Pezzi di ricordi

di simocarre83
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La sveglia maledetta ***
Capitolo 2: *** Il compito dimenticato ***
Capitolo 3: *** Una promessa è una promessa ***
Capitolo 4: *** Il giorno più difficile di una vita ***
Capitolo 5: *** Inutile spiegarsi ***
Capitolo 6: *** Quando tutto è incominciato ***



Capitolo 1
*** La sveglia maledetta ***


LA SVEGLIA MALEDETTA

Si sa… il momento più difficile della giornata è quello del risveglio… se poi hai 16 anni quello diventa il momento più difficile di una vita intera.
Così, Giuseppe, il nostro sedicenne, quella mattina, fuori dalle coperte non voleva proprio uscire.
La sveglia era, come ogni mattina, stata programmata alle 0645. Anche se non riusciva a connettere, alle 0630 era già sveglio. Che poi… “sveglio” era una parola grossa! Diciamo che il senso del tatto si riduceva a quella sensazione di bagnato che sentiva sul labbro inferiore, causata dalla saliva che stava quasi inondando il cuscino. La vista era, per un novanta per cento, coperta dal proprio cuscino. E il buio della stanza a quell’ora, verso la fine dell’autunno, gli metteva addosso un sonno incredibile.
Quasi piangeva.
“Ma porca trota! Ma è mai possibile che mi sveglio sempre prima della sveglia?!”
Questo era il suo pensiero e la sua tortura. Il problema era che anche se fisicamente era ancora nel mondo dei sogni, mentalmente si era già svegliato e il cervello funzionava a dovere. Anche se ancora per poco. Lentamente si riassopì. Era bello starsene lì, sdraiato, con il lenzuolo ed il piumino che lasciava fuori solo i capelli e l’occhio sinistro (Soprattutto quando la sera prima, complice l’assenza dei genitori, era rimasto a giocare ai videogame fino alle 2 e mezza), Mentre un caldo tepore lo faceva lentamente addormentare di nuo…
“Ariete: Oggi giornata fantastica per voi!!!”
Contrasse contemporaneamente tutti i muscoli del corpo, nel preciso istante in cui la radio cominciò a funzionare facendogli da sveglia. Il problema era che a quel volume avrebbe potuto svegliare tranquillamente anche Andrea, il suo migliore amico e compagno di classe, che abitava mezzo kilometro più in là.
“Andrea!” ripeté Giuseppe tra sé e sé “Se ti becco un’altra volta ad alzarmi il volume della sveglia ad un livello sovrumano ti uccido!” urlò con la mente Giuseppe, mentre riconosceva nel suo migliore amico l’attentatore alla sua salute fisica e mentale che il giorno prima aveva, neanche accidentalmente, dato mezzo giro alla rotellina del volume della sua radiosveglia, causandogli palpitazioni ed un innalzamento della pressione che ancora non passava, anche adesso che, 10 secondi dopo aver “schiacciato a canestro” il pulsante per rimandare la sveglia, era tornato nella stessa e identica posizione di prima.
Il problema era che aveva rimandato la sveglia di 15 minuti, ma non aveva abbassato il volume.
Mo’, senza che vi sto a riscrivere tutto, la STESSA E IDENTICA SCENA si ripeté alle 0700.
Alle 0714, i suoi muscoli si contrassero contemporaneamente di nuovo, tutti quanti. Questa volta era perché gli sovvenne il dubbio che non avesse staccato la sveglia.
Strano il nostro ragazzo?? Beh! Vorrei vedere voi!
Comunque si alzò, e come ogni volta da quasi tre anni a quella parte si diresse verso il bagno. Barcollando mentre si grattava la schiena. Non fece in tempo ad arrivare alla porta che scattarono le 0715. E… indovinate? Esatto!!
Questa volta fece un placcaggio rugbistico, e risolse definitivamente il problema.
“Noo! È tardi!” urlò il nostro, come se non avesse neanche spento la sveglia.
Aveva il pullman alle 0745 (gli era sempre piaciuto usare la “nomenclatura simil-militare” degli orari… e ora che era solo in casa perché i suoi genitori erano via tre giorni da suo zio in Francia, poteva permettersi anche di urlare).
Però doveva ancora lavarsi, farsi la barba, vestirsi, fare colazione e uscire, percorrendo quel centinaio di metri che lo separavano dalla fermata del pullman.
0717 era in doccia.
0720 era fuori dalla doccia (!!)
0721 era di nuovo in doccia, perché preso dal sonno si era insaponato ma non si era sciacquato.
0722 era, per la seconda volta, fuori dalla doccia (!!!!)
0730 aveva chiuso tutti i tagli causati dalla rasatura affrettata e alquanto imprecisa.
0735 aveva bruciato il latte.
0737 aveva urlato parolacce in turco per essersi scottato tutta la bocca con il latte.
0740 aveva finito di preparare lo zaino mettendo la roba del giovedì.
0742 quasi uscito di casa si ricordò che, essendo giovedì aveva anche educazione fisica, quindi ritornò in casa a prendere il cambio.
*scusate ma a questo punto diventa necessario inserire anche i secondi*
0742 30s Esce di casa, cadendo pietosamente dalle scale.
0743 12s Esce dal cancelletto, si volta e vede che la porta di casa è rimasta aperta (questa volta le parolacce sono in svedese)
0743 55s Esce dal cancelletto, e appena chiuso, si ricorda di essersi dimenticato il cellulare in casa.
0744 00s In corsa si accorge di una figura strana al di là della strada. È il suo vicino di casa, milanese di 70 anni, che gli dice, in milanese, qualcosa che tanto non capisce. Gli pare solo di sentire “scuola” e “drogato” ma era anche coperto dal continuo abbaiare di quel suo cane che, da quando era piccolo, voleva solo rincorrerlo per morderlo, pensava lui.
0744 30s era alla fermata del pullman. In tempo. Anzi in anticipo.
“Quasi quasi vado a prendermi una brioche al bar” pensò, riferendosi a quello dall’altro lato della strada, proprio di fronte alla fermata. Prima che un aura di sconcerto e orrore attanagliasse il suo animo per quello che vide.
La saracinesca del bar era abbassata. Il bar chiuso. E lì, finalmente, per la prima volta ebbe un sussulto. Un piccolo, impercettibile dubbio. Gli venne mal di testa (tutto suo padre).
Attraversò la strada e si avvicinò al negozio perché riconobbe il cartellino esposto sulla saracinesca. Era il solito che si mette quando un negozio è chiuso per ferie. Ed effettivamente c’era scritto “Chiusi per ferie! Riapriamo lunedì 11 dicembre”
Sentì il cricetino ritornare sulla rotella e cominciare a correre, mentre poteva quasi sentire nella sua testa la rotella che girava.
“Dunque lunedì 11 dicembre… oggi è giovedì, quindi lunedì 11, domenica 10, sabato… sabato 9, venerdì 10… no venerdì 8… giovedì… eh! se domani è l’8, oggi è il 7 dicembre. NUOOOOO!!!!!!!” e stavolta l’urlo lo sentì anche il vecchietto con il cane ad un centinaio di metri di distanza, mentre un sorriso a 5 denti (comunque) gli uscì dalla bocca, soddisfatto per aver insegnato qualcosa al ragazzino.
Prese la strada di casa a tutta velocità. Il dubbio stava sempre di più facendosi spazio nel suo cervello.
Soprattutto quella frase, pronunciata dal vecchietto, ora acquistava vero significato nella sua mente. Conoscendolo, quell’uomo gli avrà detto, con lo spiccato accento milanese che lo caratterizzava “Oggi la scuola è chiusa… drogato!!”.
Eh Si!! Quel giorno la scuola era proprio chiusa. Era festa. “Da più di cinquecento anni, a Milano il 7 Dicembre è festa” pensò.
Aprì il cancelletto, entrò in casa e in camera. Controllò, come sarebbe stato giusto fare almeno un’ora prima, il suo calendario, per ottenere la conferma che la sua vita era stata inutile, almeno per quell’ultima ora.
E qui, le parolacce si sprecarono in un idioma sconosciuto a tutti gli esseri umani, salvo forse qualche indios del sud America.
“Andrea, sicuramente, lo sapeva!” ripensò, mentre già pregustava la vendetta che, tremenda, si sarebbe da li a poco abbattuta sul suo migliore amico e compagno di classe.

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NdA: Buongiorno a tutti! Spero che leggere questo capitolo possa avervi divertito quanto ha divertito me scriverlo! Se così fosse, fatemelo sapere! E fatemi sapere anche qualora le cose non stiano così! :)
Buona giornata!

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Capitolo 2
*** Il compito dimenticato ***


IL COMPITO DIMENTICATO

Si sa… il giorno più difficile dell’anno, spesso incomincia nel modo più normale: con una bellissima giornata. Simone si era alzato, tranquillo e felice. Medie riposte in cassaforte, maturità sempre più vicina, tesina e progetto di impianti già finiti e, almeno per il progetto, perfettamente funzionante.
Mentre si incamminava verso la scuola, posta a quei quindici minuti a piedi, iniziava già a sudare, in quel giorno di fine maggio. Con Alessandro si era messo d’accordo che si sarebbero visti agli spazi per bere il caffè insieme prima di entrare.
Alle otto meno cinque, come Pierino, prima di incontrare il lupo, saltellando beato, entrò in quel grande atrio, che collegava gli ingressi delle tre scuole dell’istituto omnicomprensivo dove aveva passato quasi completamente quegli ultimi 5 anni.
A parte le cuffie antirumore, obbligatorie in quel marasma di più di mille studenti, la mascherina per chi, come Simone, era allergico a cannabis e derivati, ed una mazza chiodata nel momento in cui qualche bullo si fosse avvicinato troppo (almeno negli anni precedenti), Simone aveva lo zaino quasi vuoto: penna, diario, quaderno multidisciplinare, libro di matematica perché non aveva fatto i compiti e li avrebbe recuperati all’intervallo tra la seconda e la terza ora, tanto erano equazioni differenziali semplici e non ci voleva molto per farle.
Vide Alessandro in fondo, vicino alla porta del bar che lo aspettava. Guardandolo. Osservandolo, da lontano, come se avesse un problema. Si! Alessandro aveva un problema!
“Vabbè!” pensò “nulla che non si possa risolvere fermandoci un pomeriggio a scuola a studiare insieme, disse!” e, allegramente, si avvicinò al suo compagno.
“Ciao Ale!” disse.
“Ti odio!” rispose costui.
“P-Perché?” chiese Simone, stavolta curioso di sapere come sarebbe andata a finire. Si rese conto che Alessandro lo stava prendendo in giro, quindi, mentre si avvicinavano al bar, Simone volle stare al gioco.
“Come fai ad essere così tranquillo!?” chiese.
“Come ‘tranquillo’… perché ?”
“Come “perché”?” aggiunse “con quello che c’è oggi tu sei così tranquillo e beato!”
In quel momento, chiunque avesse visto Simone, a parte Alessandro, l’avrebbe scambiato per il buon caro vecchio “Neo” di “Matrix”, quando si faceva installare nel cervello le istruzioni per l’utilizzo delle armi. Dico “a parte Alessandro” perché lui lo conosceva e sapeva che faceva così quando ripassava mentalmente qualcosa.
Avete presente quei talent-show, in cui un ragazzo assiste impaziente al giudizio (“Continui” di colore verde o “Eliminato” di colore rosso, che risaltano su un maxischermo installato nello studio televisivo) per sapere se può continuare a rimanere nella scuola o se deve andarsene? Ecco, Simone in quel momento si sentiva come se fosse lo studente ballerino (anche se lui in calzamaglia stava malissimo) nella scuola e stesse per liberarsi nella sua mente l’assoluzione o la condanna.
Lo schermo diventò rosso e la condanna fu una sola: TDP.
Ora, per quella mia decina di lettori che non lo sapessero, TDP è un acronimo che sta per “Tecnologia, Disegno e Progettazione elettrica”, una delle materie del triennio di specializzazione di Elettrotecnica nell’Istituto Tecnico Industriale, La scuola che faceva Simone.
Nel frattempo, all’allegra compagnia si erano aggiunti anche “Carlo”, “Giangi”, “Marte” e “Labarbara”, suoi altri compagni di classe.
E fu proprio in quel momento che Simone realizzò. O meglio, in quel momento, un Alessandro più che preoccupato di vedere Simone in quella condizione, svelò il mistero, coinvolgendo, contemporaneamente, anche gli altri compagni appena arrivati.
“C’è il compito in classe di TDP, sui trasformatori! Ti ricordi che l’ha detto settimana scorsa!?”
Simone sbiancò.
In quel momento sembrò quasi che tutto l’istituto si stesse fermando. Passarono venti secondi durante i quali, qualcuno avrebbe potuto giurare di vedere rotoli di paglia volteggiare nella corrente creata dalle porte aperte ai due lati dell’atrio in cui si trovavano quei ragazzi.
Accadde tutto in pochi, altri, secondi: Simone ricominciò a muovere gli occhi (che fu decisamente un passo avanti rispetto a poco prima, quando sembrava colpito da una paralisi totale), la gente a parlare, i ragazzini di prima a rincorrersi, le canne a passarsi… insomma, il mondo a funzionare.
“M-ma… n-no-non lo s-sapevo i-i-i-io…” disse, pensando, oltretutto, a quanto assomigliasse a Michele in quel momento.
“Come?! L’ha detto settimana scorsa! Abbiamo tutta la teoria e gli esercizi sui trasformatori!” infierì Ferro.
“Ma io non sono pronto!” continuò Simone.
“Eh! Ma il Prof si!!”.
“NUOOOOOOOOOOO!!!!!!!” urlò Simone.
In quel momento quell’impercettibile susseguirsi di ragionamenti logici che nella sua testa l’aveva già aiutato, anche in situazioni parecchio più difficili, obiettivamente, fece il suo dovere.
Ora, c’è da dire che Simone non era proprio uno scapestrato a scuola: andava bene, molto bene, ma soprattutto era serio, forse anche troppo. Il ragionamento, però, non tardò a prendere una strada; una strada imprevista per lui; una strada imprevista soprattutto per lui.
La faccia di tutti gli altri avreste dovuto vederla: semplice stupore, quando videro Simone girare i tacchi e prendere quella strada che, inevitabilmente, portava verso l’uscita.
“Ma cosa…!” fu l’unica affermazione che Alessandro fu in grado di dire. Poi venne bloccato da Simone, che si fermò, girandosi, contemporaneamente, dalla loro parte.
“ ’Scoltate! Voi fate quello che volete! Io me la zompo! Non so neanche cos’è un trasformatore, è l’ultimo compito in classe dell’anno, ho la media dell’otto, non ci penso proprio a rovinarmela! Io vi saluto!” disse un Simone che intanto si era nuovamente girato e aveva ricominciato a correre verso l’uscita. Camminando a testa alta dritto davanti a sé. Fece solo un cenno a due gemelli, più piccoli di lui di due anni, che lo guardavano interdetti: si chiamavano Vito e Nicola, ma questa è un’altra storia.
Come è ovvio, partito lui, tra i suoi compagni si diffuse il panico.
Simone tornò a casa. rispose per ben due volte alle domande sul suo ritorno affrettato (prima dalla moglie di suo padre, poi da suo padre stesso). Domande alle quali rispose esattamente come aveva fatto ai suoi compagni.
Simone quel giorno capì una cosa: se si viene a scuola, conviene entrare. Altrimenti conviene rimanere a casa o andare da tutt’altra parte. Il motivo? Vedendo quella sua reazione, e una volta diffuso il panico tra i suoi compagni, quel giorno NESSUNO si presentò a scuola. Il Prof spostò il compito di due giorni, e fece comunque una strage.
In compenso Simone si salvò: al compito di due giorni dopo prese 8½ e salvò la media.
Quello fu l’unico giorno di bigiata di Simone: l’unico in cinque anni di scuola superiore. Ma non se lo dimenticò più. 


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NdA: Buongiorno! Eccovi di nuovo qui...! siete stati in molti a leggere lo scorso capitolo e spero che anche questo possa strapparvi un sorriso (per altro, questo è l'unico pezzo assolutamente autobiografico .... :) ) Grazie anticipatamente per avermi fatto sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 3
*** Una promessa è una promessa ***


UNA PROMESSA E’ UNA PROMESSA

Giuseppe si svegliò quel giorno con sempre meno voglia di andare a scuola. Era l’inizio di marzo e a Policoro in quel periodo faceva già abbastanza caldo per avere voglia di andare a scuola. Inoltre a 16 anni cosa si può pretendere?
Per quell’ultimo anno a scuola ci andò con Michele. Essendo più grande di lui di due anni da lì a tre mesi avrebbe sostenuto l’esame di maturità e poi chissà. A lui, invece, rimanevano ancora poco più di due anni in quel liceo scientifico. Comunque quel giorno, via sms, Michele l’aveva avvisato di stare poco bene. Ed effettivamente, soffrendo di diverse allergie, poteva succedere.
La strada da casa sua a scuola era comunque solo una passeggiata di cinque minuti, quindi in poco tempo arrivò a destinazione. I suoi compagni erano tutti presenti. Tutti tranne Angelo. Se lo ricordava ancora ma rappresentava solo un piccolo ricordo nella sua mente da adolescente. Insomma, aveva altro a cui pensare, e lo faceva con vero piacere.
Arrivò in classe e alla fine della terza ora si dedicò con piacere all’intervallo. L’ultima ora aveva il compito in classe di inglese, poi si sarebbe dovuto fermare a scuola con dei suoi compagni per studiare matematica, almeno per aiutarli, per il compito in classe della settimana seguente. Stava scoprendo che, in parte grazie alla passione profusa da Simone, quella materia, in fondo, gli piaceva e provava piacere anche nello spiegarla ad altri.
Finì il compito in classe due minuti dopo tutti gli altri. La professoressa, pazientemente, attese. Stavano raccogliendo le autorizzazioni per partecipare alla gita del mese seguente, organizzata da quella stessa professoressa, ed era stata lei a fargli perdere un po’ di tempo mandandolo in segreteria a consegnarle tutte, di lui si fidava parecchio, quindi quei due minuti in più se li era meritati.
Finito il compito erano già usciti tutti. La professoressa prese il compito e corse via, lasciando Giuseppe da solo in classe. Tempo di riporre nello zaino tutte le cose e uscì anche lui. Il corridoio era deserto. Nessuno in giro, i compagni con cui si sarebbe dovuto fermare sicuramente l’aspettavano già al bar della scuola per mangiare un panino e poi tornare in classe perché dalle 14 alle 16 avevano il permesso di rimanere nella scuola. Decise di prendersela con calma, essendo solo l’una e un quarto.
Arrivato al termine di un corridoio doveva solo girare a destra e, superato un piccolo atrio, arrivare, mediante un corridoio lungo quanto quello che aveva percorso, all’atrio successivo dove si trovava il bar ed un po’ di vita.
-È incredibile- pensò -come durante la mattina questi corridoi siano pieni di gente e cinque minuti dopo il suono dell’ultima campanella si svuotino completamente-
Capì immediatamente dopo che stava sbagliando ad usare termini assoluti come “completamente” perché, poco prima di arrivare all’incrocio dei corridoi, sentì un bisbiglio provenire da poco lontano.
Un istinto che aveva imparato a coltivare nell’ultimo paio d’anni, gli disse che era il caso di stare attento, molto attento. Immediatamente si fermò.
Bisbiglio -> Strano.
Strano -> Pericoloso.
Bisbiglio -> Pericoloso.
Questo fu il ragionamento che fece in pochi millesimi di secondo. Solo allora si concentrò un po’ di più. E sentì.
“Se non mi dai il portafoglio e le scarpe le prendi!” furono le uniche parole che riuscì a distinguere. E che gli diedero ragione.
Si buttò immediatamente contro il muro. E sporse un attimo la testa oltre lo spigolo. Li vide.
Uno, la vittima, era piccolo. Avrà avuto 11 anni, sicuro era delle scuole medie che c’erano al piano di sopra. Un ragazzino normalissimo. Un fisico normalissimo. Un paio di occhiali, dietro i quali si scorgevano occhi infiammati di lacrime. Bocca chiusa, contratta, probabilmente dalla paura. Un maglioncino di cotone e un paio di jeans. Tremava come una foglia, questo lo vide bene. Aveva una guancia decisamente più arrossata dell’altra.
L’altro, 14, forse 15 anni. Lo conosceva perché lo vedeva sempre nei corridoi della scuola, con altri due suoi compagni di classe, che usciva dalla seconda della sua stessa sezione. Quindi l’età doveva essere quella. Era vero che si era sbagliato un’altra volta, ma non poteva essere la stessa cosa. Aveva solo un accenno di peluria sotto il naso e un po’ più in giù delle basette. Per il resto il viso ed il fisico, anche nel suo caso, erano ben curati. Aveva una maglietta a maniche corte e anche lui un paio di jeans. Si era posizionato davanti all’altro con le braccia all’altezza delle spalle di quest’ultimo e gli aveva bloccato le vie di fuga laterali, costringendolo con le spalle al muro, senza vie d’uscita.
Era indubbiamente più forte del piccoletto. Mentre lo guardava, pur volgendogli le spalle, il ragazzo aveva voltato un pochettino il viso, permettendogli di osservarlo. Aveva notato così il particolare dei “baffetti” e qualcos’altro: un sorriso, velato ed arrogante, che gli incurvava le labbra.
“Mi diverti troppo! Aspettiamo un altro po’ o ti muovi a levarti le scarpe e a darmele, prima che te ne dia un altro?!” chiese, a metà fra il serio e lo scherzoso. Solo che quello, evidentemente, non era uno scherzo. Proprio per niente.
Giuseppe ritrasse la testa, lasciando contemporaneamente lo zaino per terra.
-È solo! È più piccolo di me! È un bullo!-
Furono le uniche tre frasi che pensò in quel momento, inspirando profondamente quanto silenziosamente.
Era incredibile, come, dopo quell’estate, quelle cose gli mettessero addosso una voglia sovrumana di fare a botte.
Paradossalmente, solo l’ultima frase era riferita al più grande dei due. Le prime due erano per il piccolo. Vedere quella persona che, innocente, soffriva come una preda messa all’angolo dal predatore, o da qualcuno che si credeva tale, gli procurava fastidio, orrore, paura e molta, molta rabbia.
 
---o---

Il ragazzino si chinò. Capì che non aveva altra scelta. La scusa l’avrebbe inventata dopo, avrebbe detto che gliele avevano rubate mentre facevano ginnastica, tanto aveva il cambio perché avevano fatto realmente educazione fisica. Si sarebbe preso una sgridata da parte di suo padre, ma sarebbe finito tutto lì. Il momento peggiore era quello, ed era quasi passato; il momento in cui devi riconoscere la tua debolezza contro una persona inevitabilmente più forte di te, il momento in cui, come era già successo ad altri suoi compagni di scuola, un bullo, come lo chiamavano gli adulti, ti costringe con la forza a fare una cosa che tu non vuoi. E a lui andava ancora ancora bene, perché da suo cugino, più grande di tre anni, aveva sentito cose ancora peggiori combinate da una banda di bulli.
Lentamente slacciò e si sfilò una scarpa. Poi l’altra. Si alzò in piedi buttando le scarpe ad un metro circa di distanza.
“Ed ora il portafoglio!” disse l’altro.
“Ti prego, non farlo!” implorò il ragazzino, piangendo e sperando di impietosirlo. Ma non poteva. Lo capì. Capì che era all’angolo e non poteva scappare. L’altro mosse un filo la gamba destra fino a toccare la parete e bloccargli quella via anche ora che alzava il braccio.
Lo schiaffo lo sentì quasi prima di vederlo.
Scoppiò ancora a piangere, ancora più forte, ma sempre silenziosamente. L’altro alzò di nuovo il braccio, pronto a colpirlo ancora.
Chiuse gli occhi.
 
---o---

Vedeva che quel moccioso stava portando la mano alla tasca posteriore dei jeans per prendere il portafogli. Che conteneva al massimo 5 Euro. Ma l’umiliazione che gli stava facendo subire e quel divertimento non avevano prezzo.
Quindi, dopo avergli assestato uno schiaffo gliene avrebbe dato volentieri un altro. E poi chissà, forse per divertirsi un po’ gli avrebbe rubato qualcos’altro. Alzò nuovamente la mano per colpirlo.
Fu in quel preciso istante che sentì al polso della mano destra un’altra mano. Lo prendeva, lo stringeva e lo muoveva, contro ogni resistenza, dietro la sua schiena. Per come glielo muoveva doveva essere più forte e più grande di lui. Cercò di divincolarsi, ma si rese conto che muoversi significava rischiare sempre più di farsi seriamente male alla spalla destra, vista la posizione innaturale del braccio. In quel momento vide qualcosa come uno zaino calargli sulla testa e togliergli ogni possibilità di vedere chi gli stava facendo quelle cose. E lì ebbe paura.
Poi, immediatamente dopo, uno sgambetto e fu a terra. L’altro con una gamba gli bloccò le sue, e con l’altra mano gli prese la mano sinistra, portando anch’essa dietro la schiena. Poi sentì che si avvicinava alla sua testa.
“Tu non mi hai visto, ma il mio amico si. Ed io ti conosco. Tra qualche secondo ti lascio andare e me ne vado. A quel punto ti leverai questo zaino dal volto. Consegnerai volontariamente il tuo portafoglio e lo zaino a questo studente della scuola e lo accompagnerai al bar a prendersi qualcosa. Lui si prenderà con i tuoi soldi tutto quello che vuole, poi uscirete dal bar e lì ti restituirà il portafoglio e ti vedrà allontanarti dal bar e tornartene a casa. Poi verrà a restituirmi lo zaino. Io sarò per tutto il tempo al bar e se il ragazzino non sarà sorridente per tutto questo tempo, sappi che so dove abiti e continuiamo il discorso. Adesso chiedigli scusa e confermagli che sei un perdente”
Esitò un secondo, ma quando sentì le mani che gli stringevano i polsi girarsi un altro po’, provocandogli un consistente dolore, si sbrigò a chiedergli scusa e dirgli di essere un perdente e un deficiente. Quello lo aggiunse lui.
Pochi secondi dopo sentì quella presenza scomparire.
 
---o---

Giuseppe si sedette da solo ad un tavolino del bar. Neanche trenta secondi dopo vide, e non fu l’unico, la stranissima scena di uno studente del liceo che offriva un gelato ad uno studente di prima media, che aveva lo zaino, la sacca con il cambio di educazione fisica e, da qualche secondo, anche uno zaino vuoto.
Questi uscirono e un minuto dopo vide il ragazzino più piccolo che lo raggiunse e gli riconsegnò lo zaino sedendosi al suo stesso tavolo. Era molto più sereno di prima.
“Come è andata?!” chiese Giuseppe.
“Bene! Ha provato a chiedermi se ti conoscevo ma gli ho detto che comunque non gli avrei detto come ti chiami!” rispose il ragazzino.
Passarono una decina di secondi di silenzio tra i due. Poi fu sempre il ragazzino a continuare.
“Grazie! Non so da dove sei sbucato, ma mi hai salvato!” disse, cercando, faticosamente, di sorridere.
“Non devi ringraziarmi! Sono passato di là per caso!” rispose Giuseppe.
“Ma perché mi hai aiutato? Tutte le persone alle quali è successa una cosa simile, e ne conosco parecchie, hanno detto che anche se era passato qualcuno lì vicino nessuno l’aveva aiutato”.
“Perché so cosa si prova a essere nella tua situazione. E quando mi è successo l’ultima volta, durante una lunga notte di quasi due anni fa, ho giurato a me stesso e su me stesso, che non avrei mai più permesso che accadesse una cosa simile. Anche se fosse stato più forte di me, avrei chiamato aiuto, ma non ti avrei mai lasciato da solo!”
Il ragazzino lo osservò. Correndo via dal bar dopo avergli detto solo una cosa.
“Grazie”

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Buongiorno a tutti! con queste settimane lavorative "corte", sono molte di più le cose che ho da fare e diventa sempre più difficile regolarizzare la pubblicazione... ma ci proviamo! alla prossima!!

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Capitolo 4
*** Il giorno più difficile di una vita ***


IL GIORNO PIU’ DIFFICILE DI UNA VITA

L’unica cosa che riusciva a fare era guardare fisso sua sorella, che guardava fissa il pavimento.
Continuava a ripetersi una canzone, una delle canzoni preferite di sua mamma, che diceva:
“Niente paura,
niente paura,
niente paura
ci pensa la vita
mi han detto così”
La zia li aveva appena accompagnati a casa, ed era ritornata in ospedale per cercare di gestire le cose. E così erano rimasti da soli in quella casa.
La cosa che in quel momento gli sembrava strana era come la zia li avesse lasciati lì con la televisione accesa, dicendogli di non aprire agli sconosciuti. Aveva 13 anni, cavolo, quasi 14, e quella lì si permetteva di dirgli ancora stupidaggini simili.
Si alzò dalla sedia. Decise di andarsene in camera. Aprì la porta. Per la prima volta si accorse del cigolio che faceva. In realtà lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Se lo ricordava tutte le notti, quando magari si alzava per andare in bagno ed apriva quella porta. E tutte le notti se lo ricordava solo dopo averlo il cigolio, mai prima. Ad ogni modo, da sei mesi a quella notte, nessuno dormiva; quindi non disturbava nessuno.
Mosse la porta un paio di volte, per cercare di silenziare quel cigolio, ma senza risultati. Allora si ricordò di avere sonno. Entrò e chiuse la porta dietro di se. Si levò le scarpe, sportive, facendo leva con un piede per liberare l’altro. Lo faceva sempre e per un attimo si sentì in colpa perché sua mamma lo sgridava sempre per quello. Gliel’aveva detto un sacco di volte che in quel modo le scarpe si rovinavano. Si guardò intorno aspettandosi di vederla sbucare fuori da un momento all’altro con il suo sguardo corrucciato ma sempre sorridente.
In quel momento un brivido partì dal collo ed arrivò alla parte bassa della schiena. Si sarebbe dovuto ricordare qualcosa, pensò, ma non era il caso di pensarci in quel momento.
Si sdraiò su quel letto, che aveva da un paio di anni. E gli venne in mente un'altra cosa. Si ricordò di quando sua sorella era più piccola e giocava con le bambole. Si ricordò di quelle bambole che da sdraiate avevano gli occhi chiusi, e in piedi un contrappeso gli apriva gli occhi.
Ecco, nel suo caso era esattamente il contrario. Da seduto avrebbe probabilmente chiuso gli occhi addormentandosi in dieci secondi. Ora che era sdraiato, invece, gli occhi erano sbarrati, aperti, fermi, immobili a guardare il soffitto sopra di sé.
Decise di rialzarsi. Erano le quattro del pomeriggio ed era sveglio da 14 ore. Erano le due del mattino quando suo padre l’aveva svegliato dicendo che dovevano correre via immediatamente. Quindi era normale avere sonno. Più anormale era che gli passasse immediatamente sdraiato.
Si alzò e si avvicinò alla sua scrivania. Mosse leggermente il mouse, solo per attivare lo schermo. E quello fu l’errore. Perché, una volta riattivato, comparve l’immagine di sfondo.
Era l’ultimo giorno delle scuole elementari e lui, sua mamma e sua sorella, erano stati fotografati sul balcone della sua camera. Erano appena tornati a casa da scuola, e sua mamma gli aveva detto che quello doveva essere un giorno speciale, un momento del quale ricordarsi. E avevano deciso di fare la foto.
Il sorriso di sua mamma era lo stesso di sempre. Tutte le volte che guardava quella foto sorrideva, quel sorriso ritratto lo metteva sempre di buon umore. Anche negli ultimi sei mesi, qualche volta, anche se doveva usare quel tempo che aveva a disposizione per studiare, si fermava a guardare quella foto. E sorrideva. Immaginava di essere un passante che osservava, dal livello della strada, quello che stava succedendo e si divertiva a vederli da lontano.
Quel sorriso in quel momento non gli faceva alcun effetto. Chiuse gli occhi. Vide comparire dal buio quello stesso volto, questa volta con gli occhi chiuse e le labbra immobili, inanimate. Si spaventò e riaprì gli occhi. Fu in quel momento che capì.
Capì il brivido.
Capì l’insonnia.
Capì l’allucinazione.
Solo in quel momento realizzò. Realizzò che LEI non c’era più.
Realizzò che nessuno l’avrebbe più svegliato la mattina per urlargli dietro di muoversi, altrimenti avrebbe fatto tardi a scuola.
Nessuno l’avrebbe più accolto a pranzo alle due chiedendogli come era andata la giornata.
Nessuno l’avrebbe chiamato alle 5 del pomeriggio per fare merenda, poco prima di accompagnarlo in piscina.
Nessuno l’avrebbe mai più rincorso per tutta la casa urlandogli dietro di riordinare la sua camera.
Nessuno gli avrebbe più cucinato la pizza, o almeno nessuno avrebbe potuto più farlo come solo lei sapeva farla.
Lei non l’avrebbe più consolato per quello che gli succedeva a scuola.
Lei non sarebbe più andata a vedere le sue gare di nuoto.
Lei non sarebbe più entrata ogni tre ore in camera sua a misurargli la febbre quando ce l’aveva.
Tutto quel peso gli cadde addosso in quell’istante.
I sei mesi, la sua malattia, le notti ad accudirla, le giornate assonnate a scuola, tutte quelle cose gli si presentarono, tutte insieme, addosso, in quel momento. E quel peso non lo sopportò. Cadde a terra, piangendo disperatamente.
Aveva perso la cosa che più di ogni altra lo faceva stare al mondo. Nulla, più nulla valeva la pena di vivere.
Lì e allora aveva realizzato di aver perso sua mamma. E che nulla, da quel momento in poi, l’avrebbe riportata indietro.
Quello, contrariamente a pochi secondi prima, lo fece riempire di sentimenti contrastanti: debolezza e rabbia, dolore e insensibilità.
Era quella la morte? L’assenza di vita, la fine di tutto? Due persone, una che muore e l’altra che soffre? Ma questo gli faceva paura. Paura e rabbia allo stesso tempo. Rabbia perché stava accadendo a lui e paura anche della sua stessa rabbia.
Quello significava crescere? Pensava che crescere significasse diventare più alto, più forte, doversi radere. Pensava che avrebbe dimostrato di essere cresciuto il giorno della maturità, o quello in cui avrebbe fatto a botte per difendere uno più debole, o la prima vera esperienza con una ragazza. QUELLO significava crescere. Non accorgersi che, aldilà delle relazioni famigliari, oltre a quei pochi amici che aveva, adesso era SOLO. Quello non significava crescere, voleva dire semplicemente rimpiangere di non essere al posto di sua mamma. E questo pensiero lo spaventò ancora di più. E gli fece ancora più rabbia.
Si arrabbiò perché capì che quello che gli era successo quel giorno era crudele, era brutto, era triste ma, più di ogni altra cosa, era ingiusto.
E l’ingiustizia non riusciva proprio ad accettarla. Scattò in piedi in preda ad una crisi di rabbia. Disfò libreria, scrivania, letto, tutto. Per poi ricadere nuovamente su un materasso sfatto. Ancora piangendo.
Sentiva per la prima volta un nemico, più grande, più forte e più potente di lui, avercela con lui. E capì che lui non poteva farci niente.
Rimase in quella condizione per quasi ventiquattro ore. Senza mangiare, senza lavarsi, si alzò dal letto solo quando suo padre lo venne a chiamare perché voleva che uscisse. Ma si alzò per andare a chiudere a chiave la porta. Uscì da quella camera nelle rare occasioni in cui la casa era vuota per andare in bagno.
Il giorno seguente uscì dalla camera mentre suo padre era in cucina a preparare da mangiare. Si andò a lavare e si vestì senza dire niente a nessuno. Quel pomeriggio doveva andare a un funerale. Appena lo vide suo padre corse ad abbracciarlo. Lui glielo permise senza opporsi ma senza ricambiare l’abbraccio. Non parlò con nessuno, né in casa, né in chiesa. Tornato dalla chiesa si richiuse in camera fino al giorno seguente.
E quella notte, immerso in un buio che, stranamente per i suoi quasi 14 anni, gli faceva sempre più paura, mentre cercava in tutti i modi di indurire il proprio cuore, bloccandolo con finte certezze e deboli ambizioni, solo una cosa gli provocava ancora un brivido che partiva dal collo e arrivava fino alla base della schiena. Una frase gli rimbombava nel cervello, e Roberto avrebbe voluto urlarla a tutto l’universo:
“Non è giusto”.

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Buongiorno e benvenuti a questa nuova storia. è forse il racconto, di quelli pubblicati in questa raccolta, più difficile da scrivere. quindi la vostra opinione sarà ancora più apprezzata e considerata. grazie ancora!

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Capitolo 5
*** Inutile spiegarsi ***


INUTILE SPIEGARSI

Un urlo. Questa volta, Michele non poté impedire agli incubi di riportarlo al mondo reale. E fare la stessa cosa con Simone e Giuseppe.
I quali, dopo l’esperienza vissuta fino a tre giorni prima, non poterono fare altro che scattare in piedi e preoccuparsi enormemente per qualsiasi cosa stesse succedendo al loro amico. In effetti, da quando era tutto finito, il venerdì precedente, Simone aveva invitato Michele e Giuseppe a restare per quella settimana a casa sua, prima che arrivasse il resto della famiglia. Ora, arrivati a mercoledì mattina, mancavano ancora due giorni prima della separazione obbligata, e sia Giuseppe che Simone si erano accorti del fatto che qualcosa in Michele lo stava lentamente stancando. Durante il giorno era spesso stanco e scontroso; la sera, piuttosto che uscire, preferiva chiudersi in cameretta ed ascoltare la musica. Da solo. Se solo avessero avuto il sonno un po’ meno pesante, i due si sarebbero facilmente accorti delle notti pressoché insonni del loro amico. Passate a rigirarsi sul letto, se sveglio, o svegliarsi per colpa degli incubi, nelle poche occasioni in cui riusciva, stordito dal sonno, a dormicchiare un po’. Ma mai più di un’ora per notte. In effetti, si riusciva ad addormentare, stremato, dopo le 3 del mattino per svegliarsi, come era accaduto anche quella notte, verso le 4, 4 e mezza, per colpa degli incubi.
Di solito si svegliava e ansimando riusciva a trattenere l’urlo, anche se poi l’effetto lo sentiva comunque. Allora si alzava e andava a bere un goccio d’acqua, oppure andava in bagno, o si fermava a sedersi qualche minuto in cucina. Cercava per quanto fosse possibile di non accendere nessuna luce, anche se lo spazio che avevano a disposizione, soprattutto dopo quella prima notte, l’aveva fatto propendere per chiedere a Simone se era possibile prendere per sé la cameretta. Mentre Simone dormiva sul letto matrimoniale dei suoi nonni, e Giuseppe sul letto a castello dove, di solito, dormiva Simone.
L’incubo finì che stava urlando. E quando si svegliò si accorse che non urlava solo nel sonno. Pochi decimi di secondo dopo, ad occhi sbarrati, vide la luce della camera da letto che si accendeva. E rumore di quattro piedi che a terra percorrevano, passo dopo passo, lo spazio che li separava dalla sua camera.
“Michele tutto a posto?!” chiese un Giuseppe agitato ma ancora confuso dal sonno. Michele non gli rispose e questo non fece che accrescere l’ansia nei suoi due amici.
Nell’oscurità di quella cameretta, potevano scorgere solamente il ragazzo seduto sul letto. Non fecero in tempo ad accendere la luce che Michele si alzò di scatto, avvicinandosi alla porta con la precisa intenzione di chiuderla. Ma proprio in quel momento, provvidenzialmente, una macchina curvò proiettando, per poco più di un istante, la luce dei fari dentro casa. E, solo per un momento, quella luce illuminò il corpo e il volto di Michele.
Era in pantaloncini e basta. Sul petto si potevano ancora intravedere le tracce delle brutte cose che aveva passato nelle due settimane precedenti, tracce per altro visibili anche in Simone e Giuseppe. Però il viso era quello di un diciassettenne, squadrato e forte, lo sguardo intenso. Le guance con un filo di barba, erano visibilmente rigate dalle lacrime e la fronte imperlata dal sudore.
I due si resero immediatamente conto della situazione ma, vedendo il suo scatto e la sua reazione, preferirono lasciar perdere. Era decisamente strano, Michele, in quei giorni. E quella era semplicemente un’ulteriore conferma di questo. Ma risolsero la questione dando la colpa all’incubo e ritornarono a dormire, consapevoli che il gesto appena compiuto dal loro amico non lasciava alcuna breccia aperta alla conversazione. E neanche alla porta.
Il mattino seguente, alle sette e mezza, Simone si svegliò. Con il fatto che Michele non usciva, non avevano neanche loro molta voglia di uscire, quindi alle undici erano a letto e, a parte la piccola pausa di quella notte, era finalmente e completamente rientrato nel giro delle otto ore che conosceva benissimo. Giuseppe, mettendo la sveglia, si sarebbe alzato solo un’ora dopo, giusto in tempo per fare colazione e correre con i suoi amici a casa di Maria, da dove partivano per il mare.
Preso ancora dal sonno, ma ben memore della situazione verificatasi la notte precedente, si affacciò alla porta della cameretta per accorgersi del fatto che era vuota. Il letto era a posto, quindi evidentemente Michele si era svegliato e aveva avuto il tempo di rifarsi il letto prima di uscire. Mise sul fuoco la caffettiera e andò a sciacquarsi la faccia e mettersi il costume.
Uscito dal bagno ritornò in cucina e si accorse dei cambiamenti appena avvenuti. Due tazzine, un cucchiaino in una delle due e nella stessa un po’ di zucchero. Sul tavolo, vicino ad esse, un post-it e una carta da gioco.
Sul post-it c’erano scritte solo due cose:
“Amaro per me, due cucchiaini di zucchero per te, giusto? Possiamo berlo fuori? Ti aspetto”
E la carta da gioco era un “Asso di Cuori”. E questa voleva dire solo una cosa. Michele gli stava chiedendo scusa. Ma per cosa?
Intanto il caffè era pronto, e lo versò. Prese le due tazzine ed uscì. Seduto sulla panca fuori di casa c’era Michele. Girò la testa e Simone poté finalmente vedere nei suoi occhi, lucidi e stanchi, qualcosa di più. Gli porse la tazzina. Michele gli fece posto sulla panca.
“Posso fare qualcosa per te?” fu la semplice domanda di Simone.
“Voglio sfogarmi, voglio parlarti di tante cose, voglio chiederti scusa per come mi sto comportando in questi giorni ma più di ogni altra cosa, voglio qualcuno che mi ascolti. E che, spero, non mi giudichi per quello che sentirà!” rispose Michele, tutto d’un fiato.
Simone rimase in silenzio per qualche secondo. Gli dispiaceva che un suo amico, come poteva considerarsi Michele in quel momento, temesse che lui l’avrebbe giudicato. Forse gli anni passati da due parti diverse della barricata l’avevano portato a vedere Simone come una persona semplicemente molto sicura di se e un po’ arrogante. Però era vero che ogni tanto lui, da arrogante, si comportava. Prendeva sempre le parti della ragione, sempre e comunque. E quell’autostima e sicurezza che doveva sempre mostrare in famiglia, suo malgrado, a volte lo spingeva a manifestarla anche con gli altri. Ma quello non era, assolutamente, il momento di prendersela troppo, di giudicare, di pensare a cosa rispondere. Michele aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse per rispetto, per stima e per il piacere di ascoltare un amico. Sapeva che, dall’alto dei suoi difetti, per lui sarebbe stato difficile, ma avrebbe usato tutte le proprie energie, pur di riuscirci.
“Ok!” fu l’unico risultato di quel ragionamento.
“Grazie! Non immagini quanto questo sia importante per me! Ma ti devo chiedere prima un altro favore!”
“Tranquillo! Non ne parlo con nessuno, neanche con quel dormiglione che c’è adesso in camera da letto!” rispose Simone.
Michele gli sorrise, forse per la prima volta pienamente contento di rivedere Simone come l’aveva conosciuto per una vita fino a quattro anni prima. E questo gli permise di rilassarsi un attimo e di incominciare a parlare.
“Non mi ero mai considerato una persona orgogliosa. Almeno non così tanto orgogliosa. E egoista. Ripensando a tutto quello che mi è successo è incredibile come Marco sia stato capace di imboccare Amaraldo per parlarmi toccando le corde giuste. Ricordo che quando ha incominciato a parlarmi male di Giuseppe, quasi lo faceva per scherzo. Una volta eravamo in giro e ho visto Antonella, la sorella di Giuseppe che lo sgridava. Sarà stata una sciocchezza sicuramente, però forse ha esagerato un po’. Insomma, Giuseppe era visibilmente scosso. Gli si erano inumiditi un po’ gli occhi. E Amaraldo non ha potuto cogliere occasione migliore. Dapprima scherzando, poi in maniera sempre più spinta. Ad un certo punto gli dissi di finirla. E lui, semplicemente, mi rispose chiedendomi: ‘perché?’. Quello fu il mio sbaglio. Gli dissi che doveva smetterla perché Giuseppe era un bambino ed era normale che si comportasse in quel modo. Non c’era alcun motivo di prenderlo in giro. Lui mi rispose dicendomi che voleva prenderlo in giro, e si divertiva a farlo, proprio perché era un bambino. Quella risposta mi spiazzò. Semplicemente, e malauguratamente, bastarono quelle frasi per farmi iniziare a vedere Giuseppe per quello che era, cioè un bambino, e smisi di vedere Giuseppe per quello che avrebbe dovuto essere per me. Un amico. Incominciai a considerare anche gli altri in quel modo. Poi arrivasti tu. E per qualche giorno Amaraldo si dimenticò completamente degli altri. Mi chiese di raccontargli quello che facevamo insieme. Sciaguratamente gli dissi tutto. Dei compiti delle vacanze, del seguire le persone di nascosto, dei giretti che ci facevamo al castello a esplorare quel palazzo desolato. Diede del moccioso immaturo anche a te. Io gli impedii di dire quella cosa. Sapevo che non era vero. Che io e te parlavamo anche di un sacco di cose, stavamo semplicemente crescendo entrambi. Fu a quel punto che Amaraldo disse la cosa che mi allontanò definitivamente da voi. Mi chiese se quelle cose le facevo anche quando ero da solo. Seguire le persone, andare al castello eccetera. Ed io, ovviamente, gli risposi di no. E lui mi disse che quello era il motivo per cui dava a te del moccioso ma non pensava assolutamente la stessa cosa di me. In due semplici conversazioni aveva buttato dalla finestra la mia stima nei vostri confronti. Io ebbi anche la faccia tosta di continuare a pensarci per trovare delle motivazioni ulteriori da addurre per non fargli dire quelle cose. Solo che psicologicamente era una lotta troppo impari. Coglieva letteralmente ogni occasione per denigrare te e gli altri. Ogni occasione. Quando arrivasti in soccorso di Giuseppe e degli altri due, l’anno scorso, arrivò addirittura a dire che Giuseppe non era abbastanza uomo da affrontare la situazione da solo, e che tu non eri abbastanza uomo da lasciare che gli altri se la cavassero da soli. E io, a quel punto, dopo anni di lavaggio del cervello, semplicemente ci credetti. Quando qualche giorno dopo finì ancora peggio, gli bastò farmi capire che quello che avevate fatto era un vero e proprio atto di bullismo. Che voi non eravate degni di appartenere al mio gruppo. E stupidamente gli diedi ragione. Qualche tempo prima aveva accennato ai Tre Fratelli. Io ho sempre avuto paura di avvicinarmi a quel gruppo. Eppure dopo quello che era successo, avevo così tanta voglia di farvela pagare che non ci pensai due volte. Dopo l’iniziazione Cosimo prese completamente il controllo della mia vita. Mi telefonava a qualsiasi ora del giorno e della notte e dovevo essere sempre pronto a rispondere e a disposizione. Non mi coinvolsero mai in attività criminali, ma si trattò di un vero e proprio addestramento mentale. A volte Cosimo mi chiamava e mi faceva passare con lui un’ora nel corso, la sera, ad osservare ragazzi e ragazze che passavano per il corso. Per ogni ragazzo mi dovevo inventare un insulto e per ogni ragazza una cosa oscena sul loro conto”.
Simone, assorto in quel racconto, non aveva neanche incominciato a bere il caffè. Ma sapeva che era stato meglio così, perché altrimenti a quel punto avrebbe potuto benissimo vomitarlo.
“Purtroppo, fare quelle cose incominciò a divertirmi. Iniziai a non vederci nulla di male. Qualche volta ho assistito Cosimo o Amaraldo in qualche spedizione punitiva. Facendo delle cose orribili. A volte filmavano le spedizioni punitive che facevano nei confronti di qualcuno e mi costringevano a vederle e a descriverle davanti agli altri tre in ogni particolare. Uno dei Tre Fratelli si assicurava che non mi dimenticassi di nulla. La cosa peggiore erano gli incontri nei quali ci veniva rifatto il disegno. Dopo aver ripetuto il giuramento, venivano estratti a sorte due altri appartenenti della banda che dovevano farti qualsiasi cosa per trenta secondi. E finché si trattava di Dorian e Salvatore non c’erano grossi problemi. Ma quando, e mi è successo un paio di volte, mi sono capitati Cosimo e Angelo era più dura.  Molte volte sono riuscito a mantenere un certo distacco emotivo. Poi un giorno accadde una cosa che mi fece perdere di colpo tutto il distacco emotivo possibile e immaginabile. Per punire un compagno di classe di Salvatore che si era permesso di prenderlo in giro, gli rubammo il cane e lo portammo alla radura. Poi gli dicemmo di venire a riprenderselo, solo che al posto del cane c’era solo una cassetta in cui erano state riprese le torture a cui lo sottoponevamo e la sua uccisione. Mentre per tutte le altre volte, in un modo o nell’altro si era trattato di punire qualcuno che si era macchiato della colpa di aver fatto qualcosa, quella volta stavamo torturando un animale, una vittima innocente. Inutile dire che arrivai a casa appena in tempo e vomitai anche l’anima. Cercai di farmi vedere il meno possibile da loro dopo quella volta. Mi rifiutai categoricamente di partecipare all’ultima spedizione punitiva, quella nei confronti di Francesco, per averti salutato. Dopo 3 giorni mi chiamarono e mi dovetti presentare per forza al loro cospetto. E mi ci volle veramente pochissimo tempo per capire che il prossimo ad essere punito sarei stato io. Il resto è la nostra storia”.
Simone a quel punto, non solo non aveva voglia di esprimere giudizi su quella persona. Aveva anche incominciato a perdere seriamente la voglia di ascoltare come continuava, quella storia. Perché quello che era successo nelle due settimane successive a quanto da lui raccontato lo sapeva. L’aveva vissuto insieme a lui. Quello che non sapeva era il motivo delle ultime notti insonni ed agitate. Quella era indubbiamente una cosa legata a quanto da lui appena raccontato. E sapeva che non gli sarebbe piaciuto. Per niente. Ma aveva detto che lo avrebbe ascoltato. Sempre e comunque. Era li per quello e, nonostante tutto, avrebbe tenuto fede a quella sua affermazione.
“Sono quattro notti che sogno le torture che ci hanno inflitto, che sogno quel povero cane, che sogno di essere picchiato. Stanotte ho sognato addirittura di essere mandato da Cosimo a picchiare mia sorella. Ho paura. Ho paura che da un momento all’altro possa uscire il Michele di quest’ultimo anno e fare qualcosa di sbagliato, profondamente violento e ingiusto, nei vostri confronti o nei confronti di qualcun altro. Ho paura di diventare spietato come Cosimo, che era disponibile a picchiare ciascuno dei suoi due fratelli più piccoli, o come Marco, che si divertiva a torturare le proprie vittime come ha fatto con noi. Ho paura che questi sogni siano un inevitabile futuro con il quale mi debba ritrovare a convivere! Ho paura che cose che ho pensato su ragazzi e ragazze in quelle serate passate nel corso, possano ritornarmi alla mente, e possano scapparmi con te, con Giuseppe, con gli altri, o peggio, con Maria, Antonella, Annalisa, o altri! Ho paura che le persone che ho fatto soffrire possano in qualche modo rivivere le stesse cose con me!”.
A questo punto Michele era seduto, con i gomiti sulle cosce e macchie causate dalle lacrime erano visibili lungo tutto il tratto di pavimentazione posta sotto la sua figura.
E Simone non stava messo meglio.
Se non altro capiva fino in fondo per quale motivo Michele aveva deciso di parlargli lontano dalle orecchie indiscrete e ancora sofferenti di Giuseppe. Era stato spaventoso sentire quello che aveva raccontato Michele in quei minuti. Era spaventoso e pericolosamente tragico. Adesso, però, che Michele lo stava guardando capì anche che si aspettava una risposta. Una risposta che il suo cervello non si aspettava certamente di dover preparare. Cosa poteva dirgli mentre nella sua testa frullavano ancora tutte le immagini che la sua mente aveva prodotto ascoltando il racconto di quel ragazzo? Dentro di sé provava rabbia, pietà, dolore, compassione, per quel suo coetaneo che era lì, davanti a lui, così debole soprattutto emotivamente, non per difetto suo, ma per tutto quello che aveva passato in quei mesi. E tutto quello gli toglieva il fiato, figuriamoci dargli le parole. Aveva soprattutto timore che qualsiasi cosa potesse dirgli avrebbe potuto farlo sprofondare ancora di più nelle tenebre emotive da cui invece voleva farlo uscire.
Per la prima volta, in vita sua, iniziò un discorso indiscutibilmente da persona matura. Anche se non se ne rese conto subito.
“Mi dispiace, Michele! Mi dispiace per tutto quello che stai affrontando. Mi dispiace per quello che ti è successo, per le notti insonni che stai passando, per la tua paura. Mi rendo conto che se 4 anni fa mi fossi preso la briga di tirarti quel pugno che ti sei preso solo 15 giorni fa, probabilmente la tua vita sarebbe cambiata e non avresti sofferto così tanto”.
Fu quello sguardo profondo, da parte di Simone, che in quel momento colpì Michele a farlo calmare un po’. Fu però quello che Simone fece e disse dopo, a toccarlo a tal punto da farlo uscire da quell’impasse emotiva che gli stava tormentando la coscienza e l’anima intera.
Simone gli mise una mano sulla spalla, e continuò.
“Su ogni altra cosa, però, ha vinto l’amicizia, quella che ci ha fatto arrabbiare, soffrire e soprattutto lottare, fino alla fine, contro tutto e contro tutti, anche nella radura più oscura, e nella situazione peggiore! Giuseppe è stato disposto a subire quanto di peggio Marco potesse fargli, per l’amicizia che ci legava. E in quel gruppo, l’altra sera, nel gruppo di persone con cui Giuseppe si è mostrato leale c’eri anche tu. Tutto quello che hai passato, di brutto, di pesante, di logorante, tutto si è risolto con la tua decisione di ritornare da noi. Quindi non avere paura di te stesso. Ci siamo presi tutti quanti l’impegno di essere tuoi amici. Se ti senti male per quello che hai fatto, cercaci. E noi saremo sempre pronti ad ascoltarti. Se quello che hai paura di fare in futuro ti assale e ti abbatte, cercaci. E noi saremo sempre pronti a consolarti. A questo servono gli amici. Sfruttaci, per così dire, nel modo giusto, e vedrai che niente e nessuno ti farà più soffrire come ti è successo in passato. Adesso ci siamo qui noi, noi tutti, io, Maria, Giuseppe, Vito e Nicola, Francesco ed Emanuele, chiunque altro su questa terra tu consideri come amico. Siamo qui, pronti a volerti bene e a curare il tuo malessere”
Mentre Simone stava dicendo quelle cose, sentiva, lentamente, la spalla di Michele, da cui non aveva allontanato la mano, rilassarsi, il suo respiro calmarsi.
Lentamente gli occhi di Michele si erano asciugati. Stava capendo che l’amicizia, quel sentimento che stava riscoprendo lentamente in quei giorni di inizio estate, era il sentimento a cui doveva aggrapparsi per lottare contro quegli altri suoi sentimenti negativi.
Un sottile sorriso si affacciò in quel momento sul viso del ragazzo. Si sentiva stranamente bene. Molto meglio che nei giorni precedenti, molto meglio che negli anni precedenti. Stava addirittura ritornandogli il sonno.
Fu solo una cosa, quella che si sentì di dire al suo amico in quel momento.
“Grazie!”
Mentre Simone in quel momento, da perfetto diciassettenne qual era, si sentì di aggiungere solo una cosa.
“Sto caffè fa schifo! Aspettiamo che si svegli quell’altro e ce lo andiamo a bere al bar?”
Una sola, vera, unica, sincera e amichevole risata all’unisono chiuse definitivamente quel discorso.

---o---

Si! sono pazzo... ma fidatevi... Simone l'avrebbe detto veramente!

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Capitolo 6
*** Quando tutto è incominciato ***


QUANDO TUTTO È INCOMINCIATO
Il dopocena dei 14 anni di Simone era sempre lo stesso: dopo mangiato e dopo aver guardato un po’ la televisione (compreso l’immancabile telegiornale fortemente voluto dal nonno) si approcciava lentamente alla finestra della camera da letto, o a quella del bagno. E aspettava.
Non perché volesse spiare i suoi amici, avrebbe raccontato più tardi. Ma a quattordici anni la timidezza lo spingeva ancora a non avere neanche la faccia tosta di presentarsi qualche volta a casa loro per chiamarli.
E, come sempre, quando qualcuno (quasi sempre Giuseppe) usciva per andare (lui) a chiamare Francesco e Emanuele, allora “si sentiva autorizzato” a prendere anche lui la via per la strada dietro casa sua e incominciare la lunga serata. Serata che quasi sempre incominciava verso le 21 e finiva, immancabilmente, a mezzanotte, quando genitori e nonni, sbadigliando, si ritiravano, ciascuno a casa propria.
Era sempre stato così e, nella sua mente ancora troppo giovane e immatura, si era immaginato che sarebbe rimasto così fino alla sua morte (di vecchiaia).
Ad ogni modo stava bene in quella situazione, e seppur timido, era, sotto sotto anche abbastanza pigro per non cambiarla.
Quella sera, poi, come tutte le altre sere di quell’estate, non vedeva l’ora di rivedersi con i suoi amici e le sue amiche. Da un anno a quella parte avevano abbandonato i giochi, e preferivano passare la serata a chiacchierare, passeggiare per le vie vicine a casa e scherzare, divertirsi e passare quelle serate in compagnia.
Quella particolare sera, o quella particolare passeggiata, Giuseppe non c’era. Erano in cinque e stavano lentamente spostandosi verso i Giardini Murati, non ancora terminati e verdeggianti, ma già abbozzati e visitati da vari gruppetti di ragazzini.
Quella sera, Simone, Emanuele, Francesco, Francesca e Annalisa stavano ridendo e scherzando come tutte le altre sere. Solo decisero di cambiare strada e presero una traversa della principale.
E quello fu l’errore.
Erano nella stradina più stretta tra due file di case e casette a schiera, disposti tutti sulla stella linea, come bravi amici e compagni d’uscita. Pochi secondi dopo essere entrati in quella strada, accadde, però, qualcosa che Simone avrebbe dovuto riconoscere.
Videro, in fondo alla discesa che si presentava loro davanti, un gruppo di ragazzini. Nulla di nuovo, per Simone, come per gli altri, se non per un piccolo particolare.
Le due ragazzine, immediatamente si fermarono, rimanendo all’inizio della via.
I due fratelli, invece, rallentarono di qualche passo, posizionandosi ai lati di Simone, ma dietro di lui.
Simone, che lentamente e all’oscuro di tutto, stava scendendo nella strada, non ebbe neanche il tempo di accorgersi di quello che stava succedendo. Ci pensò solo dopo, a quel movimento strano dei due ragazzini, a quel dispiegamento “a V” così inspiegabile e quasi incomprensibile.
Intanto quel gruppo di ragazzini si faceva sempre più diretto verso di loro. Quando, più o meno a metà della via, i due gruppi si fermarono, uno dirimpetto all’altro. Simone, Emanuele e Francesco, come vi ho raccontato. Gli altri sei o sette in ordine sparso.
“Cosa ci fate qui?” fu l’inizio di quella conversazione che, sin dal principio, non stava piacendo per niente a Simone. Era il ragazzino più grande degli altri che gli stava facendo quella domanda, evidentemente rivolta proprio a lui.
Simone ebbe giusto il tempo di osservare l’altro per cercare, in quei pochi secondi, di carpire quante più informazioni era possibile da quella figura a lui sconosciuta.
Le caratteristiche fisiche, almeno altezza, peso, colore degli occhi e dei capelli, nonché carnagione e, ad un primo impreciso esame, anche massa muscolare, sembravano le stesse di Simone. Che istintivamente diede a quel ragazzino la sua stessa età. Questo, in parte, lo tranquillizzò. E gli permise di rispondere.
“Niente! Passavamo di qui!” fu l’ingenua sua risposta.
“Questa è la nostra strada!” fu la lapidaria frase dell’altro.
“Ma questa è una strada pubblica, e noi stavamo solo passando!” rispose Simone. Ingenuo, dite? Beh! Sì!
“Eh! E non dovete passarci più. Sennò vi gonfiamo di botte!” disse l’altro.
Questa frase suonò stranissima a Simone. Che, intanto, aveva, finalmente, incominciato a ragionare sulla situazione.
- E perché non ci ha picchiati subito? Forse c’è l’opportunità di andarcene senza grossi danni –
Gli volse le spalle e, rivolgendosi ai suoi due amici, esclamò, a voce alta ma calma: “Ok! Ragazzi andiamocene!”.
In quel momento si accorse che i due erano dietro di lui e non al suo fianco. E fu colto da un leggero brivido.
Anche perché, contemporaneamente, li vide sbiancare.
L’altro si avvicinò immediatamente alle spalle di Simone, gli mise la mano sinistra sulla spalla destra, cogliendolo di sorpresa e facendolo girare nuovamente verso di lui.
“Brutto frocio, come ti permetti di darmi le spalle?” furono le sue parole, che, però, immediatamente dopo si spensero.
Simone, sentendosi una mano sulla spalla, che cercava di girare, mentre assecondava quel movimento, ebbe solo un pensiero per la testa: - Ecco, adesso faccio a botte. Seriamente, per la prima volta. Colpire forte e bene, colpire forte e bene. Gli devo far passare la voglia di riprovarci, definitivamente -
Per questo motivo la sua espressione facciale cambiò immediatamente, assumendo, una delle prime volte nella sua vita, una parvenza violenta, rabbiosa, agitata, animalesca.
L’altro la prese piuttosto sul personale perché si bloccò abbassando la mano. Solo gli occhi, orgogliosi, si erano fermati ad osservarlo, non abbassandosi, neanche per un istante.
Questo a Simone fece paura. Ma vide aprirsi un altro spiraglio.
Senza voltarsi, continuando a guardarlo negli occhi, stringendo impercettibilmente i pugni e piegando leggermente le braccia, cercando di non aumentare la tensione, ma facendogli capire che non si sarebbe fermato in caso di attacco, Simone disse ai suoi amici la stessa e identica frase detta poco prima che le cose incominciassero a precipitare: “Ragazzi andiamocene!”
A quel punto, e solo allora, Simone gli volse nuovamente le spalle e, questa volta anticipato dai due, si diresse verso l’incrocio che stava a monte di quella strada.
Silenziosamente i tre raggiunsero le due ragazze nei più amichevoli lidi della strada dove abitavano e dove erano tenuti sotto stretto controllo dei genitori. Ragazze a cui si era aggiunto, appena arrivato, anche Giuseppe. Che, ovviamente, era stato aggiornato immediatamente sugli ultimi avvenimenti.
Giuseppe, molto preoccupato, corse a sentire dalla viva voce degli altri tre cosa era successo dopo.
Francesco era entusiasta del coraggio di Simone. Probabilmente non si rendeva conto del fatto che quest’ultimo, negli ultimi cinque minuti, aveva rischiato, più o meno, tre infarti.
Emanuele rimase silenzioso durante tutto il racconto di Francesco, mentre Giuseppe ascoltava quel racconto sempre più stupito e preoccupato per Simone.
“Beh! Non fare mai più così tanto il coraggioso! Non si scherza con quei ragazzini!” disse al termine del racconto di Francesco, direttamente indirizzato a Simone.
Che intanto aveva avuto modo di calmarsi un poco, e di ricominciare a respirare normalmente. Anche il cuore aveva smesso di correre all’impazzata.
“Sì beh! Adesso è tutto ok!” rispose quest’ultimo, cercando di nascondere i suoi veri sentimenti e tranquillizzare gli altri.
“Ok un bel niente!” fu la risposta di Emanuele. “Se tu sapessi solo la metà delle cose che so io su Cosimo, non avresti mai fatto tutto questo!” fu la sua risposta.
“Beh! Tutto è bene quello che finisce bene!” concluse Giuseppe, mettendolo a tacere.
Fu solo una domanda a martellare la testa di Simone per i successivi cinque minuti: - Cosa c’è di così brutto che sa Emanuele, da poter farmi cambiare così tanto atteggiamento? –
 
NdA: Questa è l’unica nota autobiografica di tutto. Io quel ragazzino non l’ho più visto, né ho più parlato di quanto accaduto con gli altri dopo quella sera. Però la mia mente (malata) ha continuando a lavorare fino a giungere a quel “Ricordi” che trovate nella sezione “Avventura” :) .

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