
«Scusa?» fece risentita, alzando una mano per farla zittire «Che proprio tu mi venga a dire che il sesso non è una cosa importante, perdonami, ma la trovo una contraddizione bella e buona».
Rebecca sollevò di scatto la testa per fulminarla con lo sguardo «Quindi ora sarei diventata una ninfomane? Hai deciso tu di prendere l’iniziativa!».
«Sì!» allacciò la cintura dei pantaloni «Non voglio che sia sempre tu a dover fare certe cose! Vorrei…» continuò imbarazzata «Che piacesse anche a te, ogni tanto».
«Non mi fai venir voglia di lasciarti il campo libero se fai così» iniziò ad innervosirsi.
«Ma hai capito cosa ti ho detto?».
«Si, ho capito che ti stai arrabbiando per una cosa su cui non ho alcun controllo».
«Non sono arrabbiata! Solo ci rimango male».
«Già, è proprio per questo che preferisco essere io a guidare. Così non ci rimane male nessuno».
«Ma le cose si fanno in due!».
Rebecca sbuffò «Mi dispiace, ok? Ti fa stare meglio? Mi dispiace non essere te, mi dispiace non avere il tuo corpo, mi dispiace non essere ricettiva come lo sei tu!».
«E io che cosa c’entro?».
«Hai un orgasmo appena ti tocco» borbottò.
«Che cosa brutta, vero? Sono veramente una persona orrenda, hai ragione. Se non fossi sempre così tesa, magari piacerebbe anche a te…».
«Ah, perciò sbaglio io? Certo che sei forte. Non sai nemmeno dove mettere le mani e se non vengo è colpa mia?».
Rachele rimase interdetta qualche secondo «Ah…» fece poi, fingendo un sorriso «Siamo già arrivati ai colpi bassi, eh? Molto bene, allora».
Rebecca si massaggiò le tempie con le dita. Stava iniziando a venirle un forte mal di testa. «No, guarda, mi è scappato, non volevo dire…».
«Oh, sì, volevi eccome. E sai cosa ti dico io? Che se non venissi a letto con me solo nel giorno dell’immacolata concezione, forse riuscirei ad avere più esperienza a riguardo».
Rebecca scosse la testa «Oh, sì, mi stai facendo venire una gran voglia di fare sesso con te più spesso».
L’altra battè le mani, imitando un applauso «Complimenti! No, davvero, perché non butti un po’ di alcool sulle ferite? Ah, si…perché lo stai già facendo!».
«E che cosa vuoi che faccia, scusa? Ogni volta che stiamo insieme guarda come finisce!».
«Bhe, se invece di criticarmi mi dessi qualche indicazione in più, probabilmente non andrebbe così male».
«Indicazioni?» rise forzatamente Rebecca «Mi hai presa per un navigatore satellitare? Vuoi davvero che passi tutto il tempo a dirti: vai più a destra, no, anzi, più a sinistra…aspetta, no, lì non c’è nulla, vai più in alto?».
Rachele brontolò «Se questo ti facesse diventare meno stronza, sì!».
«Senti» Rebecca si alzò dal letto e non le importò di essere nuda dalla vita in su di fronte a lei «Mi sono stancata di tutte queste incessanti lamentele. Non voglio farti da navetta-scuola. Perché non vai a fare esperienza con qualcun’altra? Dico sul serio, vai!» le indicò l’uscita con la mano «Da Serena, o da un’altra tua amichetta, mi è indifferente, basta che vai! Sarebbe anche ora!».
«Che? Ma io non voglio Serena! Ah, ma se la metti su questo piano allora le cose cambiano, visto che non te ne frega niente che io voglia stare con te e non con qualcun altro».
«Vai ad imparare qualcosa da lei e se vuoi torna, o non tornare affatto, vedi tu. E’ impossibile litigare di continuo per cazzate simili, mi sembra di essere tornata con Riccardo».
«Con la differenza che io non ti tradisco» puntualizzò Rachele, risentita.
«Con la differenza che almeno con lui il sesso funzionava, mentre con te funzionano solo le litigate e nient’altro» borbottò, ma quando ebbe finito la frase si rese conto dell’effetto che potevano avere le sue parole.
Rachele le diede le spalle e si tirò su la zip del maglione «Già…meglio Riccardo» assentì con voce rotta.
«Sai che non è così».
«Ti sei superata questa volta. Non deve essere stata una cosa facile».
«Hai iniziato prima tu a giocare a chi le spara più grosse e sai che so essere cattiva se mi provochi».
«No» fece lei, prendendo la borsa «Io non ho mai giocato. Ma hai vinto e il tuo premio è che io adesso me ne vado. Magari vado da Serena, visto che me l’hai consigliato. Chissà, può essere che imparo davvero qualcosa…a starti lontana, ad esempio».  

 

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Capitolo 11
*** Gli scacchi sono la lotta contro l'errore. ***


Capitolo 11
 
Gli scacchi sono la lotta contro l'errore.
Zukertort
 


Suo padre le aveva sempre detto che la rabbia portava le persone a fare cose avventate. Rachele credeva invece che la rabbia le avrebbe permesso di mettere in atto tutto quello che altrimenti non avrebbe avuto il coraggio di fare. Ma, anche se a ventidue anni non poteva dire di aver imparato molto, qualcosa l’aveva capito e cioè che in entrambi i casi la collera offuscava qualsiasi capacità di giudizio e lei si era pentita tante di quelle volte che non voleva aggiungerne un’ennesima alla lista. Non andò da Serena, anche se aveva detto a Rebecca che l’avrebbe fatto e probabilmente, se lei si fosse fatta sentire per chiederglielo, avrebbe anche mentito dicendole che era andata a trovarla. Così, giusto per prendersi una soddisfazione. Non che non ci avesse pensato, in verità. Dopotutto non conosceva nessun altro con cui poter parlare di quella situazione, a parte Rebecca, e con tutti i suoi compagni di corso aveva stretto un’amicizia poco più che superficiale. Aveva sempre potuto contare su Rebecca per cercare una soluzione, ma ora che era proprio lei il problema avrebbe dovuto trovare una maniera per cavarsela da sola, per far uscire tutti quei pensieri torbidi che altrimenti sarebbero rimasti in fondo alla sua mente, a contaminarle l’anima, come i pacchi di immondizia a bordo strada.
Non andò da Serena fondamentalmente perché non si fidava. Non si fidava di sé stessa. Rebecca l’aveva masticata e poi l’aveva risputata come se fosse veleno e Rachele si conosceva troppo bene per non sapere cosa avrebbe fatto se Serena le avesse dato il via libera. Era stata rifiutata e la capacità di Rebecca di minarle l’orgoglio era ineguagliabile. Ma non sarebbe andata a cercare conforto nelle braccia della prima persona che le aveva sbattuto le ciglia qualche volta di troppo. Non voleva diventare quel tipo di persona e non voleva abituarsi a non sentire dolore facendone provare agli altri. I sentimenti non dovrebbero essere repressi, anestetizzati, anche se doveva ammettere che uscita da quella casa avrebbe dato qualsiasi cosa per non sentire più nulla. La cosa che però la faceva infuriare più di tutto era non essere stupita. L’essere arrivata al punto da aspettarsi qualsiasi cosa e farsela andare bene, in un modo o nell’altro. Dire sempre “Tanto lo sapevo già, che andava a finire così”. Un sacco di clichè e di storie già viste… forse era vero che non c’era nulla di nuovo sotto il sole.
Così come era arrivata, tornò a casa. Augurò anche a Rebecca di non riuscire a concentrarsi su nessun libro, di non aver voglia di farsi la doccia per paura di scoppiare a piangere sotto l’acqua calda e non riuscire più a fermarsi. La settimana successiva avrebbe avuto un incontro con l’assistente del suo relatore e, anche se non fosse riuscita a rivedere completamente la sua tesi, almeno avrebbe dovuto terminare la correzione che Serena aveva iniziato. Non fece pranzo perché il suo stomaco non avrebbe tenuto alcunché quel giorno, ma verso le due si alzò dal letto per andare a prendere un bicchiere d’acqua e fare una pausa. Una pausa che in realtà era cominciata nell’esatto momento in cui aveva aperto il dizionario di latino che si era fatta prestare, nemmeno a farlo di proposito, da Rebecca. Era lo stesso che aveva utilizzato al liceo e sulla prima pagina, in alto a destra, aveva scritto il proprio nome e la propria classe, 4° sez. A, e le prime tre cifre del suo vecchio numero di cellulare, seguite da una parentesi; dentro c’era scritto: “Se vuoi sapere il resto me lo vieni a chiedere”. Non che fosse servito a molto quell’avvertimento, visto che non è cosa comune perdere un dizionario di quelle dimensioni. Andò in cucina a piedi scalzi, come faceva sempre, e si sollevò in punta di piedi per prendere dallo scolapiatti il bicchiere e riempirlo. Sul bancone vicino al gas, di fianco a lei, insieme a qualche mazzo di chiavi di scorta, la pubblicità di buca e le bollette ancora da pagare, uno sfavillio dorato. Rachele si sporse e allungò la mano per prendere l’anello di matrimonio di suo padre, quello che non si era mai tolto, quello che gli ricordava sua moglie. Rachele se lo rigirò fra le dita e come intontita pensò che se lo fosse sfilato per lavare i piatti, o per andare a farlo lucidare. Magari non era nemmeno la sua fede, ma quella di sua madre, presa dal suo portagioie, in camera da letto, in un momento di nostalgia. All’inizio Tommaso passava ore a guardarla e per qualche anno le aveva addirittura portate tutte e due al dito, quindi non sarebbe stata una cosa così strana se l’avesse fatto anche quel giorno per poi lasciarla lì per sbaglio. Guardò l’incisione all’interno, perché sapeva che quella della fede di sua madre era differente. Era stata un’idea di Giulia far scolpire le due parti di un’unica frase: “Per sempre…” recitava l’anello di sua madre e quello di suo padre continuava “come l’olio sulla tela”. Quando Rachele lesse quel brandello di promessa, seppe con certezza che si trattava della fede di Tommaso. Camminò fino alla camera dei suoi genitori. Il lato sinistro della stanza, quello dove Giulia teneva le sue cose e la stessa sponda del letto dalla quale dormiva, erano rimaste esattamente come le aveva lasciate prima dell’incidente. Sul comodino c’era un piccolo scrigno di porcellana dove Giulia era stata solita posare gli orecchini e le collane che metteva con più frequenza. Quando era andata via, Rachele ci aveva aggiunto il suo anello ed era ancora lì, in mezzo a tutte quelle catenine d’oro e d’argento. Aprì il palmo della mano e vi posò sopra, vicini, i due anelli. Rimase qualche secondo a guardarli. Quello di sua madre si era scurito.
«Almeno voi…» sussurrò alla fine e l’unica lacrima della giornata le scese lungo la guancia e si perse fra le sue labbra «Almeno voi dovevate trovare una maniera per restare insieme».
Quando Tommaso tornò a casa, verso le sette di sera, portava con sé un sacchetto bianco con sopra dei caratteri cinesi. «Ho portato la cena!» disse entrando in cucina e trovando Rachele seduta al tavolo. «Non hai ancora apparecchiato?» le chiese posando il take-away sui fornelli.
«Non ho fame» gli rispose.
«Ho preso il vitello con le pannocchiette! Dai, è il tuo piatto preferito».
«Stasera non lo è» sospirò Rachele.
«Ok…» fece Tommaso titubante «La negatività che pervade questa stanza mi sta facendo morire il basilico. L’ho coltivato con tanto impegno».
«C’è chi ha il pollice verde e chi ha il pollice marcio».
Tommaso si tolse il cappello che aveva in testa e lo agganciò alla sedia «Quindi tu non vuoi nulla?».
«No».
«Ma almeno oggi hai pranzato?».
«No» ripetè.
«Ma non puoi non mangiare».
«Perché, è vietato dal deuteronomio?».
«Non lo so, sei tu che vai all’università, dimmelo te. Io ho fatto ragioneria» le diede le spalle e iniziò a tirare fuori dal sacchetto le scatoline di plastica e le bacchette che gli avevano dato al ristorante.
Rachele tirò un profondo respiro prima di fargli la domanda a bruciapelo «Dov’è la tua fede, papà?».
Tommaso si irrigidì ed istintivamente si portò la mano all’anulare sinistro, dove era rimasto il segno più chiaro. Quando si sfiorò il dito e lo sentì vuoto gli passò negli occhi un’ombra di malinconia, poi si ricordò che lo aveva posato lì da qualche parte e iniziò a girare lo sguardo a destra e a sinistra.
Rachele si alzò in piedi e le gambe della sedia stridettero sulle piastrelle. «E’ qua» disse posando il gioiello sul tavolo «E c’è anche quella di mamma».
Tommaso si voltò a guardare la sua fede posta in mezzo al tavolo sgombro e quasi si sentì in colpa.
«Perché l’hai tolta?» continuò a chiedere Rachele. Voleva credere disperatamente che fosse stata colpa solo della sbadataggine. «Non la togli mai, nemmeno quando azioni le macchine a lavoro…Guardala, è tutta scheggiata».
«Ho dovuto farlo» disse laconico.
«Perché?» insistette lei, appoggiando i palmi sul tavolo e scaricando il peso che sentiva alle ginocchia.
Tommaso si passò stancamente una mano sulla faccia, poi spostò una sedia e si sedette davanti a lei. Giunse le mani e tirò su col naso, poi le disse, senza guardarla «Pensavo di chiedere a Laura di sposarmi. E non lo potevo fare con l’anello di tua madre, non sarebbe stato corretto. Claudia ci sarebbe rimasta molto male…».
Fu come se all’improvviso le avessero tolto l’ossigeno dai polmoni per lasciarla in apnea. Il respiro le si fermò per un attimo di troppo e poi, quando il suo corpo si fu ricordato come respirare, buttò fuori tutta l’aria che aveva nel petto, fino a diventare un palloncino sgonfio.
«Laura…» iniziò con la voce che le tremava «Laura ci sarebbe rimasta male?» stese le labbra in un ghigno e scoppiò in una risata isterica. Si portò la mano alla bocca e continuò a ridere, anche se non capiva proprio cosa ci fosse di così divertente.
«Lele…» scosse la testa suo padre «Te l’avrei detto. Aspettavo solo il momento giusto». Ma lei non era in condizioni di poterlo ascoltare. Le ginocchia le tremarono e dovette tornare a sedersi.
«Rachele, smettila» le intimò Tommaso, ma lei continuò a ridere fino a quando anche ridere non le fece male. Allora iniziò a piangere, ma un pianto senza lacrime, e nemmeno lì sarebbe stata in grado di dire se piangeva per il troppo ridere o per il troppo soffrire.
Suo padre si alzò di scatto «Ora basta». Aprì un cassetto nella mensola e dopo aver spostato qualche scatola di medicinali tirò fuori un barattolino verde e glielo fece rotolare davanti. Rachele alzò appena gli occhi ma non ci fu nemmeno bisogno di leggere l’etichetta perché aveva un aspetto decisamente troppo familiare.
«Oh, andiamo, papà!» disse lei «Il prozac, addirittura?».
«Non avresti mai dovuto smetterlo».
Rachele allungò una mano e con dita tremanti svitò il tappo bianco e lo lasciò cadere a terra. Poi capovolse il barattolo e le pastiglie che conteneva sul tavolo e quando le vide tutte lì, sparpagliate, ne gioì. «Ero guarita» sussurrò, più a sé stessa che a lui.
«No, invece, e me ne stai dando una dimostrazione in quest’ultimo periodo» si sporse sul tavolo per rimettere i farmaci nel loro contenitore, ma la figlia lo precedette e con un gesto della mano fece cadere a terra le pasticche.
«Rachele!».
«Io non ci ricasco in ‘sta roba» proruppe lei «Hai tenuto il barattolo per sicurezza? Cos’è, non ti fidavi di me?».
«Non potevo fidarmi di te in quelle condizioni!».
«E’ da un anno che ho smesso di imbottirmi di antidepressivi!».
«E non dovevi!” ribattè Tommaso “Avresti dovuto continuare per almeno un altro anno e diminuirne la dose, questi farmaci danno assuefazione, hai avuto i sintomi dell’astinenza per mesi! Te le sei già dimenticata le notti passate in ospedale? E gli attacchi di panico? Io no!».
«Ero guarita!» ripetè.
«Perché?! Perché era tornata Rebecca? Ma per favore Rachele, ti sembra una ragione sufficiente?».
«A te sembra essere sufficiente ricominciare il prozac solo perché non voglio che tu faccia la cazzata più grande della tua vita?».
«Sì, se dai di matto!».
«Hai buttato in un angolo la fede di mamma come se fosse uno zircone, solo per chiedere ad un’ignorante che conosci appena di sposarti! Sei tu il pazzo, non io!».
«Tua madre è morta, Rachele! Sono passati dieci anni, devi andare avanti e lo devo fare anche io».
«Ti sto solo dicendo che Laura non è quella giusta! Questo per lei è…cosa? Il quarto matrimonio?».
«Non devo chiederti il permesso per rifarmi una vita».
«Sono tua figlia!».
«E lo sei stata per ventitre anni! Non voglio scegliere fra Laura e te».
«No, infatti. Lo hai già fatto» prese con sé la fede di sua madre e si chiuse in camera.
 
Rachele si aggiustò come meglio poteva la fasciatura alla mano destra, cercando di allungare le bende per coprire anche le nocche. Quella volta non sarebbe guarita in fretta e forse andava anche meglio così. Allentò il nodo che aveva fatto e che ora stringeva un po’ troppo, poi aprì la porta del locale. Si scostò per far passare due studenti che stavano uscendo e si avvicinò al bancone dove un ragazzo stava sciacquando i piattini per metterli in lavastoviglie. Lei si guardò intorno, ma quando non la vide gli chiese sommessamente: «Scusa, dov’è Serena?». Lui la guardò sorridendo e le rispose che era andata in magazzino a prendere delle cose, ma che se voleva sedersi ad un tavolino, appena l’avrebbe vista, le avrebbe riferito che la stava cercando. Rachele annuì «Va bene, grazie. Però preferisco rimanere in piedi».
«Certo, come vuoi» si girò verso un’altra ragazza che gli aveva chiesto un caffè.
Serena uscì da una porta su cui avevano affisso un divieto di accesso dopo qualche minuto. Si pulì le mani sul grembiule rosso e salì lo scalino dietro al bancone per raggiungere il collega. Rachele ritirò spontaneamente le mani e le nascose dietro la schiena. Quando si accorse di lei, Serena sorrise e ascoltò il ragazzo che, con un cenno del capo, la informò che aveva chiesto di lei. Lo superò stringendosi la coda di cavallo e incrociò le mani sul banco, sporgendosi verso Rachele. «Ciao, bambina» la salutò «Non sei venuta ieri a lezione, non ti ho vista».
L’altra scosse la testa «No. Nemmeno oggi. Sono venuta qui perché devo…» abbassò la voce «dirti una cosa. A che ora stacchi?».
Serena si voltò per guardare l’orologio che avevano appeso al muro alle sue spalle. Segnava le diciotto. «Oggi non chiudo io. Fra una mezz’ora, se non c’è tanta gente, stacco. Vuoi che mi prenda cinque minuti adesso?».
«No, no» fece Rachele «Ti aspetto. Mi vado a sedere laggiù» indicò con la mano sinistra un tavolino libero in fondo al bar.
«Ok, va bene, quando ho finito ti raggiungo. Hey» la fermò «Vuoi che ti porti qualcosa?».
«No, grazie».
«Va tutto bene?» chiese poi dubbiosa.
Rachele piegò la bocca in un sorriso «Splendidamente».
Si sedette dove le aveva detto e tirò fuori il cellulare, aspettando che passasse il tempo. Nessun messaggio ricevuto, nessun messaggio inviato, ma Rebecca era ancora online. Anche la casella di posta elettronica era vuota, ma riguardò l’ultima e-mail del professore per ricordarsi il giorno e l’ora dell’incontro.
Alle diciotto e trentasette Serena sciolse il nodo del grembiule e se lo tolse, facendolo passare sopra la testa. Lo piegò accuratamente e sparì in magazzino per posarlo, insieme agli altri.
«Andiamo?» chiese a Rachele quando l’ebbe raggiunta. Si posizionò la tracolla sul fianco e si appoggiò al braccio il giubbotto di jeans. «Che cosa hai fatto alla mano?» le chiese quando la vide alzarsi e prendere la borsa che aveva appoggiato a terra.
Rachele fece spallucce «Incidente» mentì e quando vide che Serena non sembrava essere soddisfatta della risposta continuò «Ho sbattuto contro l’armadio. Non stavo attenta».
«Direi che ha vinto l’armadio» fece per prenderle il polso per guardare più da vicino, ma Rachele allontanò il braccio e la sorpassò.
«Che cosa mi dovevi dire?» chiese quando furono uscite.
«Possiamo…» cominciò l’altra, indicando davanti a sé.
«Fare una passeggiata?» provò ad indovinare la bionda.
«Andare a casa tua. Se non disturbo, ovviamente. Faccio in fretta».
Serena rimase in silenzio a guardarla e quando vide che Rachele aveva abbassato lo sguardo, rispose «Certo. Per una volta che ti offri di tua spontanea volontà…» indicò un punto dietro di sé col pollice «Ma casa mia è di là».
Quando girò la chiave nella toppa e aprì la porta, una nuvola di pelo bianco andò loro incontro. «Aria! Ciao bella! Sì, ok, aspetta, fammi almeno entrare!» la accarezzò Serena e il cane abbaiò. Quando la padrona le fece segno di rimanere in silenzio, mugolò. «Fai piano con Rachele, ok? Si è fatta male» disse come se potesse capirla, poi si girò verso la sua ospite «Vai pure a sederti. Ti porto qualcosa?».
«Solo un bicchiere d’acqua, per favore. Ciao, cucciolina» si rivolse ad Aria, che aveva iniziato a girarle intorno e a chiamarla con la zampa. Allungò la mano per farle delle carezze sul muso e lei ricambiò leccandole le dita «Bavosa!» la prese in giro, continuando a coccolarla.
Dalla cucina Serena le disse «Se vuoi andare a lavarti le mani, il bagno è dietro la porta davanti a te. Ci sono degli asciugamani puliti sulla lavatrice». Aria la raggiunse quando sentì la sua voce, come se la stesse chiamando e Rachele potè andare a sciacquarsi. Fece correre l’acqua e mise la mano destra sotto il getto gelido. Quando Serena le portò il bicchiere d’acqua, lei si era già seduta sul divano, con Aria sdraiata ai suoi piedi.
Le si sedette di fianco, sfiorandole la gamba con la sua. Sorrise «Dimmi, cosa c’è?».
«Avevo un favore da chiederti» disse, piegandosi per prendere la tesi nella borsa e faticando a tirarla fuori, visto che non riusciva a piegare le dita per il gonfiore «Lo so che me ne sto approfittando e mi dispiace, ma non saprei a chi altro chiedere. Lunedì devo riuscire a consegnare almeno la nuova traduzione del testo. Ieri sono andata avanti di qualche paragrafo…ma non capisco se lo sto facendo come vuole lui, oppure se sto solo perdendo tempo. Potresti…?».
Serena prese il fascicolo e annuì «Ma certo».
«Ho delle difficoltà a scrivere in questo momento» disse a mo’ di scusa Rachele, tirando ancora un po’ le bende bagnate.
«Si» la guardò di sottecchi «Lo vedo». Prese il cellulare e lo tenne aperto sul dizionario di latino che aveva scaricato come applicazione quando aveva iniziato a dare ripetizioni.
«La devi riscrivere al computer per lunedì?» chiese, scorrendo le frasi.
«Si…ma prima volevo sapere se era corretta. Per non stampare altre pagine a vuoto». Aria appoggiò la testa sui suoi piedi e Rachele si abbassò per farle altre carezze sulla testa.
Dopo qualche minuto di silenzio, Serena appoggiò il testo sul tavolino «Quando hai fatto la traduzione?».
«Ieri pomeriggio. E un po’ stamattina, ma non molto».
«Mhmh» Serena si grattò la fronte «E’ tutta sbagliata. Non l’ho corretta per intero eh, ma hai completamente frainteso il senso di questo paragrafo» glielo indicò col dito «Al di là dei tempi verbali, questa non è una negazione. L’autore sta ipotizzando un mondo alla rovescia dove non è il cacciatore a catturare la lepre, ma la lepre a cacciare l’uomo. E il cacciatore non è Alessandro Magno, qui ha iniziato a parlare di un’altra cosa, non c’è continuità con la frase precedente».
Rachele si lasciò sprofondare tra i cuscini e sbuffò «La devo rifare? Bene, non vedevo l’ora».
Serena arricciò le labbra «Se pensi che non sia una cosa che ti chiederanno quando andrai a discuterla, posso farla io la traduzione. Mi dai un paio di giorni e la finisco. Magari inserisco qualche errore qua e là…». Si sporse sul tavolino per sfogliare le pagine «Così non se ne accorgono» si prese il mento fra le dita con fare pensoso «Sì, tanto non è lunghissima, così potresti concentrarti su…».
Rachele la interruppe posando la mano sul foglio per impedirle la lettura, poi, aiutandosi anche con l’altra mano, chiuse la tesi e la fece scivolare più lontano da loro. Tirò un lungo sospiro «Non ero venuta qui per questo, in verità» sussurrò poi, senza avere il coraggio di guardarla «Ma non sapevo come iniziare».
Serena si limitò ad incrociare le braccia sul petto, aspettando che Rachele continuasse. Vedendo però che rimaneva chiusa nel suo silenzio, le posò una mano sul ginocchio «Lo sai che ti ascolto».
«Eri seria» le chiese infine «Quando dicevi che fra me e Rebecca non sarebbe andata a finire bene? Che non c’è possibilità che vada diversamente da come sta andando?».
L’altra si strinse nelle spalle prima di dare la sua risposta «Non volevo farti venire dei dubbi. Ma il fatto che tu te lo stia chiedendo dovrebbe già essere una risposta alla tua domanda».
«Ogni volta che penso che le cose si stiano mettendo al posto giusto, succede sempre qualcosa che…» la voce le morì in gola e non riuscì a finire la frase.
Serena le prese delicatamente la mano e se la mise in grembo «Non è stato un incidente, vero?» la interrogò, seguendo con l’indice la linea delle bende.
Rachele scosse la testa e cercò le parole «E’ stata una giornata difficile» disse in un soffio.
«Già. Lo capisco quando menti, bimba» le girò il polso e armeggiò con le dita per disfare il nodo, ma lei ritrasse la mano e se la strinse al petto, nascondendola.
«Non ti faccio male» le assicurò Serena corrugando la fronte.
«Non è per quello. Me ne vergogno così tanto…».
Le posò una mano sulla spalla «Non devi».
«Sono sempre così arrabbiata» confessò «Come fanno le persone quando si arrabbiano a non impazzire?».
«Il più delle volte non ci riescono».
Rachele tirò la catenella che aveva messo al collo e fece uscire dalla maglia un piccolo anello dorato. «Mia madre è morta quando andavo alle medie. E credo che anni del passato di mio padre e anni del suo futuro siano morti con lei. Si amavano moltissimo e lui la ama ancora e non riesce a trovare altra via d’uscita che scappare da tutto quello che gliela ricorda. Erano perfetti. E dopo dieci anni di matrimonio si consideravano ancora perfetti l’uno per l’altra. Loro non hanno più la possibilità di stare insieme, mentre io e Rebecca potremmo provarci e invece stiamo mandando tutto a puttane. E’ uno spreco senza senso».
«Non avevate fatto pace?» domandò la più grande.
«Non riusciamo nemmeno a fare quello. Mi sembra di stare imbarcando più acqua di quanta ne riesca a buttare fuori».
Serena si decise a riprenderle la mano e Rachele lasciò che la stringesse fra le sue, anche se le faceva male.
«Che cosa è successo?» le chiese dolcemente.
Le labbra di Rachele tremarono «Fare l’amore con una persona dovrebbe essere una cosa bella, vero?» la guardò e l’altra annuì mentre le toglieva la fasciatura.
Rachele le fermò il polso con la mano libera e Serena, pensando di essere stata maldestra, si scusò. Invece lei continuò «E allora perché con me è sempre così brutto?».
Serena alzò gli occhi ed incrociando i suoi li vide spenti e atterriti. «Sono sicura che non è come dici tu».
«Per Rebecca lo è».
Serena appoggiò le bende sul bracciolo del divano e vide che la sua mano era tutta gonfia e aveva le nocche tagliate e livide «E’ per questo che ti sei fatta male?» chiese, ma per una volta si era sbagliata.
Rachele infatti fece segno di no con la testa «Non solo per quello, almeno. Ho avuto una discussione con mio padre, ieri sera. Lui si vorrebbe risposare...e io avrei preferito saperlo in un altro modo. O non saperlo affatto. Crede che dovrei ricominciare a prendere le medicine che mi avevano prescritto quando ero più piccola, perché pensa non sia emotivamente stabile. Inizio a pensare che abbia ragione».
«Quali medicine?».
«Antidepressivi» rispose impassibile «Quando Rebecca si era trasferita all’estero per un anno, io non l’avevo presa bene. E’ stato difficile riprendermi, mi sono serviti…degli aiuti, diciamo. E mio padre ha tenuto i medicinali in casa senza dirmelo, per essere pronto nel caso in cui ci fosse stata una ricaduta. E me la sono presa, perché evidentemente non si fida abbastanza da credere che io ce la possa fare anche da sola. Ma la verità è che sono la prima a non uscire di casa senza avere delle pillole di riserva. Quando Rebecca è tornata, sarei dovuta guarire…invece faccio ancora fatica a trattenermi dal prendere questi farmaci, ho sempre la tentazione di aprire la scatola e lasciarmi andare. E se con Rebecca dovesse continuare così, ho paura che ci cascherò ancora e non voglio che succeda. Ero sempre stanca e confusa, appena provavo a smettere la terapia iniziavano a venirmi i sudori freddi ed era come se impazzissi. Ci metti più tempo ad uscirne che ad entrarne. Ti curano da una parte e ti provocano astinenza dall’altra».
«Lei lo sa?».
«No, non ho voluto dirglielo».
«Perché?».
«Perché mi avrebbe guardata come stai facendo tu adesso».
Serena distolse lo sguardo «Scusami, non lo faccio di proposito».
«Sì, tranquilla, lo so. Ma ora non trattarmi in modo diverso, sono sempre io».
«Ok, va bene. Allora vieni con me» si alzò in piedi e Rachele fece lo stesso mentre Aria rimaneva sdraiata sul pavimento a seguirle con gli occhi.
Serena aprì un mobiletto del bagno e la invitò a sedersi sul bordo della vasca. Poggiò sul lavandino un tubetto di crema e una spugnetta bianca, poi fece correre l’acqua dal rubinetto della vasca. «Posso?» le chiese, inginocchiandosi davanti a lei e chiedendole la mano. Le passò la spugnetta sulle nocche e quando Rachele trasalì chiese «Sei sicura che non sia rotta?».
«Si. La sento la differenza quando me la rompo».
Serena sollevò il viso per guardarla negli occhi, ma Rachele li teneva bassi. «Ti è già successo? Di rompertela, intendo».
«Un paio di volte. Ma una è stata davvero un incidente».
«Mhm. Te la sei disinfettata, prima di venire qua?».
Lei negò «Non lo faccio mai».
«Bhe» Serena chiuse il rubinetto e fece per svitare il tubicino di alluminio «Questa volta l’armadio l’hai preso bene. Fra qualche giorno avrai dei bei lividi da poter mostrare».
«Non me lo chiedi?» domandò poi Rachele in maniera diretta, ma Serena non capì.
«Che cosa?».
«Quante volte lo faccio».
«Di prendere a pugni quel che ti capita a tiro? Se avessi voluto dirmelo l’avresti già fatto» le mise sulla mano un po’ di gel e iniziò a massaggiare per farlo assorbire.
«Quindi…nessuna predica? Tipo “Non si risolvono così le cose” o “Non ti devi comportare come un maschiaccio?”».
Serena fece spallucce «Io gioco a calcio, quindi non credo di essere la persona più adatta per dirti cosa dovrebbero fare le signorine perbene. E poi credo te l’abbiano già detto di non farlo e non mi pare sia servito a molto. A me importa solo che tu non ti faccia troppo male». Prese un rotolo di garza e glielo avvolse intorno alla mano. «In accademia i cadetti si picchiavano sempre e qualche volta anche io assestavo dei bei cazzotti. Vedi di non muoverla troppo per qualche giorno; ormai il ghiaccio non serve a nulla, si è già gonfiata. Devi solo aspettare». Si tirò su e iniziò a riporre la roba al suo posto.
«Ieri ho pensato di venire qui» disse a bassa voce Rachele, dopo un lungo silenzio.
Serena alzò un sopracciglio «Per cosa?».
«Me l’aveva detto Rebecca» ammise «di andare a fare esperienza con qualcun’altra».
«Non penso intendesse sul serio».
«Forse no. Ma io ci ho pensato ugualmente».
Serena si limitò a fissarla con i suoi grandi occhi nocciola e lei arrossì.
«Ho immaginato» continuò «Di entrare qui dentro e baciarti. Contro quella parete» indicò un punto in salotto e Serena si girò per seguirne la traiettoria «Però non mi ricordavo ci fosse quel quadro, quindi probabilmente avrei cambiato piano all’ultimo momento. Poi ci saremmo spogliate e…» balbettò «…e tutto il resto».
Serena sorrise maliziosa «Tutto il resto?» ripetè.
«Si…tutto il resto».
«Non avrei mai detto fossi una persona passionale, ad essere sincera».
L’altra fece spallucce «Non è la prima volta che me lo sento dire».
«Pensi te l’avrei lasciato fare?».
Rachele ci pensò su. «Io ti piaccio» spiegò solo.
«Non è una domanda».
«No, infatti, non lo è. Per questo credo che non ti saresti tirata indietro».
Serena mosse qualche passo verso di lei e Rachele si alzò. «E’ vero, mi piaci. Non avrebbe senso negarlo e io non ho fatto nulla per tenerlo nascosto. Non sono il tipo. Trovo che tu sia molto bella. A volte mi ricordi Ramona. Mi piacciono le tue dita perché sono piccole e sempre fredde e hai uno strano modo di incrociarle quando sei agitata. E…» le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Mi piacciono i tre nei che hai sotto l’occhio sinistro, perché sembrano disegnati con la matita. Mi piace anche il modo in cui arrossisci e come abbassi lo sguardo quando te lo dico. Ecco, appunto» sorrise, alzandole il mento con due dita e costringendola a guardarla. Ma subito tornò seria «Però ti sbagli. Non ti avrei baciata. E non sarei venuta a letto con te».
«Perché no?».
«Per lo stesso motivo che ti ha spinta a non venire da me ieri: perché non sarebbe stata la cosa giusta da fare e se io ti avessi assecondata, dopo te ne saresti pentita. Te l’ho già detto, non mi importa essere la seconda o la terza scelta, purchè non sia una cosa fatta per ripicca. Non puoi fare l’amore con una persona quando sei arrabbiata, l’hai detto anche tu che dovrebbe essere una cosa bella. E ieri non sarebbe stato bello. Sarebbe stato poco più che un diversivo, in verità. Quindi no, non te l’avrei lasciato fare. Il che non significa che io non ci abbia pensato o che non ci si possa provare» le sfiorò giocosamente la punta del naso con l’indice «Se vorrai».
«Mi stai chiedendo di provare a saltare il burrone?».
«No. Ti sto dicendo che posso essere il tuo ponte per superarlo». 

 

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Capitolo 12
*** Un giocatore di scacchi preferisce lasciare la sua testa fra le fauci di un leone piuttosto che lasciare in presa una Donna. ***


Capitolo 12
 
Un giocatore di scacchi preferisce lasciare la sua testa fra le fauci di un leone
piuttosto che lasciare in presa una Donna.
Nimzovich


Rebecca si svegliò nel cuore della notte e il suo sogno rimase così, tranciato a metà, nella sua mente. Fuori era buio e gli unici suoni che si potevano sentire erano i versi dei gufi e il vento che soffiava fra le fronde degli alberi in giardino.
Perché, pensò Rebecca passandosi una mano sulla fronte sudata, perché sempre sul più bello?
Se chiudeva gli occhi riusciva a vederla ancora davanti a sé, con quella sua bocca piccola, il seno morbido e i fianchi larghi, che lei trovava così sensuali e comodi quando doveva prenderla e che sembravano essere fatti apposta per le sue mani. Sembrava sempre tutto talmente reale, nei suoi sogni, sempre come avrebbe dovuto essere: facile, istintivo, senza pretese. E lei le sorrideva e Rebecca se ne stupiva, perché non ricordava più l’ultima volta in cui l’aveva vista così spensierata. Poi la baciava, con un’intensità che non aveva mai avuto, e qualsiasi dubbio moriva sulla sua lingua e sul suo corpo. Le graffiava la schiena, le stringeva la carne, ansimava contro la sua pelle e la sua pelle aveva un sapore così buono…ma prima che potesse averla si svegliava. Però quanta frustrazione.
Rebecca tirò un lungo sospiro e quando tornò a riempirsi i polmoni si girò prima su un fianco, poi a pancia in giù, affondando la faccia nel cuscino. «Esci dalla mia testa…» bisbigliò, ma non aspettava altro che riaddormentarsi e continuare a vederla. Si passò una mano nel solco fra i seni e mosse le dita lungo il torace, fino all’ombelico e dentro i pantaloni. Istintivamente dischiuse le gambe ed inarcò la schiena, strusciando il bacino per cercare piacere. Chiuse gli occhi e si morse le labbra mentre la sua mente ricordava le immagini del suo sogno e le orecchie si riempivano della voce di lei. La appagava ascoltarla quando pronunciava il suo nome e la eccitava ancora di più sapere che lo faceva solo con lei.
Rebecca si portò fino al limite e, quando sentì di non poter resistere oltre, si lasciò andare e il suo corpo venne scosso da incessanti fremiti e l’unica cosa che riuscì a fare fu ripetere il suo nome e trovarlo così perfetto e dolce in quel momento che nessun’altra cosa sarebbe stata più appropriata sulle sue labbra.
«Oh, Rachele, sì…» gemette ancora una volta e quando anche l’ultimo brivido ebbe lasciato il suo corpo, si trovò nuovamente a sperare che la sua mancanza tornasse ad essere il più silenziosa e accettabile possibile.
 
Non sentiva Rachele da una settimana. E una settimana conteneva quell’esatto numero di giorni, né troppi, né troppo pochi, che le impedivano sistematicamente di scegliere se fare la prima mossa o aspettare ancora. Era un periodo di transizione molto strano: sette giorni, centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti e seicentoquattromila e ottocento secondi. Era quell’intervallo di tempo che poteva concludersi con una riappacificazione, oppure segnare un logorante allontanamento. Con Riccardo l’aveva chiamata “la terra di nessuno”. E con Rachele ne aveva visitate parecchie di terre di nessuno. Erano riuscite a non parlarsi per settimane, una volta anche per un mese, quindi a Rebecca non erano di per sé quei sette giorni a spaventare, ma quello che rappresentavano: il segno inequivocabile che qualcosa, di nuovo, non stava funzionando.
Era come smettere di fumare: i primi giorni erano quelli più difficili, quelli in cui l’astinenza ti corrodeva le viscere; poi, pian piano, il bisogno scemava e diventava più semplice, sempre più semplice. Rachele era il suo pacchetto di sigarette e Rebecca aveva appena smesso di fumare. Non solo non la sentiva, ma nemmeno la vedeva. Per quanto andasse spesso in università, non l’aveva più incrociata fuori dai corridoi o alla fermata del pullman e, tempo ancora qualche settimana, i corsi si sarebbero conclusi in coincidenza dell’inizio della sessione e a quel punto sarebbe diventato davvero difficile incontrarsi. Forse sarebbe stata obbligata a parlarle e a chiarirsi, se l’avesse almeno vista, ma così, con quel silenzio di stampa che somigliava di più ad un blackout, diventata una cosa paradossale.
Si trascinò fuori dal letto controvoglia, incapace di riaddormentarsi ma ancora distrutta. Si infilò in doccia e vi rimase fino a quando il bagno non si fu riempito tutto di vapore e gli specchi non si furono appannati. Si legò i capelli per non doverli asciugare col phon e, quando si infilò la camicetta pulita, le gocce che scendevano dalle punte le bagnarono la schiena. Scese al piano di sotto e trovò sua madre e sua sorella già sedute al tavolo. Fece per aprire la bocca e augurare il buongiorno, ma sua madre appena la vide la zittì, portandosi un dito alla bocca e facendole segno che era al telefono. Rebecca alzò gli occhi al cielo e Betta fece un ghigno dietro la sua tazza. La più grande la sorpassò per accendere la macchinetta del caffè e, approfittando della vicinanza, le tirò uno scappellotto.
«Sì» disse sua madre al cellulare, facendosi passare la penna tra le dita «Certo. La settimana prossima. Solo un’informazione, dato che sul sito non è esplicitato: fate anche consegne a domicilio o è necessario venire a ritirare la roba prima?» fece una pausa per ascoltare la risposta, ma dalla sua espressione non sembrava essere soddisfatta «Si. Quattro ore prima? Quindi sarebbe possibile passare alle diciassette? Si, si, settimana prossima. No, nessun acconto, saldo in anticipo. Vi posso mandare la lista al fax che mi avete fornito? Perfetto, la ringrazio molto. Assolutamente. Buona giornata» riattaccò e lasciò cadere il telefonino sul tavolo, sopra la sua pila di fogli «Buona giornata un cazzo, quante volte glielo devo dire che mi serve per la settimana prossima? Neanche parlassi paleoslavo» sbottò.
«Ora posso?» chiese Rebecca.
«Puoi che cosa?» Carla scrisse sul margine del foglio le indicazioni che le avevano lasciato.
«Dire buongiorno».
«Certo che puoi. Anzi, devi, è buona educazione».
«Avrei preferito essere educata due minuti fa».
«Eh, vabbè, farai l’educata in ritardo, tanto non ti trovi a tuo agio a fare le cose in anticipo».
Rebecca si riempì la tazzina di caffè e le si avvicinò per sbirciare le sue carte, ma Carla la allontanò «Becca, non mi toccare nulla eh, che quando passi tu non si trova più niente. Oh, fai attenzione con quel caffè, che se ti cade una goccia qua sopra ti ripudio!».
«Tipo così?» domandò l’altra, facendo finta di farsi scivolare la tazzina dalle mani.
«Rebecca!».
«Hai presente la pubblicità della Mulino Bianco, quella dove la madre è sempre gentile, sorridente e affabile?».
«Si» ribattè Carla «Quella dove nessuno deve preparare la festa di tua sorella, intendi?».
Rebecca spostò la sedia e si sedette di fianco ad Elisabetta «Vedi che è sempre colpa tua, alla fine?».
«E io cosa c’entro adesso? Non ho fatto niente!».
«Tu fai sempre qualcosa» bevve un sorso «E poi sei petulante».
«Non l’ho mica deciso di nascere a giugno, sono uscita e basta».
«Hai ragione» la assecondò Rebecca «Carla, mi spieghi perché non l’abbiamo adottata a dicembre? Così le facevamo un regalo unico per compleanno e natale».
La madre scosse la testa.
«Non è vero, non sono stata adottata!».
«E’ da sedici anni che te lo dice, perché le dai ancora retta?» le chiese spazientita Carla.
Rebecca fece spallucce «Perché dopo sedici anni le è ancora rimasto il dubbio, evidentemente. Dai, basta guardarla, non vedi com’è diversa? E’ pure bionda!».
«Non sono bionda, sono solo più chiara!».
«Nonna ‘Tilde era bionda» precisò sua madre.
«Ecco, hai visto?» le fece la linguaccia.
«Qualcuno qui deve ripassarsi le leggi di Mendel: il biondo è un carattere recessivo».
«Tu recessi! Di testa però».
«E fu così che Elisabetta si trovò il debito di italiano…» sospirò Carla.
«Per tua informazione» continuò Rebecca «I nostri sono caratteri dominanti. Non so se hai capito bene: dominanti!».
«L’unica cosa che domini è l’esercito di Risiko» la spintonò sua sorella «Se continui così non ti invito alla festa!».
«E’ anche casa mia! E metti a posto ‘ste mani» le diede un pizzicotto e Betta cacciò un urlo.
Carla appoggiò la fronte sul tavolo «Io l’avevo detto a vostro padre che volevo un maschio…».
«Dai» continuò Elisabetta «Con lei c’eri quasi riuscita. Poi si vede che ti sei distratta all’ultimo».
«Eh, avrà fatto sicuramente un grande affare con te, invece, che fino all’anno scorso dicevi di voler andare a fare la velina».
Carla si aggiustò il trucco sotto gli occhi con un tovagliolo di carta “A volta mi fate passare la voglia di essere vostra madre…Betta» iniziò poi Carla, rivolgendosi a sua figlia «Sabato io e Paolo andiamo a prendere la roba dal catering e la portiamo qui. Domani voglio la lista delle cose che vuoi che ti preparino. Vedi tu» le sporse un fascicolo di quattro o cinque fogli pieni di elenchi.
«Fammi capire» disse con una smorfia Rebecca «La pizzeria sotto casa non ti piaceva?».
Sua madre sbuffò.
«Io volevo andare al cinema…» mise le mani avanti sua sorella.
«Come siamo passati da pizza e cinema a gran galà per la festa della Repubblica?».
«Così come siamo passati da quattro invitati a trenta» rispose esasperata Carla e Betta fece per nascondere il viso alzando la tazza e bevendo il suo latte.
«Trenta? Neanche se fai un collage delle tue vite passate arrivi a trenta amici» la prese in giro Rebecca.
«Vedi? Lo dice pure tua sorella. Ah» si ricordò poi «Dillo anche a Rachele, ovviamente».
Per una frazione di secondo nella testa di Rebecca ci fu il vuoto, poi si riscosse e disse freddamente: «Lei non viene».
«Come sarebbe a dire che non viene? Perché?» chiese Elisabetta corrugando la fronte.
«Per gli esami» tagliò corto l’altra.
Carla estrasse un foglio da una cartellina trasparente «Ma io l’avevo già segnata».
«Bene. Allora toglila. Guarda, si fa così» le prese la penna dalle mani, ma sua sorella la fermò.
«No, aspetta! Non gliel’hai nemmeno chiesto!».
«Ma che differenza vuoi che faccia?».
«E’ sempre venuta!».
«Non questa volta».
«Rebecca» si intromise Carla «Lascia stare, lo sai che stravede per Rachele».
Revy lasciò la presa e si alzò dal tavolo «Si, perché così ha un regalo in più».
«No, è perché quando c’è lei tu non mi tratti male!» spiegò.
Carla prese il cellulare in mano e compose un numero «Se è per quello» disse poi «E’ più gentile con tutti quando c’è Rachele».
«Non è vero!» cercò di smentire Rebecca, posando la sua tazzina nel lavandino e facendo scorrere l’acqua.
«Oh, sì che è vero» insistette Betta.
«Bhe, allora se ci tieni tanto invitala te! Ce l’hai il suo numero, te l’ho dato».
«E’ la tua di amica».
«Sei te che la vuoi alla festa».
«Perché, tu no?”.
«No!» proruppe, poi si corresse «Cioè sì! Oh, senti, guarda, fai te. Tanto mi è indifferente» mentì e se ne tornò in camera sua, sbattendo la porta.
Betta mise il broncio «In questi giorni è intrattabile».
Carla incrociò le braccia al petto «Sì, perché di solito è uno zuccherino. Dai, sentila tu Rachele, così se viene la posso confermare» scrisse tra parentesi un punto interrogativo accanto al suo nome e mise via i fogli.
 
«Dio, che giornata di merda…» mugugnò salendo in macchina, i nervi a fior di pelle. Mai avrebbe pensato di dover fare i conti con una cosa così e ancora meno avrebbe pensato di sentirsi in agitazione per una semplice festa. Da una parte avrebbe preferito non vedere Rachele in quelle circostanze, in mezzo ad una moltitudine di gente che nemmeno conosceva, dall’altra iniziava a temere che non ci sarebbero state presto molte altre occasioni per farlo. Prima di mettere in moto estrasse il cellulare dalla borsa e aprì la casella dei messaggi: se Rachele doveva essere informata del compleanno, tanto valeva che lo sapesse da lei. Iniziò a digitare: Ciao, Rachele…. Poi si fermò e cancellò quello che aveva scritto. Buongiorno, Rachele, riprovò, ma nemmeno in quella forma le andava bene. Ciao. Sì, ecco, semplice e pulito, pensò, ma non sapeva come continuare.
Ciao. Elisabetta vorrebbe invitarti alla sua festa, sabato prossimo. No, troppo stringato.
Ciao. Vuoi venire alla festa di Betta, sabato prossimo, da noi, alle venti, per cena? No, troppo telegramma.
Ciao, piccola bulla…A Betta piacerebbe invitarti alla sua festa di compleanno sabato prossimo. E piacerebbe anche a me se tu venissi... No, questo decisamente no. Troppo dolce.
Ciao. Lo so che non mi parli, ma sabato prossimo c’è la festa di mia sorella, se vuoi venire bene, sennò non importa, io te l’ho detto. Bhe, in effetti questo non suonava poi così male, era lineare e conciso. Fece per premere il tasto Invio quando ricevette una chiamata.
«Pronto? Sì. Sto arrivando. No, no, sono quasi sotto casa tua» mentì «Sì, non senti il traffico che c’è? Eh, infatti. Dai, attacco. Fatti trovare sotto, eh. Ok, ciao ciao» poi aggiunse «Ma io non avevo neanche voglia di vederlo». Sbuffò e lanciò il cellulare sul sedile del passeggero e partì. Tanto avrebbe potuto scrivere a Rachele quando sarebbe tornata a casa.
Dopo una ventina di minuti fermò la macchina e un ragazzo aprì la portiera.
«Quasi sotto casa, eh?» chiese schioccando la lingua sul palato.
Rebecca si tolse gli occhiali da sole «Non sai che le donne si fanno attendere?».
«Si, ma con i tempi di attesa che hai non sei una donna, ma una banca» ribattè, entrando in auto. « Dove andiamo?» chiese poi, abbassando il finestrino.
«Mia sorella compie gli anni, le vado a prendere un regalo».
«Quanti ne fa?».
«Diciassette» ripartì.
«Hai già in mente qualcosa?».
«Si, un vestito».
«Mhm» fece lui, poi cambiò argomento, e posandole una mano sul ginocchio aggiunse «Sinceramente, non pensavo mi rispondessi quando ti ho scritto, ieri».
«Già» rispose solo, irrigidendo la gamba «Manu, scusa, puoi toglierla? Sono scomoda per le marce».
L’altro sorrise «E’ proprio vero che le donne non sanno guidare».
«Io almeno la patente ce l’ho ancora» disse esasperata «E vorrei tenermela, quindi metti la cintura».
«E se lo faccio tu cosa mi dai in cambio?».
Rebecca si fermò al semaforo e si girò a guardarlo «Il permesso di restare nella mia auto» lo compatì «Mettiti la cintura e basta».
«Qualcuno qui si è alzato col piede giusto, oggi. Vedo che non sei cambiata poi molto».
Rebecca scosse la testa «Neanche tu. Ma il mio non è un complimento».
«Eppure eccoti qua» ghignò l’altro.
«Non vedevo l’ora…» bisbigliò cercando di non farsi sentire.
Manuele tirò la cintura e la fermò, poi si sistemò meglio sul sedile «Ma che cos…» iniziò a dire, sentendosi scomodo, poi alzò il bacino e tirò fuori il cellulare che Rebecca aveva lasciato lì.
«Ti ci sei seduto sopra?» chiese.
«Già, non l’avevo visto. Hey…» disse poi, facendosi più attento «Chi è questa?» girò il telefono per farle vedere l’immagine di sfondo.
Rebecca allungò subito una mano «Manu, ridammelo», ma lui allontanò l’apparecchio.
«No, no, voglio vederla meglio. Carina!» commentò poi, con un tono che a Rebecca provocò solo ribrezzo.
«Forza, mettilo via» sbottò «Non voglio che mi sbavi sul sedile».
«E’ tua sorella? Una tua amica?».
«Non sono affari tuoi».
«Da quando metti le foto degli altri come sfondo del telefono?».
Rebecca sbuffò «Da quando mi va, ok? Posa quell’affare, non mi va che guardi le mie cose».
«Bhe, se non volevi che qualcuno la vedesse, avevi solo da mettere un altro scenario».
«A me piace quello, ok?».
Manuele si rigirò il cellulare tra le mani «Me la presenti?» chiese poi.
«No!» disse a voce un po’ troppo alta «Mai, è troppo piccola per te».
«Anche tu sei più piccola, ma non ti sei mica tirata indietro l’altra volta». Stese la bocca in un sorriso squallido.
«Bhe, lei no, lei non è così».
Manuele si lasciò sprofondare sul sedile e allungò le gambe, per quanto poteva «Siete tutte così, piace a tutte la stessa cosa».
Rebecca strinse più forte le dita intorno al volante, ma non rispose.
«Come si chiama?» chiese poi, dopo aver guardato la foto ancora per qualche secondo.
«Non te lo dico» Sbottò.
“Cos’è, hai paura che la mangio?”.
«Conoscendola, sarebbe lei a mangiare te».
Lui rise «Allora potrebbe anche piacermi!».
Rebecca si passò una mano sugli occhi «Dio, possibile che pensi sempre e solo a quello?».
«Scusa…» le avvicinò il display del telefono «Vedendo una così, cosa dovrei pensare? Pare uscita da un fumetto».
«E’ un fumetto che non sfoglierai mai, te lo posso assicurare».
«Vorrà dire che aspetterò il cartone» disse, convinto di essere divertente «Ma quindi? Come si chiama?» insistette e Rebecca, pur di farlo tacere, rispose.
«Rachele» sbiascicò controvoglia.
Lui fischiò «Carino. Conoscevo una ragazza che si chiamava Rachele. Bhe, non era esattamente uguale, però aveva una così gran bella…».
«Manuele!» lo interruppe Rebecca, alzando la mano per zittirlo in tempo «Va bene così, non lo voglio sapere».
Lui fece spallucce «Come vuoi. Hai altre foto sue?» chiese poi, ma quando fece per entrare nella casella immagini Rebecca fu più veloce di lui e gli strappò il telefono per lanciarlo nei sedili posteriori.
«No, non ne ho» mentì, ma non abbastanza bene perché lui non ci credette.
«Sì, certo, come no. Io mi ci riempirei la memoria».
«Basta Manuele, inizio a stufarmi. Cambiamo argomento» si scrocchiò le dita.
«Oh, dai Revy, non essere così burbera. E’ solo una ragazzina. Bella, ma una ragazzina. Non so nemmeno perché tu te la tenga sul cellulare».
«A saperlo, che facevi tutte queste storie, l’avrei tolta».  
Manuele le fece il verso, poi continuò «Sei vuoi facciamo una cosa a tre. Che ne dici?» scherzò.
«Manu, basta». Lo riprese ancora una volta.
«Perché? Dai, non hai mai provato? Io una volta…non è andata troppo bene, in effetti, ma con lei potrei anche decidere di riprovarci».
«Manuele. Ti sto avvertendo…».
«Ok, ok, hai ragione. Anche con te ci riproverei» allungò una mano per accarezzarle la guancia, ma Rebecca la schiaffeggiò e frenò un po’ troppo bruscamente.
Tolse la sicura dalla porta del passeggero «Scendi» disse solo, rimettendosi gli occhiali da sole, sperando fossero abbastanza scuri da impedirle di vederlo ancora.
Lui all’inizio rise, poi quando vide che Rebecca si sporgeva per aprirgli la portiera, divenne serio «Stai scherzando?».
«No, affatto. Scendi qua».
«Ma ti sei ammattita?».
«Per poter essere uscita con uno come te, inizio a pensare di sì. E lo vuoi un consiglio? La prossima volta la bocca aprila un po’ di meno, così magari ti rimane una remota possibilità per portarti a letto qualcuno. E, sinceramente, non sei un granchè. Non riesci nemmeno a capire quando le ragazze fingono, quindi hai davvero poco per cui vantarti. E se te lo stai chiedendo, la risposta è sì, ho finto sempre. Questa volta te lo sto dicendo con le buone, anche se non credo ci sarà una prossima volta in cui potrò dirtelo con le cattive e un po’ me ne dispiaccio a dire la verità, perché mi sarei anche divertita, ma non voglio sentire più nulla su Rachele che possa uscire dalla tua bocca. Non so nemmeno dove l’hai messa prima e non mi interessa. Sono stata abbastanza chiara? Ed evita di cercarla su facebook tra i miei contatti, perché giuro che ti vengo a prendere sotto casa e te lo assicuro Manuele…non avrai mai visto nessuno essere più puntuale di me».
Lui fece per ribattere ma Rebecca lo precedette «Scusa, hai capito che devi scendere dalla mia macchina, sì o no?». 

 

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Capitolo 13
*** Un pedone passato è come un criminale che bisogna a tutti i costi arrestare. ***


Capitolo 13
 
Un pedone passato è come un criminale che bisogna a tutti i costi arrestare.
Nimzowitsch
 


«Sei sicura che vuoi che venga anche io?» le chiese dubbiosa Serena, dall’altro capo del telefono.
Rachele continuò ad asciugarsi i capelli bagnati con l’asciugamano «Se lo vuoi anche tu, io ne sarei contenta. Però non voglio che pensi di essere stata invitata per far ingelosire Rebecca».
L’altra rimase in silenzio, poi disse «Ed è così?».
«No, davvero» sospirò «Ma lo capirei se non mi credessi…».
La sentì sorridere «No, tranquilla. Se lo dici con quel tono non posso non farlo».
«Comunque per Rebecca non farebbe differenza, non ha avuto nemmeno la decenza di invitarmi di persona. Ci vado solo perché Elisabetta me l’ha chiesto e io non sono mai mancata al suo compleanno. Le diamo il regalo e poi possiamo anche andarcene, se stare lì ti mette a disagio».
«Non l’hai più sentita? Rebecca?» si informò Serena.
Rachele arrotolò l’asciugamano e lo gettò, ancora umido, sulle coperte «No. Sono più di dieci giorni, ormai. Lei non mi ha cercata e io non l’ho cercata» disse freddamente.
«Come la stai prendendo?» chiese con discrezione, dopo aver pensato se farle o meno quella domanda.
Rachele tirò un lungo sospiro «Immagino dovrei sentire qualcosa, vero?» sussurrò.
«Non saprei, bambina. Non provi nulla?».
L’altra si stropicciò gli occhi «Non lo so» disse sconfortata «Non lo so davvero. Sono un po’ tesa per sabato, quello sì. Ma per il resto…mi sento come se stessi guardando un film già visto. Avvilita, ecco come sono».
«Ho capito».
«E’ una cosa brutta?».
«No» la tranquillizzò con voce pacata «Non puoi rimanere arrabbiata per sempre».
«A volte vorrei».
«Non farti tutte queste domande, Rachele, non ha senso. Sentiti libera di sentire quello che devi sentire, non ci sono emozioni giuste o emozioni sbagliate. Se vuoi essere arrabbiata arrabbiati, se vuoi essere triste piangi e se vuoi essere felice gioisci. Lei farà lo stesso».
«Sì, lo so. Rebecca avrà già trovato il modo di distrarsi».
«Lascia perdere, non farti venire il fegato marcio con questi pensieri. Questo è quello che faremo, ascolta» le annunciò e Rachele si sedette. «Sabato io ti verrò a prendere, andremo alla festa e tu sarai la più bella; farai gli auguri alla festeggiata, mangerai un pezzo di torta e torneremo a casa. Ok? Programma facile. E se Rebecca deciderà di parlarti tu la ascolterai o meno e se deciderà di ignorarti sceglierai se fare il primo passo o no. Sei libera di scegliere Rachele e la cosa più bella del poter decidere è che puoi sempre fare quello che è più giusto per te. Senza pensare agli altri».
«E’ che mi dispiacerebbe se tu ti trovassi in mezzo. Non voglio rovinarti il sabato sera».
«Ho detto senza pensare agli altri» ripetè «Anche io ho scelto quello che è meglio per me: ho deciso di accompagnarti. Il resto me lo gestisco da sola. Ok?”.
Rachele annuì «Mh-mh» mugolò come assenso.
«Bene. Adesso vado a finire di tradurre il tuo manoscritto, così sabato te lo posso lasciare, che dici?».
«Ti ringrazio molto. Serena…» la chiamò, prima che la salutasse «Come fai ad essere sempre così?».
«Così come?» domandò l’altra e sentì Aria abbaiare in sottofondo.
«Così paziente. E accondiscendente».
«Mi preferiresti diversa? Credo che le persone non riescano a dare il meglio quando sono costrette in gabbia. E tu non hai bisogno di un’amica e nemmeno di una fidanzata, vuoi solo qualcuno che ti sostenga. E poi ti preferisco quando sei a tuo agio: diventi più vera».
 
Rachele scese le scale ancora prima che Serena le facesse lo squillo per informarla che era arrivata. Rimase nell’androne dove avevano da qualche giorno acceso l’aria condizionata e guardò fuori dalla porta a vetri aspettando di vedere la sua macchina parcheggiarsi davanti al palazzo. Dondolò avanti e indietro la borsetta che teneva nella mano destra e il pacchetto regalo che teneva in quella sinistra. Alla fine, non conoscendo troppo bene i gusti di Elisabetta, aveva optato per un buono acquisto, che era esattamente quello che le regalava ogni anno e che probabilmente avrebbe continuato a regalarle anche negli anni seguenti. A quel pensiero le sue braccia si bloccarono a mezz’aria. Se avesse interrotto qualsiasi tipo di rapporto con Rebecca, non ci sarebbero più stati regali da fare, né compleanni. Fece un rapido gesto con la mano, come per scacciare i brutti pensieri, e si sforzò di stamparsi sul viso un sorriso.
Serena arrivò in anticipo, come sempre, e prima che suonasse il clacson, Rachele uscì dal portone e la raggiunse. Anche se non riusciva a vederla bene, era sicura che la stesse guardando. Posò il regalo e la sua borsa nel sedile posteriore, facendo attenzione che il pacchetto non si rovinasse, poi si sedette nel posto del passeggero.
«Ciao bambina» la salutò Serena, allungandosi per darle un bacio sulla guancia «Non ti ho fatto aspettare, vero?».
«No» scosse la testa lei, cercando a tentoni la cintura «Ho solo finito di prepararmi prima del previsto. Come sempre. Anche quando vorrei arrivare in ritardo, finisco puntuale».
«Mi piace come ti sta questo vestito» le disse, sfiorando le balze della gonna «E poi è la prima volta che ti vedo con i tacchi».
«E sarà anche una delle ultime: non mi reggo molto bene sulle scarpe alte».
«Ti tengo io» la tranquillizzò, prima di mettere in moto “Ma se cadi non posso assicurarti che non riderò».
Rachele storse il naso e si aggiustò le spalline dell’abito.
«Te l’ho riportata la tesi» le fece l’occhiolino Serena «Non so se l’hai vista, l’ho messa dietro il mio sedile».
«La mia laurea te ne sarà sempre grata».
«Quando lo vedi il professore?».
«L’assistente. Non lo so, ma comunque dopo la sessione» fece spallucce.
«Come stai messa con gli esami?».
Rachele rimase in silenzio per qualche secondo «Domanda di riserva?» chiese alla fine e Serena sorrise.
«Va bene. Come stai?».
Rachele mugolò «Domanda di riserva?» ripetè.
«Sei agitata?».
«Lo sai almeno cos’è una domanda di riserva?» borbottò, guardando fuori dal finestrino e intravedendo il suo riflesso.
«Tanto si vede che sei tesa» le disse Serena e allontanò una mano dal volante per accarezzarle la fronte «Sei sempre corrucciata».
L’altra tirò un lungo sospiro.
«Non ti dirò di rilassarti» continuò «Tanto non lo faresti. Però se non stai bene, se non ti senti a tuo agio, se succede qualsiasi cosa, tu dimmelo e ti porto via. Ok? Ci inventiamo una scusa. Ne ho preparate già quattro».
«Tipo?».
«Si sta scaricando il game-boy» scherzò.
«Una scusa decisamente plausibile!».
«Trovi? È perché pensavo che un colloquio alla Casa Bianca fosse una cosa troppo improbabile…Insomma, ci devono credere, no?».
Rachele rise «Sei tremenda!».
L’altra fece spallucce «Almeno sorridi» sussurrò.
«Ho paura a chiederti quali siano gli altri due alibi che hai trovato».
«Oh, bhe» fece lei «Che sei stata reclutata per gli Hunger Games era uno. Però è una cosa così cruenta, quindi la utilizzerei solo in caso di estrema necessità. E l’altro è che siamo in ritardo per la processione del Corpus Domini».
Rachele alzò un sopracciglio «Ma quella cade sempre di giovedì. Oggi è sabato».
Serena la guardò con impertinenza «Si, ma loro non lo sanno. Dai, stiamo andando in un posto dove l’età media è di venti anni, non penso abbiano fatto tutti i chirichetti da piccoli!».
«Hey!» rispose risentita.
«E dico venti perché ci sono io che tiro su la media, altrimenti…» si scansò per evitare la rappresaglia della più piccola.
«Comunque» aggiunse poi «Mi chiedevo…ma quella scollatura è per me o per Rebecca?».
«Per nessuno!» si affrettò a dire l’altra e istintivamente si coprì.
Serena rise, ma gli occhi le rimasero velati di una certa malizia «Ti imbarazzi così facilmente su certe cose…».
«Ma non è vero» sbottò «Dai Serena, smettila di guardarmi così!».
«Ok, ok» la assecondò «Come vuoi. Tanto sei sexy anche quando vuoi fare l’innocente. Da qui dove devo andare?».
Quando scesero dalla macchina, Rachele fece un enorme respiro e suonò il campanello. Il cancello si aprì senza che nessuno avesse risposto al citofono.  Serena, vedendo che non accennava a fare un passo, le posò una mano sulla spalla e le bisbigliò all’orecchio «Ci sono io. Non ti lascio mica da sola».
Nel salotto era stato allestito un grande buffet e vicino allo stereo, con il volume decisamente troppo alto, alcune ragazze stavano già ballando. Gli altri amici della festeggiata erano sparsi un po’ per tutta casa, chi seduto sulle scale, chi in cucina, chi mezzo stravaccato sui divani e le poltrone. Rachele si strinse la radice del naso fra le dita, come se le stesse venendo un forte mal di testa e bisbigliò «Io odio la folla…».
Serena le si affiancò dopo aver richiuso la porta «Le mettiamo il regalo nella buca delle lettere? Tanto, per quanta gente c’è, non si accorgeranno della nostra assenza».
Rachele pensò seriamente di seguire il consiglio, ma quando vide la festeggiata trotterellare nella sua direzione capì che ormai era troppo tardi. Elisabetta le buttò le braccia al collo «Ciao Lele! Finalmente ci vediamo!».
«Ciao Betta» ricambiò, con un entusiasmo decisamente più spento «Buon compleanno! Tieni, questo è per te».
La ragazza si staccò dall’abbraccio per prendere il sacchettino che Rachele le sporgeva «Ma non dovevi!» le disse.
«Sì, invece. Diciassette anni li fai solo una volta».
«Grazie, davvero. Lo vado a mettere insieme agli altri, così dopo la torta li apriamo tutti insieme!» disse, poi ricordandosi che Rachele le aveva detto sarebbe venuta con un’amica, si girò per presentarsi a Serena «Ciao, piacere Elisabetta».
«Serena» le strinse la mano «E buon compleanno!».
«Grazie!» rispose «Spero tu ti diverta. Forza, venite con me, vi offro qualcosa da bere» fece loro strada in cucina dove sul pavimento c’erano almeno tre o quattro cartoni di bevande.
Rachele si guardò a destra e a sinistra, fino a quando Betta, vedendola, le disse «Stai cercando Rebecca? E’ di sopra a finire di prepararsi».
«Che novità» piegò le labbra in un ghigno.
«Tanto non credo imparerà mai» la appoggiò Elisabetta, prima di posare il suo regalo sul tavolo insieme agli altri e prendere due bicchieri di carta per riempirli «Lele, se vuoi raggiungerla vai, eh, tanto la sua stanza sai dov’è. Serena, tu cosa vuoi?» chiese.
«L’aranciata va bene, grazie».
Elisabetta fece per svitare il tappo della bottiglia quando un ragazzo le raggiunse «Betta» le disse concitato, senza smettere di ridere «Francesca ha rovesciato la bottiglia di coca-cola».
La ragazza si bloccò «Non sul tappeto…».
«Si, sul tappeto».
«Non quello bianco…» gemette.
«Bhe, adesso non è più bianco».
«Ok, mia madre mi uccide» borbottò, poi gli fece segno di andare e che ci avrebbe pensato dopo. Sconfortata guardò Rachele «Giuro che io volevo andare al cinema».
«Tanto al cinema le bibite le rovesciano di continuo» fece spallucce, aiutando Elisabetta ad aprire la bottiglia.
«Si, ma almeno non mettono i tappeti indiani per terra».
«Tua madre dov’è?» si informò poi, non vedendola in giro.
«E’ con Paolo, dovrebbe rientrare fra poco. Senti, ma tu come stai? È da un po’ di tempo che non vieni a cenare da noi» passò i bicchieri a Rachele e alla sua amica.
«Sono venuta qui l’altra volta, ma tu non c’eri» rispose semplicemente.
«Magari ero a scuola» fece Elisabetta, poi si ricordò «Ah, ascolta…» disse imbarazzata «Volevo chiederti una cosa».
«Spara» posò il bicchiere sul bancone dopo aver bevuto un sorso.
«Il mese scorso tu e Rebecca siete andate quel week-end fuori…nella casa di Paolo».
Rachele si irrigidì, ma la invitò comunque a continuare.
«Bhe, ecco, volevo chiederti com’era. Volevo portarci una persona e…».
«Un fidanzato?».
«Non proprio…» borbottò.
Rachele sorrise «Solo voi due?».
«Pensavo di sì, ma è ancora tutto da organizzare».
«Bhe, io l’ho trovata molto carina. E poi c’è anche il camino» le fece l’occhiolino «Però forse per più persone è un po’ piccola».
«Mhm...» Betta abbassò lo sguardo.
«Meglio, no? Così hai la scusa per invitarlo».
«Lui è qui?» chiese sorridendo Serena, posando il suo bicchiere accanto a quello di Rachele.
Subito il viso di Betta si illuminò. «Ve lo faccio vedere?» chiese concitata, poi aggiunse «Facendo finta di niente, ovviamente».
«Se è venuto qui è già un buon segno» la sostenne Rachele.
Tutte e tre insieme tornarono in salotto.
«E’ quello biondo…» sussurrò, indicandolo con un cenno del capo e Rachele e Serena guardarono in quella direzione.
«Ma io vedo solo ragazze…» disse Rachele, cercando di aguzzare la vista.
«E’ quello seduto?» domandò Serena.
«Sì».
«Ma dove?» continuò a chiedere Rachele, fino a quando Serena non le prese il mento tra le dita, girandole il viso.
«Ah…» disse finalmente «Quello con gli occhiali?».
Elisabetta annuì con decisione.
«E’ carino» le disse Serena.
Rachele fece una smorfia «Si…» disse poco convinta «Però quegli occhiali fanno un po’ topo di biblioteca».
«Si, lui ama leggere. Però ha degli occhi bellissimi!» disse entusiasta «E poi non è come gli altri…».
«Ma a te non piacevano quelli palestrati?» domandò Rachele, prendendola in giro.
L’altra con un movimento della mano la zittì «Si, ma quando ero più piccola…».
«Eh…adesso hai ben diciassette anni!».
Elisabetta la spintonò «Dai, non ti ci mettere anche tu!».
«Comunque» continuò Rachele «Secondo me quello è un posto ideale…però è veramente lontano. Volevi prendere il treno?».
«No, lui ha la macchina».
«Ah…hai capito la piccoletta?» chiese guardando Serena «Le piacciono quelli più grandi!».
«Ne ha solo due in più di me! Va anche all’università!».
«Di sicuro non viene da noi» disse Rachele «Me lo ricorderei uno così. Pare un Clark Kent albino».
«No, lui fa economia» disse orgogliosa Elisabetta, senza smettere di fissarlo.
«Decisamente non il nostro campo…» disse complice Serena.
«No, decisamente no».
Elisabetta la strattonò per un braccio «Credi che verrebbe con me, se glielo chiedessi?».
Rachele le diede un buffetto sulla testa «Ma certo. Se ti ha guardata bene non dirà di no».
«Ok, allora stasera ci provo. Poi è il mio compleanno, è obbligato a dirmi di sì».
«Lo farebbe comunque: un week-end senza genitori? Sai che bello? Non aspettava altro».
Elisabetta divenne rossa «Speriamo. Anche perché fare tutta quella strada per niente sarebbe veramente uno spreco».
«Già…uno spreco» ripetè Rachele e non potè fare a meno di ricordare quando era stata lì con Rebecca. Poi cacciò quei pensieri e continuò «Se volete un consiglio, partite la mattina presto e tornate tardi, altrimenti è più il tempo che passate in macchina che altro».
L’altra annuì «Si, si» disse sbrigativa «Pensavo di fare come avete fatto tu e Rebecca l’altra volta».
Rachele deglutì a fatica il groppo che sentiva in gola e guardò con la coda dell’occhio Serena, per cercare di capire se quella conversazione la stava mettendo a disagio, ma la sua espressione era indecifrabile. «Si…» si decise a dire infine, pesando con attenzione le parole per non far intendere nulla di sconveniente «Magari prendetevela anche con più calma, così non vi bruciate il pomeriggio».
Elisabetta fece spallucce «Certo, magari dopo cena, così siamo tranquilli e mia madre non dà in escandescenze. C’è tanto traffico a quell’ora?».
Rachele fece per rispondere, ma quando vide Rebecca scendere le scale dimenticò che cosa stava per dire. Non sarebbe dovuta essere così, non avrebbe dovuto essere così bella. La osservò fino a quando anche lei non alzò lo sguardo e la vide e per una frazione di secondo rimase ferma, indecisa se scendere o meno l’ultimo gradino.
«Rachele?» la richiamò Elisabetta e lei fu costretta a voltarsi e a sbattere un paio di volte gli occhi per ricordarsi che cosa le aveva chiesto.
«Scusa?» domandò alla fine, ancora distratta.
«C’è tanto traffico a quell’ora?» ripetè.
«Emhm..no» balbettò “Cioè, mangiano tutti intorno alle due, non si mettono a guidare».
Betta corrugò leggermente la fronte «No, intendevo dire di sera, se c’è tanto traffico».
«Oh» rispose, cercando di tenere gli occhi fissi nei suoi e impedirsi di tornare a guardare Rebecca «Io, no, non lo so. Non credo».
Betta rise «Come non lo sai? Non ti ricordi l’altra volta quanto ci avete messo?».
«Ma noi siamo andate via all’ora di pranzo. Secondo me se tu torni sul pomeriggio tardi va bene uguale».
La ragazza rimase un attimo interdetta «No, aspetta, mi sto perdendo» ammise poi «In che senso siete andate via all’ora di pranzo?».
«Nel senso che alle tre eravamo già tornate in città».
«Ma no, aspetta, quella volta in cui Rebecca è tornata a casa tipo troppo tardi e Carla le ha fatto una lavata di capo di venti minuti buoni».
«Ok…» disse confusa Rachele «Mi sa che stiamo parlando di due cose diverse. Io pensavo ti riferissi a quando Rebecca mi ha portata fuori…cos’era, il tredici? Quattordici maggio?».
«Era il quattordici» disse sicura Betta «Me lo ricordo perché mia sorella mi ha obbligata ad andare a fare la spesa con lei anche se avevo la verifica lunedì. E infatti non è andata bene».
«Ecco, sì, esatto. Quando siamo tornate perché tua madre aveva scritto a Rebecca di tornare prima per passarti a prendere”.
«Mhm no. Eravamo tutti a casa. Alla domenica siamo sempre a casa, mia madre ci obbliga a fare pranzo con i nonni».
«…Ma Rebecca mi ha detto che Carla era dovuta scappare per fare straordinario».
«No, è rimasta sveglia fino a tardi per aspettare Rebecca…aveva detto che ti aveva riaccompagnata a casa e che vi eravate messe a parlare e non aveva visto l’ora».
Rachele fece un passo indietro, forse due, non avrebbe saputo dirlo in quel momento.
Le aveva mentito? O forse si era sbagliata? «Sì» disse e la sua voce le sembrò lontanissima «Sì, è vero…hai ragione, mi ricordavo male» mentì.  Non si fermò fino a quando non sentì la mano di Serena sulla sua schiena e allora iniziò a sentirsi accaldata, anche se il condizionatore sparava aria gelida proprio sopra la sua testa. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Serena la precedette «Tutto ok?».
Lei passò gli occhi da una all’altra, senza vedere nessuno, poi balbettò «Sì. Sì, no, io…» gemette «Un calo di zuccheri. Vertigini. Fa caldo. Voi non avete caldo?».
«Vuoi dell’acqua? Ti porto dell’acqua» le disse Serena, ma quando fece per allontanarsi, Rachele le afferrò bruscamente il polso «No! No, non andare».
«Torno subito» fece per rassicurarla, ma Rachele scosse la testa.
«No, no» la sua presa si fece più salda «Sto bene, io…» si interruppe quando vide muoversi Rebecca nella loro direzione e anche Serena seguì il suo sguardo.
«…Io devo solo andare in bagno. A sciacquarmi» si affrettò a dire e Betta si spostò per permetterle di passare.
«Vuoi che venga con te?» le chiese Serena, ma lei non la sentì.
 
«Va bene, va bene, va bene, va bene…» ripetè concitata più volte, aprendo il rubinetto e lasciando che l’acqua gelida le ghiacciasse le mani «Va tutto bene…» sussurrò ancora una volta, cercando di calmarsi. Si spruzzò qualche goccia sul viso e prese l’asciugamano con dita tremanti.
Inspirò profondamente due o tre volte, aspettando che cessasse il rimbombo che sentiva nelle orecchie e che la disorientava. Quando ebbe tirato l’ultimo sospiro, che somigliava di più ad un sibilo, strappò un pezzo di carta igienica e se lo passò dietro al collo, asciugandosi il sudore.
Si guardò allo specchio e trovò che il riflesso fosse solo quello di una ragazza normale, un po’ insulsa, decisamente troppo pallida. Mentre Rebecca era splendida e Rachele sapeva che avrebbe sempre sentito quella scossa lungo la schiena nel guardarla, anche se fossero rimaste arrabbiate per anni.
Così non va, pensò immediatamente, poi cercò di convincersi del contrario dicendo ad alta voce «No, no, no, va tutto bene, io sto bene». Si posò una mano sul cuore, ma non lo sentì accelerato. «Infatti, va tutto bene» ripetè ancora, ma non si fidava a lasciare la presa sul bordo del lavandino, perché sentiva ancora le gambe tremare.
Quando sentì la maniglia abbassarsi e la porta cigolare, disse bruscamente «Serena, ti ho detto che sto bene…» si voltò controvoglia.
Rebecca aprì la porta quel tanto che bastava per sgusciare all’interno del bagno e dare due giri di chiave alla porta. Le sue labbra si piegarono in un ghigno «Quasi mi dispiace deluderti, ma no, non sono Serena» disse stizzita.
Rachele alzò gli occhi al cielo «Non lo vedi che è occupato?».
Rebecca incrociò le braccia al petto «Adesso lo è di più».
«Scusa, puoi uscire?» sbottò, vedendola così sicura di sè.
«Posso, ma non voglio».
«Lo voglio io».
«Ma se non stavi facendo nulla».
«Mi tenevo alla larga da te, ti pare nulla?».
«L’ho notato. E mi pare una cazzata».
Rachele accartocciò il pezzo di carta che teneva ancora fra le mani e lo buttò nel cestino sotto il lavello. «Che cosa vuoi Rebecca?».
«Voglio parlarti».
«Sì, certo. Ora vuoi parlarmi. Non hai nemmeno avuto il coraggio per chiedermi di venire qui, stasera. Se non fosse stato per Betta non ci saremmo nemmeno viste».
«Lo stavo per fare, Rachele. Ti ho scritto centinaia di messaggi in questi giorni, ma sembravano tutti terribilmente sbagliati e io non trovavo il modo per…» fece per avvicinarsi, ma l’altra la tenne a distanza.
«No, stai lì» mise le mani avanti «Il più lontana possibile da me».
«Rachele» insistette.
«Non ti credo, Rebecca».
I suoi occhi si fecero duri «Sto dicendo sul serio».
«Sì, anche io» ribattè.
Rebecca spostò il peso da un piede all’altro prima di decidersi a raggiungerla. Nonostante le sue proteste, le strinse i polsi in una presa salda «Allora guardami. Se non mi credi, guardami».
«Io non ti voglio guardare!».
«Bhe, lo devi fare, non puoi continuare ad evitarmi e pensare che a me vada bene così, non sono invisibile».
«Sono anni che ti guardo!» cercò di divincolarsi dalla sua stretta senza «Ti ho guardata sempre! Ho passato giorni interi a guardarti senza che tu te ne accorgessi e ho passato ore ad osservarti mentre decidevi di lasciarti stringere da tutti tranne che da me e non te ne è mai importato nulla. Ma sono sempre stata sincera con te, anche quando faceva male».
«E questo che cosa vorrebbe significare, scusa?».
«Lo so» disse in un soffio.
«Che cosa sai?» corrugò la fronte.
«Lo so che quando mi hai portata fuori città non sei ritornata a casa per stare con tua sorella».
Rebecca allentò la stretta quel tanto che bastava per permettere a Rachele di liberarsi. Pensò a che cosa dire, ma quando provò a parlare lei la zittì.
«Se non l’avessi scoperto da sola, tu non me l’avresti mai detto. E io avrei continuato a fare la figura della stupida…».
«Non l’ho fatto con l’intenzione di farti soffrire. Ma non sapevo come comportarmi…non riuscivo a starti vicina, ero imbarazzata e agitata e tu mi guardavi con quegli occhi e io non potevo ricambiare. Rachele, non ero preparata per questo. Non sono preparata a te, in questo modo, così presa».
«Dove eri andata?» chiese a bruciapelo Rachele e Rebecca esitò. «Invece di stare insieme a me, dove eri andata?».
L’altra rimase in silenzio.
Rachele fece per sorpassarla e andare ad aprire la porta, ma Rebecca le bloccò la strada. «Da Giorgio. Ero andata da Giorgio» ammise alla fine, perché non avrebbe avuto senso continuare ad omettere.
«Lo sapevo…» bisbigliò Rachele, pensando che forse sarebbe stato meglio non averne la certezza. Le diede le spalle per non darle la soddisfazione di vederla piangere ancora.
Rebecca fece per allungare una mano e posargliela sulla spalla, ma quando la vide tremare non riuscì ad andare oltre. «Non sai quanto mi dispiace…».
«No, hai ragione. Non lo so. Dici sempre che ti dispiace» continuò Rachele, ma per quanto cercasse di mantenere la calma la sua voce traballava e sentendola così spezzata le veniva solo voglia di piangere più forte «Ma non fai mai nulla per cambiare le cose».
«Non so come cambiarle».
«Non lo so più neanche io…».
«Rachele, io ti voglio bene» disse, come se questo fosse sufficiente ad aggiustare qualsiasi cosa.
«Se tu mi vuoi davvero così tanto bene, allora perché fa così tanto male?».
«Perché non riesco a non fartene» ammise con un sospiro e si rese subito conto della contraddizione di quelle parole, ma era la cosa più vera che potesse dire.
«Non può andare avanti così, Rebecca. Non mi fido più di te. Sei riuscita a togliermi anche questo. Che cos’altro ti vuoi prendere che ancora non ti ho dato?».
Rebecca le posò le mani sulla schiena e Rachele incurvò le spalle, come se le sue dita potessero ustionarla. «Non dire così. Ne abbiamo passate talmente tante insieme, supereremo anche questa».
«Non riesco nemmeno a guardarti…mi hai riempito la testa di bugie quando pensavo fossi sincera. E io ti ho creduta, perché ero convinta che nonostante tutto avessi del rispetto per me. So che non provi quello che provo io, so che non ti manco come mi manchi tu e so che non mi pensi tanto quanto ti penso io».
«Questo non è vero».
«Almeno la verità, Rebecca. Non merito nemmeno quella, per te? Che cos’altro vuoi?».
«La verità ti avrebbe dato fastidio. Voglio che torniamo a parlare, questo silenzio è stupido. Che cosa vorresti fare? Andartene?».
«Io me ne sono già andata…e tu non te ne sei nemmeno accorta».
«Ma sei ancora qui” abbassò le mani per tenerla dalla vita.
Rachele si asciugò gli occhi come meglio poteva, poi si voltò «Infatti adesso esco. C’è Serena che mi sta aspettando».
«Serena può anche aspettare».
«Lei sì, ma io no».
«L’hai portata qui» disse con una punta di fastidio e Rachele non potè non gioirne, anche se questo la fece sentire terribilmente colpevole «Uscite insieme adesso?».
«Non sono affari che ti riguardano».
«Non l’hai neanche ancora baciata, vero? So che non è così. Non puoi fingere qualcosa che non provi».
«Chi ha detto che fingo?».
Rebecca le lanciò un’occhiata torva «Se la vuoi davvero, sei libera di andare. Ma saresti già uscita da questa stanza, anziché rimanere qui. Non lo vedi? Preferisci addirittura litigare con me, piuttosto che stare con lei».
«No! Tu hai finto per anni senza che me ne accorgessi».
«Ho fatto tante cose, Rachele. Ma non ho mai finto con te. Ora non dire cazzate solo perché sei arrabbiata».
«Tu mi hai riempita di cazzate!» scoppiò «Se non mi vuoi, lasciami stare!».
«Ma se sono giorni che ti ho in testa e non riesco a stare tranquilla!».
«Oh, ma per favore…».
«Ti sto dicendo la verità! Non c’è stata una sola notte in cui io non ti abbia sognata».
«Io non ti credo più!».
Rebecca le prese prepotentemente una mano, posandosela sopra il petto, e Rachele percepì il battito accelerato del suo cuore. «Almeno a questo devi credere, però».
Rachele si tirò indietro e quando Rebecca fece per baciarla, la allontanò con uno spintone.
«No! Smettila! Perché mi devi illudere così?».
«Perché voglio tu ammetta che non è la stessa cosa! Non può essere la stessa cosa, quando non stiamo insieme».
Rachele scosse la testa e la superò, girando la chiave per aprire la porta. «Non lo pensi veramente, lo dici perché hai paura di rimanere da sola».
 
«Sicura che vuoi andartene di già?» le chiese dispiaciuta Betta.
Rachele si passò una mano sulla fronte, Serena ancora al suo fianco. «Scusami, ma non mi sento troppo bene» tagliò corto, le augurò ancora buon compleanno e uscì da quella casa enorme, sentendola troppo stretta.
Serena la accompagnò fino alla macchina e fece per aprirle la portiera ma, quando vide che Rachele non aveva intenzione di entrare, la richiuse.
«Mi serve solo una boccata d’aria…» spiegò, appoggiandosi allo sportello e fregandosene che fosse sporco.
Serena rimase di fianco a lei, ma non le chiese nulla e di questo gliene fu enormemente grata.
«Mi dispiace averti fatto venire fino a qui per nulla».
Le sfiorò appena il braccio con la mano «Adesso non ci pensare, io sono felice anche così».
«Non dovresti…ogni volta che usciamo finisce sempre che rimani da sola, mentre io discuto con Rebecca».
«Lo sapevo ci sarebbe stata questa possibilità. Forse alla fine è anche meglio così, non potevi continuare a non parlarle e a tenerti tutto dentro».
«Non è uscito molto, a dire la verità…».
Serena si scostò i capelli dalla spalla «Per stare così, è uscito abbastanza».
Lei si circondò il petto con le braccia «Ho scoperto che mi ha mentito» disse poi «E non me ne frega molto della bugia in sé, ma ora mi viene da mettere in discussione tutto. Come faccio a sapere che non l’ha fatto altre volte?».
«Non lo sai» rispose semplicemente Serena.
Rachele la guardò «Non voglio darle la possibilità di mentirmi un’altra volta, sono stanca di passare sempre per quella ingenua che non si accorge mai di nulla».
Serena le accarezzò una guancia col dorso della mano. «Non sei ingenua. Sei solo sincera. Non è una cosa brutta». Aprì le braccia e Rachele accolse il suo invito. Esitante, si lasciò abbracciare e sentì che Serena la stringeva forte, anche se lei non riusciva a ricambiare e rimase così, impassibile, senza che lei gliene facesse un peso, come se non avesse poi tutta questa grande importanza essere ricambiati o meno, in quel momento.
«Mi ha detto che mi vuole bene» sussurrò contro la sua spalla.
Serena le accarezzò la testa «Credo sia vero».
«Lo credo anche io. Ma vorrei non lo fosse».
«Perché dici così?».
Le labbra di Rachele tremarono «Perché riuscirei a starle lontana…» spiegò «Per cento cose sbagliate ne fa una giusta ed è con quella che mi frega. Lei dice che sono libera di andarmene, ma io non mi sento libera. Sono legata a doppio filo e non ho il coraggio di tagliarlo…».
Anche quando ricominciò a singhiozzare, Serena non smise di abbracciarla e non provò a guardarla perché era lei la prima ad odiare quando gli altri la vedevano piangere.
«Lascia che lo tagli lei».
«Non so se voglio che lo faccia…Ma non mi amerà mai» disse in un soffio e quella consapevolezza le fece così male che si aggrappò con tutte le sue forze alla schiena di Serena, sperando di non rompersi in mille pezzi.
«Oh, Rachele…» pronunciò solo il suo nome e quel corpo fra le sue braccia lo sentì troppo piccolo per poter essere scosso da così tanti sussulti.
«Perché non può amarmi e basta? Che cosa mi manca?» chiese infine.
«…Io non lo so» ammise Serena, e si ricordò di quando Ramona le aveva fatto la stessa domanda e lei era rimasta in silenzio a guardarla andare via.
Le prese le braccia che Rachele le aveva gettato al collo e si staccò dolcemente da lei. «Pensi di essere meno perfetta perchè lei non ti ama?».
«No» gemette la più piccola «Ma sono solo la metà di me, se Rebecca non mi ama».
Serena chiuse gli occhi per un istante, prima di prenderle il viso tra le mani e avvicinare il suo per poterla baciare. Si fermò poco prima di raggiungere la sua bocca, aspettando che lei le desse il permesso di andare avanti o la respingesse. Ma Rachele non se la sentiva più di fare nulla. Schiuse le labbra e aspettò che Serena facesse il resto.
Fu esattamente come se l’era immaginato, dolce e lento, e lei fu perfetta, in quel momento, mentre la toccava senza avere l’intenzione di staccare le labbra dalle sue, senza avere l’intenzione di lasciarla andare, come se potesse baciarla ancora per tutta la notte, perché la notte non sarebbe mai stata troppo lunga per poter sentire il suo sapore. Serena si staccò per riprendere fiato e la baciò ancora e Rachele non la rifiutò né quella volta, né le altre. Sì, era perfetta. E quello era il bacio perfetto. Ma non era, e non sarebbe mai stato, come quando la baciava Rebecca. E Rachele la odiò per quello e si odiò, perché non l’avrebbe mai odiata davvero. 

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Capitolo 14
*** Un vero giocatore di scacchi preferisce una bella partita ad una vittoria. ***


Capitolo 14
 
Un vero giocatore di scacchi preferisce una bella partita ad una vittoria.
Arrabal
 


Rebecca si trovò ancora a pensare che Serena fosse una ragazza veramente particolare. Non sarebbe riuscita a descriverla altrimenti, forse perché la conosceva appena. Ma quando l’aveva vista alla festa di sua sorella, insieme a Rachele, non aveva potuto fare a meno di provare ancora una volta quel senso di imbarazzo che la faceva sentire fuori posto, lei, che non si era mai sentita inferiore a nessuno. Eppure era vero che la trovava una persona anonima: alta, magra, capelli lunghi e biondi, viso tondo, lentiggini. Sembrava sempre il ritratto della tranquillità, come se fosse in grado di imbottigliare addirittura la calma, ma quelle poche volte che Rebecca era riuscita ad incrociarne gli occhi aveva visto che no, quello non era affatto lo sguardo di una persona tranquilla. Avevano un guizzo particolare, una maniera di posarsi su di lei che la faceva rabbrividire, come se stesse valutando qualsiasi suo movimento. Occhi che hanno il fuoco dentro, così aveva letto in un libro, una volta, e sembrava che la descrizione calzasse a pennello. Quando aveva deciso di raggiungere Rachele, quella sera, era convinta che Serena avrebbe fatto di tutto per impedirglielo. Si era avvicinata con cautela, pronta a questo tipo di reazione, ma l’altra si era limitata a guardarla e aveva accennato un mezzo sorriso, che aveva però qualcosa di sinistro, quasi avesse già previsto tutto. Rebecca pensava fosse una persona decisamente imprevedibile. In condizioni diverse, forse, sarebbero potute diventate amiche, perché le erano sempre piaciute le persone riflessive, non scontate, ed era questo che l’aveva colpita in Riccardo.
Si sedette alla scrivania e accese il pc. Digitò la password per accedere alla rete internet ed entrò nella sua casella di posta. Scrisse un nuovo messaggio e allegò le scansioni che le avevano richiesto e il modulo che aveva già compilato, ma che era rimasto sulla sua scrivania a prendere polvere, in attesa di essere utilizzato. Mosse il mouse sulla casella “Invio messaggio” e rimase qualche secondo a fissare lo schermo, indecisa sul da farsi. Alla fine prese la sua decisione, o meglio, trovò il coraggio per fare ciò che aveva già deciso di fare. Premette il tasto sinistro ed il suo messaggio venne inviato all’indirizzo mail che le avevano fornito. Quasi immediatamente, nella cartella dei messaggi ricevuti, comparve la mail di risposta automatica.
 

servizi.studenti@edicru.erasmus.it
Gentile studente,
 
La avvisiamo dell’avvenuta ricezione della Sua domanda per il bando Erasmus, anno 2014-2015. Il Suo curriculum vitae, unitamente al libretto universitario, che dovrà inderogabilmente essere fatto pervenire alla Segreteria Studenti del suo dipartimento di afferenza entro e non oltre il 14/08/2015, concorreranno alla formazione del Suo punteggio, espresso in 60esimi, per permettere di stilare la graduatoria del bando definitivo, così come esplicitato nella Sezione II articolo 8 del Bando di concorso per la mobilità degli studenti universitari all’interno dei paesi dell’UE. La informiamo inoltre che, qualora fosse risultata idonea per aderire al progetto, verrà contattata all’indirizzo di posta elettronica da Lei indicato al momento della compilazione del modulo (pratica 2536) entro e non oltre il 30/09/2015. 
Cordiali saluti
Edicru Erasmus staff
 
Importante: questa mail è una comunicazione di servizio. NON RISPONDERE DIRETTAMENTE. 
 
Quando il monitor si oscurò, Rebecca osservò il suo viso riflesso nello schermo. Avrebbe dovuto esserne felice, avrebbe dovuto sorridere. Già, avrebbe dovuto.
 
Serena si chinò per aprire l’ultimo cassetto del suo comò e ne prese un pigiama blu a quadrettoni marroni, accuratamente piegato. «E’ il più piccolo che ho» disse a Rachele, posandoglielo sul letto «Sei sicura che non vuoi che ti accompagni a casa a prendere la tua roba?».
L’altra scosse la testa «Siamo già qui» rispose, sdraiata ad osservare il soffitto della camera da letto.
Aria scodinzolò, il muso appoggiato al materasso, ma non provò nemmeno a salire sul letto, perché Serena gliel’aveva fatto capire in tutti i modi che la sua cuccia non era quella e lei, diligentemente, dopo mille sgridate, si era rassegnata ad ascoltarla.
Rachele si girò su un fianco e allungò una mano oltre il materasso per fare le coccole a quell’enorme palla di pelo e Aria sembrò esserne contenta.
«Mi dispiace non essere riuscita a venirti a vedere, oggi» disse Serena.
«E’ stato meglio così. Avresti bruciato un giorno di permesso solo per sentire il professore dirmi di tornare al prossimo appello».
La bionda si passò una mano tra i capelli «Al telefono, ieri, hai ripetuto il programma molto bene. Non è che stavi leggendo?».
Lei esitò un secondo di troppo.
«Rachele!».
«Non è esattamente leggere, se sono mappe concettuali. Più che altro è guardare, che è diverso».
Serena le lanciò addosso un cuscino, spaventando Aria, che si allontanò per andare a sedersi sul divano.
Rachele sbuffò «Mi dispiace, non riuscivo a concentrarmi. Quando mi faceva le domande mi veniva in mente solo il vuoto. Ho la testa piena di pensieri».
«No, di pensieri ne hai uno solo. E ha un viso, un corpo e un nome».
La più piccola le diede le spalle e si raggomitolò su sé stessa «Serena, non ricominciare…».
«Le devi scrivere».
«No, non devo».
«Ma ti farebbe sentire meglio».
«No, mi farebbe solo andare male anche al prossimo esame”.
«Giusto» la rimbrottò «Meglio schizzare come una molla ogni volta che ti arriva un messaggio».
Rachele si tirò su a sedere «Questo non è vero!».
«Sì che è vero e lo sai, prima stavi quasi andando a sbattere contro il comodino».
«Solo perché non l’avevo visto!».
«Solo perché avevi fretta di vedere chi fosse».
«Si bhe, era il mio operatore telefonico che mi avvisava dell’ennesima promozione!» disse e non potè nascondere una punta di delusione.
«Speravi che il tuo nuovo operatore telefonico si chiamasse Rebecca».
Rachele si passò una mano sulla fronte e chiuse gli occhi «Te l’ho mai detto che parli troppo?».
Serena sorrise e si avvicinò. Si piegò su di lei, le mani appoggiate al materasso che si inclinò leggermente sotto il suo peso. Le prese il mento fra le dita e quando Rachele le posò una mano sul collo, la baciò. Fu un bacio casto e nessuna delle due schiuse le labbra, limitandosi a godere di quel gesto dolce che, se anche non era eccitante o passionale, era pur sempre un segno d’affetto, come quello che si scambiano due persone prima di salutarsi frettolosamente per andare a lavorare, con la promessa di rivedersi la sera.
«Lo sai che non devi fingere con me» le sussurrò Serena, sfiorandole giocosamente il naso con il proprio.
Rachele si limitò ad annuire e si lasciò sprofondare di nuovo nel cuscino.
Serena andò ad aprire il rubinetto in cucina per lavare quei pochi piatti che le erano rimasti e sciacquare la ciotola di Aria. Quando finì, si asciugò le mani nello strofinaccio che aveva poggiato sulla maniglia del forno. Prese il cellulare dalla tasca e compose un breve messaggio. “Ordina le pizze!”, scrisse e cercò nei contatti recenti il numero di Rachele, prima di inviarglielo. Dopo qualche secondo sentì dalla camera da letto il trillo familiare che avvisava l’arrivo di una notifica. Vide la ragazza fiondarsi giù dal letto e guardare velocemente a destra e a sinistra per fare mente locale su dove avesse lasciato il telefono; ricordatoselo, lo prese tra le mani e quasi le cadde. Quando lesse il messaggio si rilassò, un po’ amareggiata, un po’ confortata.
«All’accademia te l’hanno mai detto che sei una stronza?» le sentì dire Serena dall’altra stanza.
Abbozzò un sorriso «Non sai quante volte…» sussurrò divertita.
Arrivate le pizze, con due lattine ghiacciate, Serena chiuse la porta della camera da letto, lasciando Aria a cercare un po’ di frescura sul balcone fiorito. Si sedette sul materasso a gambe incrociate, di fronte a Rachele, e prese la prima confezione di cartone. La aprì «Questa è di sicuro tua» disse storcendo il naso.
«Ma se è buonissima! Tutta ricoperta di mozzarella filante!».
«Non c’è nemmeno un po’ di sugo».
«Certo che non c’è, altrimenti non l’avrebbero chiamata Biancaneve» replicò Rachele e scacciò il pensiero di Rebecca e del film che probabilmente non avrebbero mai finito di vedere. Si era rassegnata ormai a ricordarla anche nelle cose più insignificanti, un fiore, un giorno di pioggia, un colore, forse perché quando condividi tutto con una persona, tutto te la fa tornare in mente, anche se credeva che non sarebbe riuscita a farci l’abitudine.
«Oh!» si entusiasmò Serena, prendendo un coltello e una forchetta «Questa è la mia. Guarda qui che bei colori!».
A quel punto fu il turno di Rachele arricciare il naso «E’ piccante».
«Esattamente! Amo i gusti forti».
Rachele tagliò la sua pizza in quattro parti e ne prese uno spicchio «Preferisco i gusti più delicati».
Serena rise «Già, è da te».
«Non ho mai fatto cena a letto, sai?» disse, dopo aver ingoiato un boccone «In verità non pensavo tu fossi il tipo».
«Cioè?» l’altra continuò a tagliare la sua pizza.
«Bhe…» iniziò Rachele, cercando le parole «Tu sei molto precisa e metodica. Sei un po’ perfettina nelle cose che fai» abbassò lo sguardo per osservare quello che stava facendo «Cioè, non mangi nemmeno la pizza con le mani, stai cercando di fare dei pezzi che abbiano tutti la stessa misura di lato e se ne fai uno troppo grande lo scarti».
Serena drizzò la schiena e la guardò alzando un sopracciglio «Non è vero» ribattè, ma posò comunque le sue posate.
«E allora perché quello l’hai messo da parte?» chiese, indicando con il dito sporco il bordo del cartone.
L’altra sollevò altezzosamente il mento «Perché la crosta ha una gradazione di colore diversa, tendente al beige, e il beige non mi piace» la prese in giro e Rachele rise.
«In verità è ocra, ma ho afferrato il concetto» le fece la linguaccia.
«E quella precisina poi sarei io, eh?» prese un trancio di pizza con le mani e lo addentò.
«Ah, ma allora ne sei capace…» scherzò l’altra, guardandola, ma quando la vide macchiarsi la maglia con la salsa al pomodoro, aggiunse «Più o meno».
Serena sbuffò «Ecco perchè uso la forchetta» borbottò, pulendosi con il tovagliolo «E comunque, quando ero cadetto, mangiavo spesso nel letto. Mi nascondevo il cibo nelle tasche e lo tiravo fuori di notte».
«Perché?».
«Perché così il superiore aveva un buon motivo per riprendermi».
«Ti piaceva essere sgridata?».
«No, ma mi piaceva ricevere le note scritte, perché così le potevo girare a mio padre e lui si incazzava parecchio. Visto che voleva tenermi là dentro, che almeno penasse insieme a me».
Rachele finì di masticare «Allora sai dipingere anche senza rispettare i contorni, perfettina».
Le labbra di Serena si piegarono in un mezzo sorriso «Oh, bambina…non hai idea di quanto mi riesca bene colorare fuori dai margini».
La più piccola ricambiò il suo sguardo malizioso, anche se sospettava che si addicesse a Serena decisamente di più.
«Vuoi assaggiare?» le chiese, porgendole un pezzo di pizza bianca.
«Tu la assaggi la mia?».
Rachele fece una faccia che era tutta una risposta «Devo proprio?».
«Sì. Uno scambio è uno scambio».
Si sporse per prendere un quadretto della pizza di Serena e l’altra fece lo stesso.
«Insipida…» disse la bionda.
«Brucia, brucia, brucia!» si agitò Rachele, portandosi una mano alla bocca e facendosi aria.
Serena si lasciò andare ad una risata sguaiata e finirono, scherzando, la loro cena.
 
Quando Rachele uscì dal bagno, a piedi scalzi e gambe nude, Serena le lanciò una rapida occhiata. «Stavo quasi per dirti che ti eri dimenticata il pigiama, ma non credo che questa sia una dimenticanza».
Rachele scosse la testa «No, non lo è. Non dormo mai con i pantaloni».
Serena fece schioccare la lingua «Allora ho fatto bene a darti la maglia corta» si lasciò scappare e l’altra arrossì. Mosse qualche passo nella sua direzione, poi si fermò e allungò una mano «Vieni qui, bimba».
Rachele lasciò andare il fiato, si scostò i capelli dalla spalla e la raggiunse, incrociando le dita con le sue. La guardò negli occhi per una manciata di secondi e quando pensò di dire qualcosa, Serena la precedette, tirandola verso di sé e baciandola, passandole una mano tra i ricci e l’altra sulla schiena. Rachele si appoggiò alle sue spalle, lasciandosi esplorare da quella lingua, e sentendo che Serena non l’aveva mai toccata con quella foga, capì che forse aveva ragione, che forse era vero che le piaceva andare fuori dai margini. E in quel momento non seppe se esserne contenta o turbata. Forse anche Rebecca si sentiva in quella maniera, quando era Rachele a volerla così tanto. Serena si staccò da lei per riprendere fiato, ma non lasciò la sua bocca e le sussurrò sulle labbra: «E’ sempre strano baciare una donna. Non ti pungi con la barba».
«Non sei mai stata con una ragazza?».
«Si» disse a bassa voce Serena, accompagnando la risposta con un cenno del capo «Ma mai con Ramona. E ora con te…» la baciò ancora con trasporto, cogliendola impreparata, e costringendola ad aprire la bocca e a farla entrare. Rachele sentì le sue dita scenderle lungo la spina dorsale e stringerle il sedere, avvicinandola ancora di più al suo corpo. Subito si irrigidì e Serena si fermò.
«E’ troppo?» chiese titubante, lasciando la presa.
Rachele scosse la testa e si affrettò a dire «No, no. E’ giusto, credo. Solo…non sono abituata a questo. A qualcun altro, che prede l’iniziativa. Di solito sono sempre io che…» non concluse la frase, imbarazzata com’era, per la situazione e per la sua incapacità di sciogliersi.
Serena le soffiò sul collo e Rachele aspettò di rabbrividire, ma la sua pelle non si scosse, anche se sentiva un certo piacere nell’averla vicina.
«Non con me» le disse «Per una volta, lascia che sia qualcun altro ad amarti e non il contrario. Vieni» le strinse le mani in una presa più leggera. Sorrise, anche se Rachele non ne capì il motivo, pensando che non solo il bacio, ma forse anche l’approccio al sesso, con una ragazza, dovesse avere una sfumatura più dolce, più rosa. E Rachele ne era un esempio, come lo sarebbe stata Ramona. «Spegniamo la luce e proviamo a vedere cosa succede» continuò.
«No» la interruppe subito Rachele, fermandosi «La luce, io…mhm».
Serena corrugò la fronte.
«Non mi trovo a mio agio, con la luce spenta».
«Hai paura del buio?» chiese, ma la sua voce non aveva un tono divertito. Pensò che fosse davvero una bambina, ma non glielo disse.
«Una specie…ti dà fastidio se teniamo una luce accesa? Anche piccola».
«Ma certo» le sorrise dolcemente Serena, lasciandola in mezzo alla stanza per andare ad accendere l’abat jour e regolandone la luminosità «Così va bene? O preferisci un po’ di meno?».
«Anche un po’ di meno».
Serena girò la rotella ancora di qualche millimetro, fino a quando la stanza non rimase in penombra. A quel punto raggiunse Rachele e la fece sdraiare sul letto. Percorse con la punta delle dita il profilo del suo viso, dalla fronte al naso, dalla bocca al collo. Si puntellò su un gomito e le baciò la guancia e, quando Rachele voltò il viso nella sua direzione, le assaggiò la bocca. Si sollevò fino a torreggiare sopra di lei, poi le chiese, ancora una volta «Sei sicura di volerlo fare?».
Rachele rimase in silenzio ad osservare quegli occhi, come se potessero darla la risposta che cercava. Poi disse, tremando: «No». Serena annuì lentamente e fece per spostarsi, ma Rachele la trattenne stringendole un braccio «No» ripetè «Non lo sono. Però voglio provarci. Se lo vuoi anche tu».
Serena le accarezzò una guancia, accennando un sorriso, e scese su di lei per baciarle il collo e la clavicola. Si inserì fra le sue gambe, poggiando le mani ai lati del suo viso. «Se sbaglio qualcosa dimmelo» disse e per la prima volta Rachele riuscì a capire, dalla sua voce, che era agitata «Non voglio farti male, bimba».
Le strinse la vita, sollevandole la maglia lentamente, scoprendo il ventre volta per volta e seguendone la scia con la bocca. Rachele non potè evitare di ricordare che anche Rebecca aveva fatto così, con il suo corpo, e quando era successo aveva sentito la sua pelle fremere e mischiarsi con le sue labbra. Che cosa c’è di così diverso? Pensò, mentre Serena le scopriva il seno e le toglieva la maglia.
«Sei bella» le disse, ma Rachele preferì non rispondere perché era convinta che la sua voce l’avrebbe tradita. Solo, si sollevò per avvicinare il viso al suo e baciarla di nuovo. Aveva un corpo così diverso da quello di Rebecca…il seno piccolo, i fianchi stretti, la bocca decisa. Anche il profumo della sua pelle era diverso, ma non avrebbe saputo dire diverso in che cosa, perché iniziava già a dimenticare l’odore di Revy. Quell’odore che l’aveva sempre inebriata, quello che poteva sentire sui suoi vestiti dopo che l’aveva abbracciata, iniziava a sparire dalla sua mente e non c’era modo di recuperarlo. Serena passò le dita lungo la sua gamba, fino al bacino, e ripetè il gesto, tenendola stretta a sé. Sentì le dita di Rachele, piccole e fredde come sempre, posarsi sulla sua schiena, ancora titubanti e indecise. Seguì con la punta del naso il suo petto e scese lungo lo stomaco e la pancia e mordicchiò l’interno della coscia, senza farle male. Avvicinò la bocca alla sua intimità e Rachele si ritrasse.
«Troppo spinto?» le chiese, accarezzandole il ginocchio.
«Non l’ho mai fatto…» spiegò, sentendosi una stupida per averla fermata.
Serena si accigliò «Ah...davvero?».
«A Rebecca non andava…».
«E tu hai mai provato?».
«No, si vergognava troppo e io non sapevo come fare» la sua voce si incrinò.
Serena si allungò per guardarla meglio negli occhi, ma l’altra rifuggì il suo sguardo. Le baciò delicatamente il seno, fermandosi un secondo di più sul suo cuore, sentendolo battere al di sotto delle sue labbra. Quante cicatrici hai, piccolino…? Si trovò a pensare e rimase ferma, fino a quando il corpo di Rachele si fece meno rigido.
«Vuoi che mi fermi?» le chiese a bassa voce e cercò di assumere l’espressione più amorevole che conoscesse, perché Rachele non pensasse fosse obbligata a fare qualcosa che non le andava. Ma l’altra scosse la testa.
«Vuoi che continui?».
«A te va?» domandò la mora di rimando, poco convinta.
Serena sorrise. «Mi piacerebbe essere la prima a sapere qual è il tuo sapore» posò le labbra sulle sue e ne cercò la lingua con la propria «Un po’ già lo conosco. E lo trovo dolce».
 
«Rachele…» la chiamò, accarezzandole i capelli «Non fare così».
«Mi dispiace, Serena. Davvero, mi dispiace tanto» ripetè, senza avere il coraggio di guardarla.
«Forse abbiamo corso troppo. Non avrei dovuto, era troppo presto».
«No, no. No, tu sei stata perfetta…sono io che…» annaspò «C’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo» girò appena il viso quando Serena la coprì con il lenzuolo e la abbracciò da dietro.
«Non volevo farti piangere».
Rachele posò la mano sulla sua «Mi dispiace» ripetè «Non volevo fermarti. Mi piaceva. Ma non riuscivo a non pensarci…non voglio guardare te e vedere Rebecca, non è giusto».
Serena appoggiò la testa alla sua spalla «C’è stata sempre lei, è normale che tu faccia fatica a lasciarti andare con qualcun’altra».
«Non doveva andare a finire così, questa notte. Volevo che fosse speciale. E invece ho mandato a puttane tutto».
«No, non è vero. Non era solo il momento adatto».
«Lo sarà mai?».
«Ci abbiamo provato, Rachele».
«Perché? Perché non ti arrabbi?» domandò lei e si girò per poterla guardare negli occhi. Serena vide che erano rossi, ma non avevano più lacrime da dare. Trovava che Rachele avesse un modo tutto suo di piangere: lo faceva in silenzio, come per non disturbare. L’unica volta che l’aveva sentita rotta dai singhiozzi, non aveva potuto fare altro che abbracciarla e sperare che passasse in fretta
«Non mi posso arrabbiare con te» spiegò.
«Dovresti. Dovresti, perché sono qui con te e ho la testa altrove e perché hai provato a fare l’amore con me e io…».
Serena tirò un sospiro e quando Rachele tornò a darle le spalle, sussurrò contro la sua schiena: «Mi dispiace. Ma non posso arrabbiarmi con te, perché anche io ti guardo e vedo un’altra persona. E vorrei non fosse così, perché mi piace stare con te, ma non posso fare a meno di pensare a Ramona. E sono passati anni, quindi no, non posso biasimare te perché nel tuo cuore e nella tua testa non c’è più spazio».
Rachele chiuse gli occhi e si coprì la bocca con la mano «E allora che cosa stiamo facendo noi due, qui?» chiese, più a sé stessa che a Serena.
«Affrontiamo i nostri demoni nell’unico modo che conosciamo: non rimanendo da sole».
«No…no, io non ti voglio usare per dimenticare Rebecca».
«Nemmeno io voglio usarti per dimenticare Ramona. Ma non puoi guarire da sola. E nemmeno io, non siamo fatte così. Per questo ci siamo trovate: per concederci un po’ di respiro fuori da tutti questi ricordi. Non sono la persona che ami e tu non sei la persona che amo…forse questo non rientra nei tuoi concetti di giusto e sbagliato, ma sono la cosa più sana che hai e tu sei la cosa più sana che ho. Non voglio portarti via da Rebecca e non voglio salvarti, perché devi trovare un modo per salvarti da sola. Ma posso soffiare dove brucia e rimetterti insieme quando ti spezzi e aiutarti a raccogliere i pezzi quando non avrai più voglia di farlo…non posso impedirti di farti male, ma perlomeno posso starti vicina quando inizierai a guarire. Lasciamelo fare Rachele. Ho visto Ramona sprofondare sotto i miei occhi e non ho fatto nulla e questa cosa mi uccide ogni giorno e avrei voluto ci fosse qualcuno con lei quando ero io a farle del male. Non lo so cosa non funziona tra te e Rebecca ma se le cose non si aggiustano avrai bisogno di un salvagente, perché in questo mare non sei capace a nuotare».
Rachele aprì la bocca per dire qualcosa, ma subito la richiuse. Si girò fino a quando non si trovò faccia a faccia con Serena e ricordò di non averla mai vista così trasparente, né così puramente e umanamente imperfetta.
«Ramona è ancora il tuo demone?» domandò poi.
«Rebecca è il tuo».
«E’ una domanda?».
«No…no, è una certezza». 

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Capitolo 15
*** A scacchi non guardare il tuo avversario come una pecora, ma come un lupo. ***


Capitolo 15
 
A scacchi non guardare il tuo avversario come una pecora, ma come un lupo.
Proverbio russo
 


Il cielo era coperto da spessi nuvoloni grigi, passeggeri come qualsiasi nuvola di un temporale estivo. In lontananza, sulle montagne, i lampi esplodevano come se volessero spaccare in due la roccia, ma non c’era nessun boato, nessun suono, nessun rombo di tuono e questo un po’ le dispiaceva: si sarebbe accompagnato bene, tutto quel fragore, con il rumore che facevano i suoi pensieri.
Una pioggia leggera cadeva incessantemente dal cielo e lei non aveva l’ombrello e nemmeno le importava, perché amava la pioggia e le strade scure, la gente riparata nei bar o nei negozi o sotto i portici, le gocce che disegnavano mille cerchi cadendo nel fiume, le pozzanghere. Da piccola adorava saltare nelle pozzanghere, mentre ora le evitava accuratamente. Non perché avesse paura di sporcarsi i pantaloni o le scarpe, ma perché ci aveva fatto l’abitudine, l’abitudine ad essere grande, l’abitudine a non prestare attenzione alle piccole cose, l’abitudine ad essere felice solo per i grandi avvenimenti e per i grandi traguardi, l’abitudine a non avere più tempo da perdere con i sogni, con le persone…con le pozzanghere.  Avere tempo solo per i problemi, questo significava crescere? Spendere giornate a pensare di risolverli o, come aveva imparato a fare lei, ad evitarli…o non farli proprio sorgere. Come con Rachele. Ma Rachele non poteva essere risolta, non era riuscita ad evitarla e non si era resa nemmeno conto di quando avesse iniziato ad essere un problema. Probabilmente era diventata un problema quando lei aveva iniziato a comportarsi come se lo fosse. Forse la prima volta che l’aveva baciata, la stessa in cui l’aveva spogliata e adagiata sul letto, per dimenticare di aver fatto crollare, definitivamente, i ponti con Riccardo; o forse quando Rachele aveva iniziato a chiedere di più e, in un batter d’occhio, si era ritrovata a ricevere sempre di meno; o ancora quando aveva deciso di andare via, di scrollarsi di dosso la sensazione di vivere in una città troppo piccola, il bisogno di respirare aria nuova, senza pensare a nessun altro oltre che sé stessa, e Rachele l’aveva guardata come se non potesse andare da nessuna parte senza il suo consenso, come se quella sera avesse firmato un patto che la obbligava a restare con lei. E quando, prima di partire, l’aveva fermata per dirle che l’amava, quello sì che era stato un tempismo perfetto, proprio da cinepresa. Lei aveva riso. Ma forte e di gusto. Perché era stanca, perché non aveva la forza e la voglia di affrontare anche quel grattacapo, perché era spaventata da un viaggio che l’avrebbe portata lontano, senza certezze, e ne era anche eccitata. L’unica cosa che aveva pensato in quel momento era stata: “E ora cosa ti aspetti che dica? Cosa ti aspetti che faccia? Non ho trovato il coraggio di rimanere per me stessa, credi che lo possa trovare per qualcun altro, per te? E me lo vieni a dire adesso che mi ami, quando tutto crolla e ho trovato una via d’uscita? Perché non te ne sei accorta prima, prima di Riccardo, prima che distruggesse tutto quello che avevo di buono da dare? Se fossi arrivata per tempo, forse avremmo avuto una possibilità. Ma ora non c’è più niente, qui, per te”. Però ci aveva pensato, appoggiata a quel sedile, mentre contemplava il vuoto; era stata una frazione di secondo, un’idea fugace per un destino diverso: scendere e tornare indietro, mandare a monte tutto e restare, come le aveva chiesto. Ma aveva scosso la testa e cancellato quella mezza intenzione dalla sua mente e aveva proseguito. I tre mesi iniziali erano stati difficili, ma quando era arrivato il momento di preparare i bagagli e ritornare a casa, si era resa conto che lì, dove nessuno la conosceva, aveva iniziato a guarire. E aveva rimandato, quella volta e quella dopo e quella dopo ancora, perché ora le faceva più paura affrontare quello che si era lasciata alle spalle. E anche quando scriveva che, no, certo che il mese prossimo sarebbe tornata, sapeva benissimo che all’ultimo momento avrebbe cambiato idea. E comunque non pensava veramente che Rachele l’avrebbe aspettata, dopo tutte quelle occasioni mancate e tutti quei “Presto ci vediamo”, che si trasformavano puntualmente in un “Scusa, sarà per la prossima volta”.
Si era tenuta lontana fino a quando aveva potuto, fino a quando non aveva esaurito le scuse e Rachele l’aveva aspettata davvero. Ricordava che, un tempo, un gesto come quello le avrebbe fatto piacere. Ma si chiedeva perché, al di qua del muro che aveva eretto per difendersi, non avesse portato anche lei e l’avesse invece lasciata fuori, insieme a tutti gli altri. Forse, in fin dei conti, aveva smesso di fidarsi anche di lei.
Ma ora provava un’immensa agonia nel vedere quel muro sgretolarsi davanti ai suoi occhi, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Aveva resistito per tutto il tempo in cui Rachele aveva cercato di abbatterlo e di frugare dentro di lei con prepotenza, e adesso che stava guardando da un’altra parte, quei mattoni diventavano di sabbia. “Dove vai?!” avrebbe voluto gridarle “C’eri quasi, perché hai dovuto fermarti?”. Sinceramente non aveva mai pensato che Rachele potesse perdere la speranza, la credeva inamovibile a riguardo. Anche se aveva sempre ripetuto che prima o poi si sarebbe stancata a provarci, lei aveva continuato. E ora che non ci provava più, la differenza si sentiva.
Non era nemmeno per Serena, anche se non capiva che cosa ci facesse una così, tra di loro, a complicare una cosa che era già complicata di suo. Ma aveva pensato che sarebbe stata l’unica per Rachele, così come Rachele sarebbe stata l’unica per lei, e al diavolo tutti i maschi, i problemi, le esperienze. Quella sarebbe dovuta rimanere una cosa solo loro, una cosa che le avrebbe portate a dire, più avanti “Sono stata con una ragazza. No, era solo lei e nessun’altra”. Bhe, evidentemente quel nessun’altra non rientrava esattamente nei piani di Rachele e Rebecca avrebbe tanto voluto che fosse vero quando a fine giornata pensava che non le importasse.
Rimase comunque stupita di ricevere quel messaggio, un numero sconosciuto non salvato in rubrica. Prima di leggerlo aveva pensato fosse di nuovo il suo operatore telefonico che le annunciava l’ennesima promozione e l’aveva quasi cancellato.
 
Ciao Rebecca, sono Serena. Scusa il disturbo, ma ho bisogno di parlarti di alcune cose. Se per te va bene, oggi sarò a lavoro fino alle 19. Fammi sapere.
 
A leggere quelle poche righe, probabilmente la prima domanda avrebbe dovuto essere “Questa cosa vuole?” o, in estremo, “Che cosa mi dovrà mai dire?”. In realtà fu solo “Come cazzo ha avuto il mio numero?”. E già solo per avere quella risposta sarebbe valsa la pena andare e quindi rispose, nel suo modo molto conciso: “Ok.” Ora che si trovava lì doveva comunque ammettere che, insieme alla curiosità e al desiderio di dirgliene quattro come nessuno gliele aveva mai dette, sentiva anche un po’ di agitazione, non sapendo se anche Rachele avrebbe partecipato a quello scambio oppure no. E non sapeva se sperarlo o meno.
Di Rachele, comunque, nel locale non c’era traccia e provò sollievo e delusione al tempo stesso. Strofinò le scarpe sull’entrata prima di aprire la porta e si scostò i capelli bagnati dal viso. Non esattamente l’entrata trionfale che aveva immaginato, ma avrebbe trovato un modo per recuperare.
Quando la bionda, dietro il bancone, la vide, fece un segno al suo compagno. Si tolse il camice appendendolo ad un gancio lì dietro e la raggiunse. Non la salutò, né le sorrise e Rebecca pensò che fosse meglio così, visto che le aveva tolto l’obbligo di fingere qualsiasi emozione.
«Grazie per essere venuta» disse Serena.
«Figurati» taglio corto l’altra e, andando dritta al punto, aggiunse «Che cosa volevi dirmi?».
La ragazza arcuò impercettibilmente un sopracciglio, poi le fece segno di seguirla, per andare a sedersi in un tavolino più isolato. Per fortuna, dopo gli esami, il polo universitario era pressochè deserto.
«Vuoi qualcosa da bere?» le chiese Serena.
«No, ho già preso abbastanza acqua”».
«Come vuoi» fece spallucce, mettendosi più comoda sulla sedia «Non credevo mi avresti risposto. O che saresti venuta».
«Non credevo che Rachele ti avesse dato il mio numero. A proposito, cancellalo» precisò duramente.
Serena fece schioccare la lingua sul palato prima di risponderle. «Già fatto» sorrise cinica «E non me l’ha dato Rachele il tuo numero, non sa nemmeno che sei qui».
«E quindi come l’hai avuto?».
«Me lo sono presa» spiegò semplicemente «L’ho cercato nel suo cellulare, mentre lei era in bagno. È stato facile: sei ancora tra i suoi contatti preferiti. Quasi mi stupisco che non ti abbia cancellata».
Rebecca storse il naso. «Quindi hai frugato nel suo telefono senza permesso? Bello, un rapporto basato sulla fiducia».
«Almeno il nostro è un rapporto» ribattè allusiva.
«Non sai che invidia…» disse sprezzante.
Serena la guardò di traverso, poggiando la testa sul dorso della mano, i gomiti sul tavolino.  «Io non ti piaccio, vero?».
«Mi sei indifferente».
«Hai un’idea tutta tua dell’indifferenza allora».
«Che ci vuoi fare, sono una persona originale» sorrise, portandosi le mani dietro la testa.
«Ah, ma allora possiedi anche dei pregi, chi l’avrebbe mai detto».
«Divertente. Qualcosa mi suggerisce che qualcuno, qui, ha sentito un bel po’ di storie sul mio conto. Nel caso non l’avessi capito, quel qualcuno non sono io».
«Non ci sarei mai arrivata senza il tuo aiuto, guarda. E quelle storie non sono tante come credi».
La mora alzò gli occhi al cielo «Allora concorderai con me che questo è un altro pregio di cui non eri a conoscenza: il mio immenso altruismo».
«Mi chiedo se Rachele sarebbe d’accordo» ribattè Serena sovrappensiero e il ghigno dal viso di Rebecca sparì immediatamente.
«Poco mi importa di quello che pensa» asserì freddamente.
La bocca di Serena si stese in un altro sorriso. «La tua indifferenza vacilla, eh? A me lo puoi dire. Ti svelerò un segreto: neanche tu mi piaci».
«La sincerità è la tua carta vincente? Oserei dire banale».
«Di sicuro non è la tua carta vincente».
«E ti conviene sperare che non lo diventi».
«Quasi tremo. Scusa piccoletta, ma ne hai ancora di strada da fare».
«Per fortuna ci sei tu ad indicarmi la strada».
«Sai com’è…» fece un gesto con la mano «Il mio immenso altruismo».
Rebecca arricciò le labbra. «Allora diciamo pure che non mi piaci. Mi piaci ancora di meno quando stai con Rachele e fai di tutto per metterlo in mostra. Che effetto speravi di ottenere?».
L’altra la guardò dritta negli occhi «Esattamente questo» spiegò con tono trionfale.
«Disinteresse?» chiese.
«La definirei più gelosia. Sei ancora sicura di essere così insostituibile?» la punzecchiò.
«Mi hai fatta venire per dirmi questo? Che vorresti essere il mio rimpiazzo? Prego, hai solo undici anni da recuperare, prima di raggiungermi».
«Ma io non ho bisogno di raggiungerti. Mi è sufficiente prestare più attenzione di quanta non ne abbia fatta tu. Il che è abbastanza facile».
«Ah, ma quindi sei venuta a chiedere il mio benestare? Che carina, sono quasi commossa. Bhe, non ce l’hai. Non vai bene per lei».
«Certo, perché sei tu quella giusta, no?».
«Non ho detto questo» disse a denti stretti.
«Strano, sembrava di sì. Non vuoi che stia con te e non vuoi che stia con gli altri. Allora cos’è che vuoi esattamente?».
Rebecca sbuffò. Detestava doverle dare spiegazioni. «In realtà Rachele ha già fatto la sua scelta, come dimostra il fatto che non si fa sentire da settimane e a me va benissimo così» mentì «Il fatto che tu stia qui a lamentarti proprio con me mi fa pensare che quella ad avere dei problemi a riguardo non sia io, ma tu».
Serena scosse la tesata «Per quanto mi riguarda, puoi continuare a raccontare la storia come ti pare e Rachele può anche crederci, perché sei tu la prima a farlo. Ma risparmia la voce con me. Ti infastidisce non avere più l’esclusiva e l’unico motivo che ti trattiene dal farlo sapere è il tuo orgoglio».
«Wow, interessante, davvero. Nemmeno io le sapevo tutte queste cose su di me. Hai visto un documentario a riguardo?».
«No, mi è bastato osservarti mentre ti affrettavi a seguire Rachele in bagno, alla festa di tua sorella».
«Intendi la festa in cui hai avuto la brillante idea di presentarti con lei a casa mia?».
«No, intendo la festa in cui io l’ho baciata mentre tu te ne stavi in casa a gongolarti pensando che sicuramente sarebbe tonata da te con la coda fra le gambe».
Rebecca si limitò a rimanere in silenzio a quelle parole. Aveva immaginato che prima o poi sarebbe successo, e anzi che forse era già capitato, ma averne la certezza la stizziva. Non avrebbe comunque dato la soddisfazione a nessuno, a Serena men che meno, di vederla irritata per una cosa come quella, che le veniva sbandierata davanti agli occhi come un drappo rosso davanti a un toro, in attesa di provocarlo. E lei non ci sarebbe cascata.  Posò le mani sul tavolo e fece per alzarsi. «La conversazione finisce qui».
Serena si dondolò sulla sua sedia con fare divertito «Ma come, non ti è indifferente? Sai, il fatto è che tu sei davvero convinta di non avere punti deboli, ma uno ti è sfuggito e, lasciatelo dire, è palese. E, soprattutto, io so cosa dire per darti fastidio e il fatto che mi stia trattenendo significa solo che sono una brava ragazza e che aspetto che tu lo capisca da sola».
«Capire che cosa?» chiese esasperata.
«Che ti devi svegliare». Replicò la bionda ed estrasse dal marsupio che portava allacciato al fianco il suo cellulare. «O prendi o lasci» continuò «Sinceramente, che ti piaccia o meno, io mi trovo bene con Rachele e lei si trova bene con me. Ma in mezzo ci stai tu e la cosa inizia ad infastidirmi».
«Pensa, avrei detto la stessa cosa».
«Non so a che gioco tu stia giocando e, non so perché, ma Rachele ti pensa ancora e a me non va di fare la terza incomoda solo perché a te piace fare avanti e indietro come se fossi ad uno sportello Bancomat».
«Io ti conosco appena» replicò Rebecca «E se hai già perso in partenza è colpa mia?».
«No, ma nessuna delle due ha messo la parola fine a…qualunque cosa ci sia tra di voi» disse sprezzante «E a me non sta bene».
 «Non è un problema che ti riguarda».
«Oh, invece sì, mi riguarda eccome, perché con Rachele ci sto io. Ma lei è distratta e io non sono così disperata da volere una persona che preferirebbe litigare con te, piuttosto che passare del tempo con me. Vedi, è questa la differenza tra di noi» concluse «Io le voglio sinceramente bene e se lei vuole stare con te…allora per me è ok. Per questo sono qui».
Rebecca fece una smorfia «Cioè, ti stai facendo da parte? Grazie, ma non ne ho bisogno».
«Non fraintendere, non lo faccio per te, ma per lei».
«Non mi interessa per chi lo fai, non mi serve il tuo aiuto per aggiustare il rapporto con Rachele, ancora meno mi serve il tuo consenso per riprendermela. Se non ho fatto nulla fino adesso non è certo per codardia: è perché non voglio».
«Una domanda mi sorge spontanea: ma tu ci credi davvero a tutte le balle che racconti? Non ti ho parlato perché volevo fossi in debito con me, non mi abbasso a questi livelli. Ma lei non vuole me. Almeno non ancora. E sappiamo entrambe che se tu glielo chiedessi, lei tornerebbe da te».
«Sei la reincarnazione di Cupido o cosa?» cercò di cambiare discorso Rebecca «Perché sei un po’ vecchia per travestirti da Putto».
«Allora vedo che non ci siamo capite» iniziò a perdere la pazienza «Cercherò di essere più chiara. Non ho iniziato a fare sul serio con Rachele perché pensavo fosse solo una crisi passeggera tra di voi ed evidentemente mi sbagliavo. Lei vuole te. Forse tu non vuoi lei, ma di sicuro non vuoi che io le giri intorno. Ti sto dando la possibilità di riprovarci, prima che io inizi a fare sul serio. Perché a quel punto dovrai davvero tagliare i ponti, di tua volontà o meno». Le posò il cellulare davanti agli occhi e Rebecca vide che lo schermo illuminato era aperto sul contatto di Rachele. Conosceva quel numero a memoria. L’immagine impostata la ritraeva insieme a Serena e a un enorme cane bianco. Non sapeva dove fossero, forse in un parco.
«E questo cosa vorrebbe dire?» chiese aspramente, prima di allontanare il telefono e restituirlo alla ragazza che le sedeva di fronte.
La bionda non si scompose e lo fece scivolare nuovamente sul tavolo, fino a Rebecca. «Non mi piacciono i tira-e-molla. Chiamala. Col mio telefono ti risponderà sicuramente. Vedetevi, chiaritevi, fate tutto quello che dovete fare, non mi interessa. Tanto non state aspettando altro e tutta questa arroganza non vi porta da nessuna parte. È inutile che mi guardi in quel modo, è l’occasione che aspettavi, almeno fa che non sia inutile».
Rebecca scosse la testa «Non ho bisogno della pietà di nessuno» disse, ma premette ugualmente la cornetta verde, portandosi il cellulare all’orecchio.
 
Rachele aprì il secondo cassetto del mobile della cucina e prese un coltello affilato, con il manico di legno spesso. Iniziò a tagliare la carne che aveva comprato al mercato lì sotto. Serena non sarebbe comunque tornata a casa prima delle sette e mezza e non le sarebbe dispiaciuto trovare la cena già pronta. O meglio, una cena vera, che non consistesse in barattolini sottaceti e scatolette da scaldare al microonde. Di fianco a lei, Aria se ne stava seduta tutta intenta a scodinzolare e ad aspettare che Rachele le allungasse qualcosa.
La ragazza scosse la testa quando la sentì mugolare. «No, non piangere» disse con poca convinzione «Hai già avuto la tua parte». Aria tirò fuori la lingua e continuò a fissarla con quegli occhietti scuri che sapevano essere così dolci e persuasivi.
«Va bene, va bene» brontolò Rachele «Questo è l’ultimo però, eh!» gli allungò un bocconcino e il cane, prendendolo tra i denti, andò a gustarselo comodamente sul divano.
«Se Serena ti vede mi ammazza…anzi, ci ammazza» sussurrò, guardando l’orologio. Le diciotto e quarantadue e ancora non si era fatta sentire. Di solito quando faceva pausa a lavoro la chiamava sempre, anche solo per sapere se stesse andando tutto bene. Non vi diede comunque troppa importanza e continuò a cucinare, sbirciando di tanto intanto la ricetta e seguendone i passaggi.
«Ah, questo me l’ero dimenticato» diceva di tanto in tanto, oppure «Vabbè, dopo pulisco», quando sporcava il bancone. Dopo aver lasciato la carne a marinare in frigo pulì tutti i piatti e iniziò ad apparecchiare. Aveva comprato anche qualche gerbera, dei fiori allegri e colorati, e le aveva messe in un vaso improvvisato pieno d’acqua fredda. E per non sbagliare aveva anche aggiunto due cubetti di ghiaccio.
Non era esattamente una tavola da re, ma per loro due sarebbe andata più che bene. Pensava che l’importante sarebbe stato passare una serata in compagnia, e chissà, magari quella sera sarebbe finalmente riuscita a stare con Serena senza pensare troppo a Rebecca. Sì, forse ce l’avrebbe fatta. Forse. O quantomeno ci avrebbe provato.
Prese di nuovo il tagliere per tritare le verdure e il coltello di porcellana che le piaceva tanto e col quale si tagliava troppo spesso. Quando ebbe finito fece per mettere tutto dentro una casseruola, così come aveva letto, ma quando il cellulare squillò, dalla camera da letto, dovette fermarsi. “Ecco Serena” pensò, mentre staccava il telefono dal caricabatteria, ma il numero non era il suo.
Sorrise e rispose. «Ciao, papà. Sì, sì tutto bene, tu? L’hai letto il messaggio vero?» rimase in silenzio per qualche secondo «No, era solo per sapere. Comunque tranquillo, non faccio tardi, per le dieci sono a casa. Si, appena arriva te la saluto. Certo. Questo sabato? Ma di nuovo papà? Siamo già venute ieri a pranzo. Che c’entra la lasagna? Ho capito, ma non è che solo perché ti ha detto che le piace, gliela devi riproporre ogni volta che la vedi, stai passando troppo tempo con nonna. Lo so che vuoi essere gentile. Va bene, va bene, come non detto, la lasagna è perfetta, le chiedo se sabato lavora. Sì lo so che ha detto che non lavora, ma glielo chiedo lo stesso: sai, si fa così per sapere se una persona ha già preso altri impegni. Ma certo che voglio stare con te! Se questo era un tentativo per farmi sentire in colpa, sappi che è fallito miseramente. Sì, esatto. Ok. Dai, ci sentiamo. Si, anche io te ne voglio. Sì, ti ho detto che te la saluto! Bene, baci baci» riagganciò. Scosse la testa esasperata e mise di nuovo il telefono in carica.
Quando Serena tornò a casa, un’oretta più tardi, girando la chiave nella toppa, Aria era già pronta ad aspettarla dietro la porta, mentre Rachele era tornata in cucina.
«Ciao!» salutò entrambe «C’è un profumino giù per le scale…non è che mi stai mettendo all’ingrasso?».
«Bhe non ti farebbe mica male mettere su qualche chilo!» disse mentre toglieva la pellicola dal contenitore, poi si bloccò «Dio, anche io sto passando troppo tempo con nonna…» bisbigliò.
«In che senso?» chiese Serena, mentre si toglieva le scarpe.
«Nulla, nulla. Ho sentito mio padre. Ti saluta».
«Ricambia. Quindi sabato andiamo da lui?» chiese, avvicinandosi. Le posò le mani sui fianchi e le baciò il collo.
Rachele rimase interdetta e subito Serena si affrettò a spiegare «Dopo aver chiamato te ha chiamato me. Ha detto che non era sicuro me l’avresti chiesto».
«E come fa ad avere il tuo numero?» chiese storcendo il naso.
Serena fece spallucce «Gliel’ho dato io».
«Perché hai fatto una cosa così stupida?» borbottò «Lo sai che è una persona invadente. Ora ti chiamerà ogni giorno».
La bionda si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Quando hai un padre come il mio ti assicuro che l’invadenza inizia a piacerti. E poi non mi dispiace, ha detto che voleva il mio numero così se riusciva a prendere i biglietti per lo stadio mi ci portava».
Rachele storse ancora una volta il naso «Il calcio…» disse schifata.
Serena le diede un pizzicotto «Infatti non l’ha chiesto a te, ma a me» le fece la linguaccia, prima di andare in bagno a cambiarsi.
«Quindi? Che cosa mi cucini?» chiese a voce alta da dietro la porta.
«Maiale al barolo!».
«Io dopo devo guidare per riportarti a casa, lo sai vero?».
Rachele si fermò col coltello ancora in mano «Non ci avevo pensato…» disse fra sé «Bhe, è la prima volta che lo faccio, quindi se non è venuto bene non lo mangerai!».
«Nessun problema, ho il numero del ristorante cinese fra i contatti recenti».
Rachele rise «Sempre roba sana, eh?». Tagliò le ultime verdure per il soffritto e accese il fuoco sotto la pentola. Voltò appena lo sguardo per vedere Serena sedersi al tavolo.
«Hai preso anche i fiori» disse dolcemente «Come sei stata carina».
«Visto? Pensavo avessi lavorato tanto. Non mi hai nemmeno chiamata quando hai fatto la pausa».
«Sì» annuì Serena «E’ stata una giornata impegnativa. Per fortuna sono tornata a casa e c’eri tu. Guarda» disse poi, toccando i petali colorati «Queste due gerbere si sono innamorate».
Rachele corrugò la fronte «Innamorate in che senso?».
«Voi non dite così? Mia mamma viene dalla campagna e dice che quando due fiori stanno vicini può capitare che uno prenda il colore dell’altro. E quando succede dice che si sono innamorati. Questa bianca è chiazzata di arancione».
Rachele sorrise «No, non lo sapevo. E’ una cosa graziosa».
Serena tirò un lungo sospiro. «Già, lo è».
Rimasero entrambe in silenzio per qualche minuto, mentre fuori la pioggia aveva smesso di cadere.
«Ho visto Rebecca, oggi» disse poi a bruciapelo la bionda.
Rachele si immobilizzò all’istante, il coltello in mano, a sentire quel nome. «Ah» fece, fingendo noncuranza «Bene». Quando Serena non disse nulla per continuare il discorso, aggiunse «Quindi? Passava di lì?».
«No, le ho chiesto io di vederci» spiegò con tono spento.
«Cosa? Perché?».
«Dovevo dirle delle cose».
«Quali cose? Perché non me l’hai detto?» poi si fermò a pensare «Come l’hai contattata?».
«Facebook» mentì lei, sapendo che tanto Rachele non se ne sarebbe accorta.
«Da quando usi Facebook?».
«Da quando può tornarmi utile» ribattè risentita, poi si portò una mano sulla fronte «Senti, non te l’ho detto perché non volevo reagissi così».
«E me lo dici ora perché ti aspetti una reazione diversa?».
Ma Serena non si curò troppo di rispondere a quella domanda. Si alzò dalla sedia e disse, guardandola negli occhi «Le ho detto che, se voleva, potevi tornare a stare con lei».
«Scusami?!» sobbalzò «E questo cosa vorrebbe significare? Ma che diavolo ti è passato per la testa, senza neanche chiedermelo, poi? Che motivo avevi di dirle una cosa del genere, una cosa così insensata?».
«L’ho fatto perché sapevo che non avrebbe mosso un solo passo per venire a riprenderti».
Rachele rimase ferma davanti al bancone della cucina, il coltello ancora in mano. Pensò che se Serena glielo avesse infilato fino in fondo al petto e le avesse trapassato la cassa toracica, forse avrebbe fatto meno male.
«Ora lo sai» continuò Serena, voltandole le spalle «Vedi tu se è il caso di cercare altre conferme». 
 

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Capitolo 16
*** Non è una mossa, anche la migliore, che tu devi ricercare, ma un piano realizzabile. ***


Capitolo 16
 
Non è una mossa, anche la migliore, che tu devi ricercare,
ma un piano realizzabile.
Znsko-Borovsky
 


Se qualcuno, fra le tante persone che erano passate per quella via isolata - chi con in mano un giornale, chi con la spesa della settimana, chi di ritorno dal lavoro -, si fosse fermato per domandarle che cosa stesse aspettando, così ferma, immobile sotto la pioggia, lei avrebbe risposto: «Il coraggio. Aspetto il coraggio». O forse era tutta quell’acqua che cadeva dal cielo, e sembrava volesse allagare la città, a lavarle via la forza che le rimaneva per affrontarla. Trovava quasi ironico quel tempo, ora che aveva deciso di scrivere da sé il finale di una storia che si era trascinata per troppo tempo dietro stupidi castelli di carta e infantili fantasie.
Adorava la pioggia. Aveva adorato la pioggia quando aveva costretto Rebecca ad avvicinarsi a lei per ripararsi sotto un unico ombrello; aveva adorato la pioggia quando le aveva colte di sorpresa durante un temporale estivo e a nessuna delle due era importato bagnarsi; aveva adorato la pioggia quando, specchiandosi in una pozzanghera e vedendo il loro riflesso, aveva pensato che forse ce l’avrebbero fatta a trovarsi e a riconoscersi per quello che erano. E aveva creduto che finchè fosse rimasta anche solo una piccola possibilità per stare insieme, lei non si sarebbe arresa. Sembrava non ci fosse nulla di più lontano ed estraneo di quel pensiero, ormai. La verità era che se avesse avuto il coraggio di soffrire, il coraggio di voltarle le spalle senza morirci, il coraggio per smettere di vederla nel proprio futuro, allora le avrebbe detto addio molto tempo fa. E invece, pensando che rimanere sarebbe stato meno doloroso, le aveva detto addio centinaia di volte, rimanendole però legata. E da quel momento avrebbe odiato la pioggia, perché qualcosa avrebbe pur dovuto odiare nel giorno più triste della sua vita. Avrebbe odiato l’acqua e i temporali e quei dannatissimi fulmini, le pozzanghere, gli ombrelli e il cielo coperto. Se non poteva odiare Rebecca, si sarebbe limitata ad odiare tutto il resto.
Capiva solo in quel momento che l’unica maniera per poter sperare di andare avanti era quella di lasciar andare tutto ciò che fino ad allora aveva cercato di salvare. Ma non è vero che le persone vogliono essere salvate. Probabilmente vogliono solo essere guardate mentre affondano.
Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? si domandò.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase a fissare il campanello di quella casa che conosceva fin troppo bene. Le gocce scivolavano fra le lettere dei due cognomi incisi sulla cassetta della posta e la grondaia faceva scivolare a terra un fiume in piena. Avvicinò le dita al campanello una, due, forse tre volte, e provò a suonarlo altrettante, prima di riuscirci davvero. Aspettò la risposta al citofono per un tempo che le parve eterno, ma più di ogni altra cosa aspettò che il suo corpo le desse un segno, un cenno di agitazione, di trepidazione, le mani sudate, il respiro corto, le guance arrossate o il battito accelerato. Quasi sperò di sentire qualcosa di diverso dal nulla, qualcosa che le facesse capire che, a dispetto di tutto, voleva ancora impegnarsi per salvare quello che era rimasto. Ma evidentemente Rebecca era riuscita a portarle via anche la voglia di provarci e l’unica cosa che percepiva era un immenso vuoto, la consapevolezza che non sarebbe successo più nulla, perché tutto quello che poteva farle glielo aveva già fatto.
«Sì, chi è?» domandò Rebecca, il citofono che le faceva la voce meccanica.
Rachele prese un respiro. «Sono io» disse solo, dando per scontato che l’avrebbe riconosciuta.
Silenzio.
«Rebecca, apri».
«Che cosa ci fai qui?».
«Non ho intenzione di dirtelo dall’altra parte del cancello» replicò dura.
Attese per qualche secondo, poi Rebecca attaccò. Per un attimo Rachele temette che l’avrebbe lasciata lì fuori, da sola con i suoi bei progetti e i bei discorsi che si era costruita.
Quando il cancelletto si aprì con un sonoro click, non potè fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Attraversò lo stretto viale acciottolato con calma, un po’ perché non aveva nessuna fretta di chiudere quel capitolo della sua vita (che più che un capitolo somigliava ad un volume), un po’ perché i suoi vestiti erano già fradici e correndo non li avrebbe di certo asciugati. Si pulì le scarpe sul tappetino di ingresso, riparata dal tettuccio, ed entrò, spingendo la porta. Si voltò e se la richiuse alle spalle.
Rachele rimase con le dita strette attorno alla maniglia d’ottone, gli occhi bassi, fino a quando non sentì Rebecca dietro di lei schiarirsi la voce con impazienza. Lentamente si girò, la fronte corrugata, le spalle tese, la bocca serrata, ma quando incontrò il viso di Rebecca vide che la sua espressione era ancora più impenetrabile della sua e che, con le braccia conserte strette al petto, la osservava con freddezza.
Alla fine è questo quello che è rimasto, pensò con rammarico guardando quegli occhi, nulla.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma si rese subito conto di non avere più parole o discorsi da fare, e la richiuse. Rebecca continuava a guardarla, ma nulla lasciava intendere che cosa stesse pensando. Sarebbe stato così semplice, per Rachele, raggiungerla e abbracciarla; così semplice muovere due o tre passi, allungare le dita e credere davvero che un gesto potesse spiegare più di mille parole; così semplice fare finta che tutto andasse bene, solo per poterla stringere ancora una volta e sentirne il profumo. Già, fare finta. Scacciò in fretta quell’immagine dalla mente. Non l’avrebbe fatto, non si sarebbe mai esposta così tanto.
Rebecca distolse lo sguardo «Vado a prenderti un asciugamano» disse, voltandole le spalle.
«No» la fermò l’altra, torturandosi le mani «Non ha importanza. Non ho intenzione di rimanere qui a lungo».
«Ha importanza per me» ribattè «Stai gocciolando sul pavimento e io l’ho appena pulito».
Rachele si morse le labbra e imbarazzata si guardò i piedi. «Certo…» sussurrò, ma Rebecca si era già allontanata con passi pesanti. Tornò stringendo fra le mani un rettangolo di stoffa scura, sottile, forse di microfibra, tutto stropicciato, come se fosse stato piegato e riaperto più volte, oppure già utilizzato.
«Ecco» borbottò Rebecca «E’ l’unica cosa che ho a portata di mano. L’avevo messo via per...» si bloccò. Scosse la testa «Non ha importanza. Tieni, è pulito». Fece per avvicinarsi e porgerglielo, ma qualcosa sembrò trattenerla. Spostò il peso da un piede all’altro, come faceva sempre quando era turbata, poi si risolse ad appallottolare l’asciugamano e a lanciarglielo, aspettandosi che Rachele l’avrebbe afferrato. Invece la ragazza si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre lo lasciava cadere a terra, a pochi centimetri di distanza dalle sue scarpe.
Spostò gli occhi dall’asciugamano a Rebecca un paio di volte. «Non mordo mica» disse risentita, piegando la bocca in una smorfia.
«Scusa» si grattò la fronte con un certo impaccio «Scusa, io non…».
«No» la interruppe sicura «No, non ti scuso» ma si chinò ugualmente per raccogliere la pezzuola.
«E quando mai l’hai fatto?» borbottò tra sé l’altra, distogliendo lo sguardo.
Rachele spalancò gli occhi «Che cosa hai detto?».
Rebecca fece un profondo respiro prima di liquidarla con un gesto della mano «Nulla».
«Ti ho sentita».
«E allora la tua domanda è inutile».
«Oh, no, affatto. Mi dimostra ancora una volta che non riesci a dirmi le cose in faccia. Ma tranquilla, mi ci sono abituata ormai».
«Era esattamente questo» la indicò con un dito «esattamente questo quello che volevo evitare. Ma evidentemente con te non esiste modo di lasciar correre».
Lei si passò l’asciugamano sui capelli «O la colpa è la mia perché presto troppa attenzione, oppure è la tua che non ti curi abbastanza di nascondere le cose».
«Sei un macigno, Rachele. Un carro armato quando vuoi farmi venire i sensi di colpa».
«Non è un tuo problema: per provare rimorso avresti bisogno di una coscienza».
«E allora che cosa ci fai qui?» scosse la testa con fare esasperato, stringendosi nelle spalle.
Rachele rimase in silenzio per qualche secondo, poi prese respiro «Ho parlato con Serena» disse ostentando indifferenza.
L’espressione di Rebecca si fece dura «Non credo solo parlato».
Fece finta di non sentirla, ma le riservò un’occhiataccia «So che vi siete viste».
«Se sai già tutto allora io a cosa ti servo?».
«Io non so tutto, Rebecca».
«Di sicuro sai quello che ti ha detto lei e qualsiasi cosa ti decessi io comunque non mi crederesti».
«Provaci, magari riesci a stupirmi».
«A me non interessa stupirti».
«D’altronde non sono molte le cose che ti interessano, a parte te stessa».
Sorrise «Hai ragione. In effetti l’unica cosa che mi interessa ora è sapere che cosa ci fai tu nel mio salotto, quando è evidente che preferiresti essere da qualsiasi altra parte. E già che ci sei potresti spiegarmi che cosa vuoi da me, visto che sono ormai parecchie settimane che non ho tue notizie. Sono stupita che ti ricordi ancora dove abito, ma qualsiasi cosa tu dovessi dirmi sono sicura che avresti anche potuto scrivermela in un messaggio. O forse hai cancellato il mio numero?».
«Forse lo hai cancellato tu, perché non ricordo di aver ricevuto tue chiamate».
«Pensavo che presentarti alla festa di mia sorella con la tua nuova fidanzata fosse un gesto sufficientemente eloquente per farmi capire che non volevi più saperne nulla di me».
«Non è la mia fidanzata».
«Come hai detto tu sono poche le cose che mi interessano e Serena non rientra certo tra queste. Grazie, ma non mi importano i dettagli della vostra relazione».
«Ma si può sapere qual è il tuo problema?» sbottò Rachele, smettendo di asciugarsi i capelli «Prima fai di tutto per tenermi lontana, mi eviti come eviteresti un cane con la rogna, mi tratti come se avermi vicina fosse un peso a cui rinunceresti volentieri e ora…» la indicò con la mano, poi la fece ricadere lungo il corpo «Ora ti metti anche a fare la gelosa? Credi ancora di potermi prendere per il culo in questa maniera?».
«Oh no, io non ho nulla, nulla, per cui essere gelosa. Con chi vai a letto o meno non è affar mio, ma lo diventa se mi piombi in casa senza preavviso riempiendomi le orecchie di stronzate! Io ero venuta per te, Rachele! In quel bagno, dopo che non ti sentivo da giorni, ero venuta per cercare di aggiustare le cose e tu mi hai respinta!».
«Mi hai mentito Rebecca!».
«Lo so, non ne vado certo fiera! Ho provato a spiegarti, non hai la più pallida idea di quanto possa essere stato difficile espormi a quel modo, ma tu non hai nemmeno voluto ascoltarmi!».
«Che cosa c’era da ascoltare? Che cosa, di tutte le cose che mi hai detto, non avevo già sentito? E’ sempre la stessa storia Rebecca, sono sempre le stesse parole, ripetute ancora e ancora e ancora…io che mi sforzo di crederti e tu che puntualmente mi deludi. Sono stanca! Guardami, sono stanca!» si portò una mano davanti agli occhi «Perché tutto quello che tocchi va a pezzi?».
L’altra arricciò le labbra in un broncio pronunciato «Se sono così sbagliata allora perché sei ancora qui?».
«Perché ne ho bisogno!» ammise «Ho bisogno di parlarti, ho bisogno di vederti e dannazione Rebecca, non te lo meriti! Dopo tutto quello che mi hai fatto passare non te lo meriti!».
Lei aprì la bocca di getto per ribattere, ma quando ebbe metabolizzato quelle affermazioni la richiuse, scuotendo la testa. Erano parole dolci, erano parole per lei, ma erano anche parole pronunciate con una tale rabbia e una tale frustrazione in corpo che, anche volendo, non sarebbe riuscita ad interpretarle come un gesto di pace.
Dopo qualche secondo di pesante silenzio, si risolse a dire: «Forse semplicemente non siamo fatte per stare vicine. Siamo sbagliate da sole, ma quando stiamo insieme diventiamo ancora più sbagliate».
Rachele tremò nel sentir pronunciare una verità che fino all’ultimo aveva cercato di nascondere anche a sé stessa. Sperò ardentemente che il suo corpo non la tradisse in un momento come quello, in un momento in cui si era ripromessa di essere forte, di non piegarsi, di non cedere. Per una volta aveva deciso di sembrare più forte di Rebecca, ma non avrebbe potuto farlo se la voce le fosse venuta meno. Prese un profondo respiro. «Allora dovevamo cercare un modo, dovevamo cercare un incastro. Dovevamo provare ad aggiustarci».
«Non c’era nulla da aggiustare, Rachele. Imbarchiamo più acqua di quanta ne riusciamo a ributtare in mare. Non ha senso».
«Aveva senso per me! Per me aveva senso provarci, prima che fosse troppo tardi…».
Ma è già troppo tardi… pensò subito, bloccandosi e quel pensiero le pesò come un macigno sul petto al punto che quando sentì gli occhi bruciarle, non se ne curò più, mandando al diavolo i suoi bei propositi.
Rebecca si morse le labbra. «Ci sono alcune cose che non possono essere riparate. Alcune cose che devono rimanere rotte».
«Dovevi lottare per me. Dovevi lottare per tenermi».
«No, non dovevo».
«Sì» insistette, scacciando in fretta le lacrime che le stavano per uscire dagli occhi «Dovevi».
Rebecca assunse un’aria interrogativa.
«Io ho lottato per te» spiegò in un soffio «Anche se sapevo che non avrei vinto, ho lottato per te».
«Oh, Rachele…».
«Perché? Perché non sei venuta a prendermi? Perché quando Serena ti ha proposto di tornare insieme a me, tu mi hai lasciata perdere così?».
«Non sono tenuta a fare quello che una mezza donna mi ordina» ringhiò risentita «Non era una cosa in cui doveva intromettersi, non dovevi lasciare che mettesse le mani su questo» indicò sé stessa e poi Rachele «Su di noi. Quali che siano i nostri problemi, non le competono, non accetto che una sconosciuta venga a consigliarmi come comportarmi, conoscendo solo la metà delle cose che dovrebbe sapere prima di potermi giudicare. Che sia chiaro Rachele, non ho mai avuto bisogno del suo permesso per poterti venire a riprendere: se l’avessi voluto fare l’avrei già fatto, con il suo benestare, di cui francamente me ne sbatto, o meno. L’unico merito che le compete è quello di avermi fatto perdere un pomeriggio fingendosi la Dea dell’amore, che accoppia le persone come le pare. Sinceramente, fossi in te, me la prenderei per essere stata trattata come un oggetto da scambiare».
«Intendi come hai fatto tu fino ad ora?».
Rebecca la squadrò «Lo sai che questo non è vero ed è ingiusto che tu lo dica. Non sono una santa, ma non ti ho mai usata come un oggetto. Non è mai stato un gioco per me».
«Se non è un gioco, allora perché tu vinci sempre e io perdo?».
«Non sta vincendo nessuno Rachele. Avanti! Ti sembro una che è felice di questa situazione?».
«Non lo so. Lo sei?».
Rebecca scosse la testa «Se non conosci da te la risposta, allora non ho davvero più nulla da dire».
Rachele stese le labbra in un finto sorriso «Già. E’ proprio questo il punto».
«Cosa vuol dire?».
«Non c’è più nulla da dire. Non c’è più nulla che si possa dire, ormai, per cambiare le cose. Noi…» la guardò e le labbra le tremarono «Noi siamo finite qui. In mezzo a un sacco di parole e a niente fatti».
«Rachele…» fece per avvicinarsi ma lei la trattenne.
«No» fece un passo indietro. Si strinse nelle spalle «Tu non mi ami. Ma io sì, Rebecca. Io ti amo. E non c’è futuro a questo, non conosco nessun rimedio per questo. Potrei continuare a girarti intorno, a fare di tutto per farmi notare da te, ma tu continueresti a fare quello che hai sempre fatto: darmi per scontata. Non voglio dover elemosinare le tue attenzioni, non è così che funziona, non è così che dovrebbe essere. Tu non sai quello che mi succede quando non ci sei, ma io lo so, lo so bene. Mi stai uccidendo. Mi uccidi e l’unico modo che mi hai lasciato per dimostrarti che ti amo è resistere. Ed io resisto ogni volta, per te, ma ancora non ti basta, ancora non sei convinta. Che cos’altro vuoi? Cos’altro devo dimostrarti? Non ho più nulla da darti Rebecca, ti sei presa tutto quello che avevo e il tutto ancora non ti basta. Mi hai lasciata vuota…per cosa? Che cosa avevi intenzione di farci con me, dopo? Vantartene? Aggiungermi alla lista?».
«Assolutamente no! Rachele, io non…».
«Mi hai rovinata!» pianse «Tu mi hai rovinata. Ero l’unica persona a cui non dovevi fare male. Lo sai che cosa si prova a vederti andare via sempre…?» chiese, ma in realtà non aveva bisogno di una risposta «Non mi hai dato nemmeno una possibilità».
Rebecca abbassò gli occhi. «Non potevo. Ma non volevo farti male, almeno non così».
Rachele stropicciò l’asciugamano che teneva ancora fra le mani. «Non ha più molta importanza adesso». Si avvicinò con passi lenti a Rebecca e le sporse la stoffa «Tieni».
«No, aspetta…» la fermò.
«Ho aspettato abbastanza» la interruppe «Non posso più restare qui». Fece per girarsi e andare via, ma Rebecca la afferrò per un polso.
«No, non ancora» disse duramente, trattenendola «Io non ho ancora finito con te».
Lei fece resistenza, provando a ritirarsi «Lasciami, non voglio che mi tocchi».
«Smettila di fare così».
«No, smettila tu!».
«Sei venuta per parlare, ma devi anche ascoltare!».
«Rebecca, ti ho detto di lasciarmi!».
«No!» strinse di più.
«Dannazione, lasciami! Lasciami o giuro che ti prendo a calci!».
«Allora fallo!» sbottò, buttando a terra l’asciugamano e prendendola con entrambe le mani. Quando provò ad abbracciarla, Rachele la respinse come se bruciasse, ma Rebecca non desistette. Le circondò la schiena e la strinse a sé, nonostante l’altra continuasse a dimenarsi.
«Non puoi fare così, non puoi fare così!» continuò a ripetere Rachele cercando di allontanarsi, perché sapeva che se fosse rimasta ancora fra le sue braccia le sarebbe scivolato di dosso il coraggio di dirle addio.
«Stai ferma» le ordinò decisa, insinuando le dita fra i suoi capelli.
«No. Per favore, basta».
Rebecca emise un profondo sospiro e Rachele sentì il suo fiato sul collo e non potè fare a meno di rabbrividire. «Me ne vado» disse poi con semplicità e lo ripetè quando la ragazza non diede segno di aver capito «Rachele, sto per andare via. Parto fra due settimane».
Fu come se delle catene le si avvolgessero intorno al cuore. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e per una frazione di secondo il tempo sembrò fermarsi e insieme a lui i pensieri, il respiro, le lacrime. Rimase in silenzio fino a quando non ebbe metabolizzato le sue parole.
«Ho fatto domanda per andare a studiare in Germania» spiegò Rebecca, poggiando le labbra sulla sua fronte «Sinceramente non pensavo che la commissione avrebbe preso in esame la mia candidatura, però così è stato. Quando ho visto Serena era già stato tutto deciso e non potevo tirarmi più indietro. Ho pensato di venirti a riprendere, Rachele, davvero. L’ho pensato anche prima che quella zotica me lo suggerisse! Ma non aveva più senso ormai. Rachele…Rachele, per favore non piangere» sussurrò, sentendola tremare fra le sue braccia.
«Perché?» chiese lei, aggrappandosi alla sua schiena con tutte le forze che le restavano per trattenerla.
«Perché devo andare via» continuò a spiegare, sentendola piangere contro la sua spalla «Non c’è nulla che funziona qui. Non è per te» aggiunse subito, per non essere fraintesa «Non è per te…Ma ti amerei sempre un po’ meno di quanto mi ameresti tu. E hai ragione, a questo non c’è rimedio».
«Perché?» riuscì a chiederle ancora prima che la voce la abbandonasse, prima che le lacrime le impedissero di vederla chiaramente.  
«Io non lo so» bisbigliò a malincuore «Non lo so, davvero». Rise, di una breve risata amara «E’ proprio vero che sono tutta sbagliata…ma sono felice che quello che provi lo provi per me».
Rachele tremò al pensiero che quella potesse essere la loro ultima occasione, il loro ultimo abbraccio. «Non andare» disse di getto, senza pensarci «Non andare via».
«Lo sai che non è una cosa che puoi chiedermi» le rispose, ma non si allontanò «Non c’è nulla per me qui».
Ci sono io! Ci sono io! Urlò la sua mente, ma non glielo disse. «Non andare…» ripetè a stento, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo e stringendosi di più a lei, come si fa in un ultimo disperato tentativo «Non costringermi a stare senza di te, non voglio abituarmi alla tua assenza, non voglio dimenticarti, alzarmi la mattina e obbligarmi a non pensarti. Non lo voglio un futuro in cui non ci sei. Ti prego non lasciarmi…non farlo di nuovo. E’ vero che tutto quello che tocchi va in pezzi, ma io cado già a pezzi quando tu non ci sei!».
«Non abbiamo scelta diversa da questa, Rachele…».
«No, no, non è vero! Non ci credo che siamo finite qua, non ci credo che ti ho incontrata solo per doverti lasciare a qualcun altro. Sono io, Rebecca! Sono io, sono io quella giusta, sono io quella giusta! Ti prego, credimi!».
Rebecca scosse la testa con rassegnazione «Mi dispiace».
«Scegli me! Questa volta scegli me! Voglio amarti, lasciamelo fare! Lasciati amare o se non puoi allora aiutami ad uscirne, aiutami ad uscire da te, perché così mi fai male Rebecca, fai così tanto male…».
«Piccola» bisbigliò come se non ci fosse altra cosa più perfetta sulla sua bocca e si sentì morire quando lei ricominciò a piangere, perché in fondo l’aveva capito, l’aveva già capito che qualsiasi cosa avesse detto, non sarebbe bastata a farla rimanere. «Non sai quanto mi dispiace…non dovevamo arrivare a questo. Anche se non puoi credermi, mi sei mancata così tanto…Ma non posso darti quello che mi chiedi». Si staccò dolcemente da lei per poterla guardare negli occhi e le passò i pollici sulle guance per asciugarle le lacrime. «Non voglio vederti piangere, non voglio ricordarti in questo modo».
Rachele tirò su col naso e rimase immobile quando Rebecca le baciò la fronte, il naso, il mento. Trattenne il respiro quando avvicinò il viso al suo, le labbra alle sue, e le disse: «Chiudi gli occhi. Chiudi gli occhi per me». E Rachele obbedì, perché non poteva fare altro, o non voleva. Schiuse la bocca sentendo vicina la sua e quando la baciò si ricordò perché con nessun’altra sarebbe mai stata la stessa cosa, perché in fondo nessuna poteva avere il suo odore, il suo modo di fare, il suo modo di guardare, il suo modo di essere, così contorto e perverso, eppure bellissimo. Nessuna sarebbe stata lei e nessuna avrebbe mai avuto lo stesso gusto sulle labbra. Perché forse un po’ è vero che i baci d’addio hanno tutto un altro sapore.  
E intanto fuori continuava a piovere e dentro quella casa entrambe iniziavano ad odiare la pioggia. 

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Capitolo 17
*** Non affrettarti mai a fare qualche cosa che poi non potrai mai disfare. ***


Capitolo 17
 
Non affrettarti mai a fare qualche cosa che poi non potrai mai disfare.
Anonimo
 


Un anno. Era già passato un anno dall’ultima volta in cui l’aveva vista e ora che la osservava procedere verso di lei, per una frazione di secondo sembrò che nulla fosse cambiato. E invece era cambiato tutto e avrebbe voluto essere cambiata anche lei per non dover rimanere ferma lì davanti, in mezzo ad un marciapiede impolverato, a domandarsi se fosse o meno uno scherzo della sua mente. Perché anche quando ti sforzi di dimenticare una persona, ogni angolo, ogni profumo, ogni volto, ogni cosa sembrano volerti urlare che non ci stai riuscendo.
Fu come se il tempo si fosse improvvisamente fermato, mentre tutti gli altri studenti la sorpassavano veloci per non arrivare tardi in quell’ultimo giorno di lezioni, una mattinata di giugno troppo afosa.
La vide camminare nella sua direzione con visibile spensieratezza, circondata da un gruppo di persone che non conosceva, ma con cui rideva e rideva e rideva.
Ma l’altra non si era ancora accorta di lei. Prima girò il viso per sussurrare qualcosa all’orecchio di un ragazzo ben vestito, poi lo girò nuovamente per rispondere alla domanda di una donna. Rise ancora. Prima di attraversare la strada ne incrociò lo sguardo e sul suo viso si dipinse poco a poco la consapevolezza, quasi l’espressione di chi ha appena visto materializzarsi un fantasma. O, più semplicemente, un ricordo. Un ricordo ormai sepolto.
Strizzò gli occhi. Il sorriso le morì sulle labbra, la fronte si aggrottò e la camminata si fece meno decisa.
L’aveva riconosciuta. Sapeva che l’aveva riconosciuta. Ma non era abbastanza.
Osservò il ragazzo posarle una mano sulla spalla per raccontare un aneddoto, indicando con l’indice il plico di fogli che stava reggendo. A quel punto lei sembrò riscuotersi e tutto tornò come prima.
Le vennero incontro e la sorpassarono come un ostacolo, chi a destra, chi a sinistra.
Lei non la guardò, tenendo ostinatamente lo sguardo voltato in qualsiasi altra direzione.
«Rebecca…?» sussurrò appena Rachele quando l’altra le fu abbastanza vicina, ma la sua voce si perse nel vuoto.
Rebecca la superò senza rispondere, senza voltarsi, come se non volesse nemmeno rendersi conto della sua esistenza, o come se non le importasse, fingendo di non conoscerla. E appena l’ebbe sorpassata, continuando a ridere e a parlare con i suoi amici – neanche un indizio, nella sua voce, che potesse tradire stupore o imbarazzo -, Rachele sentì di nuovo il tempo tornare a scorrere normalmente.
Ma per realizzare quello che era successo le occorse altro tempo. Dopo una manciata di secondi mosse un passo dopo l’altro verso l’università, con addosso la consapevolezza che era davvero finita. Niente più possibilità, niente ripensamenti, niente speranze. La fine di tutto quello che le aveva unite in passato.
Solo il silenzio parlava di loro. 

Oppure no. 

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Capitolo 18
*** Quando vedi una buona mossa, aspetta. Cercane una migliore. ***


Capitolo 18
 
Quando vedi una buona mossa, aspetta.
Cercane una migliore.
Lasker

 


Forse furono i raggi di un sole freddo che filtravano attraverso le tapparelle, o il rumore del condizionatore che riscaldava la stanza, o ancora il respiro regolare della ragazza che le dormiva accanto. Qualunque fosse la ragione, si svegliò stiracchiandosi e scoprendosi dal piumone stropicciato. Guardò appena l’orologio che segnava già le dieci passate. Si girò su un fianco e allungò il braccio per cingere la vita della sua compagna, stringendola a sé dolcemente. L’altra si lasciò abbracciare, emettendo solo un lieve sospiro.
«Buongiorno» le sussurrò all’orecchio, scostandole i capelli scuri dal collo.
La ragazza schiuse appena gli occhi per guardarla e subito tornò a chiuderli, affondando il viso nel cuscino.
«Vuoi continuare a dormire?».
«Si» biascicò lei, la voce impastata.
«Ne sei sicura?» domandò ancora, mentre le insinuava una mano sotto la felpa, stringendole il seno.
L’altra si inarcò sotto il suo tocco. «Ora un po’ meno» ammise.
«Faremo tardi».
«Se continui così faremo tardi sicuramente» obiettò la ragazza. Girò il viso per cercarle la bocca con la bocca e quando l’ebbe trovata le catturò le labbra, inebriandosi del suo sapore.
«E’ per una buona causa» sorrise l’altra, accarezzandole il costato, la schiena, scendendo fino ai glutei e abbassandole gli slip. La sentì rabbrividire e se ne compiacque.
«Mi sei mancata così tanto…».
«Sono stata via solo tre giorni» provò ad obiettare.
La mora arricciò le labbra in un blando broncio che subito scivolò via. «E’ abbastanza» disse sollevandosi e mettendosi a cavalcioni sui suoi fianchi. Si chinò su di lei per baciarla ancora e ancora, esplorandole il collo e il seno con la punta della lingua, mentre la ragazza la teneva stretta in vita. Mosse il bacino contro il suo, strusciandosi su di lei, e non riuscì a trattenere il gemito che le uscì dalla bocca. Improvvisamente si sentì ribaltare e di nuovo si trovò sdraiata sul materasso, imprigionata sotto il corpo della donna. Una cascata di capelli chiari le coprì il viso.
«Serena» sussurrò il suo nome, stringendo le ginocchia intorno ai suoi fianchi «Serena, ti voglio…».
La bionda le abbassò i pantaloni, mordendole piano l’interno coscia. Le sollevò la felpa, scoprendole il ventre, lo stomaco, il solco tra i seni e baciando ogni centimetro del suo corpo come se da questo potesse trarne vita. Posò la fronte sulla sua pancia - una curva troppo pronunciata per una ragazza così minuta – e vi depose un bacio più delicato.
«Allora, piccolino?» domandò, le labbra piegate in un dolce sorriso «Ti sei comportato bene?».
La mora storse il naso. «Non molto. La notte si diverte a tirare calci».
Serena rise. «E’ dispettoso come la mamma».
«Io non sono dispettosa!» ribattè subito con fare indignato.
«A volte sì. E anche testarda, permalosa e un po’ egocentrica» la guardò divertita.
L’altra rimase in silenzio. «Molto bene» disse poi, con aria di sfida «Non vorrei dover aggiungere a questa lista anche la parola ritardataria, quindi…» si sottrasse alle sue carezze e chiuse le gambe, incrociando le braccia al petto.
«Oh, bimba…» la sbeffeggiò «Non ti conviene provocarmi».
«Perché no?».
«Perché sappiamo entrambe che non sai resistermi».
«O forse sei tu quella che non riesce a resistermi».
Serena si morse le labbra. La costrinse ad aprire la cosce quando si sdraiò sopra di lei e la ragazza la accolse senza opporre resistenza, abbracciandola e stringendola a sé. «Questa è una certezza, ormai» sussurrò, affondando il viso nel suo petto e riscoprendo il suo profumo.
La mora si inarcò sotto il suo corpo. Le prese una mano e la guidò su di sé. «Serena, ti prego» la implorò con voce calda «Toccami».
«Voglio sentirti venire, Ramona» sussurrò lei in risposta, muovendo le dita fra le sue gambe e sentendola pronta. «Vieni per me. Amo il modo in cui pronunci il mio nome…». Le baciò il collo, le guance, la bocca, le catturò le labbra e la sentì tendersi e fremere sotto di lei, in un modo che le era piacevolmente familiare.
«Adesso sì che è tardi» rise poi Ramona, accoccolandosi tra le sue braccia. Serena annuì, accarezzandole il viso e sfregando la punta del naso contro la sua. Si allungò per prendere il cellulare posato sul comodino e iniziò a digitare il messaggio.
 
Quando la sveglia suonò, con quella fastidiosa suoneria che ormai conosceva a memoria, lei era già sveglia da almeno un paio d’ore. In salotto, seduta alla sua scrivania, fra carte, appunti, libri, elenchi, il giornale di quel giorno – in verità già macchiato dal caffè che gli aveva involontariamente rovesciato sopra -, batteva freneticamente i tasti del portatile nella speranza di finire il progetto per tempo.
Il cammino acceso riscaldava l’ambiente tiepido e le volte in muratura, nell’aria aleggiava l’odore di un mattino troppo freddo e sul fuoco la caffettiera borbottava. Appeso al muro di fronte a lei, il quadro di Diana appena restaurato dava alla stanza un’atmosfera familiare. Rebecca non si era mai sentita tanto a casa come in quel luogo.
Aprì ancora una volta il prototipo della mostra, sfogliando le pagine senza in realtà vederle davvero.
«Oh…» sussurrò, prendendosi la testa tra le mani e maledicendo in silenzio il suo capo «Questo dovrà valermi come minimo un aumento. O la promozione».
Sussultò quando due braccia le circondarono il collo, le mani posate sulle sue spalle, ma subito una voce assonnata la tranquillizzò e al naso le giunse quel profumo che ormai sarebbe stata in grado di riconoscere tra mille.
«Scusami, non volevo spaventarti» le sussurrò all’orecchio Rachele, accennando un sorriso sul suo zigomo.
«No» ricambiò la sua stretta Rebecca, baciandole il polso «Scusami tu se ti ho svegliata così presto».
«Non importa».
«Questo lavoro mi manderà ai matti».
«Ce la farai, ne sono sicura. Nessuno si è impegnato quanto te».
«È che ci sono così tante cose da preparare…la mostra, il viaggio, la nuova squadra di periti. E lo sai, tutto dovrà essere perfetto: George mi tiene sotto stretta sorveglianza e non aspetta altro che io fallisca per prendere il mio posto» fece un lungo sospiro «Quel verme schifoso. Odio gli americani».
«Ma non era canadese?».
«Solo per metà. La metà sbagliata» sbottò.
Rachele le accarezzò la testa, tirandole indietro i capelli per baciarle la fronte. «Ti faccio il caffè».
«Sì, per favore» grugnì.
«Quanti ne hai già bevuti stamattina?» le chiese distrattamente, storcendo il naso e osservando vicino ai fornelli le tazzine lasciate sporche.
«Non abbastanza» allungò una mano per prendere il giornale e mostrarle la prima pagina «Metà me l’ha rubato lui».
«Un vero prepotente». La ragazza scosse la testa divertita. «Lo vuoi con un cioccolatino?».
«Oh, tu sì che mi capisci» sospirò, reclinando la testa «Ma mettimelo a parte».
Rachele aprì e chiuse il frigo. «Dopo tutti questi anni pensi davvero che non me lo ricordi che il caffè ti piace amaro?» le sorrise.
«Sbadata come sei? Meglio prevenire» la prese in giro «A che ora arrivano?».
«Mi ha scritto Serena, ha detto che ritarderanno di un’oretta. Per il traffico».
Rebecca alzò gli occhi al cielo. «Sì, il traffico» schioccò la lingua sul palato «Solo loro riescono a trovare traffico su una strada di campagna».
«Lasciale stare» versò il caffè in una tazzina pulita «Non avranno più molto tempo per stare insieme quando nascerà il pupo. Sono state carine ad accettare l’invito».
«Ramona ti adora».
«Anche tu mi adori» la guardò maliziosa, sedendosi sulla scrivania e allungandole il suo caffè.
«Ah, davvero?».
«Davvero».
«Non lo sapevo».
«Ah, no?».
«No» la guardò di sottecchi.
«Allora è un bene che ci sia io a ricordartelo, non credi?».
Rebecca le slacciò il nodo che teneva chiusa la vestaglia. Con le dita le tastò il fianco e attraverso la stoffa la ragazza ne percepì le dita fredde. «Quanto ego in una persona così…».
«Bella?» la interruppe, chinandosi su di lei per baciarle le labbra.
«Stavo per dire piccola, ma le tue conferme sono sempre le benvenute». La trasse a sé, toccandola sotto la camicia da notte, stringendole i glutei, mettendola a cavalcioni su di sè.
«Non dovevi lavorare?».
«Credo mi serva un po’ più di fantasia per andare avanti».
Rachele arcuò le sopracciglia. «Che fine ha fatto la mia stakanovista preferita?».
«E’ sotto stress. Pensi di poter fare qualcosa a riguardo?».
«Oh, sì. Ma è un peccato, mi manca il tempo» finse di allontanarla.
«Come?».
«Ho ancora il dolce da preparare».
«É al cioccolato?» le domandò.
«No» le diede un buffetto sulla guancia.
«Allora può aspettare» concluse, catturandole la bocca.

Ramona bevve un sorso della camomilla che Rachele si era premurata di portarle, posando poi la tazzina bianca sul piattino, accanto al cucchiaio e alle briciole di qualche biscotto divorato troppo in fretta.
Seduta accanto a lei, Serena si rigirava fra le dita una sigaretta, guardando fuori dalla finestra la neve che cadeva e che la stava trattenendo dall’alzarsi per andare in balcone a fumare. Mosse una mano sotto al tavolo, posando il palmo sul ginocchio della ragazza, com’era solita fare quando erano in macchina e non aveva bisogno di cambiare marcia. In risposta, Ramona roteò il bacino, attenta a non urtare con la pancia il bordo del tavolo, avvicinando le gambe alla sedia della sua fidanzata.
«E poi e poi?» chiese Ramona entusiasta, gli occhi scuri spalancati, se possibile ancora più rotondi e grandi, pieni di entusiasmo e di curiosità.
«Non è evidente?» la prese in giro la bionda.
L’altra le riservò una bonaria occhiataccia.
Rachele fece spallucce. «Bhe…» continuò imbarazzata, il rossore che dalle guance iniziava a colorarle tutto il viso e le orecchie.
Serena sorrise maliziosa, alzando gli occhi al cielo. «Guardatela come si emoziona…!».
Lele appallottolò velocemente il tovagliolo e glielo lanciò addosso, mancando di poco il bersaglio.
Una risata cristallina, chiara e sguaiata le riempì le orecchie. Rebecca si portò le braccia dietro la testa, stirandosi la schiena intorpidita. «Cosa vuoi farci?» domandò ironica «É l’effetto che le faccio».
«Non ti ci mettere pure tu!» la riprese l’altra, assestandole una sonora pacca sulla spalla.
«Dio, quanto sei manesca! Ahia, ahia!».
«Ben ti sta!».
«Piccola bulla che non sei altro».
Rachele le riservò la linguaccia più riuscita di tutto l’anno.
«Lele» ne richiamò l’attenzione Ramona «Ti prego, continua!».
Serena si passò una mano sul viso, riponendo la sigaretta dentro il pacchetto. «Sì Rachele, ti prego, continua. Dai a questa povera creatura la sua dose di romanticismo quotidiano, prima che mi costringa a riguardare Titanic per la tredicesima volta».
«In verità non c’è molto da dire…Insomma, lei…» si voltò a cercare con gli occhi Rebecca «É tornata indietro. È tornata da me».
«Oh…» si lasciò scappare Ramona, passando lo sguardo da una all’altra.
«Non è stata una cosa molto romantica, a dire il vero» storse il naso Revy.
«Mhmh no, decisamente no» rise la sua ragazza, ripensando a quel momento «Si è messa ad urlare in mezzo alla strada e mi ha fatta arrivare in ritardo all’appuntamento con il relatore».
«Lo credo bene» ribattè con veemenza «Fosse stato per te sarebbe finita così, senza dire e fare nulla».
«Ma se non mi hai neanche salutata! Te ne stavi lì, impalata, in mezzo ai tuoi amici, e mi sei passata di fianco come se non fossi mai esistita!».
«E cosa avrei dovuto fare? Aspettavo mi fermassi».
«Anche io aspettavo mi fermassi».
«Si, ma sono io quella che si è voltata per guardarti».
«Anche io mi sono voltata!».
«Allora abbiamo una coordinazione pessima».
«Se fosse stato facile non sarebbe stato divertente».
«E vi siete baciate?» le incalzò Ramona, guardandole come estasiata. Nulla sembrava intrigarla quanto i lieti fine.
«Baciate?» sbuffò Rebecca mentre Rachele scuoteva la testa a destra e a sinistra «Proprio no. Solo per riuscire ad abbracciarla ho rischiato di prendermi un pugno in faccia».
«Non puoi dire che la mia reazione fosse ingiustificata» incrociò le braccia al petto.
«Ingiustificata no, un po’ esagerata sì».
«Esagerata? Io esagerata?».
«Solo un po’» avvicinò il pollice e l’indice per rendere l’idea «Prima che mi dessi un’altra possibilità ho dovuto rincorrerti per mesi».
«Era il minimo che avresti dovuto aspettarti dopo un anno che non ti facevi sentire».
«A mia discolpa» mise le mani avanti «Posso dire di averti scritto una lettera dolcissima. Corta, ma dolcissima».
«Io non l’ho mai ricevuta».
«Prenditela con le poste, non con me, io l’ho spedita».
Ramona le osservò con un sorriso «Siete così carine. Io l’ho detto fin dall’inizio che eravate fatte per stare insieme. Si vedeva da come vi guardavate».
Serena le posò una mano sulla testa in una carezza leggera. «Mi chiedo se avresti detto la stessa cosa dopo tutte le litigate».
«E i pianti» convenì Rachele.
«E i “Vaffanculo» continuò Rebecca.
«E i “ti odio”».
Rebecca sussultò. «Non mi hai mai detto ti odio».
Rachele arricciò le labbra. «Ogni tanto l’ho pensato» ammise «Ma mai seriamente».
«Io l’ho pensato seriamente» si intromise Serena, lo sguardo rilassato.
«Grazie per la puntualizzazione».
La bionda fece spallucce «Ti ho solo tenuta d’occhio per un po’».
«Fatela finita voi due» le riprese Rachele «Mi avete fatto passare dei brutti quarti d’ora entrambe» guardò Ramona «Poi è bastato piazzarle davanti alla Motogp. Non so se ci rendiamo conto della gravità della situazione: Valentino Rossi è riuscito dove io ho fallito».
Serena e Rebecca si scambiarono un’occhiata d’intesa.
«Temo che la tua ragazza abbia appena pronunciato il nome di Dio invano».
«Che ci vuoi fare, non c’è stato verso di convertirla».
«Già, a chi lo dici» guardò Ramona da sotto le lunghe ciglia «Bisogna sempre fare a gara per il telecomando».
«Per questo noi abbiamo messo due televisori» disse Rachele.
«Anche se nessuno dei due è in camera da letto, dove dovrebbe stare».
«No» rispose categoricamente l’altra «Non ci sarà nessuna televisione in camera da letto, scordatelo».
«Tanto comandi sempre tu» guardò Serena «Perché comandano sempre loro?».
Rise. «Perché sono quelle che hanno la voce più acuta e noi non le vogliamo sentire urlare?».
«Mi sembra una risposta sensata».
Ramona scosse la testa. «Non potresti stare senza di me».
Serena si sporse per darle un bacio sulla guancia e accarezzarle la pancia. «Potrei, ma non voglio».
«Tutto è bene quel che finisce bene».
Lele sorrise «Tutto è bene quel che io mi sono impegnata a far andare bene».
«Esagerata!» la schernì Revy «Mi avevi già perdonata. È solo che non volevi ammetterlo».
Le fece l’occhiolino. «Mi amavi già, è solo che non volevi ammetterlo».
«Non l’ho ancora ammesso» precisò con aria di sfida.
«Poco importa, io lo so» le sussurrò, stampandole un bacio sulla tempia «E lo sai anche tu».

 

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