Scene

di Echocide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scena 1: Come Adrien e Rafael si conobbero... ***
Capitolo 2: *** Scena 2: Bon Noël ***
Capitolo 3: *** Scena 3: Comunemente normale ***
Capitolo 4: *** Scena 4: L'incontro ***
Capitolo 5: *** Scena 5: Qui e ora ***
Capitolo 6: *** Scena 6: Akumatizzata ***
Capitolo 7: *** Scena 7: Marinette; Ladybug ***
Capitolo 8: *** Scena 8: Quando Wei si presentò... ***
Capitolo 9: *** Scena 9: Coeur Noir ***
Capitolo 10: *** Scena 10: Pavo ***
Capitolo 11: *** Scena 11: Sopravvissuto ***
Capitolo 12: *** Scena 12: Antieroe I ***
Capitolo 13: *** Scena 13: Antieroe II ***
Capitolo 14: *** Scena 14: Fuoco fatuo I ***
Capitolo 15: *** Scena 15: Fuoco fatuo II ***
Capitolo 16: *** Scena 16: Per la mia famiglia ***
Capitolo 17: *** Scena 17: Eroina I ***
Capitolo 18: *** Scena 18: Eroina II ***
Capitolo 19: *** Scena 19: Senso di colpa ***
Capitolo 20: *** Scena 20: Sbagliato ***
Capitolo 21: *** Scena 21: Debole ***
Capitolo 22: *** Scena 22: L'interrogatorio ***
Capitolo 23: *** Scena 23: Qui inizia il mio viaggio ***
Capitolo 24: *** Scene 24: Buon anniversario ***
Capitolo 25: *** Scena 25: Portatrici ***



Capitolo 1
*** Scena 1: Come Adrien e Rafael si conobbero... ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 728 (Fidipù)
Note: Salve salvino a tutti! Lo so, vi starete chiedendo: ma cosa posta oggi? Perché oggi? Bene, per spiegarlo devo andare un po' indietro nel tempo: quando postai il primo capitolo di Miraculous Heroes, non avrei mai pensato che quella storia diventasse l'ambaradan che è adesso. La mia testa aveva solamente pensato di fare una storiella, una di quelle che avrei voluto leggere ma che non trovavo; però più scrivevo e più l'intero mondo in cui la storia si svolgeva, scivolava via dalle mani: domande che necessitavano di una risposta, personaggi nuovi con un passato dietro e poi il proseguo delle avventure dei nostri eroi perché...beh, il male non dorme mai.
Con questi pensieri sono nati Tikki, la prima portatrice e Miraculous Heroes 2 (e i futuri Ombre di Nanchino - la storia di Bridgette - e Miraculous Heroes 3. Sì, penso che vi tormenterò ancora per molto.); nonostante tutto ciò, c'erano ancora qualche domandina che mi veniva alla mente, scene che avrei voluto scrivere ma che...beh, ormai non potevo più perché erano parte di una storia che ormai era già parecchio avanti.
Con questo intento nasce Scene, ovvero una raccolta di missing moments (ovvero momenti mancanti), che ho dimenticato qua e là nella stesura della storia principale: vi avviso fin da ora che i capitoli non saranno in ordine cronologico e, cercherò di darvi un'indicazione riguardo al periodo in cui si possono collocare (fate conto che potrete trovare un po' di tutto qua: da momenti di Plagg e Tikki da umani a quando Rafael e Adrien si sono conosciuti la prima volta).Ora io ho già in mente alcune cosette da scrivere, ma se vi viene qualche idea tipo "ah, mi piacerebbe sapere di questa cosa" (ovviamente legata al Quantum Universe)...beh, ditemelo e vedrò di scriverci sopra!
Detto ciò e, onde evitare che questa introduzione diventi più lunga del capitolo stesso, vi lascio al primo incontro fra Adrien e Rafael, che si può collocare benissimo dopo i due capitoli di In the rain.
E beh, vi lascio al capitolo!




Adrien alzò la testa dal piatto, osservando il padre e cercando di assimilare le parole che l’uomo aveva appena pronunciato: «Un nuovo modello?» chiese, sbattendo le palpebre e tenendo lo sguardo su Gabriel Agreste.
Da quanto era piccolo, da quando aveva posato per la prima volta per la marca del genitore, era sempre stato lui l’unico volto della linea.
Nessun altro lo aveva affiancato.
Nessun altro aveva condiviso quel ruolo con lui.
Gabriel annuì, posando la tazzina di ceramica bianca sul piattino coordinato: «A breve finirai il college, no? Le superiori ti prenderanno più tempo, oltretutto adesso hai anche Marinette quindi ho pensato di assumere un secondo modello per…» l’uomo si fermò, facendo spaziare lo sguardo: «…per darti più spazio.»
Uao.
Suo padre stava facendo passi da giganti: dell’uomo freddo e austero, timoroso del mondo esterno e votato al possedere i Miraculous della Coccinella e del Gatto nero, stava rimanendo davvero poco, facendo riscoprire ad Adrien il padre che aveva conosciuto quando sua madre era ancora in vita.
«Va bene.» dichiarò il ragazzo, abbozzando un sorriso: «Come si chiama?»
«Il suo nome è Rafael Fabre, ha la tua stessa età.» gli rispose Gabriel, tornando a bere il suo caffè: «Oggi pomeriggio, verrà per qualche scatto di prova, graderei che anche tu fossi presente per presentartelo.»
«Sì, certo.» assentì Adrien, allungando una mano e recuperando una brioche dal cesto di vimini posto in mezzo alla tavola: un ragazzo della sua età. Forse sarebbe stato un nuovo amico…


Odiava quel tipo.
A pelle, sentiva proprio che quella sarebbe stata una persona da tenere alla larga: troppo sicuro di sé, troppo sfrontato, troppo…tutto.
Adrien sbuffò, osservando Rafael Fabre sorridere a due ragazze che erano venute a vedere gli scatti che avrebbero fatto ai Giardini di Lussemburgo quel giorno, e ignorò platealmente il kwami che si era affacciato dalla borsa: «Lo sai chi mi ricorda?» gli domandò Plagg, puntandogli contro lo sguardo verde e Adrien si decise a smettere di trascurare l’amico.
Anche perché, era certo, Plagg l’avrebbe continuato a osservare finché lui non gli avesse dato udienza.
«Chi?»
«Tu.»
«Cosa?»
«Quando ti trasformi. Siete identici: stesso modo di flirtare, stesso modo di pavoneggiarsi…»
«Io non flirto.»
«Certo, dillo a Marinette e Ladybug.»
«Ma sono la stessa persona!»
«Fino a poco tempo fa non lo sapevi, moccioso.» sentenziò il kwami, assottigliando lo sguardo verde, mentre un sorrisetto impertinente gli si stampò sulle labbra: «Ma credere che fossero due persone differenti, non ti ha impedito di provarci con una e dichiarare amore eterno all’altra. Un po’ come il nostro galletto là, che si pavoneggia con quelle ragazze nello stesso momento.»
Adrien borbottò qualcosa, tirando la zip della borsa e mettendo a tacere lo spirito felino, alzando poi lo sguardo e notando che Rafael Fabre si stava avvicinando a lui: «Adrien Agreste, vero?» gli domandò il modello, allungando una mano mentre un sorriso gli piegava le labbra.
Un sorriso che non arrivava allo sguardo.
Adrien era un vero esperto in quella tipologia di espressione.
Allungò la propria mano e strinse quella che gli era stata offerta, iniziando un gioco di forza: attanagliava le dita dell’altro e questi ricambiava la stessa con pari forza, finché una smorfia tradì Rafael Fabre, che lasciò andare la mano del biondo: «Molto piacere. Io mi chiamo…»
«Rafael Fabre.» concluse per lui Adrien, sorridendo quando lo vide massaggiarsi le dita che aveva leggermente torturato in quel gioco di forza.
Una bambinata, lo sapeva bene.
Quasi immaginava già come Plagg lo avrebbe preso in giro, una volta rimasti soli.
«Beh, spero di lavorare bene con te.»
«Anche io.»
Rafael abbozzò un secondo sorriso di circostanza, poi il fotografo li chiamò entrambi al lavoro e le ore successive passarono veloci, fra uno scatto e l’altro.


«Sai, ero certo che avresti tirato fuori la clava e ti saresti battuto il petto.» sentenziò Plagg, una volta che Adrien ebbe aperto la borsa nella sua stanza, mimando poi il comportamento e ricevendo uno sbuffo infastidito da Adrien: «Ti hanno mai detto che i cavernicoli si sono evoluti? Hanno avuto secoli e secoli per diventare Homo Sapiens Sapiens.» Uno sbuffò infastidito fu la risposta del ragazzo, che fece ridere maggiormente il kwami: «Pensa se conosce la tua lady e ci prova. Mi sembra un tipo che ci prova, sai?»
«Piantala.»
«Sarebbe veramente interessante vedere come reagiresti.»
«Sarebbe veramente interessante vedere tu senza camembert, anche.»
«Tu, piccolo…»

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Capitolo 2
*** Scena 2: Bon Noël ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.071 (Fidipù)
Note: Buo
n Natale! Lo so, è presto, mancano ancora 4 giorni ma...beh, quale occasione migliore di questa per augurare Buon Natale? In verità oggi avrei dovuto postare il 2 di Inori (che sta facendo la polvere nel pc, ormai), ma ieri sera ho avuto l'illuminazione divina (manco fossi stata Plagg davanti a una forma di pregiatissimo Camambert) e ho buttato giù questa piccola scenetta, ovviamente a tema natalizio.
Perché è Natale e quindi andava scritto qualcosa sulla festa...
Come ben sapete, questa raccolta non ha un ordine cronologico (vedrò di trovare un modo per non farvi ammattire più di tanto, non preoccupatevi), nel mentre posso dire che questo capitoletto si può inserire tranquillamente tra In the rain e l'incontro fra Adrien e Rafael (Scena 1)...ok, devo assolutamente scervellarmi per trovare un modo e dare un po' di ordine.
Come ho già detto nel primo capitolo di questa raccolta, se avete qualcosa dubbio in mente (della serie: mmmaaa....cosa è successo fra X e Y dopo quella cosa? Ma X come ha fatto a fare questo? Ma quando la finisci di romperci le scatole?), non dovete far altro che chiedere e vedrò di mettere un missing moments anche per quello (perché io ho un po' ne ho, che riempono i buchi e completano la storia del Quantum Universe ma...beh, qualcosa potrebbe essermi sfuggita).
Come sempre voglio ringraziarvi tutti per i vostri commenti, per il fatto che leggete le mie storie, le inserite nelle vostre liste, mi supportare e tutto il resto.
Grazie mille e Buon Natale!



Quando Nathalie era andata a informarlo della visita improvvisa di Marinette, Adrien aveva sentito il cuore aumentare i battiti molto velocemente: le aveva mandato un messaggio, poco prima, chiedendole come avrebbe trascorso il Natale e lei aveva risposto, dopo una buona manciata di minuti, adducendo a un pranzo con i parenti.
Il biondo si alzò velocemente dalla sedia girevole, dando un’occhiata ai suoi abiti e poi guardando lo spiritello che svolazzava per la stanza, tornato allo scoperto dopo che Nathalie era uscita: «Come sto?» domandò al kwami, fermando il suo volo annoiato e attirandone l’attenzione: «Allora?»
«Come ogni giorno?» chiese di rimando Plagg, scuotendo il capo sconsolato: «E’ la tua ragazza. Ti conosce.»
«Sì, ma Marinette è…»
«Incredibilmente imbranata?»
Adrien aprì la bocca pronto a ribattere, ma la porta della sua camera si aprì nuovamente e, veloce, il ragazzo afferrò il kwami, nascondendo dietro la schiena: Nathalie fece segno a Marinette di entrare e Adrien poté osservare la figura infagottata: «C-ciao, A-adrien.» mormorò la mora, scostandosi la sciarpa rosa dal volto e sorridendo timidamente: «D-disturbo?»
«No.»
«Vi lascio soli.» dichiarò Nathalie, squadrandoli da dietro le lenti quadrate e uscendo velocemente dalla stanza, ignara di quanto Adrien la ringraziasse mentalmente.
«Sto soffocando!» sbottò Plagg, liberandosi e volando per la stanza: «Bonjour, Marinette. E’ sempre un piacere vederti.» dichiarò il kwami, volando verso la ragazza e inchinandosi con fare galante davanti a lei: «Posso osare di dire che questo cappotto ti sta divinamente?»
«Il solito marpione.» sentenziò Tikki, uscendo da sotto gli indumenti della sua Portatrice e scuotendo il capo: «Quando mai finirai di provarci con ogni essere femminile?»
«Oh. Tikki.»
«Come ‘Oh. Tikki.’?»
«Ciao, Plagg.» lo salutò Marinette, sorridendogli e allungando una mano per carezzargli il capino: «E Buon Natale.» dichiarò, mettendo la mano in una delle tasche del giubbotto e tirando fuori un pacchetto dalla forma rotonda.
Una forma che voleva dire una sola cosa.
Adrien sorrise, osservando il kwami del Gatto Nero illuminarsi di gioia e prendere il suo regalo: «Per me?» domandò sorpreso, mentre il biondo si chiedeva dove era finito l’essere sarcastico e cinico che conosceva fin troppo bene.
«Per te.»
Plagg sorrise, volando con il suo carico fino al tavolino e scartandolo velocemente sotto gli occhi di tutti: «Camambert! E della marca migliore!» esclamò giulivo, girandosi poi verso Adrien: «Moccioso, questa ragazza è da sposare!»
«Plagg!» esclamò Adrien, voltandosi verso Marinette e notando come il rossore avesse preso possesso del volto: non che gli dispiaceva pensare a Marinette e lui in quei termini, ma aveva ben imparato che con la mora doveva andarci piano…
Fin troppe volte aveva fatto passi indietro per colpa della sua esuberanza.
Marinette era timida, fin troppo.
«Scusalo.» mormorò, grattandosi la nuca impacciato e sorridendole: «Sai com’è…»
«Una lingua lunga.» sentenziò Tikki per i due umani, scuotendo il musetto: «Un qualcuno che parla sempre senza pensare.»
«Tikki, c’è un regalo anche per te.» dichiarò Adrien, avvicinandosi alla scrivania e recuperando la confezione di biscotti natalizi, che aveva preso nel giro di shopping che aveva fatto con Nino, poiché entrambi disperati perché non sapevano che cosa regalare alle loro dolci metà.
«Per me?»
Il biondo annuì, passandole la confezione e osservando la kwami sorridergli calorosa: «Grazie mille, Adrien.» dichiarò, afferrando il proprio regalo e volando verso Plagg, sistemandosi al suo fianco e iniziando a lavorare con la plastica che teneva prigioniero il succulento regalo.
«E questo è per la mia lady.» decretò Adrien, tornando alla scrivania e recuperando un pacchetto finemente incartato, passandolo alla ragazza: «Spero ti piaccia…»
«Per me?» domandò Marinette, facendo vagare lo sguardo dal dono al volto del biondo: «N-non…ecco…io…» la mora scosse il capo, aprendo la borsa che teneva a tracolla e tirando fuori un altro pacchetto: «Per te.»
«Oh.» Adrien sorrise, afferrando il regalo dalla carta scura e sorridendo: «Grazie.» mormorò, mentre la ragazza stringeva al petto il suo dono: «E’ un altro cappello?» domandò, ricordando il primo regalo che aveva avuto da lei e che lui aveva donato a un Babbo Natale, che lo aveva salvato dal freddo di Parigi.
Preferì tralasciare il fatto che quel povero Babbo Natale fu incolpato del suo presunto rapimento da suo padre e dalla ragazza di fianco a lui, finendo poi per essere akumatizzato e seminare un po’ di caos per le strade di Parigi.
Ma tutto si era risolto bene e Adrien conservava un bel ricordo di quel Natale, assieme a una lezione che aveva imparato decisamente bene: mai uscire per le strade innevate con solo una camicia.
Marinette scosse il capo, districandosi con la tracolla e la sciarpa: «F-fa caldo…» mormorò, notando come Adrien stesse seguendo attentamente i suoi movimenti: «E…»
«Beh, abbiamo i riscaldamenti accesi e tu sei tutta imbacuccata.» la riprese scherzosamente il ragazzo, sorridendole: «Posso aprirlo?» domandò, sedendosi sul letto e sollevando il regalo che lei gli aveva fatto.
Al cenno affermativo di Marinette si mise al lavoro sulla carta e, finalmente, tirò fuori il proprio regalo: «Guanti…» mormorò, rigirandosi fra le mani il capo di abbigliamento.
«H-ho notato che giri senza guanti e…beh, ecco…ho pravato…cioè volevo dire provato a farli. Non ho mai lavorato ai ferri e quindi…beh, ecco…volevo…e il colore, ho pensato al grigio perché…»
Adrien scoppiò a ridere, scuotendo il capo biondo: «Apri il mio regalo, Marinette.» dichiarò, voltandosi verso di lei con una luce ilare negli occhi.
La ragazza studiò il volto del giovane, portando poi lo sguardo sul dono ancora fra le mani; titubante si sedette vicino a lui e, non senza qualche difficoltà, aprì il dono: un paio di guanti rosa pastello facevano bella mostra di loro fra la carta natalizia. Marinette sorrise, facendo passare il polpastrello sui fiocchetti rossi che ornavano entrambi: «Non li ho fatti io, ti avviso.» dichiarò il ragazzo, sorridendole: «Però sono di lana, come i tuoi. Anche io ho notato che non li porti mai.»
«Grezia…Ziegra….» Marinette sbuffò, chinando la testa e facendo un respiro profondo: «Grazie!»
«Di niente.» rispose Adrien con un sorriso, infilando uno dei guanti: «Ehi, sono perfetti!»
«Davvero?»
«Sì! Guarda!» Adrien alzò la mano aperta verso di lei, facendole poi l’occhiolino e stringendo il pugno nella sua direzione: «Forza, my lady…è tanto che non lo facciamo.»
«Beh, non c’è più bisogno di…»
«Infila uno dei tuoi guanti.»
Marinette annuì, mettendo la mano nella lana rosa e stringendo le dita, colpendo poi il pugno del ragazzo con il proprio: «Bien joue!» esclamarono in coro, ridendo poi divertiti.
«Buon natale, Marinette.»
«Buon natale, Adrien.»

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Capitolo 3
*** Scena 3: Comunemente normale ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.179 (Fidipù)
Note: Nuovo appunamento con Scene e, stavolta, il capitolo sarà interamente dedicato ad Alex Simmons, il giovane hacker amico della banda di eroi che, in Miraculous Heroes, è stato per un po' dalla parte del male (inconsciamente, sia chiaro). Che posso dire? Con questo capitolo, ho cercato di dare una motivazione al perché Coeur Noir ha trovato un facile terreno per il suo cristallo nero e il suo attaccamento per Sarah durante i fatti di Miraculous Heroes: ricordo bene che, in molti, avevano pensato che fosse innamorato di Sarah ma...beh, in verità ho sempre pensato che i sentimenti di Alex per Sarah fossero sì, forti e profondi, ma con una connotazione diversa rispetto all'amore classico.
Beh, spero di aver dato una spiegazione e di aver messo l'ennesimo tassello mancante del Quantum Universe.
La collocazione cronologica di questa oneshot è, ovviamente, prima di Miraculous Heroes e direi anche dopo gli altri capitoli di questa raccolta.
Detto ciò, come sempre voglio ringraziarvi tutti quanti: grazie dei vostri commenti, grazie del vostro interesse alle mie storie, grazie del fatto che le leggete.
Beh, grazie di tutto cuore!



Poche cose riuscivano a mettere di cattivo umore Alex Simmons: fare colazione con suo padre, era una di queste.
Sbuffò, osservando il genitore seduto al tavolo della cucina, con il New York Times aperto davanti, e si mise seduto dalla parte opposta, pregando quasi che il giornale lo nascondesse alla vista del genitore: «Quella pagliaccia ne ha combinata un’altra.» dichiarò il sergente Simmons, chiudendo il quotidiano e posandolo sul tavolo con un gesto stizzito: «Ai miei tempi non c’era bisogno di questi buffoni che si spacciano per supereroi…»
«Forse perché, ai tuoi tempi, non c’erano supercattivi.» sentenziò Alex sottovoce, adocchiando la prima pagina del New York Times e sorridendo alla foto sfocata dell’eroina della Grande Mela: Bee, la protettrice della giustizia e del bene.
Nonché sua migliore amica.
«Hai detto qualcosa, Alexander?»
Alex sbuffò per la seconda volta: in tutto l’universo, conosciuto e non, solo una persona lo chiamava con il suo nome per intero.
Suo padre, ovviamente.
«Niente.»
«Niente?»
«Niente, signore.» si corresse immediatamente il ragazzo, sistemandosi gli occhiali e afferrando la scatola di cornflakes, versandosene una generosa dose, riempendo poi la tazza fino all’orlo con il latte: suo padre aveva tanti difetti, uno fra i quali quello di credere di essere perennemente in una caserma.
Sentì lo sguardo del Sergente addosso e cercò di mangiare senza far notare quanto questo lo mettesse a disagio: si portò alla bocca una generosa cucchiaiata di latte e cereali, adocchiando il giornale ripiegato vicino al genitore: «Cosa è successo?» domandò poi, cercando di fare un po’ di conversazione e, allo stesso tempo, informarsi di quello che il New York Times aveva scritto.
In verità sapeva benissimo cosa era successo: la supercattiva aveva attaccato di nuovo e Bee era entrata in azione.
«Se tu la smettessi di smanettare ventiquattro ore su ventiquattro sul tuo pc e ti tenessi informato…»
Alex si riempì nuovamente la bocca, masticando lentamente: perché aveva sperato di fare una conversazione decente con il genitore? Perché?
Eppure lo sapeva che suo padre era un eccellente oratore, quando c’era da parlare male di lui.
Velocemente finì la colazione e, recuperato lo zaino, bofonchiò un saluto al genitore – ovviamente non ricambiato. Fosse mai che il Sergente si abbassasse a salutarlo – e raggiungendo la porta di casa: «Vai già?» domandò sua madre, facendo capolino dal salotto con un sorriso pacato sulle labbra: «Mettiti la sciarpa. Fa freddo oggi.»
«Sì, mamma.» dichiarò Alex, afferrando l’indumento e buttandoselo sulle spalle, sorridendo alla donna: «Oggi faccio un po’ tardi.» dichiarò, avvicinandosi e chinandosi per baciarla sulla guancia.
«Esci con Sarah?» gli domandò la donna, illuminandosi un poco in volto.
Alex annuì, osservando la madre da dietro le lenti quadrate degli occhiali: era certo che la donna aveva mandato a monte la sua relazione con Annabelle Zhao perché, segretamente, sperava che lui si mettesse con Sarah.
«Sì, vado con Sarah.» bofonchiò Alex, scuotendo il capo e uscendo velocemente dall’appartamento, addossandosi contro la porta: sarebbero bastati pochi secondi e…
«E’ colpa tua se è così.» tuonò la voce del padre dall’interno, facendolo sospirare: ecco, come ogni mattina. Il copione di ogni sua giornata.
Rimase ad ascoltare i suoi genitori discutere ancora un po’ e poi si allontanò dalla propria abitazione: suo padre lo ignorava o, al massimo, gli faceva notare quanto distante dalla perfezione era; sua madre riversava su di lui tutto l’amore che il marito non voleva, preoccupandosi per ogni singolo momento della sua vita.
Una famiglia modello, proprio.
Alex sospirò, grattandosi malamente la testa e scendendo le scale del proprio condominio, arrivando alla porta a vetri e notando la ragazza all’esterno: Sarah Davis. La sua migliore amica.
C’era stato un tempo in cui si era creduto innamorato di lei, ma era volato via molto velocemente.
Sarah era la sua migliore amica, la conosceva da una vita.
Era la ragazza con cui si era scambiato il suo primo bacio e, proprio in quell’occasione, aveva capito che non ci sarebbe stato altro che amore fraterno per la bella biondina che era una costante rassicurante della sua vita.
«Buongiorno!» esclamò Sarah, con un sorriso che sparì alla vista della sua faccia lugubre: «Che cosa è successo?»
«Oh. Nulla di che. Il solito in casa Simmons.» dichiarò Alex, con un’alzata di spalle: «Mio padre mi ha fatto notare che non faccio altro che smanettare al pc, secondo mamma oggi fa talmente freddo che ho bisogno della sciarpa e poi…beh, il solito. Papà ha accusato mamma della mia inadeguatezza e via dicendo.»
«Mi dispiace.»
«Non preoccuparti.» dichiarò Alex, carezzandole il capo biondo, stando ben attento a non toccare il pettinino a forma d’ape: «A te come è andata?»
«Mamma mi ha detto di non stare troppo ai videogiochi.»
«E quando mai ci stai?»
«Occhiaie.» dichiarò la ragazza, indicandosi il volto: «Non si notano perché ho usato un quintale di correttore, ma facevo paura stamattina.»
«Il male non dorme mai.»
«Ecco. Coeur Noir sembra averlo preso alla lettera…»
«Mi dispiace.»
«Non è vero che ti dispiace.» borbottò Sarah, guardandolo male: «Tu ci godi, invece.»
«Oh sì. Tanto.» dichiarò Alex, sorridendo con fare maligno: «La mia intera esistenza gioisce sapendo che non dormi per dare la caccia a quei cosi…»
«Guerrieri.»
«A quei guerrieri neri che imperversano per tutta New York.»
Sarah lo fissò, scuotendo poi il capo: «Sarebbe più facile se…»
«Sarebbe più facile se mi permettessi di darti una mano.» dichiarò Alex, passandole un braccio attorno alle spalle e stringendola a sé: «Insomma, per cosa ho creato quel programmino bello bello su cui sto smadonnando da giorni?»
«No, Alex.»
«Sì, Alex.» la parafrasò lui, facendole l’occhiolino: «Dai, ogni supereroe ha bisogno di una mano. Sarò il tuo Alfred! Me ne sto alla Bee-Caverna e faccio le mie magie al pc…»
«No.»
«Oh andiamo! Ma perché? Ti sarei utile! Altrimenti per cosa mi avresti rivelato il tuo segreto?»
«Per avere qualcuno che mi copre con mia madre?»
«Vedi? Ti sono utile per questo, potrei esserti utile anche per…»
«Potresti essere in pericolo, Alex!»
«Beh, se uso il mio nome sì, però potrei avere uno pseudonimo e…»
«No.»
«Pensi che il tuo no mi fermerà?» le domandò Alex, fissandola in volto: «Ne sei veramente convinta?»
«Lo spero.»
«Ah! Illusa.»
Sarah sospirò, scuotendo il capo e facendo ondeggiare la coda bionda: «Non ti voglio in pericolo, Alex. Davvero. Sei il mio migliore amico e…»
«E sono una persona comunemente normale.» decretò lui, chinando la testa e sospirando: «Cosa posso fare io, senza poteri? Giusto.»
«Fidati, tu sei tutto che comunemente normale.» mormorò Sarah, posandogli una mano sulla spalla e sorridendogli: «Sei un ragazzo fantastico, Alex. E lo so che vorresti darmi una mano per dimostrare a tuo padre che sei in gamba ma, fidati!, non ce n’è bisogno. E se tuo padre non se ne accorge…beh, problemi suoi!»
Alex annuì, osservando l’amica negli occhi e poi lasciando andare un nuovo sospiro: come rinfrancata da ciò che aveva visto, Sarah s’incamminò seguita dallo sguardo dell’amico.
No, lui non era fantastico.
Era Sarah quella fantastica.
Lui era solo Alex: un ragazzo comunemente normale, un po’ fissato con i pc e con i supereroi.

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Capitolo 4
*** Scena 4: L'incontro ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.423 (Fidipù)
Note: Ed eccoci qua con un nuovo appuntamento di 'Scene' e con il primo vero balzo cronologico di questa raccolta perché...beh, con questo capitolo si torna all'inizio: L'incontro va, cronologicamente, quasi subito dopo la miniraccolta 'In the rain' e precedente agli altri capitoli di questa raccolta (io vi avevo avvisato, nel primo capitolo, che sarebbe potuta succedere un qualcosa del genere). Ancora una volta si torna a parlare di kwami e, più precisamente, di Tikki e Plagg.
E adesso una piccola info sul luogo ove si svolgerà la scena: il museo Rodin ha come protagonista indiscusso Auguste Rodin, scultore parigino vissuto a cavallo fra il 1800 e il 1900; qui è esposta una collezione unica delle sue opere e quelle da lui collezionate.
Il museo, inoltre, si trova in uno dei meravigliosi palazzi del raffinato Fauborg St-Germain, l’Hotel Biron, dove Rodin trascorse gli ultimi anni di vita.
Detto ciò, come sempre, voglio ringraziarvi per i commenti ai precedenti capitoli (a cui, non appena la sessione invernale mi darà tregua, risponderò), grazie a chi legge solamente (se avete voglia, lasciatemi un commentino, sarei felice di sapere se questa raccolta piace oppure no), a chi inserisce la storia in una delle sue liste (e inserisce me in quella degli autori preferiti) e...
Beh,semplicemente grazie!



«Comportati bene.»
Quelle due parole fece levare uno sbuffo infastidito dal kwami nero che, braccia conserte, scoccò un’occhiata all’umano: «Io mi comporto sempre bene.» dichiarò Plagg, imbronciandosi e guardando dritto davanti a sé: «Sono un fiore di educazione.»
«Tu parli sempre a sproposito, sei volgare e…» il biondo si fermò, prendendosi il setto nasale fra le dita e scuotendo il capo: «Preferisco non pensare a cosa fai quando mangi troppo camembert.»
«Quello è un naturale processo del corpo.»
«Quello è puzza.»
«Quanto sei delicato…» il kwami sbuffò nuovamente, guardando davanti a sé: «Dove stiamo andando?»
«Al Museo Rodin.» rispose immediatamente Adrien, portandosi una mano al volto e grattandosi impacciato il naso: «La professoressa d’arte ci ha dato come compito quello di fare una specie di scheda su un’opera a nostra scelta e Marinette ha pensato ad alcune opere di quel museo.»
«Non il Louvre?»
«Tutti vanno al Louvre.» sentenziò Adrien, costeggiando la grande macchia verde che costituiva il parco ove sorgeva il museo in questione; svoltò in una stradina e subito notò il cartellone rosso che indicava l’entrata all’edificio e, appoggiata al muro vicino a questo, c’era lei.
Marinette teneva lo sguardo basso, le mani strette attorno alla cinghia della borsetta che portava sempre con lei e le labbra che si muovevano piano, quasi stesse chiacchierando con qualcuno.
La sua kwami.
Si portò una mano all’altezza del cuore, stringendo la maglia scura e respirando piano: il cuore gli batteva furioso nel petto, mentre il suo intero corpo era preso in una morsa poiché, da una parte, voleva scappare il più lontano possibile ma, dall’altra, voleva raggiungere velocemente la ragazza.
«Abbiamo messo radici?» commentò sarcastico Plagg, sbuffando rumorosamente: «Ci diamo una mossa?»
«S-sì.» mormorò il ragazzo, riprendendo a camminare con lo sguardo fisso sulla moretta: notò quando lei alzò la testa e lo vide, quando le guance assunsero una tinta rossa e lo sguardo celeste si calamitò nuovamente verso il basso.
Da quando stavano assieme – sempre se Adrien poteva considerare loro due come una coppia – Marinette aveva di nuovo assunto quegli atteggiamenti timidi che aveva avuto all’inizio con lui: adesso sapeva il perché di quel comportamento, delle frasi sconclusionate che la compagna gli rivolgeva sempre e che lui si divertiva a interpretare…
Non l’aveva mai detto a nessuno, ma mettere a posto le parole, nei discorsi che Marinette gli rivolgeva, era sempre stato fonte di divertimento, senza contare che aveva sempre trovato tenero quell’atteggiamento: «Ciao.» mormorò, fermandosi davanti a lei e notando gli occhi celesti risalire lungo la sua figura.
Cosa vedeva Marinette in lui?
Come lo guardava adesso che sapeva?
Era sempre e solo Adrien per lei, oppure c’era anche Chat in ciò che aveva davanti?
«Cioa. No, volevo dire ciao.»
«E’ tanto che aspetti?»
La mora scosse il capo, sorridendogli: «N-no, sono appena arrivata anch’io.»
Ok, forse non era come un tempo: riusciva a parlargli, con qualche impedimento, ma per ora aveva dovuto anagrammare una parola soltanto.
«Entriamo?» propose, ricambiando il sorriso e indicando l’entrata al museo con un cenno del capo, ricevendo un cenno affermativo da parte della ragazza.


«Mi hai stupito.» sentenziò Adrien, sedendosi su una delle panchine poste nei pressi della fontana del parco del museo, voltandosi verso l’edificio e godendosi il panorama: maestosa, la struttura si ergeva su quel piccolo mare di verde: «Non avrei mai pensato che avresti scelto un’opera come quella.»
«L’uomo che cammina è una bella opera.» dichiarò la mora, assecondando la frase con un movimento deciso della testa, facendo sorridere Adrien: Marinette si trovava a suo agio con lui adesso, tanto da riuscire a parlargli normalmente.
Niente anagrammi per quel giorno.
Peccato.
«E’ un corpo nudo, neanche finito.»
«E’ volutamente non finito.» spiegò Marinette, sedendosi al suo fianco e sistemandosi composta: «Può sembrare incompleta, ma in verità Rodin ha solo voluto far risaltare il puro movimento, perché l’attenzione si concentra nell’atto di camminare e…» la ragazza si fermò, scuotendo il capo: «Scusa, ti sto annoiando.»
«Per niente!» dichiarò Adrien, sorridendole e poggiando il gomito contro il ginocchio, poi la guancia contro il pugno chiuso: «E’ bello vederti così infervorata. A differenza tua, io ci capisco poco o niente.»
Marinette ridacchiò, portandosi una mano alla bocca: «Infervorata? Non mi hai mai sentito parlare di moda, allora. Alya dice che cambio totalmente.»
«Spero ci sarà l’occasione, allora.»
«Io spero che vi decidiate a mangiare. Io ho fame!» sentenziò una voce dalla borsa del giovane e Adrien alzò gli occhi al cielo, mentre un sospiro gli usciva dalle labbra.
«E’…»
«Sì. Il mio kwami.» sentenziò Adrien, aprendo la cerniera e permettendo all’esserino nero di uscire: «Marinette, ti presento Plagg. Plagg, ti presento Marinette.»
Il kwami del Gatto nero volò fuori, dando una breve occhiata attorno a sé e, poi, si concentrò sulla ragazza: «Incantato, madamoiselle. Il mio nome è Plagg e sono deliziato di fare la tua conoscenza.»
«Sto iniziando a capire perché cambi personalità quando ti trasformi.» mormorò Marinette, mentre Plagg provava a eseguire un baciamano, prima di venir ripreso dal suo umano.
«Non è per quello.» sentenziò Adrien, scoccando un’occhiataccia allo spiritello che sembrava essere andato in trance; Adrien seguì lo sguardo dell’amico e notò la piccola kwami che faceva timidamente capolino dalla borsetta della ragazza: «E’ la tua…?»
Marinette annuì, sorridendo: «Lei è Tikki.» la presentò, mentre lo spiritello della coccinella usciva dalla borsetta e si sistemava nello spazio fra loro due: «Tikki, loro sono…»
«Oh, ma li conosco bene.» dichiarò la kwami, ridacchiando: «Adrien e Plagg, è un piacere conoscervi.»
«Anche per me.» sentenziò il ragazzo, lasciando andare la presa su Plagg e osservandolo mentre questi planava davanti alla simile: «Voi kwami vi conoscete?»
«Sì. Diciamo di sì, moccioso.» gli rispose il felino, senza staccare gli occhi di dosso alla kwami: «Ciao, Tikki.»
«Ciao, Plagg.»
«Io…»
«E’ davvero tanto tempo che non ci vediamo. Dal Settecento?»
«No, dal Quattrocento. I nostri Portatori del Settecento non si sono mai rivelati l’uno all’altra, quando avevano i gioielli.»
«Giusto.» mormorò Plagg, spostando lo sguardo verde verso il prato e annuendo con la testa.
Adrien notò lo strano comportamento del kwami e si premurò di annotarsi di fargli qualche domanda, una volta giunti a casa: anche se, era certo, l’esserino avrebbe evitato di dargli le risposte che voleva, glissando le domande con il sarcasmo e le sue mezze risposte.
«Tikki cosa mangia?»
«Biscotti.»
«Con i pezzi di cioccolata.» aggiunse la piccola kwami, sorridendo: «Quelli che fa il papà di Marinette sono buonissimi. Non è vero?»
«Sì, hai ragione.» sentenziò Adrien, trovandosi d’accordo: i dolci – e, in più larga scala, ogni prodotto della boulangerie – del signore Dupain erano favolosi.
«Plagg invece?»
«Eh?»
«Con cosa si ricarica.»
«Ah…mh…Plagg va a formaggio.»
«Ehi, mica sono una macchina, sai?» sbuffò il kwami nero, ritrovando un po’ della sua sfacciataggine e della sua lingua lunga: «Io non vado a formaggio, io sono un estimatore del camembert.»
«Camembert?»
Adrien sospirò, annuendo: «Va pazzo per il camembert. E’ malato per quel formaggio.»
«Io non sono malato, sono ossessionato. E’ differente.»
Marinette li osservò, mentre battibeccavano e ridacchiò, scuotendo il capo e facendo ondeggiare le codine: «Siete buffi.» mormorò, attirando l’attenzione di umano e kwami: «Però andate molto d’accordo, no?»
«Questo ti sembra andare d’accordo?»
«Se non fosse così, non vi prendereste in questo modo.» sentenziò la ragazza, sorridendogli: «Essere amici vuol dire anche questo, Ad-drien.»
Plagg osservò il moccioso sorridere impacciato e, in silenzio, si mise da parte e osservò i due ragazzi: «Era davvero tanto tempo, stavolta.» commentò Tikki, sedendosi accanto a lui e sorridendo ai loro umani: «Mi piacerebbe che loro avessero una vita felice.»
«Perché non ti sei mai mostrata?»
«Potrei farti la stessa domanda, Plagg.»
«Sapevi che la  tua umana era innamorata persa per Adrien, potevi…»
«Volevo che lo scoprisse – che lo scoprissero – da soli. Come è sempre stato.»
«E cosa sarebbe successo se avesse scelto quella testa di pomodoro, eh?» domandò Plagg, guardandola irato: «Non ci hai pensato, vero?»
«Questo non sarebbe mai potuto succedere, Plagg.»
«E chi te lo dice?»
«Il fatto che sono i Portatori dei nostri Miraculous? Sono destinati l’uno all’altra, come è sempre stato.»
«Bah.»
«Cosa vuol dire Bah?» sbuffò Tikki, voltandosi verso di lui e osservandolo irata: «Vecchio brontolone che non sei altro.»
«Io non sono un vecchio brontolone!»
«Oh sì, che lo sei.» dichiarò la kwami rossa, volando fino alla borsa della sua umana e nascondendosi all’interno, dopo avergli regalato una linguaccia.
«Problemi?» domandò Adrien, posando lo sguardo su Plagg  poi sulla borsetta di Marinette: «Plagg, cosa hai combinato?»
«Assolutamente nulla. Perché deve essere sempre colpa mia?»

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Capitolo 5
*** Scena 5: Qui e ora ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 575 (Fidipù)
Note: Nuovo appuntamento con Scene! E questa volta con un pezzo dedicato completamente a Plagg: devo ammettere che non era preventivato e l'ho scritto di getto, senza far caso a quel che facevo. In vero non so neanche da dove mi sia venuta l'idea, comunque alla fine è nato 'Qui e ora', che si può collocare cronologicamente durante la prima serie e dove il nostro micetto amante del camambert...beh, leggete e sapete.
Come al solito, voglio ringraziarvi tutti quanti perché state continuando a soppo...cioè, volevo dire a seguirmi nonostante tutto, perché continuate a leggere le mie ciofeche (si dice storie, vero?), le commentate, le inserite in una delle vostre liste.
Beh, semplicemente grazie di tutto!
[Piccolo Edit]: voglio ringraziare Hanon993, che ha disegnato questa meraviglia (che trovate qua), dedicata a questo capitolo di Scene. Grazie mille ^^



Plagg sbadigliò, alzando il capino senza comprendere ciò che lo aveva svegliato: semplicemente si era destato, senza che nessun rumore o sogno avesse interrotto il suo riposo.
Sospirò, dando un’occhiata alla stanza immersa nell’oscurità e ridacchiando divertito: il buio non era un problema per un gatto come lui. O qualsiasi cosa fosse.
Volò fino al letto, osservando il ragazzino addormentato e sospirò: il suo nuovo Portatore era così…così…così…innocente.
Ecco.
Adrien Agreste era molto lontano da ciò che lui era stato. Da ciò che i suoi portatori erano stati.
Eppure eccolo lì, legato a quel bambino che non sapeva assolutamente nulla del mondo: «Che si era bevuto il Gran Guardiano quando mi ha mollato te?» brontolò, incrociando le zampette e scuotendo il capo: quando si era risvegliato non si sarebbe mai aspettato tutto ciò.
Si era addormentato quando il suo precedente Portatore era morto, colpito da un guerriero sottoposto a un demone cinese.
E ancor prima aveva combattuto altri mali.
Ma uno di loro?
Mai, in tutti gli anni che aveva vissuto, aveva combattuto un altro dei Sette.
Eppure stavolta era così e si trovava combattere il potere della Farfalla, il potere di Nooroo.
Con un bambino inesperto come Portatore, che non sapeva far altro che sospirare per la sua bella.
Plagg storse la bocca in un ghigno, osservando Adrien: beh, su quel punto poteva capirlo benissimo.
Ogni giorno avvertiva lei, sempre vicina e al contempo lontana.
La sentiva, ma non capiva.
Sapeva che la sua Portatrice era in classe con il moccioso e, ormai, stava spuntando la lista delle ragazzine akumatizzate, che il moccioso e Ladybug avevano combattuto: presto avrebbe capito chi era che indossava gli orecchini di Tikki; presto avrebbe capito con chi era lei.
Presto l’avrebbe trovata.
Ormai quante ne mancavano?
Tre? Quattro?
Aveva scartato a priori i maschi: Ladybug era senza dubbio una ragazza e il suo campo di ricerca si era ristretto enormemente, quando aveva avvertito la presenza di Tikki in classe.
Era lì.
Vicina.
Vicinissima.
Molto più di come era stata le ultime volte: a Nanchino l’avvertiva, di tanto in tanto, ma non aveva mai compreso dove fosse e prima…
Prima ancora non era stato così fortunato.
Non come quella volta.
Per un volta il Gatto Nero era stato benevolo con lui e forse, stavolta, i loro Portatori sarebbero potuti stare assieme e loro…
Un nuovo sospiro gli uscì dalle labbra, mentre volava fino all’ampia vetrata: gli piaceva quel particolare della stanza perché gli permetteva di osservare il cielo stellato, in nottate come quella dove diventava un sognatore stupido anche se non era da lui.
Non era mai stato un tipo che sospirava, sperando nel lieto fine.
Sapeva che non sarebbe mai stato così.
Una volta ci aveva sperato, quando ancora era umano, e il risultato…
Beh, il risultato era la sua vita attuale.
Poggiò le zampette contro il vetro, sorridendo lieve alla luna piena che regnava nel cielo scuro: «Qui e ora…» mormorò, socchiudendo gli occhi e riportando alla memoria l’immagine di Tikki: i lunghi capelli rossi, gli occhi impertinenti e il sorriso allegro.
Ecco come la ricordava.
«Sotto questa luna, che mi è testimone, io mi dichiaro tuo marito e tuo compagno. La mia casa sarà la tua casa, il mio letto sarà il tuo letto. Offrendoti onore, fedeltà e rispetto, io ti sposo.» continuò, recitando nuovamente quelle parole ma senza nessuno ad ascoltarle: «Qui e ora…» ripeté, picchiando il piccolo pugno contro il vetro: «Qui e ora…»

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Capitolo 6
*** Scena 6: Akumatizzata ***


Titolo: Akumatizzata
Personaggi: Lila
Genere: introspettivo, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?
Wordcount: 1.494 (Fidipù)
Note:Nuovo appuntamento con Scene e, questa volta, tocca a Lila: il capitolo è ambientato poco dopo la puntata 'Volpina', il finale della prima stagione e si può dire che è il primo punto di svolta che ha reso Lila l'eroina che conoscete in Miraculous Heroes. Sinceramente, adoro Lila e anche il fatto che all'inizio la odiassi, mi fa comprendere quanto questo personaggio sia intrigante e ben realizzato. E devo dire che ci sono rimasta veramente male quando è stata annunciata una diversa Portatrice del Miraculous della Volpe: per quanto attenderò la nuova stagione per farmi un'idea corretta, per ora vero solo uno spreco per un personaggio come Lila che, per me, sarà sempre la vera Volpina.
E passiamo subito a ringraziarvi tutti! Grazie a tutti voi che leggete, commentate, inserite questa storia in una delle vostre liste e mi supportate come sempre.
Grazie di tutto cuore!
E ci vediamo venerdì, con un nuovo appuntamento di Miraculous Heroes 3.


Lila inspirò profondamente, sentendo la magia – la possessione – dell’akuma lasciarla un’altra volta.
Una volta aveva chiacchierato con Alya e, parlando, aveva scoperto dalla ragazza che Volpina era l’unica che era stata riakumatizzata più e più volte; Lila aveva ascoltato in silenzio, annuendo di tanto in tanto e pensando alla rabbia che covava verso Ladybug.
Sapeva che era quella, sapeva che ogni volta che inaspriva quella rabbia, l’akuma l’avrebbe posseduta.
Alzò lo sguardo, osservando Ladybug che, con la testa in alto guardava la farfalla bianca volare alta, nel cielo di Parigi; poco distante da lei, Chat Noir, con un sorriso dolce sulle labbra era in completa adorazione della sua lady.
Lila strinse i denti, reprimendo la voglia di urlare in faccia a entrambi: avrebbe voluto gridare Io so chi siete solo per vedere le loro espressioni preoccupate e curiose rivolte verso di loro.
Sapeva chi erano.
Solo uno stupido sarebbe rimasto cieco di fronte alle somiglianze e, a quanto pareva, lì in Francia era pieno di stupidi.
Aveva aperto la bocca tante volte, bisognosa di far vedere quando fosse più intelligente e furba rispetto a loro, ma poi non aveva mai avuto il coraggio di dire qualcosa: aveva cercato in ogni modo di attirare Adrien, ma lui sembrava totalmente devoto alla sua lady, ignorante del fatto che lei fosse sempre al suo fianco.
E Marinette…
Avrebbe voluto odiarla ma, prima che scoprisse chi c’era dietro, aveva iniziato a piacerle quella ragazzina balbettante, ma forte e gentile: dopo la terza – o era la seconda? – possessione, tutti avevano iniziato a chiamarla akumatizzata e in molti l’avevano allontanata, ben consci del pericolo che era una persona presa di mira da Papillon.
Marinette era entrata nella sua vita in quel momento, con una scatola di biscotti e il profumo dolce della boulangerie addosso.
Si alzò, attirando l’attenzione dei due eroi e si fermò, puntando lo sguardo in quello azzurro e aspettando che la coccinellina dicesse qualcosa: «Lila, io…» Ladybug allungò una mano verso di lei, indecisa su cosa fare e Lila notò come Chat Noir si era spostato dietro la sua compagna, pronto a darle il suo supporto.
Ma in fondo non faceva così anche quando era in veste normale?
Aveva visto molto spesso Adrien supportare Marinette, assumere il ruolo di suo compagno anche nella vita quotidiana ricevendo in cambio balbettii sconnessi e frasi senza senso ma il ragazzo non sembrava farci più di tanto caso e, anzi, era  rimasta stupita dalla facilità con cui il biondo traduceva ciò che Marinette diceva.
Non sopportava il rapporto che avevano e, per questo, non faceva altro che mettersi in mezzo: Marinette provava ad avvicinare Adrien? Lei la anticipava.
Adrien cercava di parlare con Marinette? Lei trovava una scusa e portava via uno dei due.
Nonostante Marinette le avesse teso la mano quel giorno, nonostante ogni volta cercasse sempre di salvarla…
«Non preoccuparti a dirmi qualcosa» bofonchiò Lila, scostandosi una ciocca con un gesto stizzito, anche se partito come gesto elegante che dimostrava quanto gliene fregava di quello che l’eroina stava dicendo.
Ladybug chinò lo sguardo, stringendo forte le dita nelle altre e mordendosi il labbro inferiore, mentre Chat Noir aveva fatto un passo verso di lei, allungando una mano e fermandola a mezz’aria, indeciso se continuare in quel gesto di conforto o meno; l’italiana rimase ferma, scuotendo poi la testa e andandosene per la sua strada.
Tanto ci sarebbe stato un altro scontro con i due.
C’era sempre un altro scontro.
«Lila!» la voce di Ladybug, forte e chiara, la fermò: «Rendi vere le tue illusioni» continuò l’eroina, facendola voltare e osservarla incuriosita: teneva le braccia parallele al corpo, i pugni chiusi e lo sguardo deciso.
«Non so proprio di cosa stai parlando, sai?» buttò lì, scuotendo il capo e riprendendo la sua marcia: «Rendere vere le mie bugie? Che consiglio stupido.»
Si fermò quando fu sicura di essere abbastanza lontana da sfuggire allo sguardo dei due e rimase ferma, osservando Ladybug e Chat Noir parlare per una manciata di secondi e poi ognuno andarsene, per la sua strada: era stato così che aveva convalidato le sue teorie.
Dopo una battaglia aveva seguito Ladybug, decisa a scoprire se era veramente Marinette o no, e l’aveva vista trasformarsi e parlare con un cosetto rosso; eseguendo poi lo stesso modus operandi anche con Chat Noir, realizzando che dietro la maschera di quel micetto con la lingua lunga c’era veramente Adrien.
Sospirò, poggiandosi contro il muro e osservando il cielo celeste sopra di lei: quando sarebbe successo ancora?
Quanto ancora doveva combattere?
Era stanca di essere Volpina, stanca di indossare quel falso Miraculous ed essere a sua volta una menzogna.
Si accasciò, stringendo le gambe contro il petto e posando il capo contro le ginocchia: era stanca di essere akumatizzata.


Lila sorrise, osservando la bambina seduta davanti a lei che attendeva il proprio volo con la madre, sgambettando i piedini nel vuoto: dopo una decina di akumatizzazioni, suo padre aveva ben deciso di rispedirla in Italia.
Non era una buona cosa che la figlia dell’ambasciatore italiano mettesse a ferro e fuoco tutta Parigi, quindi la decisione era stata presa: i suoi genitori l’avevano portata a cena nel suo ristorante preferito e sua madre – e Lila era sicura anche vera ideatrice del tutto – le aveva comunicato la notizia.
Tornava in Italia.
Lila l’aveva guardata, spostando poi lo sguardo sul padre che, dopo essersi pulito le labbra con il tovagliolo candido, aveva annuito: Ruggero Rossi faceva sempre tutto ciò che sua moglie diceva o decideva.
Lila aveva accettato di buon grado, poiché in Italia sarebbe stata lontana da tutto: da Adrien, Marinette e le loro controparti.
Da Papillon e i suoi akuma.
Da Volpina.
«Posso sedermi?» domandò una voce maschile e Lila si voltò, osservando un anziano con una stravagante camicia hawaiana, che osservava con desiderio il posto accanto al suo, occupato dalla borsa.
«Certo» mormorò Lila, togliendo il tutto e osservando un piccolo peluche cadere e rotolare per terra: era il suo portafortuna, che teneva sempre con sé quando doveva prendere un volo da sola; un regalo che sua madre le aveva fatto, quando ancora tutto era più tranquillo e suo padre era solo un uomo che ambiva a diventare qualcuno.
«Che carino!» esclamò la bambina davanti a lei, scendendo dal suo sedile e recuperando il piccolo pupazzetto: «Che cosa è?»
«E’ un alpaca» le rispose Lila, accucciandosi davanti a lei e sorridendo, mentre la bambina si stringeva il peluche al petto e carezzava il candido pelo sintetico: «Ti piace?»
La piccola annuì, cullando un po’ l’alpaca, alzando poi la testa quando venne annunciato un volo: Lila osservò la madre balzare in piedi e mettere dentro le sue cose: «Abigail. Rendi il pupazzo alla signorina» ordinò perentoria la donna, voltandosi un secondo verso la figlia e poi tornando alle sue mansioni: «Svelta! Dobbiamo andare a prendere l’aereo.»
Abigail annuì, allungando l’alpaca a Lila lo riprese, carezzando il muso e osservando poi la piccola che, con uno sguardo triste, osservava l’animale fra le sue mani: «Ti piace?»
La piccola annuì e l’italiana abbassò lo sguardo sull’alpaca: «Proteggila come hai fatto con me. D’accordo?» ordinò al peluche, passandolo poi alla piccola: «Il suo nome è Lancillotto. E’ un alpaca molto coraggioso che ti proteggerà.»
«Abigail! Vuoi muoverti?»
La bambina non considerò la madre, osservando il dono che le veniva offerto e la ragazza: «Ti chiedo solo di trattarlo bene. E’ molto importante per me» continuò Lila, sospingendolo verso Abigail: «Me lo puoi promettere?»
«Sì» dichiarò la piccola, stringendo nella manina il pelo candido e poi alzandosi, sorridendo felice a Lila: «Ti prometto che lo proteggerò io.»
«Ok» Lila annuì, osservandola andarsene con la madre e l’alpaca bianco stretto al petto, con il musetto poggiato sulla spalla: «Addio, Lancilotto» bisbigliò, recuperando la borsa e voltandosi verso l’anziano, che aveva osservato tutta la scena in silenzio.
«E’ stato un gesto molto generoso il tuo.»
«Era solo un peluche» bofonchiò Lila, dando una breve occhiata al cellulare: nessuna chiamata. Perfetto.
Aveva fatto in modo che nessuno sapesse che quel giorno sarebbe partita.
Lila sarebbe semplicemente svanita.
Puff!
Andata via.
«C’è molto più di quello che immagini in te, Lila. E un giorno te ne accorgerai.»
Come poteva conoscere il suo nome?
Lila alzò la testa, voltandosi e aspettando di trovare l’anziano orientale con gusti discutibili in fatto di camicie ma, invece, non trovò nessuno: si guardò attorno, cercando di intravederlo da qualche parte, ma di quel misterioso signore non c’era più nemmeno l’ombra.
C’è molto più di quello che immagini in te, Lila.
Che cosa aveva voluto dire?
Come faceva a sapere chi era?
Aspetta, forse l’aveva riconosciuta perché lei era l’akumatizzata.
E un giorno te ne accorgerai.
La voce elettronica annunciò il suo volo e i pensieri sparirono, mentre afferrava la borsa e si dirigeva verso l’aereo che l’avrebbe portata via – e per sempre – da Parigi.
Non sarebbe mai più tornata.
Non voleva più tornare.
Lei non sarebbe più stata l’akumatizzata.

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Capitolo 7
*** Scena 7: Marinette; Ladybug ***


Titolo: Marinette; Ladybug
Personaggi: Lila
Genere: introspettivo, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?
Wordcount: 1.494 (Fidipù)
Note: Ed eccoci di nuovo qua con Scene (toccava a Scena questa settimana, vero? Vero?) con un capitolo che...beh, sinceramente ciò che leggerete è sempre stato ciò che ho pensato sulla questione: E se Adrien scopre chi è Ladybug, prima di stare con Marinette? Cosa penserà la moretta del biondo e della relazione che andrà a instaurarsi? E...beh, leggerete ciò che penso al riguardo. Ovviamente questo è solo un tassello, una delle tante conferme che poi Adrien continuerà a fare - in parte - anche nella prima storia della trilogia Miraculous Heroes (fortunatamente, Marinette si è fatta convincere facilmente).
Cronologicamente, questo capitolo, si colloca subito dopo i due capitoli di In the rain.
Come al solito, ci tengo a ringraziarvi tutti quanti: grazie perché continuate a leggere le mie storie, grazie perché mi commentate e grazie per inserire le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie di tutto cuore!


«Ciao…»
Marinette alzò la testa, osservando il biondo in piedi davanti a lei che le sorrideva dolcemente: quante volte aveva sperato che Adrien la guardasse così? Quante volte aveva sognato che lui la cercasse, che passasse il tempo con lei come se fossero…
Strinse le labbra, osservandolo ancora per un secondo, mentre lui strusciava a disagio i piedi.
«Ci-ciao.» bisbigliò, chinando la testa e tornando al disegno dell’abito, mentre il modello le si sedeva accanto: non troppo vicino da metterla in allarme, ma neanche troppo lontano da apparire estraneo.
Quante cose erano cambiate da quando Chat Noir – Adrien, si corresse subito – era andato a trovarla, dopo la sconfitta di Papillon.
O da quando l’aveva chiamata my lady in biblioteca, usando quel nomignolo che aveva sempre e solo riservato all’altra sua parte, a Ladybug.
Adesso sapeva esattamente cosa il biondo pensava di lei e i suoi sogni…
I suoi sogni si erano infranti.
Ad Adrien non sarebbe mai piaciuta Marinette, lo sapeva bene.
L’aveva avvicinata solo perché lei era Ladybug, non perché era Marinette Dupain-Cheng.
Aveva sempre sentito il peso della maschera che indossava, il ruolo dell’eroina che aveva, ma mai come in quegli ultimi giorni era stato così soffocante.
«Che disegni?» le domandò Adrien, sorridendole e allungando il collo in modo da vedere il foglio ove era il suo lavoro.
«Niente.» borbottò la mora, chiudendo l’album e dandosi mentalmente un pugno in testa: perché doveva essere così…così…così insopportabile?
Il biondo incassò il colpo, senza darlo a vedere, e mantenendo un sorriso tranquillo in volto mentre lei ficcava il blocco dentro lo zaino e si alzava, guardandosi intorno quasi alla ricerca di una fonte di salvezza: «Marinette?» le domandò, fermandola e alzandosi a sua volta: «Stavo pensando…» iniziò il biondo, massaggiandosi impacciato la nuca e regalandole l’ennesimo sospiro: «Avresti voglia di uscire con me? Domenica?»
Quante volte aveva sperato che Adrien la invitasse?
Quante volte aveva sognato di uscire con lui?
«Lo fai solo perché io sono Ladybug.» bisbigliò la ragazza, scuotendo la testa e facendo ondeggiare le codine: «Se io non fossi stata Ladybug non ti saresti ma interessato a me.» dichiarò convinta, alzando lo sguardo celeste ferito e guardando, notando la confusione impadronirsi: «A t-te pi-piace Ladybug. Non Ma-marinette.» continuò, invocando poi il nome della propria kwami e ordinandole di trasformarsi.
Ladybug prese il posto di Marinette, ma il dolore rimaneva mentre lo guardava un’ultima volta, prima di lanciare il proprio yo-yo e correre via: avrebbe voluto piangere, ma i suoi occhi erano stranamente asciutti mentre balzava sul tetto della scuola e poi corse verso la propria casa.
Il suo terrazzino.
Il suo rifugio.
Saltò e si lasciò andare contro il muretto, tirando su le gambe e poggiando la fronte con le ginocchia, inspirando profondamente e socchiudendo gli occhi: perché era così insopportabile? Perché era così insicura, debole?
Fece un nuovo profondo respiro e alzò la testa, sobbalzando alle gambe inguainate di nero che si trovò davanti.
Maledetto micio silenzioso, pensò dentro di sé, continuando a far vagare lo sguardo verso l’altro e incontrare quello di Chat Noir.
Il giovane si chinò davanti a lei, sorridendole e allungando una mano e scostandole un ciuffo dalla guancia: «Ti piace il colore rosa.» dichiarò sicuro: «Non ti ho mai visto un giorno senza indossare qualcosa di quel colore.»
«Cosa…?»
«Sei una ragazza dolce e forte: aiuti sempre chi ha bisogno e non chiedi mai niente in cambio. Hai talento e sogni di lavorare nel mondo della moda un giorno.» continuò Chat Noir, scivolando accanto a lei e passandole un braccio attorno alle spalle: «Hai sempre il profumo della boulangerie di tuo padre addosso e mi piace tantissimo.»
Ladybug si divincolò un po’ ma il giovane fece forza sulla presa, impedendole di scappare nuovamente: «Mi piace quando balbetti, perché sono l’unico che riesce a capire cosa dici: sono diventato bravissimo a tradurre il marinettese.» dichiarò orgoglioso di sé, alzando il mento: «E mi piace anche quando mi fa il verso. Non credere che non ti abbia visto, quando abbiamo battuto Evillustrator.»
«Io…»
«Sei l’unica a cui lo permetto, principessa.» dichiarò Chat Noir, abbassando il volto e sorridendo allo sguardo celeste che lo fissava da dietro la maschera di Ladybug: «Così come sei l’unica a cui ho dato un nomignolo. Solo a te. Anzi, a dirla tutta te ne ho dati due.»
«Due?»
«Beh, my lady e principessa.» dichiarò il ragazzo, poggiando la fronte contro quella della ragazza e facendole l’occhiolino: «Dovrei scegliere ma è difficile: sei sia la mia signora che la mia principessa.»
«Chat…»
«Sei insicura e, davvero, vorrei capire il perché dato che non ne hai motivo.» continuò il ragazzo, bloccandola: «Ma farò tutto ciò che è in mio potere per darti quella sicurezza che non hai.»
«Chat, io…»
«A me non piace Marinette perché è Ladybug.» dichiarò convinto, carezzandole la guancia con le labbra: «Ma Ladybug perché è Marinette.»
La ragazza registrò le parole che lui aveva appena detto, scuotendo la testa: «Non ha senso quello che hai detto.» bofonchiò, voltandosi verso di lui e rendendosi conto che i loro visi erano  veramente vicinissimi: sarebbe bastato poco, un semplice movimento e…
Ladybug scosse il capo, voltandosi dalla parte opposta e sentendo le labbra di Chat scivolarle sulla guancia e poi giù, lungo il collo: «Chat…» bisbigliò, allontanandosi di un poco e vedendolo sorridere di fronte a quel movimento: «Che c’è?»
«Quello che ho detto io non ha senso? Vogliamo parlare di quello che mi hai urlato contro poco fa?» le domandò il giovane, prendendola per le mani e facendola alzare, portandola nel punto più nascosto del terrazzino, in modo da evitare che qualche curioso potesse vederli: «Sei un po’ troppo presuntuosa, my lady.»
«Cosa?»
«Credere di sapere chi mi piace…» continuò Chat, poggiando le mani contro il muro di mattoncini e facendole l’occhiolino: «Dovrei punirti, sai?» commentò tranquillo, baciandole la punta del naso e facendole l’occhiolino: «Sì. Dovrei veramente punirti per aver pensato che a me non piaci, Marinette.»
«E-ecco, i-io…»
«E’ divertente vederti balbettare in questo modo.»
«Pailtana. No, volevo dire…pialnata…»
«Ok, ok. La pianto.» La ragazza sgranò gli occhi, osservandolo confusa e ricevendo in cambio un sorriso dolce: «Te l’ho detto. Sono un ottimo traduttore del marinettese.» assentì, facendole l’occhiolino: «So perfettamente come tradurre ogni parola che dici.»
«Noto…»
«E so anche un’altra cosa.»
«Cosa?»
«So che tu non vuoi che smetta di flirtare con te.» dichiarò Chat Noir, chinandosi leggermente in modo che i loro volti fossero alla stessa altezza: «Anzi, devi ammettere che ti piace quando lo faccio. Quindi, per farti contenta, lo farò. Ogni giorno come Adrien e come Chat Noir.» Ladybug sorrise, allungando titubante una mano e carezzandogli la guancia: «E smettila di pensare cose stupide come quella di prime: Marinette. Ladybug. A me piace ogni tuo lato, principessa.»
«Io…»
«Soprattutto il tuo lato B, devo dire. E’ sempre bellissimo da vedere quando…»
«Chat!»
«Ti piace quando flirto con te.»
«No, per niente.»
Il ragazzo ridacchiò, osservandola incrociare le braccia e guardarlo indispettita: «Bentornata, my lady.» dichiarò, dandole un buffetto sul naso e osservandola sciogliere il broncio in un sorriso: «Dovremmo tornare a scuola, adesso. Ci tocca due ore con la Mendeliev.»
«Oh. Povero, mon minou.»
«Non sei spiritosa.»
Ladybug scosse il capo, mettendo mano al suo yo-yo e cercando con lo sguardo un appiglio: «Marinette?» la chiamò Chat, facendola voltare e notare che era al suo fianco, con il suo solito sorriso tranquillo in volto: «Tu mi piaci, Marinette. E anche tanto.»
«Anche tu.» dichiarò lei, sentendosi orgogliosa della voce ferma con cui l’aveva detto.
Chat sorrise, chinandosi e baciandole la guancia, prima di mettere mano al bastone e, usato come un’asta, si lasciò cadere sul tetto della scuola, dall’altra parte della strada, lasciandola inebetita sul terrazzino, con una mano sulla guancia che lui aveva sfiorato con le labbra.

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Capitolo 8
*** Scena 8: Quando Wei si presentò... ***


Titolo: Quando Wei si presentò...
Personaggi: Marinette Dupain-Cheng, Adrien Agreste, Altri
Genere: introspettivo, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?
Wordcount: 631 (Fidipù)
Note: Ed eccoci qua con un nuovo aggiornamento di 'Scene' e questa volta è il turno di una scena che mi è stata chiesta dalla mia Lettrice Prima (ovvero, la povera anima che si legge tutto in anteprima per sapere se va bene oppure no) e che, rileggendo la prima parte della trilogia di Miraculous Heroes, ho notato che in effetti mancava: sto parlando di ciò che unisce il capitolo 16 al capitolo 17, ovvero: Wei si presenta a Marinette e Adrien, mostrandogli il suo Miraculous. Ok, come sono finiti al locale a parlare? E...beh, quella che troverete qui sotto è quella parte mancante.
E' veramente breve rispetto alle altre, ma ci tenevo a metterla visto che me l'ha chiesta la Lettrice Prima. A conti fatti questa è la prima scena che si lega in modo totale a Miraculous Heroes...
Detto ciò, come sempre, ci tengo a ringraziarvi tutti quanti: grazie a chi mi legge, chi mi segue, chi mi commenta...
Grazie tantissimo a tutti voi!


Wei abbozzò un sorriso, abbassando il braccio e osservando gli sguardi sorpresi dei due ragazzi davanti a lui: adesso che li osservava poteva riconoscere in loro due degli eroi di Parigi, Ladybug e Chat Noir. Poteva vedere nello sguardo verde del ragazzo la stessa luce divertita che animava quello del suo compagno e sebbene la giovane che era con lui non aveva quell’aria di sicurezza che, di solito, aveva Ladybug…
Beh, qualcosa dentro di lui gli faceva dire che era lei, la sua compagna di battaglia.
«Quello…» il biondo sorrise, schiarendosi poi la voce: «Quel bracciale è quello che penso che sia?»
«Il Miraculous della Tartaruga, sì.»
«Uao.» bisbigliò il biondo, portandosi una mano alla bocca e facendo vagare lo sguardo verde dal bracciale al suo viso: «In effetti, hai la stessa stazza e…Uao.»
«Io…io…Adrien, noi…»
«Quindi tu sei…» mormorò il giovane, zittendosi dopo che la mora gli ebbe assestato una lieve gomitata nelle costole: «Sì, my lady? Sai, ci sono molti altri modi per avere la mia attenzione, non devi picchiarmi ogni volta…»
«Ti sembra il luogo adatto?» sibilò la ragazza, facendo sorridere Wei: sì, era decisamente Ladybug.
Il biondo le sorrise, chinandosi lievemente verso di lei e strusciandole il naso contro la tempia: «Ogni luogo è adatto, my lady.» dichiarò divertito, ricevendo in cambio uno sbuffo: «Mi chiamo Adrien Agreste.» si presentò, allungando una mano in direzione di Wei, che aveva assistito allo scambio tra i due in completo silenzio: «E la splendida ragazza al mio fianco è…»
«Marinette Dupain-Cheng.»
«Wei Xu.» si presentò a sua volta il Portatore del Miraculous della Tartaruga, osservando poi Adrien e Marinette mostrargli con nonchalance l’anello e gli orecchini che indossavano: «I vostri…»
«Sì, esatto.» dichiarò Marinette, sorridendogli dolcemente: «E’ un onore conoscerti, Wei. Di solito siamo abituati…»
«Io sono abituato a una coccinella che mi ha fatto patire le pene dell’inferno per scoprire la sua identità.» sentenziò Adrien, allegramente facendo l’occhiolino alla ragazza e sorridendo al cinese: «Mi piace il tuo modo, amico. Vieni qui, mostri il Miraculous e dici: ehi, sono della ciurma. My lady, avresti dovuto prendere esempio da lui.»
«Peccato che non sapevo chi eri…»
«Bastava chiedermelo, sarei stato felice di trasformarmi davanti a te e mostrarti il mio bellissimo viso.»
Wei ridacchiò, osservando Marinette sbuffare per l’ennesima volta: «Io…»
«Che ne dici di andare a bere qualcosa? Così facciamo la reciproca conoscenza, eh?»
«Sarei onorato.»
«Ottimo!» esclamò Adrien, battendogli una mano sulla spalla e sorridendo: «Ah, my lady. Dovremmo avvertire Volpina. Penso le faccia piacere sapere chi è…beh, lui.»
«Conoscete Volpina?»
«Purtroppo per me, sì.»
«Ah, la professoressa di matematica aveva fermato anche lei e…»
«Andiamo al locale e l’avvisiamo da lì? Il solito, my lady?»
«Sì, tanto lo conosce anche lei.»
«Per una volta è utile, quella volpe.»
«Adrien…» sospirò Marinette, scuotendo il capo e alzando gli occhi al cielo: «Perdonalo, Wei. Purtroppo Adrien ha il pessimo vizio di parlare.»
«Io dico che è un ottimo vizio.»
«Andiamo al locale, per favore.»
«Come la mia signora desidera.» dichiarò il biondo, chinandosi con fare galante: «Wei, prego, da questa parte.»
Wei annuì, osservando i due ragazzi superarlo: era andata bene. Lo avevano accettato.
Beh, forse.
Si portò una mano sopra il bracciale, carezzando la pietra verde a forma di tartaruga: aveva conosciuto Ladybug e Chat Noir.
La prossima sarebbe stata Volpina…
Volpina.
Quella ragazza lo incuriosiva e non vedeva l’ora di conoscerla.
«Ho fatto bene, Wayzz.» dichiarò, sentendo la zampina del suo kwami posarsi sul collo: «Ho fatto la scelta giusta.»
Marinette e Adrien si fermarono, poco più avanti rispetto a lui, e si voltarono entrambi nella sua direzione: «Ehi, sei tartaruga di nome e di fatto?» scherzò allegro il secondo, ricevendo in cambio una manata sulla spalla e  che liquidò con l’ennesimo sorriso verso la ragazza.
«Arrivo.»

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Capitolo 9
*** Scena 9: Coeur Noir ***


Titolo: Coeur Noir
Personaggi: Marinette Dupain-Cheng, Adrien Agreste, Altri
Genere: introspettivo, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?
Wordcount: 912 (Fidipù)
Note: Nuovo aggiornamento di Scene, che ha abbandonato il mercoledì in favore delle altre storie (ovvero La bella e la bestia, Inori e La sirena) e si è spostato al sabato e verrà aggiornato ogni due sabati! Se andate sul mio profilo, potete trovare il calendario completo degli aggiornamenti che farò ad aprile (e, appena sarà fatto l'ultimo, l'aggiornerò con maggio). Ma parliamo del capitolo! Chiyou! Quanto mi era mancato il demone cinese, amante degli specchi e presenza molesta della cara Bridgette/Willhelmina/Coeur Noir.
Cronologicamente parlando, questo capitolo va prima di Miraculous Heroes e prima che Sarah riceva il Miraculous dell'Ape, un punto imprecisato quindi fra In the rain e Miraculous Heroes (e sì, devo assolutamente trovare il modo di fare una tabella con tutte le cose che sto scrivendo sul Quantum Universe in ordine cronologico, per facilitarvi la lettura. Assolutamente).
Detto questo, come sempre, vi ringrazio tantissimo! Grazie per il fatto che leggete le mie storie, le commentate, le inserite nelle vostre liste e inserite me fra i vostri autori preferiti.
Grazie tantissimo!


Poteva ancora vedere il corpo di Black Cat ferito mortalmente, mentre cadeva a terra e il sangue che macchiava la pietra sotto di lui; aveva ancora davanti agli occhi la trasformazione che si scioglieva e le rivelava la vera identità dell’uomo.
Il suo unico amore.
Il suo più grande sbaglio.
La sorpresa, l’angoscia, il dolore, la rabbia, la sete di sangue.
Tutto si mischiava dentro di lei, mentre apriva le palpebre e osservava il soffitto della sua camera: inspirò profondamente, sentendo le spire del sonno lasciarla andare e permetterle di tornare alla realtà; lentamente si issò a sedere, passandosi poi una mano fra i capelli e strinse i denti.
Odiava ricordare.
Odiava rivivere il giorno che aveva distrutto la sua vita e, proprio per questo, cercava molto spesso l’oblio dell’alcol.
Inspirò profondamente, alzandosi e andando allo specchio che dominava l’arredo della sua camera, sorridendo all’altra sé: «Oggi sei tranquilla?» le domandò, trovando il proprio riflesso stranamente immobile.
Se per gli altri sarebbe stato strano vedere il proprio riflesso animarsi, per lei lo era di più quando questi si comportava nel modo consono.
Chiyou si stava ricaricando a quanto pareva.
Sapeva che la odiava e non sopportava il suo continuo lottare contro la sua presenza e la sua possessione: quando quel lontano giorno l’aveva accolto dentro di sé, sperando così di salvare la povera vittima che il demone aveva posseduto, aveva creduto di morire.
Lo aveva sperato.
Ma Chiyou non si era rivelato mortale per il suo corpo, anzi le aveva donato un’innaturale immortalità e un’altrettanta innaturale invulnerabilità: aveva provato più e più volte a suicidarsi, a porre fine alla sua vita portando con sé il demone, ma tutto ciò si era rivelato vano.
Non poteva morire.
Non poteva vivere.
Poteva solo lottare per non perdere l’ultimo brandello di sé.
Poteva solo sopravvivere e soffrire.
Inspirò nuovamente, sentendo la cassa toracica espandersi e chiuse gli occhi, cercando di carpire la presenza che l’accompagnava da due secoli buoni buoni: la continua lotta con la sua volontà, che non voleva chinarsi al demone, lo costringeva a recuperare energie, di tanto in tanto.
Come quel giorno…
Sorrise mestamente, lasciando andare l’aria e dando libero sfogo ai propri pensieri: Chiyou era una presenza molesta e, a parte quei rari momenti, doveva stare molto attenta a ciò che pensava, dato che condivideva ogni cosa con il demone.
Era in quei momenti, quegli attimi di pace, in cui si permetteva di ideare il suo piano, quello in cui avrebbe fermato il suo nemico e, finalmente, avrebbe avuto la pace che tanto agognava.
Aveva atteso per decenni che Fu si decidesse a lasciare i Miraculous a dei nuovi Portatori: da quando era divenuto Gran Guardiano, dopo i fatti di Nanchino, li aveva tenuti gelosamente con sé, finché non molti anni prima aveva finalmente donato il Miraculous del Pavone.
Quando aveva letto le notizie riguardo Pavo era stata felice.
Altri sei e avrebbe potuto mettere in atto il suo piano: li avrebbe presi tutti e sette, usando il loro potere congiunto e mettendo fine alla sua vita e a quella di Chiyou.
In quel modo ce l’avrebbe fatta, n’era sicura.
Ma Fu continuava a non voler cedere i gioielli.
Poi qualche anno prima c’era stata una svolta e a Parigi erano apparsi Papillon, Ladybug e Chat Noir.
Altri tre.
Aveva seguito con interesse ogni notizia che giungeva dalla capitale francese, apprendendo che Papillon non era dalla parte dei buoni: un Miraculous poteva essere usato per fini malvagi? Era rimasta sbigottita dalla cosa, ma aveva deciso di sorvolare.
Non le interessava il modo in cui il gioiello era usato, le interessava solo che fosse stato donato a un Portatore.
Anche se, doveva ammettere con sé stessa, però, che era stata curiosa: chi era la sua erede? Anche lei si era innamorata del Portatore del Miraculous del Gatto Nero? E lui com’era? Scanzonato e seducente come Black Cat oppure serio e ligio al dove come il Sergente Norton?
Le sarebbe piaciuto conoscerli, vederli, osservarli assieme.
Inspirò profondamente, scuotendo il capo e ritornando al piano originale: i Miraculous. Resoconto di quelli che erano stati donati.
Da Parigi non era giunto più niente, dopo un po’ di tempo: Papillon sembrava scomparso nel nulla e anche Ladybug e Chat Noir facevano apparizioni sempre più sporadiche.
Cosa doveva fare?
Come poteva convincere Fu a donare i restanti gioielli e far sì che i Portatori uscissero allo scoperto?
Come…
Si bloccò, sentendo la presenza del demone risvegliarsi e lasciò che ogni pensiero sfuggisse via dalla sua mente.
Doveva pensare a qualcosa di diverso…
Un qualcosa che le permettesse di raggiungere il suo fine e facesse felice anche Chiyou.
Distruzione. Mi piace questa cosa.
Sorrise, sentendo la voce familiare dentro di lei e felice che il suo pensiero piacesse anche al demone.
Cosa vuoi distruggere?
«Tutto. Voglio tingere questo mondo delle stesse tonalità scure della mia angoscia e del mio dolore.» dichiarò, osservando il proprio riflesso e notando come la luce negli occhi dell’altra sé era cambiata, diventando più fredda e maligna.
Oh. Mi piace.
Sì, avrebbe portato la disperazione e il dolore del suo cuore, ormai nero come la pece, e così facendo avrebbe indotto Fu a donare gli ultimi Miraculous.
Miraculous?
«Voglio distruggerli.» dichiarò, senza mostrare alcuna emozione e fissando il proprio riflesso: «Voglio distruggere tutto quanto. Voglio che tutti provino ciò che ho provato io, voglio che tutti tingano il proprio cuore di nero, come il mio.»
Cuore nero?
«Sì. Sarà il mio nome: Coeur Noir.»

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Capitolo 10
*** Scena 10: Pavo ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 2.319 (Fidipù)
Note: Salve a tutti! Eccoci qua con il nuovo appuntamento di Scene, stavolta dedicato a Sophie Agreste alias Pavo. Bene, se avete letto Miraculous Heroes 2 conoscerete già Madame Agreste e il passato che le ho dato: ex-portatrice del Miraculous del Pavone, ha abbandonato il marito e il figlio per proteggerli e compiere il suo dovere di eroina, tutto ciò facendosi catturare da Maus, il suo nemico, uno scienziato tedesco ossessionato dal Quantum, l'energia che tutto muove in Miraculous Heroes. Per narrare la storia di Sophie, che troverete in questo capitolo, ho deciso di...beh, scrivere piccoli momenti della vita di Sophie da quando trova il Miraculous del Pavone a quando si farà catturare da Maus. Alcuni sono veramente brevi, altri un poco più lunghi e...beh, spero vi piaccia.
E questo è l'ultimo aggiornamento della settimana e del mese di Aprile! Yeeeh!
Ma, ahivoi!, lunedì sarò di nuovo qua con una nuova settimana densa di aggiornamenti!
Come sempre ringrazio tutti voi che leggete, commentate (io devo seriamente mettermi sotto e rispondere ai vostri commenti, davvero!), inserite la fanfiction in una delle vostre liste e me fra gli autori preferiti.
Grazie di tutto cuore!




Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, osservando la creatura blu che volava a mezz’aria e la fissava, con uno sguardo incerto sul muso.
Si guardò attorno, cercando di trovare qualcosa con cui colpirlo.
Era un insetto.
Un grosso insetto blu e, sicuramente, pericoloso.
Si allungò, recuperando una scarpa che aveva abbandonato sul comò e,  aspettato che la creatura si fermasse un attimo, la lanciò: «Ehi!» sbottò questa, voltandosi inviperita verso di lei: «Stai provando a farmi fuori?»
«Parli?»
«Certo che parlo!» dichiarò la cosa, effettuando qualche evoluzione in volo: «Io sono Flaffy! E sono un kwami! E tu sei la mia Portatrice, Sophie! Sei stata chiamata per una causa importante, tu sarai colei che riporterà Parigi alla pace e…»
«Cosa dovrei fare io? E perché sai il mio nome?»
«Tu porterai Parigi alla pace e…»
«Io? Io che non riesco a sistemare camera mia senza far danno?»
«Sì, tu. Tu sei stata scelta, Sophie.»


Pavo balzò sul traliccio della Tour Eiffel, socchiudendo gli occhi e lasciando che la brezza fresca della notte le carezzasse il volto: «Vision» mormorò, inspirando poi profondamente e lasciando che il potere speciale del Miraculous si attivasse.
Rimase immobile mentre, dietro le palpebre, le visioni del futuro si alternavano e arrivarono a ciò che le interessava: sorrise, riaprendo gli occhi e osservando le luci della capitale francese sotto di lei.
Avevo visto l’uomo di Maus.
Sapeva dove avrebbe attaccato e chi.
Inspirò, dandosi una lieve spinta e lasciandosi cadere nel vuoto, afferrando i lembi del proprio mantello, così simile alla coda di un pavone, e lo usò per planare sul prato sottostante.
Il suo Miraculous risuonò nel silenzio della notte.
Aveva ancora 4 minuti e mezzo.


Era stato un combattimento facile.
Gli uomini di Maus stavano perdendo un po’ sul piano fisico.
Forse il suo caro scienziato tedesco non li faceva allenare molto o forse, con il fatto che la loro avversaria era una jeune fille parisienne, non pensavano di doversi applicare molto.
Era sempre orgogliosa di sé, quando dimostrava loro il contrario.
Si voltò, osservando l’uomo che si rialzava e domandandosi perché proprio lui: sembrava poco più grande di lei e non aveva certo l’aria delle classiche vittime di Maus.
Non era uno scienziato.
Non era un politico o un qualche esponente dell’esercito francese.
Era semplicemente un giovane uomo con i capelli biondi e gli occhi azzurri, le lenti quadrate erano trasversali al viso: «Va tutto bene?» gli domandò, chiudendo il ventaglio con un suono secco e sorridendogli: «Sei ferito?»
«N-no. Sto bene.»
Pavo sorrise, annuendo e voltandosi, riprendendo la sua strada mentre il Miraculous suonava imperioso: aveva ancora due minuti.


Sophie sospirò, voltando la rivista e fissando la modella ritratta, picchiettando il piede contro la gamba del tavolo: doveva studiare, aveva un bel po’ di lavoro arretrato ed era certa che al professore non sarebbe piaciuto che, la sua studentessa più brillante – sue testuali parole –, fosse così svogliata.
Ma era stanca per la nottata passata a vigilare su Parigi.
E ancora non capiva perché quell’uomo era stato attaccato.
Era così…
Così…
Così normale.
Sospirò, chiudendo il giornale, alzandosi e andando a sbattere contro qualcosa: si ritrovò a terra e dolorante, mentre si portava le mani alla nuca e tastava il punto che aveva colpito contro la sedia: «Va tutto bene?» le domandò una voce stranamente familiare, Sophie aprì le palpebre e osservò il giovane uomo che, inginocchiato davanti a lei, la fissava preoccupato: «Sei ferita?»
«N-no. Sto bene.»
L’uomo le sorrise, allungandole la mano e aiutandola a rialzarsi, recuperando poi la sua borsetta e la rivista, ignorando i fogli sparsi attorno al tavolino: Sophie si lasciò sfuggire un gemito, chinandosi e sbattendo di nuovo la testa contro il tavolo, reprimendo una sequela di parole che avrebbero fatto impallidire chiunque.
Strinse le labbra, rialzandosi e osservando l’uomo fissarla, con gli occhi sgranati, da dietro le lenti quadrate: lo vide scuotere la testa, ridendo divertito e Sophie capì, in quel preciso istante, la frase che tanto spesso trovava nei suoi adorati romanzi d’amore.
Il suo cuore aveva perso un battito.


Non capisco perché dobbiamo pedinare quell’uomo.
Non lo sto pedinando, Flaffy. Lo sto proteggendo.
Non è vero! Lo sai che non è pericolo! Si era solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato…

Pavo sospirò, ripensando alla discussione che aveva avuto con il suo kwami: l’aveva guardata, agitando la barretta di cioccolata e poi aveva scosso la testa, mentre lei aveva sorriso e si era trasformata.
Per seguire Gabriel.
Gabriel Agreste.
L’uomo che l’aveva fatta innamorare con la sua risata.
E che aveva paura di incontrare da Sophie Martel: era incline al rendersi ridicola e stupida, ogni volta che lo incontrava con la sua vera identità.
Da Pavo invece…
Gabriel si fermò, alzando la testa verso l’alto e, n’era certa, l’aveva vista.
Lo faceva sempre.
La salutò con un cenno del capo e poi riprese il suo cammino.
Pavo sorrise, stirando le braccia verso l’alto e sorridendo, mentre lo sguardo verde si posava sulla città, le cui luci si incominciavano ad accendere.


Sospirò, mentre voltava la pagina e sentiva la stessa gioia della protagonista, quando l’uomo che amava le aveva rivelato il suo amore: le sue amiche la prendevano spesso in giro per la sua passione per i romanzi ove la storia d’amore la faceva da padrona ma non le importava.
Abbandonò un attimo la lettura, donando il volto ai raggi del sole caldo e sospirando beata: le sarebbe piaciuto rimanere ancora lì, ma presto sarebbe si sarebbe dovuta incontrare con alcune ragazze del suo corso.
Si prese il volto fra le mani, osservando la chiatta che, placida, scivolava sulle acque della Senna e i turisti che, spinti contro il bordo, fotografano i vari monumenti.
Poggiò i palmi sulle ginocchia lasciate nude dal vestito e si alzò, voltandosi velocemente e sbarrando lo sguardo al petto coperto da una camicia candida contro cui si scontrò; sentì il tacco del sandalo cederle e si sarebbe ritrovata nuovamente a terra, se non fosse stato per le braccia forti che le circondarono la vita.
«Io…» mormorò, leccandosi le labbra e alzando timidamente lo sguardo verso l’uomo: Gabriel Agreste. Di nuovo lui.
«Stai bene?»
«S-sì. Eccio…cioè volevo dire…ecco, io…»
«Posso lasciarti? Non cadrai di nuovo?»
«No.» si affrettò a rispondere Sophie, scuotendo la testa e notando le labbra di lui piegarsi in un sorriso ironico: non doveva essere un tipo che sorrideva spesso, non aveva quelle fossette tipiche di chi rideva sempre.
«Dovremmo smettere di incontrarci così.» dichiarò, lasciando che lei trovasse l’equilibrio e poggiandole le mani sui fianchi: «Se fossi un tipo romantico, direi che è il destino…»
Sophie sorrise, chinando la testa e pregando che il suo viso non si stesse arrossendo: il destino. Che cosa romantica.
«Io mi chiamo Gabriel Agreste. Se è veramente il destino, tanto vale assecondarlo…»
«So-sophie Martel…»
«Piacere, Sophie Martel.»
«Pi-piacere.»


«Tu hai un sogno, Gabriel?»
Sophie si strinse nello scialle, osservando l’uomo portarsi alle labbra il bicchiere di birra e berne una sorsata: «Non ho un sogno. Ho un obiettivo.»
«E non è la stessa cosa?»
«Un sogno è qualcosa di inavvicinabile, un obiettivo lo raggiungi con le tue forze.»
«E allora? Qual è il tuo obiettivo?»
«Diventare stilista» dichiarò sicuro l’uomo, fissandola da dietro le lenti: «E il tuo, ma belle?»
Sophie piegò le labbra in un sorriso, inclinando la testa e giocherellando con il tovagliolo di carta: «L’amore.» dichiarò, dopo un po’, portando lo sguardo verde in quello di lui.
«E’ un sogno.»
«Anche i sogni li puoi raggiungere con le proprie forze.»


«Hai un aspetto familiare» sentenziò Gabriel, facendola fermare: inconsciamente si portò una mano al volto, toccando la maschera blu pavone con le piume del suo animale che la ornavano ai lati: «Tu…»
«Io? Chi ti ricordo?» domandò spavalda, senza voltarsi.
«La mia fidanzata» fu la risposta spiccia di Gabriel, che la fece sorridere: sempre diretto e senza mezzi termini.
«Deve essere…»
«Sophie, sei tu?»


«Vuoi dirgli chi sei?»
«Sì.»
«Ma…»
«Flaffy, non posso continuare a nascondergli la mia vera identità» dichiarò Sophie, osservando il kwami che, sdraiato sopra il libri di Jules Verne che l’aveva implorata di comprargli, la fissava: «E se fosse un uomo di Maus? E se l’attacco a lui fosse stato…»
«E se tu fossi troppo paranoico?»
«I veri eroi stanno sempre attenti a tutto!» dichiarò il kwami, volando fino al tavolo e recuperando un cioccolatino, scartandolo e ingoiandolo in un unico boccone, guardando la ragazza e sbuffando: «Ne sei veramente sicura?»
«Sì»
«D’accordo. Ma ti avviso, se poi si rivela che lui era cattivo…» Flaffy fluttuò fino al volto della bionda, fissandola male: «Io te l’avevo detto!»


Sentì la trasformazione sciogliersi, mentre guardava lo sguardo di Gabriel sgranarsi dalla sorpresa mentre il suo aspetto lasciava quello di Pavo per ritornare a essere semplicemente Sophie Martel: «Io…»
«Sapevo che eri tu» mormorò l’uomo, sorridendole e allungando la mano verso di lei: «Ho sempre saputo che eri tu.»


Sophie rimase ferma, mentre alla televisione trasmettevano le immagini di un nuovo attacco di Maus: «Devo andare…» mormorò, voltandosi verso l’uomo seduto al suo fianco.
Gabriel la fissò, gli occhi seri che la seguivano mentre lei si alzava e cercava con lo sguardo il proprio kwami: «Devi proprio?»
«E’ il mio compito. La mia missione.»
«E non può farla qualcun altro?»
Sorrise, allungando una mano e carezzandogli la guancia: «Tocca a me, Gabriel» sentenziò, sorridendogli dolcemente: «Tornerò più velocemente che posso.»


Sophie sorseggiò lo champagne, sorridendo all’uomo davanti a lei: «E’ un giorno speciale? Non pensavo che potevi permetterti una cena su…»
Gabriel le sorrise appena, alzandosi dal suo posto e raggiungendola, poggiando le mani sui braccioli e tenendo lo sguardo nel suo: «Sophie…» bisbigliò, chinandosi e inginocchiandosi davanti a lei, mentre una mano scivolava su quelle di lei, tenute intrecciate in grembo: «Vuoi sposarmi?»


Seduta sul divano, osservava divertita Gabriel con il loro bambino tra le mani: Adrien gorgogliava felice, mentre il padre lo faceva volteggiare nell’aria, la presa ben salda attorno al corpo piccolo.
«E’ una bella famiglia…» mormorò Flaffy, posandosi sulla sua spalla e osservando anche lui il quadretto: «Hai un figlio bellissimo, Sophie.»
«Grazie, Flaffy.»
Gabriel strinse il figlio contro di sé e Sophie si sentì stringere il cuore, quando il marito strofinò il naso contro la gota del figlio e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio: «Che gli stai dicendo?» domandò incuriosita.
«Che, quando sarà grande, deve trovarsi una ragazza che cada letteralmente ai suoi piedi.»
«Io non sono mai caduta ai tuoi piedi.»
Gabriel sbuffò, prendendo il figlio e portandolo all’altezza del viso: «Adrien, rettifico: dovrai trovarti una ragazza che cade sempre, così potrai salvarla.»
La risposta fu un gorgoglio senza senso.


Pavo strinse le labbra, osservando l’uomo davanti a lei.
Il suo nemico.
Maus.
«Io sapere chi tu essere, ja.»
«Cosa?»
«Tu essere Sophie Agreste, ja.»


Maus sapeva chi era.
Sophie osservò il bambino che dormiva nel lettino e carezzò la testina bionda: che cosa doveva fare? Che cosa…
Un rumore secco la fece trasalire e, senza pensare, prese il bambino stringendolo contro il petto e cullandolo, cercando di placare il pianto che aveva innescato con quella sveglia improvvisa: Maus non si sarebbe fermato davanti a niente.
Lo sapeva bene.
Maus aveva un obiettivo e avrebbe fatto di tutto per portarlo a termine.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche usare la sua famiglia contro di lei: sarebbero state pedine nelle mani del folle tedesco e sarebbe stata inerme, mentre le persone a lei più care sarebbero rimaste coinvolte e ferite nella sua missione.
Strinse il figlio maggiormente, posando le labbra contro la tempia: «Potrete mai perdonarmi?» mormorò, avvicinandosi alla culla e posando il figlio nel lettino, osservandolo mentre si agitava e singhiozzava: «Perdonami, tesoro mio.»
L’osservò ancora un po’, poi i passi frettolosi nel corridoio la fecero smuovere: si trasformò e, aperta la finestra della cameretta di Adrien, balzò fuori, fermandosi un attimo per vedere Gabriel entrare nella camera e guardarsi attorno, prima di prendere il figlio in braccio e avvicinarsi alla finestra aperta, osservando il mondo esterno.
«Perdonami, amore mio.»


Si era mossa in modo che Maus la scoprisse: perché era giunto in Tibet era un mistero per lei: «E’ una follia!» decretò Flaffy, fissandola sconvolto: «Il tuo piano…»
«Sono certa che Gabriel ti consegnerà a chi di dovere.» dichiarò, mentre osservava la scatoletta di legno che, tanto tempo prima, le aveva cambiato la vita: «Flaffy, devo farmi prendere. Solo così io potrò sapere cosa ha  in mente di fare e…»
«Puoi usare il potere della visione, magari…»
«Abbiamo già tentato, Flaffy.»
«Io sono contrario a questo piano.» dichiarò il kwami, tirando su con il naso: «Tu non puoi…»
Sophie lo prese fra le mani, portandoselo al viso e strusciando la guancia contro il capino: «Scusami, se ho cercato di ucciderti quando ci siamo conosciuti…»
«Sophie, non…»
«Fa il bravo con il tuo prossimo Portatore, ok? Non farlo ammattire perché vuoi tanta cioccolata e, ti prego, basta romanzi di Jules Verne. Trovati qualcosa di nuovo a cui appassionarti.»
«Non voglio lasciarti, Sophie.»
«Neanche io, Flaffy. Ma devo.» sospirò la donna, posando il kwami sul tavolo e sorridendogli: «Se mai incontrerai Adrien o Gabriel…»
«Vuoi che gli dica qualcosa?»
La donna scosse il capo biondo, sorridendo tristemente: «Assicurati solo che stiano bene e felici.»
«Sophie…»
«Grazie di tutto, Flaffy.»


Lo stomaco le faceva male.
O forse era la gamba sinistra quella che doleva di più.
No, era la mano destra.
Si issò a sedere, osservando il suo nemico e sorridendo: «Ciao, Maus. Come va?» dichiarò, cercando di ignorare il dolore del taglio che aveva sul labbro e il fatto che da un occhio vedesse un po’ annebbiato: «Ho pensato di venire a farti una visita. Sei contento?»
«Mettere in cella, subito!»
Sophie strinse i denti, mentre due guardie la prendevano per le braccia e la trascinavano all’interno del maniero, che dominava quella parte del Tibet: «Essere una donna stupida, Pavo.»
«No. Io essere donna con famiglia che ama, Maus.»

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Capitolo 11
*** Scena 11: Sopravvissuto ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.653 (Fidipù)
Note: Ed eccoci di nuovo qua  con Scene! Stavolta è il turno di Felix Norton, il sergente inglese, conosciuto nei ricordi Fu in Miraculous Heroes e tornato come Felix Blanchet in Miraculous Heroes 3: questo pezzo...beh, si può dire che è il suo arrivo in quel di Shangri-la e la conoscenza con un cinese che tutto vede e prevede e una certa signorina con l'orgoglio a mille. E direi  che non ho davvero niente da dirvi, di Shangri-la ho già parlato in Miraculous Heroes 3, quindi non ho voglia di annoiarvi ancora con le mie chiacchiere!
Quindi, come sempre, vi lascio ai soliti ringraziamenti di rito: grazie a tutti voi che leggete, commentate, inserite le mie storie in una delle vostre liste e me fra gli autori preferiti.
E noi ci vediamo lunedì con un nuovo giro di aggiornamenti!




Il dolore della spada che penetrava la sua carne.
Lo sguardo sconvolto di Genbu.
Il grido straziato di Ladybug.
Sorrise, voltandosi verso il nemico e liberandosi dall’arma, ignorando il dolore e calciandolo lontano da sé, mentre altri guerrieri neri si avvicinavano, le spade tese verso di lui: non sarebbe morto senza combattere.
Avrebbero sudato per avere la sua vita.
Evitò l’assalto di uno dei guerrieri, stringendo la mascella quando la spada di un altro lo ferì alla spalla destra e la ferita nella pancia si faceva più insopportabile.
Non sarebbe morto.
Lei doveva essere protetta…
Lei…
Si accasciò a terra, sentendo la vita scivolare via, mentre il volto di una donna gli compariva in mente: non quello della guerriera con cui aveva combattuto fianco a fianco in quell’ultimo periodo e con cui aveva trascorso una notte pochi giorni prima.
Non era il volto di Ladybug, quello che vedeva adesso mentre moriva.
No.
Era il volto di una signorina di buona famiglia, che lo guardava sempre adorante, e con il sorriso più luminoso che lui avesse mai visto.
Bridgette…
Non aveva mai detto il suo nome ad alta voce, era sempre stata Miss Hart per lui, e adesso se ne pentiva: avrebbe voluto chiamarla, avrebbe voluto comportarsi diversamente con lei, avrebbe voluto…
Cadde a terra, osservando la figura di Ladybug non molto lontano da lui: «mi…a…si…gno…ra…» mia signora, proteggi Bridgette. Ti prego.
Solo a lei poteva affidare quella vita per lui tanto cara, solo Ladybug poteva proteggerla.
Solo…


Felix si svegliò ansante, tirandosi immediatamente su e storcendo le labbra alla lieve fitta di dolore che gli era giunta dal fianco: era morto? Dove era? Che posto era quello? Inferno? Paradiso?
Che cosa…
«Vedo che ti sei svegliato, finalmente» commentò una voce maschile, facendo voltare il giovane uomo nella direzione da cui questa proveniva: un anziano cinese lo stava fissando con una luce divertita negli occhi, rimanendo nei pressi di quella che sembrava l’unica entrata del posto in cui si trovava.
Era una grotta forse?
«Immagino che hai tante domande, vero?»
«Io…» era morto, ne era certo. Ricordava il dolore, ricordava i suoi ultimi pensieri, ricordava tutto: «Io ero morto.»
«Beh, lo hai creduto sì.» dichiarò il cinese, toccandosi la collana che teneva al collo: «Questo gioiellino, che ho trovato non molto tempo fa, permette di fare tante cose se usato nel giusto modo: anche far credere a un certo sergente inglese di essere morto. E lo stesso anche ai suoi compagni Portatori o al suo kwami.»
«Che cosa?»
«So molte cose, Felix Norton. Di ciò che eri, di ciò che hai fatto come Portatore del Miraculous del Gatto Nero, anche di ciò che avverrà in futuro…» mormorò il cinese, togliendosi la collana e sorridendo mestamente: «Ma adesso devo andare a mettere a posto questo. Vorrei evitare che cada nelle mani sbagliate. Per il momento. Vuoi venire con me?» Felix si alzò, tastandosi il fianco sinistro e notando una lieve ferita: «Oh, la spada che pensavi ti avesse ucciso, in verità ti ha ferito solo di striscio.» dichiarò l’anziano, facendogli cenno di uscire: «Vieni, ti mostro dove vivrai.»
«Devo tornare a Nanchino.»
«Non puoi salvare quella ragazza, Felix. Non è il tuo compito…»
«Cosa?»
«Tu vuoi tornare a Nanchino per proteggere Bridgette Hart, giusto?»
«Lei come…»
L’uomo sorrise, voltandosi di lato e osservando il muro di pietra grezza: «Bridgette Hart non è mai stata solo la figlia di un mercante inglese che commerciava in Cina. Lei era come te…»
«Cosa? No. Non è possibile…»
«Bridgette era Ladybug.»
Felix scosse il capo, socchiudendo le labbra: no, non era vero. Bridgette era così diversa da Ladybug: lei non sapeva combattere, lei era…era…
«Una maschera permette di essere chi non potremmo essere nella realtà.» dichiarò l’uomo, riportando su di sé l’attenzione di Felix: «Anche tu eri diverso quando ti facevi chiamare Black Cat.»
«Io non…»
«Eri attratto da entrambe, vero? Questo perché, dal momento in cui sei nato, il tuo destino è stato quello di amare solo ed esclusivamente quella donna, così come per tutti coloro che sono stati Gatti Neri. Ugualmente per Bridgette: ti amava sia come Felix Norton che come Black Cat, poiché il suo destino fin dalla nascita è stato quello di essere una Coccinella…»
«No, non può…»
«Puoi credermi o non farlo, Felix Norton. Ma dopo ciò che hai visto negli ultimi tempi, sei veramente sicuro che la realtà che vivevi era quella che pensavi che fosse?»
«Se Bridgette era Ladybug, perché non me l’ha mai detto allora?»
«Perché tu non l’hai mai detto a lei?» Felix aprì la bocca, richiudendola e abbassando lo sguardo, sotto lo sguardo comprensivo del suo salvatore, sempre se così poteva definirlo: «Posso comprendere che ci sono tante cose che non capirai subito, Felix Norton. Bridgette, in questo momento, sta lottando contro Chiyou, che l’ha posseduta: è una donna forte e saprà resistere. Lo farà, perché ciò la porterà ad essere parte di qualcosa di molto più grande.»
«Io devo…»
«Non è tuo compito salvarla, Felix. Le persone che hanno questo ruolo devono ancora nascere…beh, non tutte. Una è già su questa terra ed era il ragazzino che indossava la maschera di Genbu.»
«Al diavolo!» sbottò Felix, dando le spalle all’uomo e allontanandosi di qualche passo: «Non starò qui a sentire ciarlare un vecchio! Bridgette era Ladybug? Come no! Ce la vedo Miss Hart a combattere per le strade di Nanchino la notte…»
«Il mio nome è Kang. E sono su questa terra da parecchio tempo: ho visto questo mondo cambiare tante volte e tante altre cambierà.» dichiarò l’uomo, sorridendo: «Puoi fidarti di me, Felix Norton?»
«Io non mi fido di nessuno.»
«Per il momento…» dichiarò Kang, annuendo e con il sorriso sulle labbra: «Ti ho salvato, Felix Norton. Ho voluto farlo poiché anche tu sarai fondamentale per ciò che avverrà.»


La ragazzina lo fissava seria, studiando ogni suo movimento e tenendosi a distanza di sicurezza: doveva avere quattordici, massimo quindici anni, almeno dall’aspetto.
Kang lo aveva avvertito dell’altra abitante di quel luogo abbandonato e aveva accennato qualcosa della storia di quella mocciosetta.
Il suo nome era Xiang ed era l’ultima discendente dell’antico regno di Lemuria.
Una figlia di Shangri-la, così l’aveva nominata Kang, sorridendogli e spiegando la storia di quel posto: un luogo dove il tempo non scorreva e tutto rimaneva immutato.
La ragazzina che lo stava fissando era molto più anziana di lui, come aveva detto l’anziano, aveva quasi quattromila anni eppure ne dimostrava molto meno di lui: il tempo di Xiang ricomincia a scorrere ogni volta che lei va fuori dalle mura della città per cacciare, sono certo che quando sarà giunto il momento ne dimostrerà qualcheduno in più.
Così aveva spiegato tutto Kang, intimandogli di rimanere all’interno della città finché non sarebbe stato pronto.
«Serve qualcosa, signorina?» domandò, abbozzando un sorriso e ricevendo in cambio un severo sguardo scuro: «Io mi chiamo Felix…»
«So chi sei.»
«E il tuo nome?»
«Xiang»
«E’ un bel nome.»
La ragazza annuì, spostando poi lo sguardo di lato e fissandolo: «Rimarrai qui?»
«Tu mi vuoi qui?»
«Kang dice che sei importante per ciò che avverrà in futuro» mormorò Xiang, inclinando il capo e storcendo le labbra in una smorfia: «E che anche io lo sarò…»
Il futuro.
Ancora una volta, i suoi pensieri si dovevano focalizzare su qualcosa di lontano nel tempo: quanto avrebbe dovuto aspettare in quel luogo, se avesse ascoltato Kang? Quanto sarebbe cambiato il mondo, una volta che avesse messo piede fuori?
«Se rimarrò qui, mi farai compagnia tu?» domandò, sorridendo alla ragazzina e osservando lo sguardo scuro posarsi sul suo, studiarlo e poi lei annuì lentamente.
«Tu mi racconterai del mondo fuori?»
«Certamente.»
«Affare fatto, allora.»


Felix si lasciò andare sul suo giaciglio, chiudendo gli occhi e cercando di assorbire tutto ciò che Kang gli aveva detto quel giorno: una storia così fantastica che, se non avesse avuto i poteri di Black Cat per un po’, avrebbe creduto si trattasse di una favola.
Regni perduti.
Una città senza tempo.
Gioielli magici.
Gente millenaria che vagava sulla terra.
Un uomo che vedeva il futuro.
Ti ho raccontato tutto, Felix Norton. Ora sta a te: che cosa vuoi fare? Ti ho portato qui a Shangri-la, in modo da permetterti di allenarti e prepararti in vista di ciò che accadrà in futuro.
Inspirò profondamente, girandosi sul fianco sano e aprendo gli occhi, osservando il muro di pietra: «Bridgette…» mormorò, allungando una mano e stringendo il pugno.
Bridgette era Ladybug.
Ladybug era Bridgette.
Poteva davvero credere a ciò che Kang gli aveva detto? Aveva sempre e solo amato lei?
E loro…
Dannazione! Aveva…
Sbuffò, abbassando le mani e nascondendo il volto dietro di esse: era finito in quel casino cosmologico o quel che era e la sua preoccupazione principale era il fatto di aver preso la verginità di Miss Hart? Ma come gli ragionava il cervello?
E poi lei…
Se Kang aveva detto la verità, lei adesso stava affrontando da sola la sofferenza di essere posseduta dal demone che aveva controllato l’Imperatrice e lui non poteva fare nulla per salvarla.
Era un semplice uomo, adesso.
Non era più il Portatore del Miraculous, non era più Black Cat.
Era semplicemente Felix.
«Che cosa hai in mente di fare?» gli domandò la voce di Kang alle sue spalle: «Dalla tua decisione dipende molto, Felix Norton.»
«Lei sarà salvata, vero?»
«Sì, in un futuro abbastanza lontano e abbastanza vicino.»
«Io non posso farlo?»
«No, mi spiace.»
«Che cosa posso fare allora?»
«Il tuo ruolo sarà importante, in una guerra che avverrà. Fra un po’ di tempo in un futuro…»
«Abbastanza lontano e abbastanza vicino» Felix sbuffò, alzandosi a sedere e fissando il cinese: «Allenami. Insegnami tutto ciò che devi in vista di ciò che accadrà. Sopravvivrò e ritornerò da lei.»
«Ce la puoi fare?»
«Sì, sono sopravvissuto all’esercito, sopravvivrò a questo tempo lontano da lei.»
Sarebbe sopravvissuto a tutto e sarebbe tornato fra le braccia della sua signora.
Sarebbe tornato con lei.

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Capitolo 12
*** Scena 12: Antieroe I ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.027 (Fidipù)
Note: Buon salve! Eccoci di nuovo qua con Scene e, questa volta, è il turno di Rafael Fabre! Ebbene sì, come è diventato Peacock e come ha avuto in dono il Miraculous del Pavone verrà narrato in questo capitolo e nel successivo, essendo Antieroe diviso in due parti. Parte della scena si svolge a
Beaugrenelle, un centro commerciale di Parigi che regala ore di shopping senza freni a parigini, e turisti, ma non solo: al suo interno si ritrovano, oltre che negozi di tutti i generi, anche servizi quali cinema, bar e ristoranti.
Detto questo, come sempre, voglio ringraziarvi tutti quanti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie nelle vostre liste.
Come sempre vi lascio la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli.
E noi ci vediamo la prossima settimana (che poi sarebbe lunedì, ma dettagli)!


Poggiò il gomito contro il ginocchio, in modo che l’orologio di metallo risaltasse e poi osservò l’obiettivo, sorridendo appena: «Perfetto!» dichiarò il fotografo, poco prima di scattare una sequenza di foto, prendendolo da più angolazioni: «Hai proprio un talento naturale per la faccia da fare davanti a un bel piatto di gnocchi freschi…»
Rafael Fabre sorrise, osservando il fotografo allontanare la macchina e dare un’occhiata alle anteprime: «Puoi prendere la giacca. Qualche scatto con quella e poi abbiamo finito» dichiarò l’italiano, voltandosi indietro e sorridendo all’altro modello: «Il prossimo sei tu, Adrien.»
Il biondo, figlio dello stilista Agreste, alzò lo sguardo dal cellulare e annuì, ritornando poi a concentrarsi sullo schermo con un sorrisetto in volto: da quel che sapeva, il caro figlioletto di Gabriel Agreste aveva una fidanzatina fissa da un po’ di anni.
Due? Tre?
Non ricordava di preciso da quanto.
Sapeva solamente che, ogni volta che il discorso cadeva sulla ragazza – Marie? Marine? Come accidenti si chiamava? –, il biondino perfetto assumeva un’espressione talmente dolce da fargli venire il voltastomaco: «Secondo te, con chi sta parlando?» domandò, una volta raggiunta Blanche e sorridendole, mentre lo sguardo grigio scivolava sulle lunghe gambe lasciate scoperte dal vestito corto che indossava.
«Con Marinette, forse» mormorò la modella, gettandosi indietro i capelli biondi e sporgendosi poi verso di lui: «Che fai stasera, Rafael?»
«Fammi indovinare…» bisbigliò il ragazzo, prendendo la giacca scura e gettandosela su una spalla: «Sei stata di nuovo lasciata?»
Blanche sorrise, stringendosi nelle spalle e donandogli una generosa visuale della scollatura dell’abito: «E tu mi consolerai, vero?» pigolò, sbattendo le palpebre e piegando le labbra in un sorriso.
«Se proprio devo…»
«Sei un coglione, Rafael»
«Andiamo, tesorino, te la sei presa per così poco?» domandò il ragazzo, voltandosi verso il fotografo: «Ti aspetto per le otto…» concluse, girandosi e facendole l’occhiolino; tornò poi davanti l’obiettivo e si mise nuovamente in posa: mano sinistra in tasca, destra che teneva la giacca sulla spalla con due dita, sorriso divertito in volto e postura rilassata.
Perfetto.
Lo sguardo grigio vagò oltre il fotografo e si fermò su Adrien Agreste che, accanto alla sua body guard, lo fissava impassibile: odiava quel tipo. Odiava tutto di lui.
Non lo sopportava e mai lo avrebbe fatto.
«Rilassato, Rafael. Pensa a un bel piatto fumante di pasta…»


Rafael si appoggiò alla balaustra di vetro, osservando le forme solide che pendevano dal soffitto e cercando di non far caso alla coppietta dall’altra parte del centro commerciale. Aveva deciso di fare un salto al Beaugrenelle: il Natale era quasi alle porte e lui non aveva ancora fatto un solo regalo.
Non che la sua lista fosse lunghissima: i suoi, Alain e famiglia, Fifi.
Fine.
Aveva pensato di risolvere la questione in poche ore di shopping nel centro commerciale.
Ciò a cui non aveva pensato era stata la possibilità di incontrare Mister Perfettino con la fidanzatina e, invece, erano dall’altra parte dell’edificio, oltre l’enorme vuoto che costituiva la parte interna dei piani circolari, mentre chiacchieravano e tubano…
Lei sembrava anche carina da quella distanza.
Fosse mai che Adrien ‘Perfezione’ Agreste avesse una fidanzata brutta.
Sbuffò, dando le spalle alla coppia e piegando il capo all’indietro, osservando il cielo plumbeo dall’enorme soffitto di vetro: perché gli dava così tanto fastidio?, se lo domandava molto spesso e non trovava mai risposta.
O, meglio, una risposta l’aveva ma sarebbe morto piuttosto che ammetterla.
Abbassò il capo, notando due ragazze che lo stavano adocchiando: sorrise loro, ma rimase fermo al suo posto, mentre lo superavano e parlottavano fra di loro, ridacchiando di tanto in tanto.
In un altro giorno, si sarebbe avvicinato e, con qualche chiacchiera, le avrebbe invitate entrambe.
Ma non quel giorno.
Forse era l’atmosfera del Natale…
Invidiava Adrien ‘Perfezione’ Agreste e per questo l’odiava: aveva ciò che lui agognava fin da quando era piccolo.
Una ragazza.
Qualcuno che lo completasse.
Qualcuno da amare.
Sbuffò, tirandosi su e scuotendo il capo: non erano da lui simili pensieri e, senza ombra di dubbio, era quell’atmosfera natalizia che glieli aveva instillati. Doveva essere assolutamente così…
Fece vagare lo sguardo sulle vetrine dei negozi, elencando mentalmente i regali che aveva in mente di prendere, finché nel suo campo visivo non comparve una donna: i capelli erano raccolti in uno stretto chignon, mentre si aggirava veloce sui tacchi e la faccia mostrava un’espressione preoccupata.
Si voltò verso di lui e lo puntò, raggiungendo velocemente: «Mi scusi…» mormorò, torcendosi le mani e guardandosi attorno smarrita: «Ha per caso visto un bambino? E’ mio figlio! Stavo guardando per un regalo, lui era nel passeggino e…» la donna si portò le mani al viso, respirando affannosamente e scuotendo la testa: «Non pensavo io…mi sono girata un attimo…»
«Com’è?»
«Cosa?»
«Suo figlio? Quanti anni ha? Com’è vestito?»
«H-ha due anni…»mormorò la donna, perdendo lo sguardo nel nulla: «Ha un giubbotto blu e….» si fermò, respirando profondamente: «Ha Nene con sé.»
«Nene?»
«E’ il suo peluche preferito. E’ un cagnolino e…»
Rafael annuì, posandole le mani sulle spalle e sorridendole il più rassicurante possibile: «Lei vada a sentire una delle guardie, io intanto do un’occhiata per qui e chiedo se qualcuno l’ha notato.»
«Ma…»
«Non si preoccupi, lo troveremo.» dichiarò Rafael, sorridendo alla donna e osservandola annuire con la testa; la fece girare su sé stessa, sospingendola lievemente e, dopo essersi assicurato che avrebbe fatto ciò che le aveva chiesto, si diresse dalla parte opposta, alla ricerca del piccolo disperso.


Fu sorrise, osservando il ragazzo alto e dalla capigliatura mora che gli era passato accanto senza notarlo.
Era quello giusto.
Lo sentiva.
Un giovane che aiutava una sconosciuta in quel modo, doveva essere una scelta giusta.
Abbassò lo sguardo, osservando la scatola in legno che teneva in mano: «E’ tempo per te di avere un nuovo Portatore…» mormorò, carezzando il coperchio e voltandosi, in tempo per vedere la sua scelta fermare una persona e fargli qualche domanda: «Spero che sarai più fortunato con questo, mio piccolo amico.»
«Maestro…»
«Se c’è una cosa che ho imparato, Wayzz, vedendo Ladybug e Chat Noir» mormorò l’anziano, senza staccare gli occhi di dosso al giovane parigino: «E’ che questo mondo ha bisogno di eroi. Eroi come quel ragazzo potrà essere…»

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Capitolo 13
*** Scena 13: Antieroe II ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.083 (Fidipù)
Note: Buon sabato! Ed eccoci qua con la seconda parte di Antieroe, scena dedicata a Rafael Fabre e a come ha ricevuto il suo Miraculous. E che dire? A questo giro ci sarà l'incontro con il kwami tolkeniano fissato con il cioccolato e...beh, qualcuno lascerà presagire a chi toccheranno i Miraculous mancanti (come se non si sapesse già...). Beh, che dire? In verità o pochissimo da dire e quindi vi lascio subito alle informazioni di rito.
Come sempre vi ricordo la pagina facebook per rimanere aggiornati.
E, infine, vi ringrazio tantissimo per il sostegno che mi date e per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie nelle vostre liste.
E noi ci vediamo lunedì con una nuova settimana di aggiornamenti!


Rafael sbadigliò, aprendo la porta del suo appartamento e fermandosi sulla soglia: la stanza era illuminata malamente dalla luce dei lampioni fuori, anche se in verità non aveva tanto bisogno per sapere dove erano i mobili e come fare per evitarli. Viveva in quel posto da quando era nato e sapeva esattamente dove era posizionato ogni singolo pezzo.
Sospirò, chiudendo l’uscio dietro di sé e avvicinandosi poi al divano, lasciandosi cadere su di esso: quel giorno aveva avuto due servizi fotografici e, anche se non sembrava, erano veramente stancanti a livello mentale.
Inoltre, la continua voce del fotografo italiano gli rimbombava ancora nelle orecchie, tanto da avergli fatto salire un tremendo mal di testa.
Quasi quasi avrebbe preso un antidolorifico e si sarebbe infilato a letto…
E poco gli importava della tipa a cui aveva dato appuntamento.
Sbuffò, calciando via i mocassini e posando poi i piedi sul pavimento, dirigendosi quasi come uno zombie verso la cucina: accese la luce, stringendo le palpebre e notando solo allora lo strano cofanetto posto nel mezzo del tavolo dove di solito pranzava.
Non ricordava di aver mai posseduto un qualcosa del genere e, cosa più importante, era certo al cento per cento che non c’era stato quella mattina.
Si guardò attorno, quasi pronto a vedere suo padre uscire da qualche parte: forse era tornato da uno dei suoi viaggi? Eppure l’ultima volta che era riuscito a sentirlo, aveva scoperto che l’uomo si trovava da qualche parte in Cina.
La mamma? No, l’aveva chiamata pochi giorni prima ed era ancora a New York.
Tamburellò il dito indice sul tavolo, studiando il piccolo cofanetto e poi prendendolo: lo rigirò fra le mani, studiando i segni che erano intagliati nel legno senza riconoscerli.
Sembravano…
Quello sul coperchio, poi, gli sembrava l’esagramma di un I-ching.
Scosse il capo, aprendo il coperchio e osservando per un secondo il monile contenuto al suo interno, prima che una luce intensa apparisse dal nulla; Rafael si coprì gli occhi con la mano, osservando attraverso le dita la sfera di luce che si rimpiccioliva e materializzando uno strano esserino blu: il ragazzo fece un passo indietro, allungando una mano e prendendo la prima cosa che gli capitò a tiro, mentre lo strano spirito aprì gli occhietti rossi e lo fissò sorridendo: «Ciao!» esclamò allegro, alzando un braccio – o zampa – poco prima che il giornale si abbattesse su di lui.
Rafael alzò il quotidiano, osservando il cosetto blu spiaccicato contro il tavolo: «L’ho ucciso?» si domandò, mentre l’insetto – o quel che era – si riprese.
«Ehi!» sbottò l’esserino, mettendosi a quattro zampe e agitando l’enorme coda, molto simile a quella di un pavone: «Ma è possibile che tutti i miei portatori provano a uccidermi?»
«Cosa sei?» domandò Rafael, maledicendosi poco dopo: se era un’allucinazione non doveva darle retta ma ignorarla. E se era…
No, un insetto non poteva essere.
Gli insetti non parlavano.
«Io sono Flaffy!» esclamò l’esserino, sorridendogli: «E sono un kwami! Legato al gioiello all’interno di quella scatolina!»
«Kwami? Kami vorrai dire. Sai, kami…»
«Sì, lo so cosa vuol dire kami. Comunque io sono un kwami! E tu sei stato prescelto…» il piccoletto si fermò, inclinando la testa e studiandolo: «Scusa, come ti chiami?»
«Rafael. Rafael Fabre.»
«E tu sei stato prescelto, Rafael! Il tuo destino è indicato dalle stelle! Sei destinato a grandi cose! Tu proteggerai gli altri e combatterai per un fine superiore.»
«No.»
«Cosa?»
«Non voglio farlo» dichiarò Rafael, incrociando le braccia: «Perché dovrei farlo? Che ci guadagno?»
«Ma il Gran Guardiano ti ha dato il mio Miraculous…»
«Ehi, mi sono ritrovato in cucina questa scatola, volevo sapere cosa c’era e sei apparso tu» dichiarò il ragazzo, fissando l’esserino: «Non è che quando apro una scatoletta di tonno, quello esce fuori e mi dice che sono destinato a grandi cose. E poi a Parigi ci sono già Ladybug e Chat Noir.»
«Ma…»
«Ma cosa?»
«Tu hai il mio Miraculous, quindi sei stato scelto.»
Rafael sbuffò, prendendo il gioiello all’interno della scatola e rigirandoselo fra le dita: sembrava una spilla e aveva la forma di una coda di pavone con le tonalità tipiche dell’animale: «Questo coso dovrebbe farmi diventare un eroe?»
«Esattamente! Devi solo indossarlo e dire ‘Flaffy, trasformami’»
Il ragazzo sbuffò, aprendo il fermaglio della spilla e infilandola nella maglia della collana che indossava: «Devo dire solo quello?» domandò, ricevendo un cenno affermativo da parte del kwami: «Flaffy, trasformami.»
Vide il piccoletto sorridere, prima di venire risucchiato all’interno del monile e una strana energia avvolgerlo e impossessarsi di lui: chiuse gli occhi e, dopo un po’, li riaprì e osservò attonito le proprie mani, ricoperte da guanti blu scuro: «Ma cosa…» mormorò, correndo poi nel bagno e fissando sorpreso il proprio riflesso allo specchio.
Era…
Era…
Era vestito come un cavolo di supereroe.
Una maschera blu gli copriva parte del volto, il corpo era stretto in una tutina e un logo, della stessa forma del gioiello, svettava sul petto; le mani erano coperte da  guanti di una tonalità più scura della tuta e si fermavano poco prima del gomito e ai piedi aveva degli stivali dello stesso colore che raggiungevano metà polpaccio.
«Ma che diavolo…?»


Wayzz osservò l’uomo che, canticchiando, stava scendendo le scale in pietra, diretto verso la strada principale: «E’ sicuro della sua scelta, maestro? Se non erro, il signor…»
«E’ perfetto! E Flaffy saprà indirizzarlo bene.»
Il kwami della tartaruga sospirò, voltandosi indietro: conosceva fin troppo bene Flaffy e sapeva come era, trovando in queste due consapevolezze la certezza che non avrebbe guidato il proprio Portatore.
Semmai il contrario.
«Maestro?»
«Sì, Wayzz?»
«Perché adesso? Sono passati due anni da quando Ladybug e Chat Noir hanno sconfitto Papillon...»
Fu sorrise, voltandosi verso il kwami: «Lo sai anche tu, Wayzz.»
«Pensa che…»
«Sicuramente le sarà giunta voce che ho donato dei Miraculous e sono certo che, prima o poi, si muoverà. Voglio essere pronto per quell’eventualità.»
«Ho capito.»
«Proprio per questo, domani andremo a fare dei biglietti.»
«E per dove, maestro?»
«Beh, ho un Miraculous da lasciare in Italia prima di tutto» trillò allegro Fu, riprendendo a camminare: «E poi quella rompiscatole di Fa è stata a New York un po’ di tempo fa – per andare a trovare uno dei suoi nipoti – e mi ha detto di aver trovato una ragazza molto interessante…»
«Quindi Italia e America?»
«Esattamente, mio verde amico e compagno di avventure. E’ tempo di preparare le valigie!»
«E come farà con il centro?»
«Posso prendermi un po’ di ferie, non credi? Son cinquant’anni che non ne prendo!»

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Capitolo 14
*** Scena 14: Fuoco fatuo I ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.110 (Fidipù)
Note: Buon sabato! Eccoci qua con un nuovo capitolo di Scene, stavolta dedicato a Lila e, come per i due di Rafael, anche questo sarà diviso in due parti: la prima con la sua vita ancora intonsa dal Miraculous e la seconda con l'arrivo del kwami e tutto ciò che ne comparta. Vi annuncio fin da ora che Fuoco fatuo II verrà postata l'8 luglio e...niente, in questo capitolo troverete Lila in Italia, dai suoi nonni, dove è stata spedita dopo le varie akumatizzazioni subite a Parigi e ho deciso di farla vivere in Toscana, nei pressi di Firenze, perchè...beh, è una zona che conosco veramente bene e quindi potevo tranquillamente parlarne senza dover andare a ricercare su Google Maps le zone (come ben sapete, sono un po' fissata con la veridicità della storia XD).
Detto questo, come sempre vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e vi do appuntamento alla prossima settimana, bella carica di aggiornamenti come sempre.
Come sempre vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!


Chinò le braccia sul tavolo, osservando i passanti fuori dalla vetrina e appuntando l’attenzione, di tanto in tanto, su qualcuno di essi: una signora con un soprabito decisamente appariscente, un giovane con un completo che nemmeno suo nonno avrebbe indossato, la tipa con il cagnolino nella borsetta che gesticolava mentre era al telefono.
Ognuna delle persone che le passavano davanti aveva un posto a cui tornare, un luogo da considerare casa e dove veniva amata.
Non aveva bisogno di bugie per rendere più meravigliosa la propria vita.
Il suo cellulare squillò, riportandola alla realtà e facendola sospirare: si tirò lentamente su e afferrato lo zaino, sistemato sulla sedia accanto, recuperò l’apparecchio, sorridendo al nome del mittente della chiamata: «Pronto?» domandò, venendo accolta dal latrato di un cane e poi dalla voce di sua nonna che intimava alla vecchia Betty di stare in silenzio: «Nonna?»
«Che treno prendi?» le domandò la donna, con la voce affaticata dall’età: «Mirko deve portare il figlio dal dentista, così nel caso ti può venire a recuperare in stazione e poi portarti qui a casa.»
La ragazza diede una veloce occhiata all’orologio, ripercorrendo mentalmente l’elenco dei treni che, oramai, sapeva a memoria: «Mh. Dovrei farcela per quello delle due e mezzo.»
«Quindi sei qui verso le tre, tre un quarto?»
«Sì»
«Ti preparo qualcosa, allora» dichiarò la donna, facendola sbuffare: «E non mi dire che hai già mangiato. Un panino non è un pranzo.»
«D’accordo» bofonchiò la ragazza, pensando alla gioia della cara Betty quando avrebbe favorito di metà del suo pasto: sua nonna tendeva a esagerare con le porzioni e questo rendeva immensamente felice la vecchia cagnolina di casa.
«Lila? Tesoro? Stai bene? Ti sento giù.»
«Sto bene, sto bene» mormorò la giovane, sospirando: «Sono solo stanca. Oggi abbiamo avuto matematica e storia alle ultime ore e sono state veramente pesanti.»
«Capisco» mormorò la nonna e Lila se la immaginò, mentre annuiva con la testa ben sapendo che lei non poteva vederla: «Ah, ha chiamato tuo padre oggi.»
«Mh.»
«E’ ancora vivo, se t’interessa.»
«L’hanno fatto vedere ieri al telegiornale, nonna.»
«Poteva essere un figurante o un sosia» bofonchiò la donna, facendo ridacchiare la nipote: «Ha chiesto di te e come te la passavi qua.»
«Ha domandato se sua figlia l’ha messo in imbarazzo anche in Italia?»
«No, Lila.»
«Strano.»
«Lila…» sospirò sua nonna, mentre lei poggiava il mento contro la mano libera e osservava una madre quasi trascinare una figlia recalcitrante, verso la grande stazione che s’intravedeva dall’interno del locale mentre la mente le andava indietro nel tempo, ricordando la bambina che aveva conosciuto il giorno in cui aveva lasciato la Francia: «Lila! Ci sei?»
«Eh? Cosa?» Il sospiro della nonna le arrivò nell’orecchio e Lila sorrise: «Ci vediamo quando arrivo a casa.»
«D’accordo. Ti voglio bene, tesoro.»
«Anche io» mormorò la ragazza, chiudendo la comunicazione e fissando lo schermo, carezzando le curve dello sfondo di base: non aveva mai personalizzato lo sfondo, non avendo foto particolari da metterci e da vedere, ogni volta che usava quell’apparecchio.
In pochi la chiamavano, in verità.
Sospirò, riponendolo nello zaino e alzandosi, sorridendo al cameriere che si stava avvicinando: «Ciao, dolcezza» mormorò, prendendolo per un braccio e stringendosi a lui, vedendolo deglutire appena e fare un passo indietro: «Sai, stavo pensando che noi due saremo veramente perfetti» si guardò attorno, avvicinando le labbra all’orecchio del ragazzo: «Nel bagno delle signore. Che ne dici?»
Lo fissò, osservando le iridi nocciola sgranarsi mentre il cervello sembrava elaborare le parole che lei aveva appena pronunciato; sorrise quando, alla fine, lo vide annuire con un sorriso incerto sulle labbra.


«Italia!» esclamò l’anziano cinese, poggiando la borsa per terra e inspirando profondamente l’aria carica degli odori della stazione: «Pizza! Pasta! Mandolino!»
«Maestro, si aggiorni, la prego» sospirò Wayzz, facendo capolino dalla tasca della giacca e fissandolo risentito: «E la smetta di mettersi così in imbarazzo.»
«Quanto sei brontolone, Wayzz» bofonchiò Fu, sistemandosi il cappello in testa e, recuperata la valigia, si avviò a passo deciso verso la parte finale della stazione: tutti i binari di Santa Maria Novella portavano alla parte finale, dove le persone si smistavano  fra i negozi e le varie uscite per la città.
Bene, adesso doveva solo trovarla.
Ma era certo che non sarebbe stato così complicato.


Lila inspirò l’aria carica degli odori della stazione, marciando decisa verso i vagoni del treno e cercando di ignorare quella sensazione di sporcizia che aveva avvertito, fin dal momento che il tipo che aveva adescato le aveva messo le mani addosso: aveva provato a resistere ma non ce l’aveva fatta, l’aveva allontanato da sé e abbandonato con i pantaloni aperti e lo sguardo di chi non capiva.
Se n’era andata velocemente, mettendo un segno negativo su quel locale.
Un altro posto dove non sarebbe più andata per colpa del suo…
Del suo…
Non sapeva neanche lei come definirlo: carattere? Pessima tendenza a provarci con chiunque? Bisogno di dimenticare chi era per una manciata di secondi?
Scosse il capo, mentre saliva sul treno e osservava velocemente l’interno, sorridendo dentro di sé quando vide quattro posti vuoti: si sistemò e, poggiate le gambe sul sedile davanti a lei, tirò fuori cellulare e auricolari, decisa a estraniarsi dal mondo; scivolò il dito fra le tracce nel telefono, fermandosi quando vide il titolo di una canzone di Jagged Stone ma, in special modo, la copertina di questa.
Ricordava ancora quando Adrien, orgoglioso, le aveva detto che era stata Marinette a disegnare quella cover, aveva guardato poi la moretta dall’altra parte della classe con quello sguardo dalla luce innamorata, che aveva ogni volta che si posava sulla franco-cinese.
Adrien ne era innamorato, peccato che non si fosse mai accorto dei suoi sentimenti per la compagna di classe, troppo concentrato sull’altro grande amore della sua vita.
Che stupido!
Ricordava benissimo come lo vedesse, di tanto in tanto, tormentarsi per questo suo tenere il piede in due staffe.
E pensare che gli sarebbe bastato fare due più due.
Chissà come stavano?
Avevano finalmente capito chi c’era sotto la maschera dell’altro oppure si stavano ancora rincorrendo?
In Italia non giungevano più notizie degli akumatizzati di Papillon, forse gli enti televisivi si erano annoiati e avevano deciso di darci un taglio sui servizi di quella minaccia così lontana oppure Ladybug e Chat Noir erano riusciti a mettere un freno a Papillon.
Chissà…
Scosse il capo, andando avanti con la lista delle canzoni e cercando qualcosa di adatto per il breve viaggio fino al paese dove abitava con i nonni, cercando di scacciare il periodo di Parigi dalla sua mente.
Non voleva più pensarci.
Non erano più una cosa la riguardava.
Lei non sarebbe più entrata in quel mondo.
Mai più.

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Capitolo 15
*** Scena 15: Fuoco fatuo II ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.317 (Fidipù)
Note: Buon pomeriggio! Eccomi qua con il novello capitolo di Scene e con la seconda parte di Fuoco fatuo, i due capitoli dedicati a come Lila ha ottenuto il Miraculous e fatta la conoscenza di Vooxi.
Mh. Che cosa posso dire di questo capitolo? L'unica cosa è che, riguardo alla pasta, ho usato un modo di dire che utilizzavo io da piccola e...
Beh, nient'altro. Quindi vi lascio direttamente al capitolo.
Come sempre vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e vi do appuntamento alla prossima settimana, bella carica di aggiornamenti come sempre.
E infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

 

Lila osservò il piatto che la nonna le aveva messo davanti, studiando assorta la pasta condita con il sugo di carne: quando era piccola aveva dato il nome di pasta sporca al piatto e fatto sempre capricci, perché non voleva mangiarla ripiegando su una più triste e smunta pasta in bianco, condita con solo burro.
Crescendo, però, aveva scoperto il piacere del ragù della nonna ed era diventata una vera e propria fan di questo.
«Il nonno?» domandò, guardandosi attorno e notando l’assenza del patriarca della famiglia Rossi: Ardelio Rossi non mancava mai l’appuntamento serale della cena, a meno che l’azienda agricola non avesse bisogno del suo intervento o fosse invitato da qualche parte.
«C’è stato un problema con la vigna» borbottò sua nonna, Orietta, agitando una mano e scuotendo poi la testa, mentre posava sul tavolo la formaggiera piena di grana grattugiato: «Sembra ci sia un qualche problema con qualche parassita» continuò la donna, asciugandosi le mani al grembiule che teneva legato in vita e, recuperato un mestolo di legno, si voltò verso il tavolo, dedicando completa attenzione alla pentola di pasta al centro e servendosene una generosa porzione: «Mangia, che si raffredda.»
Lila annuì, allungandosi e prendendo il formaggio grattato, cospargendone la pasta fino a quando una delicata nevicata non coprì l’intero piatto: «Non perderà il raccolto, vero?» domandò, posando la formaggiera e, recuperata la forchetta, infilzò alcune penne senza pietà, portandosele poi alla bocca e soffiandoci un poco sopra, in modo da raffreddarle: non era molto informata sul lavoro che si svolgeva nell’azienda, sapeva semplicemente che il nonno aveva degli operai sotto di sé e produceva vino e formaggio.
Lo stesso vino e formaggio che si poteva trovare alla loro tavola, ogni giorno.
«Non credo» disse la nonna, sistemandosi il tovagliolo sulle gambe e prendendo la forchetta anche lei, iniziando a mangiare in silenzio, lasciando cadere così il discorso; Lila la fissò, osservò il capo canuto e la figura dalla struttura delicata della donna, che sembrava sarebbe volata via al primo alito di vento, giocherellando poi con un po’ di pasta: «Dovresti chiamare tuo padre.»
«Poi lo farò» rispose automaticamente alle parole della nonna, inforcando la pasta e riempiendosi la bocca, mangiando così velocemente: prima avrebbe finito, prima sarebbe potuta andare in camera sua ed evitare tutti quei discorsi.
Finì velocemente il primo, pulendo il piatto dai rimasugli di sugo con l’ultima penna rimasta, alzandosi poi e preso piatto e posate, li depositò nell’acquaio: «Sai che fuggire non risolverà il problema con i tuoi» decretò sua nonna, rimasta in silenzio fino a quel momento: «Cosa speri di ottenere non parlandogli più?»
«Che si dimentichino di me?»
«Sei la loro figlia, Lila. Un genitore non può dimenticarsi di un figlio come se nulla fosse.»
«Si vede, nonna, che non conosci così bene l’uomo che hai messo al mondo e la donna che ha sposato.»
«Lila, per quanto mio figlio sia un idiota incompetente, non permetto a mia nipote di parlare così di suo padre» decretò la donna, voltandosi completamente verso di lei, lo sguardo tranquillo in volto e le mani strette in grembo: «Adesso lascia i tuoi piatti lì e vai in camera tua.»
«Che era quello che volevo fare.»
«Ma adesso ti ci mando io, ed è differente» decretò la donna, sorridendo appena: «E non uscire per nessun motivo. Sono stata chiara?»
«Cristallina» commentò Lila, scuotendo il capo e facendo danzare così le lunghe ciocche castane; allungò le braccia verso l’alto, stirando i muscoli e sentendoli dolere appena, salendo poi le scale che portavano al piano superiore dell’abitazione ove si trovavano le camere da letto, mentre le parole della nonna le ritornavano prepotenti in mente, sebbene lei volesse solo cancellarle.
Non voleva sentire i propri genitori.
Non voleva sentire la delusione che le loro voci avevano, perché non era come loro desideravano.
Scosse il capo, fermandosi davanti la porta della propria camera e poggiando la mano sulla maniglia: il metallo era freddo al tatto, mentre lei lo stringeva e l’abbassava, aprendo la porta e osservando la propria stanza.
Era semplice e, al suo interno, c’era veramente ben poco che la caratterizzava come sua: qualche vestito gettato qua e là, alcuni libri di scuola abbandonati sulla scrivania assieme al laptop e un piccolo scrigno…
Lila si fermò, inclinando la testa e chiudendo dietro di sé la porta della camera, osservando quell’elemento estraneo a tutto il resto: non aveva memoria di un simile oggetto in casa, tanto meno non ricordava di averlo preso lei stessa.
Sua nonna?
No, di certo l’avrebbe informata se avesse messo qualcosa nella sua camera.
Si avvicinò, osservando la scatolina in legno e allungando timidamente la mano, carezzando il coperchio e il simbolo rosso che era stato intagliato nel legno scuro, prendendo poi il contenitore fra le dita e notando quando questo fosse grande: riempiva completamente la sua mano, mentre lei lo carezzava e indugiava sul meccanismo di apertura.
Aprirlo o non aprirlo, questo era il suo dilemma.
Inspirò profondamente, indugiando con l’indice sinistro sulla chiusura a scatto, dando poi un colpo secco con l’unghia e aprendo la scatolina, osservando per un frammento di secondo il monile al suo interno, prima che una luce arancione e forte la costringesse a chiudere gli occhi.
Aveva riconosciuto quel ciondolo.
Era impossibile per lei non riconoscerlo.
Riaprì lentamente le palpebre, osservando il piccolo esserino dal pelo arancio che si stiracchiava le zampe, agitando poi la voluminosa coda e puntando su di lei gli occhietti viola: «Ciao. Io sono Vooxi» esclamò l’esserino, scodinzolando e osservandola con una luce piena di aspettativa: «E sono il kwami del Miraculous della Volpe. Piacere di conoscerti, mia nuova Portatrice.»
«No. Io non lo volevo il chihuahua» mormorò la ragazza, arretrando di un passo con il cofanetto ancora in mano: abbassò lo sguardo su questo, osservando il ciondolo a forma di coda di volpe, mentre i ricordi del suo soggiorno a Parigi ritornavano prepotenti alla mente: la rabbia su cui aveva fatto leva Papillon, le continue lotte con Ladybug e Chat Noir, gli stratagemmi per allontanare Adrien da Marinette…
Un passato che voleva dimenticare.
Una parte di sé che voleva cancellare.
«No cosa?» mormorò Vooxi, fluttuando attorno al suo viso con un’espressione di pura decisione in volto: «Hai il cofanetto con il mio Miraculous in mano, quindi sei stata scelta come mia Portatrice.»
«Fidati, io sono tutto tranne che la scelta migliore» decretò Lila, allungando il cofanetto verso il volpino, quasi a dire con quel gesto di riprenderselo: «E chiunque ti abbia portato qua, dovrebbe saperlo.»
«Il Gran Guardiano non sbaglia mai.»
«C’è sempre l’eccezione che conferma la regola e, fidati, io sono la scelta peggiore al mondo.»
Vooxi piegò il musetto di lato, osservando la ragazza e sbattendo ripetutamente le ciglia: «E su che basi dici questo? Sinceramente non mi sembra che…»
«Io sono una dei cattivi, sai?» dichiarò Lila, gettando il cofanetto sul letto e portandosi una mano al petto: «Io ero una dei sottoposti di Papillon e ho combattuto contro Ladybug e Chat Noir» riprese, osservando lo spiritello fissarla serio in volto mentre fluttuava a mezz’aria, la coda stesa verso il basso: «Non merito di avere un Miraculous.»
«Qualcuno mi disse che chiunque può rialzarsi dopo essere caduto» commentò lo spiritello, raggiungendo il piccolo scrigno di legno e recuperando dall’interno la collana con il ciondolo a forma di coda di volpe, avvicinandosi poi alla ragazza e armeggiando con la chiusura della catenella: «Voglio credere nella scelta del Gran Guardiano. Voglio credere in te, signorina» continuò, aprendo il fermaglio e mettendo la collana attorno al collo e richiudendola, con un sorriso soddisfatto in volto.
Lila si portò una mano alla gola, carezzando il monile e sentendolo freddo al tatto: il vero Miraculous della Volpe, il vero ciondolo che donava i poteri. Non un’imitazione comprata per affascinare un ragazzo, non un semplice ciondolo usato da Papillon per tramutarla in un’akumatizzata.
«Io sono una pessima scelta, volpino.»
«Facciamo sì che il tempo risponda a questa domanda, ok?»

 

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Capitolo 16
*** Scena 16: Per la mia famiglia ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.321 (Fidipù)
Note: Salve a tutti! Eccoci qua con un nuovo capitolo di Scene, stavolta il protagonista è Wei: il nostro caro Portatore della Tartaruga l'abbiamo conosciuto come un giovane, giunto a Parigi dalla lontana Cina, che trova leggeri problemi per il cambio culturale e di lingua; sappiamo già come ha ricevuto il suo Miraculous e, con questo capitolo, ho cercato di dar voce al motivo per cui ha lasciato casa e si è trasferito in Francia.
Ed ecco che nasce questa scena, ben diversa da quelle degli altri portatori.
Detto ciò, come sempre si passa alle informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e vi do appuntamento alla prossima settimana, bella carica di aggiornamenti come sempre.
E infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

 

Attorno a lui c’erano rumori e voci, tanto che avrebbe voluto chiudere gli occhi e ascoltare tutto: era l’ultima occasione per sentire la sua lingua natale, prima di imbarcarsi sull’aereo e attraversare gran parte del globo.
Inspirò profondamente, cercando di non pensare alle ore di volo che lo avrebbe costretto in un cilindro di metallo sospeso nel cielo.
Non aveva mai fatto viaggi così lunghi e, doveva ammettere, che sentiva l’ansia ghermirlo e posarsi alle sue spalle: il cuore batteva furioso nel petto e più volte si era attaccato alla bottiglietta dell’acqua, cercando di rendere meno secca la gola.
«Io non ti capisco» la voce di sua madre lo fece sorridere, mentre abbassava lo sguardo sulla donna minuta al suo fianco, la mano ben artigliata sul braccio del suo fratellino più piccolo: «Potresti rimanere qui e andare a lavorare con tuo padre.»
Wei abbozzò un sorriso, infilando le mani nelle tasche dei jeans e guardando il pavimento di mattonelle grigie: era un discorso già fatto, ben conosciuto al ragazzo, che accettò il seguito con un sospiro, mentre sua madre recitava alla perfezione quel soliloquio già provato.
Pechino non offriva grandi possibilità di lavoro per uno come lui che, a stento, era riuscito ad arrivare alla fine delle superiori senza gravi voti fallimentari. Entrare in un’università con l’agevolazione di una borsa di studio era stato pressoché impossibile, troppa la competizione.
Aveva iniziato a lavorare, ma il guadagno non era all’altezza delle ore di lavoro e molto presto si era ritrovato insoddisfatto.
Perché ammazzarsi di lavoro per una manciata di yuan?
Forse era stato viziato, forse era stato troppo ottimista.
Forse semplicemente avrebbe dovuto chinare la testa e continuare per la strada.
Tutte cose che non era riuscito a fare, troppo il volere più guadagni e rendere così più agiata la famiglia alla sua famiglia: non erano poveri ma arrivare alla fine del mese risultava sempre più faticoso, soprattutto adesso che i suoi fratelli stavano crescendo e nuovi bisogni nascevano.
La sua famiglia si era altamente infischiata delle leggi cinesi sulla prole, mettendo al mondo ben cinque figli, pagando la sanzione dovuta allo stato per ogni bambino in più.
Wei ricordava ancora gli sguardi dei vicini quando, da un piccolo villaggio della Manciuria, si erano trasferiti nella grande Pechino: all’epoca erano solo tre figli, eppure i suoi genitori venivano additati e le voci sussurravano alle loro spalle.
Quando poi erano giunti il quarto e quinto figlio, la famiglia Xu era ormai segnata come ribelle e per nulla interessata ai problemi del loro paese.
Una famiglia numerosa, però, richiedeva anche molte entrate e quelle non le avrebbe avute rimanendo lì.
Suo padre era solito narrargli di quando lui era giovane e si sognava uno stipendio, come quello che aveva ora, ma per Wei erano ancora troppo poco.
L’idea di andarsene era giunta quando un parente lontano della madre era tornato in Cina per un viaggio di piacere e aveva raccontato di come si era stabilito in Francia e dei guadagni che lì faceva: Wei era stato letteralmente catturato dalle appetitose opportunità che la capitale francese offriva, iniziando a progettare il piano che lo aveva portato lì in quel momento.
Aveva quasi implorato il parente di trovargli un lavoro e lo aveva contattato con cadenza regolare, fino a quando questi non lo aveva informato delle possibilità che aveva trovato per lui: Wei aveva subito accettato, tagliando velocemente i ponti che aveva lì e preparandosi alla partenza verso quella nazione così lontana e sconosciuta a lui.
«Potevi rimanere qui» mormorò sua madre, scuotendo la testa e alzando lo sguardo verso di lui, le labbra imbronciate mentre alzava decisa il mento: «Ti eri trovato anche quella brava ragazza e cosa fai? La molli perché te ne vuoi andare in Francia!» lo picchiò sul braccio, tirando su con il naso e voltandosi di lato, lisciando con la mano libera la casacca che indossava quel giorno, sulle cui maniche erano ricamati due dragoni.
Proprio come era lei in quel momento.
«Devo pensare a voi» mormorò Wei, avvicinandosi alla donna e poggiando la testa contro quella della madre, lasciando andare un sospiro: «Non posso rimanere qui, mamma.»
«Devi pensare a te stesso» bofonchiò la donna, tirando nuovamente su con il naso: «Devi trovarti una brava ragazza e sposarla, metter su famiglia e…» si fermò, sbuffando stizzita e pestando un piede per terra: «Che dico? Ormai hai preso la tua strada e sei un testone come tuo padre. Buono e calmo, per carità. Ma quando si mette in testa qualcosa, non lo smuovi quasi fosse l’Himalaya!»
Wei ridacchiò, stringendo la donna in una stretta decisa e socchiudendo gli occhi, aspirando il profumo di fiori che lei emanava sempre: «Mi mancherai» mormorò, lasciandola andare e sorridendo appena: «Ogni giorno sentirò la tua mancanza.»
«Non partire e non avrai questo problema.»
«Mamma…»
«Finché non ti vedrò salire su quell’aereo, mi sento in dovere di provarci» decretò la donna, tirando nuovamente su con il naso e fissandolo imbronciata: «E’ un peccato che tuo padre e i tuoi fratelli non siano potuti venire.»
«Non importa.»
«Sì, che importa. Chissà quando tornerai.»
«Appena mi sarà possibile» dichiarò Wei, alzando poi la testa quando dall’alto giunse la voce metallica che annunciava i voli successivi, li ascoltò in silenzio, annuendo quando sentì il proprio e lasciando andare un sospiro: «Devo andare.»
«Stai attento.»
«Lo farò» mormorò il giovane, stringendo in un abbraccio la madre e poi chinandosi verso il fratellino più piccolo, sollevandolo da terra e facendolo volteggiare, ricevendo in cambio una risata gorgogliante: «Starai attento alla mamma, mentre non ci sono?»
«Sì» dichiarò il piccolo, stringendosi a lui e strusciando il viso contro il collo: «Torna preso, fratellone.»
«Appena possibile» bisbigliò Wei, allungando il braccio sinistro e stringendo la madre in un ultimo abbraccio, inspirando gli odori che, per un po’, non avrebbe sentito: «Mi mancherete tanto, ma sarete sempre con me» dichiarò, lasciandoli poi andare: «Dì a papà di non lavorare troppo, appena avrò il primo stipendio…»
«Wei, vai e non pensare a noi.»
«E’ per la mia famiglia che vado, mamma» dichiarò il ragazzo, sorridendole appena: «Tienili in riga, ok?»
«E’ quello che faccio sempre.»
«E…»
«Saremo qui, quando tornerai» dichiarò sua madre, spintonandolo leggermente: «Adesso vai, altrimenti ti lasciano a terra.»
Wei annuì, sistemandosi lo spallaccio dell’ampio zaino che aveva scelto come bagaglio a mano e si voltò, facendo il primo passo verso la sua nuova vita: Parigi.
Si era informato sulla capitale francese, trovandola così diversa dalla sua Pechino.
Aveva letto con avidità ogni informazione, aggiornandosi sulle ultime notizie e rimanendo quasi stupito, quando aveva letto del duo parigino di eroi che proteggeva la città: questi occidentali che leggevano troppi fumetti…, si era ritrovato a pensare con un sorriso, mentre passava a informazioni più importanti per la sua sopravvivenza nella città.
Come imparare il francese.
«Parigi…» mormorò fra sé, mentre seguiva le indicazioni e si avvicinava sempre di più al proprio gate: che cosa avrebbe trovato in quella città? Come sarebbe stato vivere in un posto così diverso?
Doveva avere paura, sentirsi agitato per questo salto nel vuoto e, in parte, si sentiva così: il cuore batteva furioso, la gola era secca e più volte aveva dovuto stringere i pugni, per fermare il tremore delle mani.
Ma quella non era la paura e l’ansia che si aspettava.
Non era il terrore dell’ignoto, era più un’impaziente voglia di giungere.
Voleva andare a Parigi, il suo intero corpo lo desiderava e non capiva il perché.
Che sia il mio destino?, pensò fra sé e ridacchiò del suo stesso pensiero, così simile a quelle che la nonna materna era solita fare, quando si ritrovava a fare qualcosa di inconsueto.
Destino.
Forse era veramente il destino ad averlo messo sulla strada per Parigi.
Un destino migliore di quello di semplice operaio in un fabbrica pechinese.
Un destino più grande, dove avrebbe fatto soldi e avrebbe fatto vivere nell’agio i suoi.
Un bel sogno, senza ombra di dubbio.

 

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Capitolo 17
*** Scena 17: Eroina I ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.006 (Fidipù)
Note: Salve a tutti! Nuovo capitolo di Scene e, questa volta, è il turno di Sarah, con la prima parte di Eroina, i due capitoli dedicati a come la nostra americana ha ricevuto il suo Miraculous: già in Antieroe II avevo detto che Fu arriverà in America - e più precisamente a New York - sotto suggerimento di Fa, che aveva incontrato per caso, la giovane e futura Bee. Cosa accadrà? E intanto, come già accennato in Coeur Noir, qualcuno ha iniziato a mandare i propri attacchi e...
Beh, io non dico nient'altro e passo subito con le classiche informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e vi do appuntamento alla prossima settimana, bella carica di aggiornamenti come sempre.
E infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

America.
Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che aveva visitato il grande continente al di là dell’Oceano Atlantico, e ancora si domandava perché avesse voluto seguire il consiglio di quell’insopportabile di Fa e raggiungere quella città così diversa da come la ricordava.
New York non era più lo stesso posto di sessant’anni prima. Poco ma sicuro.
L’anziano si sistemò meglio la camicia, guardandosi attorno e domandandosi come avrebbe trovato la ragazza che, qualche mese prima, aveva colpito Fa con la sua dolcezza e bontà: gentile con una donna anziana che non conosceva, così la fanciulla era stata descritta dalla megera.
Ancora non sapeva come ma, se era destino, se quella ragazza era veramente colei che doveva avere quel Miraculous, lui l’avrebbe trovata.


Le scale scendevano verso in basso, inghiottite dal buio.
Inspirò profondamente, tenendo lo sguardo rivolto sull’ultimo gradino visibile e lasciando andare poi l’aria lentamente, mentre le mani serravano la presa sulla cinghia della borsa: rimase immobile, ascoltando i rumori che la circondavano e non curandosi delle persone che salivano e scendevano quelle stesse scale che lei stava fissando da un bel po’.
Poteva farcela.
Quel giorno ce l’avrebbe fatta.
Mosse il piede destro, posandolo sul primo gradino e rimando ferma lì, incapace di proseguire.
Il respiro accelerò, mentre cercava di muovere la gamba sinistra e scendere un nuovo gradino.
Non ce l’avrebbe fatta.
Strinse maggiormente la tracolla, scuotendo il capo e tornando velocemente indietro, senza controllare ciò che la circondava: sentì qualcosa contro la schiena, un piccolo scontro che le costò parte del suo equilibrio, costringendola a cercare solidità su entrambe le gambe; si voltò, notando l’anziano signore, che si era scontrato con lei, seduto per terra e con il braccio che si allungava per recuperare il bastone perduto: «Mi perdoni» mormorò, chinandosi e aiutando l’ometto, recuperando l’oggetto e passandoglielo: «Io…»
«Sembrava che avevi qualche problema, signorina» mormorò l’uomo, donandole un sorriso mentre lei lo aiutava a rialzarti: «Pensavo saresti scesa e quindi non ho fatto caso a…»
«Mi dispiace tantissimo» bisbigliò la ragazza, assicurandosi che l’anziano fosse saldo sulle sue gambe e portandosi poi una mano al viso, mandando indietro una ciocca di capelli biondi: «Io ho un po’ di problemi con la metropolitana» continuò, guardando le scale e scrollando poi le spalle: «Le chiedo ancora scusa.»
«Non ti preoccupare» mormorò l’uomo, voltandosi poi verso la strada, allarmato dalle sirene che, al massimo del loro volume, annunciarono il veloce passaggio delle auto della polizia locale: «Ma che cosa…?»
«Non è di qui, vero?» domandò la ragazza, vedendo il suo interlocutore negare con la testa: «E’ da un mese che abbiamo dei problemi qui a New York. Dicono siano attentati, ma non ci sono state rivendicazioni o niente. Solamente dei guerrieri neri che appaiono all’improvviso e attaccano.»
«Guerrieri neri?»
La ragazza annuì, osservando il punto in cui le volanti erano sparite: «Ormai è così da un mese. E non c’è nulla che si può fare per fermarli.»
L’anziano si voltò nella stessa direzione della ragazza, spostando poi l’attenzione su quest’ultima e fissandola con un sorriso deciso sulle labbra e la decisione, che l’aveva portato fino in America, ben salda nella sua mente: «Forse c’è bisogno di un eroe. O un’eroina.»
Sarah Davis si voltò a quelle parole, pronta a chiedere spiegazioni per quella strana affermazione, ma tutto ciò che trovò fu il nulla: dell’uomo con cui aveva scambiato poche parole, di quello strano anziano, non c’era nessuna traccia.
Si guardò attorno, volgendo il capo in ogni direzione, posando lo sguardo su chi la circondava: un secondo, il tempo per non riconoscere le fattezze di quell’anziano dalla stravagante camicia hawaiana e i tratti tipici degli orientali, prima di passare al successivo.
Niente.
Nulla.
Sparito.
Come poteva una persona scomparire così velocemente e in silenzio?
Sarah scosse il capo, lasciando andare un sospiro e poi riportando la sua totale attenzione alle scale della metropolitana: sicuramente le linee sarebbero state chiuse per l’attacco, quindi non aveva senso provare nuovamente a mettersi in gioco, a superare il suo terrore.
La prossima volta.
Avrebbe tentato la prossima volta.
Rimandando ancora, continuando a rimanere bloccata nella sua paura.
Forse un giorno sarebbe riuscita a scendere quelle scale, a superare quel blocco e a prendere la metropolitana come una persona comune.
Strinse la tracolla, lasciando andare un sospiro e voltandosi nella direzione ove erano andate le forze dell’ordine, scuotendo il capo e dirigendosi dalla parte opposta, conscia del lungo ritorno a casa che l’attendeva: New York sarebbe stata un po’ nel caos, almeno fino a quando gli attentatori avrebbero messo a ferro e fuoco la città.
Forse quell’anziano aveva ragione.
C’era bisogno di un eroe.

 

«Mi sono mosso troppo tardi» mormorò Fu, stringendo le dita sul piccolo cofanetto che teneva fra le mani e lo sguardo fisso sulla schiena della ragazza: non era stato complicato trovare la giovane che tanto aveva colpito Fa ed era stato semplice seguirla e studiare ciò che faceva.
Gentile e dolce, così l’aveva definita nella sua mente, due aggettivi che tanto gli ricordavano un’altra Portatrice.
Sarah Davis gli ricordava molto Abeja, la sua compagna ai tempi di Nanchino.
«Maestro, pensate che i guerrieri neri…» la voce di Wayzz lo riscosse dalle sue elucubrazioni, riportandolo alla realtà e alla minaccia che aveva scoperto essere lì a New York: guerrieri neri. Aveva già avuto a che fare con cose simili e sperava sarebbero rimasti in un passato lontano, dimenticati nella polvere del tempo.
Ma così non era stato.
«Dovevo immaginarlo» mormorò Fu, alzando la testa e addossandosi contro il muro, mentre i ricordi lo assalivano e gli riportavano alla mente cose che avrebbe dovuto dimenticare: «Sono stato ingenuo. Non avrei dovuto…»
«Maestro, era normale che…»
«Avrei dovuto stare più attento.»
Wayzz aprì la bocca, scuotendo poi il capino e abbassando lo sguardo sul piccolo scrigno che l’ometto teneva in mano: «Con questo, tutti i Miraculous avranno un possessore. Ma come potranno combattere lei?»
«Intanto, diamo a New York un’eroina che la protegga. Per lei…» Fu si fermò, inspirando profondamente e lasciando andare l’aria: «Ci penseremo poi.»

 

 

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Capitolo 18
*** Scena 18: Eroina II ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 1.653 (Fidipù)
Note: Salve a tutti! Dopo tanto tempo, si ritorna anche con Scene e si conclude il duo di capitoli dedicato a Sarah: sinceramente, ho sempre pensato che lei fosse molto legata al padre morto e che, la figura del genitore, in qualche modo l'abbia influenzata sia caratterialmente - una personalità votata a fare il bene, a seguire la missione data. A fare la differenza, in qualche modo - e nella decisione di diventare Bee, tutto ciò che vedrete in questo capitolo, tutto ciò che viene scaturito da una semplice espressione verbale.
Detto ciò non vi dico nient'altro e passo alle classiche informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e vi do appuntamento, con Scene, al 24 settembre.
E infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

Lasciò cadere lo zaino vicino alla porta d’ingresso, ascoltando il rumore sordo dei libri che si riverberò per tutto l’appartamento vuoto: Sarah rimase immobile sul posto, aspettando che qualche altro suono accompagnasse quello che aveva provocato lei, ma nulla successe.
Fece un passo, avanzando nel piccolo corridoio che portava alla zona notte dell’appartamento e su cui si affacciavano le porte della cucina e del bagno: una casa minuscola, soprattutto se paragonata a quella in cui lei e sua madre vivevano prima.
Prima che la loro vita cambiasse.
Prima che lui le lasciasse.
Si fermò a pochi passi dalla porta della cucina, alzando la testa e socchiudendo gli occhi, inspirando profondamente e sentendo la gola stretta e pesante, il cuore che batteva e ogni pulsazione era una stillata: andava avanti, continuava una vita che aveva in parte costruito e che ancora doveva protendere verso il futuro, ma lui non c’era più.
Lui che le sorrideva, che l’accoglieva quando tornava da scuola e il turno al lavoro gli consentiva di arrivare prima di tutti.
Lui e i suoi finti occhiali da intellettuale.
Lui e i tentativi falliti come cuoco.
Lui e le risate, i continui incitamenti e la certezza che lei sarebbe diventata qualcosa.
Inspirò profondamente, ascoltando il suo sospiro tremulo nel silenzio della casa, e socchiuse gli occhi, iniziando mentalmente a elencare tutto ciò che avrebbe dovuto fare: doveva ritirare il bucato, poi finire la relazione per la professoressa di letteratura e…
Cos’altro c’era nella lista che aveva fatto quella mattina?
C’era anche qualcosa che riguardava Alex, ora che ci faceva caso.
Doveva accompagnarlo a prendersi un nuovo videogioco, se non ricordava male.
Si portò le dita al setto nasale, chiudendo gli occhi e respirando, mentre ripeteva la lista e muoveva le labbra senza emettere alcun suono, totalmente concentrata sul compito di memoria che non si accorse, in un primo momento, dei rumori che giungevano dall’esterno; fu solo quando un boato, attutito dalle finestre e dalle pareti della casa, le giunse alle orecchie che si riscosse.
Sobbalzò, voltandosi e fissando le finestre della cucina come se da un momento all’altro qualcosa sarebbe dovuto apparire.
Un nuovo colpo e lo scoppio di qualcosa, unito alle grida di persone, la riscosse e si fiondò al vetro, appiattendosi contro di questo e cercando di vedere la strada sottostante: tre figure nere risaltavano contro l’asfalto, figure ben note a chiunque vivesse a New York, muovendosi all’unisono e marciando decise, distruggendo tutto ciò che avevano a portata di mano.
Sarah indietreggiò, cozzando contro il tavolino e aggrappandosi a questo, mentre il respiro diventava accelerato e seguiva l’aumento dei battiti del cuore; si guardò attorno, aprendo e chiudendo le labbra, inghiottendo l’aria e non sapendo cosa fare: era al sicuro lì? Doveva uscire e andare il più lontano possibile?
Sua madre?
Era ancora all’ospedale oppure già sulla via di ritorno?
Alex?
Il resto della famiglia Simmons?
Cosa doveva fare? Chi doveva chiamare?
Sentì le gambe tremare e quasi cedette al peso del proprio corpo, stringendo maggiormente il legno del tavolo, usandolo come supporto.
Inspirò, lasciando andare subito l’aria, e strinse le labbra, facendo un passo e poi un secondo, lasciando andare la presa sul legno e correndo verso la camera, ipotizzando il percorso che avrebbero preso i tre guerrieri neri.
Entrò nella stanza, superando velocemente il caos di libri e coperte che c’era per terra e calamitandosi sulla finestra, avvicinandosi e osservando la strada sottostante, quasi come se tutto fosse a rallentatore: l’avanzata dei tre, l’auto che giungeva dalla parte opposta e che veniva scagliata lontano, abbattendosi contro un’abitazione poco distante.
Si portò le mani alla bocca, scuotendo il capo e facendo un passo indietro, sentendo le gambe cederle e ritrovandosi seduta per terra, lo sguardo sgranato e rivolto verso la finestra da cui, in quel momento, vedeva semplicemente il cielo terso e che tendeva a imbrunirsi, mentre i rumori della distruzione le giungevano alle orecchie, assieme a quello lontano delle sirene.
Le forze dell’ordine.
Qualcuno che poteva fermarli.
Inspirò lentamente, il respiro che tremava fra i denti, e lo sguardo si spostò sulla scrivania, quasi catturato da un piccolo cofanetto nero che stonava con la familiarità degli altri oggetti della camera; gattonò vicino, osservando da vicino quella novità che non aveva mai visto in vita sua: non era suo, non era di sua madre, non era di nessuno che abitasse lì.
Era estraneo.
Lo prese in mano, studiando il legno nero come la pece e il simbolo rosso che era stato intagliato sul coperchio, rigirandoselo fra le dita per studiarlo meglio e indugiando poi sul meccanismo di apertura, indecisa se aprire o meno: in fondo che male poteva fare aprire un piccolo cofanetto sconosciuto?
Inspirò profondamente, facendo scattare la chiusa e aprendo appena il coperchio, osservando a bocca aperta il pettinino dorato che era stato posato su un panno rosso all’interno, prima che qualcosa di luminoso non la prese alla sprovvista: lanciò il tutto, incurante di dove sarebbe caduto, e urlò.
La voce usciva dalla sua gola, le corde vocali le facevano male, mentre davanti ai suoi occhi uno strano essere dall’aspetto simile a un’ape si formava e apriva gli occhioni blu scuro, quasi fosse stato addormentato fino a quel momento: «Ciao!» esclamò l’essere, aprendo le zampette e facendo vibrare le ali.
Sarah rimase a bocca aperta, silenziosa per un minuto, prima di tornare a urlare nuovamente e indietreggiare mentre l’essere – l’ape? Poteva essere quella cosa un’ape – la fissava con una luce rassegnata nello sguardo: «Facciamo che aspetto che ti calmi, d’accordo?» le domandò, rimanendo ferma sul posto, incurante delle urla della ragazza e dei rumori che provenivano dall’esterno.
Sarah continuò a urlare, fino a quando non rimase senza voce, portandosi le mani alla gola e tossendo un poco: «Sei calma, adesso?»
«Chi sei? Anzi no, cosa sei? Che cosa?»
«Io sono Mikko e sono un kwami» dichiarò il piccolo essere, volteggiando su se stessa: «Sono uno spirito legato al gioiello che era all’interno del cofanetto che hai aperto, per la precisione è il Miraculous dell’Ape.»
«Cosa sei tu?»
«Una kwami.»
«Quindi tu sei un kwami» mormorò Sarah, annuendo con la testa e indietreggiando: «E cosa diavolo è un kwami?»
«Questo è complicato da spiegare e, se devo dirla tutta, nemmeno io so precisamente la risposta: uno spirito è la definizione che meglio si avvicina.»
«Sono impazzita» mormorò Sarah, portandosi le mani al volto e fissando la kwami attraverso le dita: «Stare troppo tempo con Alex mi ha fatto impazzire, perché questa è una cosa da Alex: spiriti, gioielli…» si fermò, allargando le braccia e negando con la testa: «Adesso mi dici che questo Miracolo mi farà diventare qualcosa, vero?»
«Miraculous» la corresse la kwami, annuendo con il capino giallo: «E sì, se indosserai il mio Miraculous e accetterai il ruolo che avrai nella storia, io ti donerò dei poteri.»
«Ecco, appunto. Una cosa da Alex.»
Mikko sorrise appena, voltandosi verso la finestra e fluttuando un poco più avanti, in modo da osservare ciò che stava succedendo nella strada: «Avrai bisogno del mio aiuto se vuoi fermare tutto questo» mormorò, mentre l’attenzione era rivolta ai tre guerrieri neri e alle forze dell’ordine che, inutilmente, stavano cercando di fermarli.
«Fermare questo? Io non voglio farlo.»
«Sei stata scelta.»
«Scelta per cosa? Io sono semplicemente…» Sarah si fermò, scuotendo la testa aprendo le braccia e lasciandole cadere lungo ai fianchi: «Sarah.»
«Sei qualcosa di più, perché sei stata scelta dal Gran Guardiano, colui che custodisce i Miraculous in tempo di pace e li dona a coloro che vengono prescelti in tempi bui» Mikko si fermò, voltandosi verso la strada e scuotendo il capino: «E questo è sicuramente un tempo buio, Sarah.»
«Io non…»
«Sei stata scelta, Sarah.»
«Io non voglio essere scelta.»
«Sarah, questo è qualcosa che solamente tu puoi fare» mormorò Mikko, fluttuando verso di lei: «Sei l’unica che può indossare il pettinino e usare i miei poteri. Solo tu puoi fare la differenza, Sarah.»
La ragazza fissò lo strano spirito, avvicinandosi alla scrivania e osservando il cofanetto che aveva gettato: il pettinino era fuoriuscito e toccava con le punte il legno chiaro del tavolo: «Mio padre diceva sempre che siamo venuti al mondo con uno scopo» bisbigliò, allungando timidamente la mano e carezzando il monile: «Che ognuno di noi fa la differenza. Anche minima, ma la fa. Basta una piccola azione e puoi cambiare il mondo…»
«E’ un uomo saggio.»
«E’ morto» bisbigliò la ragazza, chinando la testa e stringendo le dita attorno al pettinino: «Un incidente nella metropolitana: poteva salvarsi ma una donna era rimasta intrappolata e lui…»
«Lui ha fatto la differenza.»
Sarah annuì, socchiudendo gli occhi e sentendo una lacrima formarsi e scivolare lungo la guancia: si portò una mano al volto, carezzandola e asciugandola: «Lui avrebbe subito accettato tutto questo» bisbigliò, portandosi al volto il pettinino e studiandolo, osservando la figura dell’ape che lo decorava, e annuendo: «Lui non avrebbe pensato, l’avrebbe fatto e basta.»
Si fermò, studiando il monile e annuendo con la testa.
Annuendo al ricordo di lui, annuendo a tutto ciò che aveva fatto e a quello che lei stava per fare.
Sarebbe stato fiero della decisione che aveva preso?
Sarebbe stato fiero di lei?
Sì. Lo sapeva.
Il suo cuore lo sapeva.
«Che cosa devo fare?»
«Cosa?»
Sarah si voltò, mostrando il pettinino allo spirito e sorridendole appena: «Hai detto che sono l’unica che può usarlo, no? Che cosa devo fare?»
Mikko sorrise, annuendo con la testa e volando verso di lei: «Devi indossarlo e poi dire ‘Mikko, trasformami’» dichiarò, seguendola mentre la ragazza si avvicinava allo specchio, rimanendo in silenzio, mentre l’altra si legava i capelli biondi in una coda e sistemava il pettinino, in modo da tenere il tutto fermo.
Sarah osservò il proprio riflesso, annuendo alla se stessa che ricambiava lo sguardo, decisa per la prima volta dopo molto tempo, pronta a fare la differenza che tanto aveva segnato la vita del padre: «Mikko, trasformami.»
 

 

 

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Capitolo 19
*** Scena 19: Senso di colpa ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 813 (Fidipù)
Note: E dopo i capitoli dedicati ai Portatori, questa volta è il turno di Manon: un piccolo scorcio della piccola all'inizio della sua avventura al Collége Naverre, quando ancora non conosceva un certo futuro Portatore e il peso del suo essere stata akumatizzata era forte in lei. E beh, in verità non è che abbia molto da dire, quindi si passa alle classiche informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e dei miei scleri randomici.
E infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

Si lasciò cadere sul letto, rimbalzando appena e affondando il viso contro il cuscino: una gamba penzolava fuori dal materasso, mentre l’altra era piegata in modo da non disturbare i pupazzi che abitavano lì, soprattutto perché non aveva voglia di sistemarli dopo, quando si sarebbe alzata.
Un sospiro le sfuggì mentre voltava la testa e osservava la propria scrivania, girandosi poi nel letto e puntando lo sguardo verso il soffitto, mentre intrecciava le mani all’altezza dell’addome: era stato il suo primo giorno al collége Naverre ed era stato…
Era stato…
Il giorno peggiore della sua vita.
E quello più stancante.
Non solo aveva scoperto che Noemie, sua croce dai tempi del primo anno di elementari, aveva scelto la sua stessa scuola ma la signorina aveva ben pensato di cominciare il suo anno di tormento fin dall’inizio, avvisando tutta la classe che lei era pericolosa perché stata akumatizzata.
Come se non lo fosse stato anche mezza Parigi ma, ovviamente, a Noemie questo particolare non interessava.
Fortunatamente il resto della classe – a parte l’entourage della ragazzina – non aveva dato più di tanto peso alla questione: alla fine quasi tutti conoscevano qualcuno che era stato akumatizzato.
Eppure le parole di Noemie avevano colpito e mentre la sentiva parlare, Manon aveva nuovamente avvertito quella sensazione di colpa che, di tanto in tanto, si faceva prepotente in lei.
Si allungò oltre il bordo del materasso, afferrando lo zaino che aveva abbandonato lì vicino, e armeggiò con la zip finché non l’apri e tirò fuori ciò che le dava forza e, contemporaneamente, gliela toglieva.
Lo sguardo indugiò sulla bacchetta da fata che sua madre le aveva comprato tanto tempo prima e che aveva ospitato l’akuma che l’aveva fatta diventare La Marionettiste: fece scivolare lo sguardo sulla stella, che adornava la punta del bastone rosa e che aveva perso un po’ di colore col tempo.
Aveva sbagliato quando, da piccola, aveva lasciato che le emozioni la sopraffacessero, la soffocassero, e permettessero a Papillon di usarla come una pedina. E per cosa poi? Per delle bambole.
Aveva lasciato che un’akuma la trasformasse per delle bambole.
Sospirò, mentre si voltava nel letto e agitava un poco la bacchetta, osservando la punta della stella e ricordando appena di quando era stata La Marionettiste: tutto era avvolto nella nebbia, come se fosse stato un sogno, eppure dentro di sé poteva ancora avvertire la sensazione che aveva avuto.
Il potere mentre agitava la bacchetta e dava vita alla bambola di Lady Wi-fi.
La sensazione di superiorità mentre si rendeva conto di essere riuscita a mettere Ladybug e Chat Noir nell’angolo.
La sconfitta quando tutto era si era concluso e il potere di Papillon l’abbondonava.
Alle volte sentiva dentro di sé il bisogno di avere nuovamente quel potere, di permettere agli altri di fare ciò lei voleva e dominarli, rendendosi poi conto dei propri pensieri e accogliendo, quasi come se fosse una punizione, quel senso di colpa che si calamitava nella pancia: in quei momenti non riusciva a mangiare e, molto spesso, sua madre si era preoccupata per quel suo comportamento.
Una volta l’aveva sentita anche parlare al telefono con il padre e, ascoltando la conversazione, aveva compreso che si stava consultando per portarla da uno psicologo.
Manon si era domandata cosa avrebbe potuto dire e, quando il momento era giunto – perché, nonostante avesse ripreso a mangiare e si fosse sforzata di non pensare a La Marionettiste, sua madre si era intestardita –, si era trovata davanti una donna che, con calma, le aveva fatto comprendere l’umanità delle sue emozioni: non aveva fatto niente di più e niente di meno che comportarsi come tante altre persone a quel mondo.
Nessuno era al sicuro con Papillon, poiché la rabbia era un sentimento umano.
Ciò che era importante era non farsi dominare da essa.
Manon aveva ascoltato quei concetti, assorbito le parole che la psicologa gli diceva, e poi aveva iniziato a lavorare su di sé e sui suoi sentimenti: la rabbia, il senso di colpa che l’accompagna per ogni pensiero che faceva e riguardava il suo essere Marionettiste, era stato vagliato, studiato e alla fine era giunta a un compromesso con se stessa.
Era ancora lontana dall’essere completamente libera e dubitava di poterlo essere mai ma, intanto, servivano giornate come quella – servivano persone come Noemie – per farla tornare a pensare, rispetto a quando tutto ciò era dominante nella sua mente.
L’ultima volta che aveva visto la psicologa – che si era raccomandata di chiamarla se mai avesse avuto bisogno di parlare – l’aveva lasciata con uno sbuffo sul naso e il sorriso di chi era orgoglioso: andrà tutto bene, erano state le tre parole che le aveva detto riguardo al nuovo ciclo di studi che stava per iniziare, e sebbene l’inizio non fosse stato dei migliori, Manon voleva crederci.
Non voleva lasciare che tutto la divorasse nuovamente: non la rabbia, non il senso di colpa.
Sarebbe andato tutto bene.

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Capitolo 20
*** Scena 20: Sbagliato ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 428 (Fidipù)
Note: Dopo Manon e il suo senso di colpa, si passa a Jérèmie e...beh, devo ammettere che è stato davvero problematico scrivere questo breve pezzo perché volevo, da una parte far intendere un po' l'ambiente familiare del migliore amico di Thomas, e un po' anche il mondo interiore di questo personaggio: per quanto appaia veramente poco nella storia principale (lo vedrete di più in Piccolo grande amore, la raccolta/longfic dedicata a Thomas e Manon), Jérèmie è un personaggio a cui sono veramente affezionata, perché l'ho creato pensando a una persona particolare che, per molto tempo, è stata parte importante e integrante della mia vita.
E niente, questo è quanto, preferisco lasciar parlare il pezzo piuttosto che la mia voce.
Passiamo quindi alle classiche informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e dei miei scleri randomici e anche il gruppo facebook dedicato a Miraculous, gestito con kiaretta_scrittrice92. Per tutti gli altri miei account social vi rimando ai link nel profilo.
Infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

Si lasciò cadere sul letto, affondando il viso nel cuscino e inspirando il proprio odore mentre chiudeva gli occhi, sentendo il bisogno di staccarsi da tutto e tutti.
Non voleva muoversi.
Non voleva pensare.
Non voleva fare.
Voleva semplicemente stare lì, in stand-by, essere immobile come gli NPC dei videogiochi mentre attendevano l’arrivo del giocatore di turno.
Lasciò andare un sospiro, rigirandosi nel letto con gli occhi sempre chiusi, ascoltando i rumori al di là del proprio involucro protettivo: sua madre stava armeggiando da qualche parte della casa, i suoni delle sue faccende che arrivavano attutiti al suo orecchio, e uniti alla voce forte e baritonale del padre.
Le parole che diceva, sulla falsariga di quelle che lo avevano accolto non appena tornato a casa, erano mitigate dalle risposte più pacate della moglie.
Un figlio sbagliato.
Una vergogna.
Quegli epiteti erano i migliori con cui si rivolgeva a lui e, di solito, accompagnati dal bisogno di vederlo morto e dal rinnegare la propria paternità.
Le parole del genitore gli scivolavano, ferendolo e lasciando tracce che nessuno vedeva.
Non il genitore che le aveva causate, non quello che passivamente ascoltava, blandendo semplicemente l’altro.
Non gli amici, che vedevano solo il personaggio che si era creato, il ragazzo gentile e con il sorriso perenne in volto.
Era uno sbaglio, un qualcosa si sarebbe dovuto cancellare non appena accorti.
Sarebbe stato facile, no? Un colpo di gomma e via. L’errore non ci sarebbe più stato.
Non sarebbe stato una vergogna per la famiglia.
Non sarebbe stato quel figlio che non doveva esistere, quel figlio rinnegato.
Per cosa poi?
Jérèmie se l’era sempre domandato e non aveva mai saputo darsi una risposta: per molto tempo aveva pensato che fosse per il fatto che non era come gli altri, aveva compreso molto presto che non aveva gusti simili ai suoi amici del calcetto, che il suo interesse non si focalizzava su un qualche ragazzina ma su…
Beh, altro.
Aveva creduto che fosse questo il motivo per cui il padre non l’accettava, per cui era così ostile nei suoi confronti.
Provare a rinnegare la propria natura sarebbe stata la soluzione migliore, forse stato il modo per farsi accettare da suo padre. Ma il prezzo che avrebbe pagato quale sarebbe stato?
Quanto avrebbe dovuto mentire per non ricevere quel rifiuto dal genitore?
Non si sarebbe sentito sbagliato lo stesso?
Non avrebbe sentito il peso delle menzogne, mentre la sua vita scivolava, una bugia dietro l’altra?
Aveva appena tredici anni, eppure in quei momenti si sentiva molto più vecchio della sua età.
Sbagliato sempre e comunque.
 

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Capitolo 21
*** Scena 21: Debole ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 743 (Fidipù)
Note: E finalmente si ritorna! Si riprende a postare dopo un mese di riposo! Che cosa strana riprendere, devo dire, dopo tutto questo tempo: che dire? Si ricomincia con Scene - che era veramente tanto che non aggiornavo - e dopo Manon e Jérèmie è arrivato il turno di Thomas. Questo capitolo si colloca, esattamente, dopo il 64 di Miraculous Heroes 3 con i pensieri del giovane sulla battaglia avvenuta e sulle sue sensazioni.
E non vi sto ad annoiare più di tanto, anche perché oggi...beh, oggi... ok, non vi dico niente, semplicemente vedrete.
Passo quindi alle classiche informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e dei miei scleri randomici e anche il gruppo facebook dedicato a Miraculous, gestito con kiaretta_scrittrice92. Per tutti gli altri miei account social vi rimando ai link nel profilo.
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Grazie mille!

 

Lei era a pochi passi di distanza, lo sguardo rivolto verso di lui che implorava aiuto, la bocca che si muoveva e sussurrava il suo nome ma nessun suono giungeva alle sue orecchie, mentre sentiva addosso le catene che lo trattenevano: non poteva raggiungerla, non poteva salvarla.
Poteva semplicemente osservare e rimanere impotente.
Debole e inutile.
Thomas si svegliò con il respiro ansante, ritrovandosi a osservare il soffitto immerso nel buio notturno mentre il corpo era ancora in balia delle sensazioni che aveva provato: il cuore batteva nel petto, le gambe tremavano e la sua mente sembrava non riuscire a staccarsi dal sogno che aveva appena fatto.
No, non sogno.
Ricordo era il termine più corretto, perché ciò che aveva appena rivissuto era l’illusione che l’emissario di Qionqgi gli aveva propinato durante l’ultimo scontro; chiudendo gli occhi poteva rivedere Place d’Italie immersa nella sua caotica tranquillità e la sensazione che tutto andava per il meglio, fino a quando non l’aveva vista al centro della piccola area verde che fungeva da fulcro della rotatoria.
Lei era lì, in balia di quei soldati neri che aveva visto quel giorno al centro commerciale con la madre, la prima volta che aveva avuto un incontro ravvicinato con gli altri: Manon era in mano loro e, sebbene sapesse benissimo che gli uomini di Maus erano stati sconfitti, non aveva potuto far altro che rimanere impalato e completamente succube della paura.
Voleva salvarla ma il suo corpo non riusciva a muoversi.
Voleva aiutarla ma era…era…
Debole. Troppo debole.
Lasciò andare l’aria, tirando a sedere sul letto e passandosi le mani sul volto, cercando di scacciare gli ultimi strascichi del sogno mentre un sorriso lieve gli piegò le labbra quando sentì Nooroo borbottare qualcosa nel sonno: non era sicuro di cosa aveva detto ma era certo di aver captato parole come ‘Stark’ e ‘sfiga’.
Rimase a fissare il punto dove aveva posizionato la cesta in cui il kwami dormiva, continuando a tenere il sorriso appena accennato in volto: Nooro era fiducioso e credeva in lui, due cose che non comprendeva del piccolo folletto.
Non era forte.
Non aveva l’esperienza degli altri.
Non era neanche la vera scelta del maestro, dato che lui aveva optato per sua sorella, sbagliando però camera nel momento di lasciare il Miraculous.
Non era nulla, se non un ragazzino patetico e debole che, anche quella volta, non era riuscito a far niente.
Sbuffò, lasciandosi cadere sul letto e fissando nuovamente il soffitto della propria camera, stringendo appena il lenzuolo fra le dita e cercando di bloccare, per quanto possibile, i pensieri senza successo: troppa la tentazione di mettersi a paragone con gli altri, di venire sconfitto dal confronto.
Non aveva l’esperienza di Adrien, l’estro creativo nel combattimento di Rafael o la prestanza fisica di Wei.
Non era neppure intelligente quanto Alex.
Non aveva l’educazione militare di Felix o la saggezza di Fu.
Non aveva la sicurezza di Gabriel.
Non era come nessun’altro degli uomini del gruppo.
Non aveva nulla, se non la sua debolezza.
Come poteva definirsi eroe di Parigi? Come poteva combattere e pensare di proteggere qualcuno? Di proteggere lei?
Con quale mezzo? Con quale forza?
L’ultimo scontro con Qionqgi aveva riportato a galla tutto questo, mettendolo davanti a ciò che sapeva benissimo ma preferiva ignorare: avrebbe dovuto lasciare il Miraculous, riconsegnarlo al maestro non appena appreso tutto ma l’idea di essere un supereroe lo aveva tentato, lusingato e non era stato capace di rinunciare, di consegnare il Miraculous e fare finta che non fosse successo niente.
Un altro sinonimo della sua debolezza.
Si girò nel letto, aggrottando lo sguardo quando vide il led del proprio cellulare lampeggiare: allungò la mano e recuperò l’apparecchio dal comodino, osservando l’anteprima di un messaggio e poi l’orario. Perché Manon gli scriveva a quell’ora?
Si sistemò meglio sotto le coperte, aprendo il testo e sorridendo quando si accorse, fin dalle prime righe, cosa l’amica gli aveva mandato: aveva concluso una fanfiction su una delle sue coppie preferite di un anime che stava seguendo e aveva sentito il bisogno di condividere con lui il tutto.
Ridacchiò, mentre leggeva il commento spassionato della ragazzina e sentendo finalmente le spire del sogno lasciarlo libero: niente catene che lo trattenevano, niente pensieri che lo angosciavano e gli sbattevano in faccia la reale situazione.
Avrebbe continuato il giorno successivo, ripreso dove il messaggio di Manon lo aveva interrotto.
Adesso voleva semplicemente lasciarsi contagiare dalla passione e dalle emozioni che la ragazzina gli aveva scritto.
 

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Capitolo 22
*** Scena 22: L'interrogatorio ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 977 (Fidipù)
Note: In vero oggi avrei dovuto aggiornare La bella e la bestia, ma il mio cervello si era fissato con Scene e quindi mi son detta: perché non fare uno switch e postare oggi il nuovo capitolo di Scene? Allora, un po' di informazioni su questo capitolo. In vero, ho solo una cosa da dire: cronologicamente va dopo l'inizio del capitolo 9 di Miraculous Heroes e, la seconda cosa dire, è che mi è stata richiesta da qualcuno. Fine. . Non c'è nient'altro da dire.
Quindi si passa alle classiche, solite e noiose informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e dei miei scleri randomici e anche il gruppo facebook dedicato a Miraculous, gestito con kiaretta_scrittrice92. Per tutti gli altri miei account social vi rimando ai link nel profilo.
Infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

Marinette si portò il cucchiaio alle labbra, assaggiando la zuppa che aveva preso e cercando di ignorare lo sguardo che sentiva addosso: non era tanto facile, considerando che Alya sembrava aver deciso di non mangiare assolutamente nulla per poter fissarla intensamente e ininterrottamente.
Chiuse le labbra attorno alla posata, assaporando il liquido dal sapore di verdure e addentando il pezzetto di patata, alzando la testa e trovando la più completa attenzione dell’amica: «Che c’è?» mugugnò con il cucchiaio fra le labbra, e notando Alya perdere un po’ dell’eccitante attesa che aveva in volto, curvando le labbra verso il basso e abbassando un poco le palpebre; Marinette si mosse a disagio, storcendo la bocca quando sentì una lieve fitta propagarsi dal basso ventre.
«Come che c’è?» Alya allargò le braccia, alzando gli occhi al cielo e scuotendo il capo, facendo ondeggiare i capelli mossi: «Insomma, hai fatto sesso per la prima volta con Adrien! Mi aspettavo…»
«Alya!»
«Cosa?»
Marinette la fissò a bocca aperta, guardandosi attorno e sentendo il volto andare a fuoco quando si accorse che i più vicini avevano sentito ciò che l’amica aveva appena detto: in vero, si stava stupendo che non tutta la sala della mensa avesse ascoltato, dato che Alya non aveva per nulla moderato il tono di voce: «Parla a voce bassa» bofonchiò, chinando la testa e nascondendosi per quanto poteva con i capelli.
«Oh. Scusa» Marinette alzò la testa, notando come il pentimento non fosse per nulla palese sul volto dell’amica: «Allora? Com’è stato?»
Come era stato?
Se lo era chiesta più e più volte, dopo che se n’era andata da casa di Adrien, il corpo leggermente indolenzito e la domanda era tornata prepotente quando era stata in camera sua, da sola, venendo poi spazzata via quando Chat Noir era balzato dalla finestra: «Intenso» mormorò, passandosi la lingua sulle labbra e piegandole appena in un sorriso: «Dolce. Da Adrien, direi.»
«Da Adrien?» Alya scandì le due parole, poggiando la testa contro il pugno chiuso e fissando la ragazza: «Lui è stato…»
«Gentile, dolce, premuroso» bisbigliò Marinette, buttando fuori le parole come se fossero una sola: «Io…»
«Avete usato delle precauzioni, vero? Non ho pensato a dirti qualcosa e…» Alya si fermò, scuotendo nuovamente la testa e incrociando le braccia al petto: «Ti avviso, non voglio diventare zia così presto! Ho una vita da vivere e anche tu.»
«Co-co-cosa?»
«Presumendo che tu non prenda la pillola, il tuo principe azzurro si è infilato un preservativo, vero?»
«Alya!»
«Oh, andiamo! Voglio essere sicura che non ci sono futuri Agreste in arrivo. Per ora. Più avanti li voglio, però.»
«L-l’ha messo» Marinette si fece vento con la mano, sentendo il volto completamente in fiamme e facendo scivolare lo sguardo attorno a sé, cercando un pretesto per sfuggire a tutto ciò: uno qualunque sarebbe andato bene, le bastava solo una via di fuga.
«Ok. E adesso le domande interessanti.»
Doveva assolutamente fuggire.
Non poteva rimanere così.
«Com’è messo Adrien?»
«Alya!»
«Senti, ho sempre avuto un po’ di problemi a farmi un’idea su Adrien» spiegò Alya, ridacchiando e muovendo le mani: «Un po’ perché è brutto fissare intensamente il pacco del ragazzo della mia migliore amica, e poi perché ho sempre avuto problemi a decidere: è ben messo e quindi è veramente la perfezione assoluta che sembra, oppure ce l’ha piccolo e quindi distrugge tutta l’immagine di ragazzo perfetto che ha con questo difetto? Che poi nulla da dire, l’importante è come lo usa.»
«Voglio morire.»
«Non morire e rispondi.»
«Non lo so» Marinette squittì le parole, ancorando le dita sul bordo del tavolo e stringendolo, facendo diventare le nocche bianche: «T-ti sembra che abbia avuto altri…altri…»
«Facciamo così: ti è sembrato bilanciato oppure era come se fosse più piccolo rispetto al corpo?»
«Perché non si aprono delle voragini quando servono?»
«Oppure era più grosso e sproporzionato rispetto a tutto?»
«Alya, basta!»
«Tu rispondi.
«Proparzato…cioè no, poprazioto…no, volevo dire proporzionato.»
«Mh. Interessante. E’ nella norma» Alya annuì con la bocca, storcendo le labbra e tamburellando le dita sul tavolo: «Continua a rasentare la perfezione quel ragazzo. Ma ce l’ha un difetto? Non so, una voglia enorme sul sederino da urlo che si trova? Sì, perdonami, ho fissato il didietro del tuo ragazzo. Ah, un’altra cosa!»
«Non rispondo più a nulla.»
«Dai, sono curiosa.»
«No, tu sei perfida.»
«E’ venuto subito o no?»
«Su-subito?»
«Ti racconto: la prima volta con Nino lui è venuto subito e poi dopo si è accorto che io…beh, non avevo raggiunto il punteggio massimo, quella cosa chiamata or…»
«Ho capito! Ho capito!»
«Ecco. Se hai capito, rispondi: Adrien è…»
«Prima io.»
«Prima tu cosa?»
«Alya!»
«Sai, è frustrante riuscire a tirarti fuori qualche informazione» Alya bofonchiò, inclinando la testa e studiandola in volto, sorridendo alle guance paonazze dell’amica: «Ha pensato prima a te?» domandò, osservando Marinette annuire con la testa e usare tutto il vigore che aveva: «Sono contenta» commentò, incrociando le braccia sul tavolo e posando il mento su di queste, fissando l’altra: «Sono veramente contenta che tu e Adrien stiate insieme e che lui sia così con te. Siete assolutamente perfetti e vorrei…» si fermò, piegando le labbra in un sorriso divertito alla vista delle due persone che si stavano avvicinando: «Ah, ma perché Nino non impara dal suo amico? Non chiedo tanto, un pochino.»
«Bro, essere tuo amico è praticamente essere sempre in competizione con il tuo essere perfetto» bofonchiò Nino, posando il vassoio con il suo pranzo davanti al posto vuoto vicino ad Alya e fissando l’altro sistemarsi davanti a lui: «Cavolo, se lo avessi saputo col cavolo che ti avrei rivolto parola il primo giorno.»
«Che cosa mi sono perso?»
«Nulla, nulla. Anzi, devo farti i miei complimenti, campione!» dichiarò Alya, ghignando non appena osservò le guance del ragazzo imporporarsi leggermente e passare lo sguardo da lei alla ragazza al suo fianco: «Dritto alla meta, eh?»
«Alya!»
 

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Capitolo 23
*** Scena 23: Qui inizia il mio viaggio ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 970 (Fidipù)
Note: E con questo capitolo mando in pensione - per il momento - questa raccolta: perché? Beh, molto semplicemente perché voglio andare un po' avanti con le storie centrali del Quantum Universe e, magari!, cominciare anche la revisione della trilogia di Miraculous Heroes così da poter vedere se effettivamente mancano ancora dei missing moments (a parte quei 2-3 che mi sono segnata e che farò con calma) o magari crearne di nuovi. Intanto ecco a voi quest'ultimo capitolo, incentrato su Kang e si può dire che molto comincia da questo momento, da questo passo, che getta le basi di ciò che porterà a Miraculous Heroes.
E ovviamente ho buttato lì alcune cosette di storie che ancora non sono nate ma...beh, io intanto vi getto gli ami.
Vorrei ringraziare tutti voi che, finora, avete seguito questa raccolta e mi avete supportato e sopportato (più che altro sopportato) nei miei deliri e quant'altro.
Ovviamente vi tormenterò ancora con tutte le altre mie storie, non credete: non vi libererete facilmente di me!
Detto questo andiamo al classico discorso trito e ritrito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e dei miei scleri randomici e anche il gruppo facebook dedicato a Miraculous, gestito con kiaretta_scrittrice92. Per tutti gli altri miei account social vi rimando ai link nel profilo.
Infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

Un passo non era qualcosa di complicato da fare: era un movimento a cui si era abituati fin dai primi anni di vita, uno dei primi rudimenti che l'essere umano imparava, eppure mai come allora gli era sembrato così difficile farne uno.
I piedi non si spostavano, rimanevano ancorati al suolo, mentre aumentava la presa sul bastone che teneva nella mano sinistra e avvertiva il legno graffiargli la pelle del palmo.
Era un passo difficile, importante però, perché da quello sarebbe determinato tutto il corso della storia.
Se chiudeva gli occhi, poteva vedere la storia scorrere davanti a lui: partivano da un unico punto, diramandosi ogni qualvolta era presente una scelta e dando vita a un grande albero, fatto di scelte fatte e non fatte.
Aveva dato un nome a quell'albero, chiamando Yggdrasill, un nome che aveva pescato in uno delle tante diramazioni che aveva visto: un nome importante che, in una mitologia, avrebbe indicato l'albero del mondo che sorreggeva i mondi.
Un giorno avrebbe voluto apprendere di più su questa storia.
Certo, doveva solo attendere che il popolo da cui era nata nascesse e fiorisse.
Era ancora immobile, sulla soglia del tempio, tergiversando: Gyrro era partito molto tempo prima, quando ancora lui era un infante e non sarebbe più tornato.
Lo sapeva.
Lo aveva visto.
Sarebbe morto non molto lontano da dove si trovava lui adesso, compiendo il suo dovere e iniziando quel passaggio fra i Guardiani, scegliendo il suo successore: così cominciava quella linea, quel ramo, che avrebbe portato di Guardiano in Guardiano, fino a quando il mondo avrebbe avuto bisogno di loro e dei Portatori. Lo aveva iniziato lui, indicando a Gyrro quale era il suo compito e osservandolo andare via da Nêdong e incominciare la missione per la quale era nato: tanti Portatori sarebbero stati scelti da Gyrro e dagli eredi del suo ruolo, tanti giovani guerrieri avrebbero donato la propria vita per una causa più grande.
Alcuni li avrebbe incontrati, intrecciando la sua vita alla loro.
Una l'avrebbe amata e il dolore per la sua perdita, lo avrebbe portato lontano.
La sua vita si snocciolava davanti ai suoi piedi, pezzo dopo pezzo, poteva vedere ogni cosa, ogni scelta che avrebbe fatto e che l'avrebbe condotto verso un determinato percorso - un determinato ramo - in modo da permettere a coloro che sarebbero nati, in un futuro lontano, di combattere contro qualcosa che proveniva dal passato.
Una pedina di se stesso, questo sarebbe stato.
Ma era giusto?
Era davvero così superiore da potersi permettere di giocare con le vite altrui? Di giocare con il futuro e il passato?
Chi era lui, se non un giovane uomo con un potere più grande di lui?
Chi gli dava il potere e la saggezza di determinare quale scelte andavano fatte e quali no?
Il risultato finale a cui portava il percorso?
Ma era veramente quello giusto? Era veramente la cosa giusta da fare?
Era una domanda che si faceva adesso, in quel momento, ma che si sarebbe riproposto anche in futuro e allora avrebbe vacillato, distolto il passo dal cammino che si era prefissato, e avrebbe visto il nemico prendere il sopravvento, avvertendo già il sangue di quei Portatori macchiare le sue mani.
Sapeva già che avrebbe sbagliato e allora perché farlo?
Perché non rimanere lì a Nêdong, fare finta di niente e lasciare che la storia seguisse il suo cammino, senza alcuna interferenza.
Non doveva fare molto, non doveva fare altro che un passo indietro.
Se rimaneva a Nêdong, non sarebbe mai andato a Shangri-la e mai avrebbe incontrato la piccola principessa di quel regno abbandonato, non avrebbe mai accolto la vita eterna che l'antica Lemuria gli avrebbe donato, non avrebbe mai incontrato lei e non l'avrebbe mai amata, né sarebbe stato ricambiato: forse qualcuno si sarebbe salvato, ma altri sarebbero morti perché non ci sarebbe stato il suo intervento.
Felix Norton sarebbe morto, senza il suo intervento.
L'illusione che avrebbe creato in quel futuro lontano, sarebbe avvenuta veramente.
E poi…
Poi il gruppo di Portatori che avrebbe combattuto contro la forza di Routo sarebbe stato sopraffatto e la visione di quella città in fiamme sarebbe divenuta realtà.
Sacrificare pochi per il bene di molti, per il proprio bene? Poteva fare ciò?
Poteva veramente fare quel passo in avanti, sapendo che alcuni sarebbero morti per causa sua, ma ciò avrebbe permesso ad altri di salvare quel mondo?
Inspirò, rilassando le spalle e chiudendo gli occhi al mondo, liberando la mente da ogni pensiero, da tutte le immagini del futuro che affollavano la sua mente: esistevano solo lui e quel passo che doveva compiere.
Indietro o avanti non aveva importanza, andava fatto.
Rimase immobile, ascoltando i pochi rumori del tempio e della valle, sentendo sulla pelle la luce del sole che poco o nulla riscaldava, mentre il flebile vento mattutino muoveva la sua tunica: sorrise, alzando il piede e muovendo quel passo che tanto lo aveva fatto dannare, tanto lo aveva messo in bilico.
Poggiò il piede, superando con solo le dita la porta di Nêdong e iniziando così quel viaggio che lo avrebbe condotto lontano sia nel tempo che nello spazio: «Qui inizia il mio viaggio…» mormorò, facendo un secondo passo e poi un terzo, allontanandosi piano piano dal tempio e buttandosi nel percorso che aveva scelto: «Possano i Sette vegliare sempre su di me e su tutti coloro che verranno. Possano i Sette fermare la sete di potere della mia famiglia» si fermò, sorridendo appena e continuando a camminare, un passo dopo l'altro, sempre in avanti: «Possano i Sette perdonarmi per le scelte che farò, per le vite che sacrificherò e per ogni errore che compirò, perché io voglio che questo mondo giunga a quel giorno lontano, che vedo così raramente, in cui il potere dei Miraculous non servirà mai più. Non chiedo altro, non chiedo nient'altro.»
 

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Capitolo 24
*** Scene 24: Buon anniversario ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 397 (Fidipù)
Note: Buon San Valentino! Eccomi qua con una cosetta da niente, buttata giù in dieci minuti scarsi, giusto per festeggiare la giornata degli innamorati e anche il primo anniversario di matrimonio di Adrien e Marinette (Che in Miraculous Heroes 3 si sposano, esattamente, il 14 febbraio del 2017). E niente, non vi dico altro e  vi lascio a questo momento cuoricineggiante e...beh, in echocide style!
Detto questo andiamo al classico discorso trito e ritrito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli e dei miei scleri randomici e anche il gruppo facebook dedicato a Miraculous, gestito con kiaretta_scrittrice92. Per tutti gli altri miei account social vi rimando ai link nel profilo.
Infine vi ringrazio tantissimo tutti per il fatto che leggete, commentate e inserite le mie storie in una delle vostre liste.
Grazie mille!

 

«E dopo?»
«Dopo…» si fermò, inspirando profondamente, sapendo benissimo che avrebbe avuto bisogno di aria per dar voce al suo piano in una volta sola: «Lo invito a bere qualcosa, un succo di frutta dopo il servizio fotografico; poi ci sposiamo e vivremo felici in una casa super bella. Avremo un bambino. No, tre. E un cane o un gatto. No, niente gatti. Un criceto. Adoro i criceti.»
Marinette si fermò, lasciandosi andare alla fantasia e poi voltandosi verso l'amica che, con la mano poggiata sul fianco e l'altra allungata verso di lei, teneva la bocca aperta dalla quale usciva l'inquietante trillo della sveglia.
Come mai Alya non aveva la sua voce e, invece, faceva uscire dalle labbra quello strano suono? Era quasi come…
Mugugnò, allungando una e sbattendola contro il comodino, sentendo il rumore di qualcosa che cadeva e rotolava da qualche parte: neanche un tentato omicidio aveva zittito quell'affare infernale.
«Amore, non fare a pugni con la sveglia» bofonchiò la voce maschile e dalla cadenza assonnata dietro di lei, mentre una mano la stringeva per i fianchi e le impediva di raggiungere quell'apparecchio.
«Ti prego, fammela zittire» mormorò Marinette, cercando di liberarsi dalla stretta del marito, giusto il tempo per finire del tutto la sveglia.
«Plagg…»
«Non è che Plagg è la soluzione a tutto.»
«Stai zitto e guadagnati il tuo camembert» Marinette non parlò e né fiato, ascoltando uno sbuffo infastidito levarsi da una parte della stanza e poi, una manciata di minuti dopo, il silenzio regnò di nuovo sovrano nella camera da letto: «Visto?» le domandò Adrien, tirandola contro di sé e sospirandole contro la nuca.
La ragazza sorrise, voltandosi nella stretta del marito e trovandosi a osservare il volto di Adrien: c'era poco o nulla del ragazzino che aveva conosciuto parecchi anni prima, i lineamenti non erano più infantili ma avevano sempre quella perfezione assoluta di bellezza.
Almeno secondo i suoi canoni.
I capelli erano spettinati e gli coprivano la fronte, mentre le palpebre erano chiuse sugli occhi verde smeraldo; sorrise, allungando un dito e sfiorandogli le labbra leggermente dischiuse e quasi aspettandosi che lui serrasse la presa attorno al suo polpastrello: «Buon San Valentino, mon chatton» gli bisbigliò, stringendosi più a lui e strofinando il naso contro il collo.
Adrien sorrise, aprendo finalmente gli occhi e fissandola, girando appena il volto e posandole un bacio sulla fronte: «Buon anniversario, my lady.»
 

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Capitolo 25
*** Scena 25: Portatrici ***


Titolo: Scene
Personaggi: Un po' tutti
Genere: slice of life, generale
Rating: G
Avvertimenti: oneshot, what if...?, raccolta
Wordcount: 460 (Fidipù)
Note: Esattamente due anni fa, postai il primo capitolo di Miraculous Heroes: non scrivevo da parecchi anni e avevo quasi abbandonato quella passione che mi aveva sempre animato ma Miraculous mi aveva dato quel che, quell'input, quella spinta di cui avevo bisogno.
Avevo ideato e progettato la storia nei mesi precedenti e scritto alcuni capitoli, ma senza il coraggio di postarli. Poi mi feci forza e misi online il primo, senza aspettarmi tanto: non era scritto bene ed era molto differente rispetto alle storie classiche che giravano sul sito all'epoca.
E ora, eccomi qua, due anni dopo con una saga sulle spalle e tante altre storie che aspettano solo di essere scritte. Ho deciso di 'festeggiare' con questo breve, ma veramente breve pezzo che racchiude un po' tutto il Quantum Universe e vorrei ringraziare tutti voi che leggete e che mi supportate, perché senza di voi forse avrei abbandonato tutto molto prima. Grazie tantissimo per questi due anni di sorrisi e tempo passato assieme.
Grazie tantissimo!
 

 

Tikki ridacchiò, osservando la ragazza che dormiva profondamente e biascicava qualche parola nel sonno, una mano abbandonata sull'addome, l'altra mollemente poggiata sul cuscino, le gambe messe in modo che formassero la forma di un quattro: Marinette era così bambina quando dormiva e questo la faceva ridere. Era così diversa dalla ragazza che aveva conosciuto e che stava crescendo, evolvendo sotto il suo sguardo.
Alcune volte le veniva da paragonarla a chi c'era stata prima di lei, per poi darsi della stupida da sola e ricordandosi che ogni Portatrice era speciale a modo suo.
Il suo sguardo vagò al libro di storia, abbandonato sulla scrivania al piano inferiore e quasi fu tentata di andare a sfogliare nuovamente quelle pagine, come faceva molto spesso quando Marinette non la vedeva: non c'erano cenni delle giovani che avevano indossato il suo Miraculous, nessun segno della loro esistenza su quel pianeta.
Alcune erano passate alla storia come leggende, personaggi mitologici creati da qualche novella o cantastorie.
Altre non avevano neanche raggiunto quel lusso, abbandonate completamente nell'oblio.
Eppure lei sapeva, lei era a conoscenza che ognuna di loro aveva vissuto, che tutte loro avevano fatto in modo che il mondo fosse quello che era adesso.
Ognuna aveva dato il suo contributo, combattendo e soffrendo perché a questo portava anche l'obbligo e l'onore di essere un Portatore: una vita fatta di segreti, di combattimenti e di sofferenze.
La piccola kwami volò dabbasso, fluttuando sopra il tomo e osservandone la copertina: ricordava ancora la fine di alcune di loro, testimone dei loro ultimi momenti ed esse non erano state molto più grandi di Marinette.
Erano state donne e guerriere, vittime del loro tempo e martiri.
Avevano combattuto e fatto in modo che il male, il nemico, non vincesse o non fosse una vittoria totale.
Avevano sacrificato tanto eppure nessuno dava loro il merito che dovevano avere.
Come alla ragazza che dormiva di sopra: oh, certo. Parigi era grata ai due eroi e i cittadini facevano anche in modo di esprimere questo loro sentimento, ma anche con altre era stato così. Aveva già vissuto tutto ciò ed era certa che anche Marinette, un giorno, sarebbe scivolata fuori dalla storia, dimenticata o relegata a una figura immaginaria.
Un mito.
Una leggenda.
Questo erano quelle ragazze, quelle Portatrici che combattevano per un bene superiore e lei era stata al fianco di ognuna, orgogliosa delle sue compagne, anche quando queste sbagliavano e cadevano, anche quando cedevano e non si rialzavano. Aveva voluto bene ad ognuna di loro, custodendo nel suo piccolo cuore di kwami il loro ricordo: unica testimone delle loro vite, unica a ricordarsi di quelle fanciulle, anche adesso che nessuno ricordava la loro esistenza.
Ma lei sì.
Lei sapeva che, nella storia, loro c'erano state e avevano fatto la differenza.
 

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