Tell me three secrets - Dimmi tre segreti

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** // ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Tamara Bentley ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Kimberly Warren ***



Capitolo 1
*** // ***


     Le luci dei lampioni di Sweet Alyssum Street erano già accese nonostante non fossero neppure le sette di sera. Il sole calante in lontananza gettava ombre lungo la strada deserta.
La scuola era ricominciata da tre settimane, e l'aria settembrina e le giornate sempre più corte non facevano altro che ricordarle che l'estate era definitivamente scomparsa alle loro spalle.
Tamara Bentley si strinse nel golfino color salmone che si era gettata sulle spalle coperte dalla camicetta leggera e proseguì a passo svelto e testa china. Alcune foglie morte staccatesi dagli alberi dei giardini delle villette vennero spazzate via dal marciapiede da una folata di vento più intensa delle altre. I capelli biondi di Tammie le sventolavano di fronte al viso e agli occhi in ciocche disordinate. Più di una volta, durante il tragitto verso casa, aveva pensato di fare uno strappo alla regola e di legarli in una coda per non che il vento glieli scompigliasse, ma la vergogna aveva prevalso come al solito; anche se all'apparenza in Sweet Alyssum Street non c'era nessuno che avrebbe potuto vederla, quella sera.
La via in cui abitava non era niente male, doveva convenire Tammie quando – di rado, ma le capitava – ci rifletteva: non era elegante o raffinata come Lady's Mantle Avenue ma nemmeno un postaccio sudicio e malfamato come Tulip Street – ogni volta che pensava a Calia che viveva in quel posto si dispiaceva per lei.
Sweet Alyssum Street era lo stereotipo vivente della provincia americana – tutta Heaven Barrow lo era. Si trattava di una lunga e larga strada asfaltata che correva al centro di due marciapiedi sempre puliti e dove Tammie raramente aveva avuto l'onore d'intravedere l'ombra di una lattina vuota o di un mozzicone di sigaretta, e costeggiata da due schiere di villette a uno o due piani, rigorosamente color pastello e dai giardini fioriti e ben curati tutto l'anno.
La prova che non occorreva spararsi tutte le puntate di Desperate Housewives per avere un assaggio del classico ambiente provinciale medio-borghese degli USA.
Il fatto che quella sera non ci fosse nessuno in giro non era una novità. La maggior parte degli inquilini delle villette erano coppie sposate senza figli, perlopiù medici e avvocati che dopo la giornata lavorativa cenavano in casa, oppure persone anziane che andavano a letto presto. Certo, qualche ragazzo c'era, ma chi la sera voleva uscire a divertirsi era obbligato a migrare verso zone più vivaci di Heaven Barrow, come l'Enchantress o l'Havana Nights.
Tammie continuò a camminare a passo sostenuto. Una parte di sé voleva arrivare a casa il più presto possibile, l'altra la spingeva a tardare ancora un po'.
Le venne da pensare a Calia, a papà, alla mamma che non c'era più e all'incisione sulla sua lapide al cimitero. L'aveva imparata a memoria, quell'incisione:
 
In memoria di Caroline Mary Bentley
1975-2007
Amata moglie e madre
 
La fotografia di sua madre affissa alla lapide si sovrappose prima con il volto di suo padre, poi con quello di Calia, e infine divenne una moltitudine di facce conosciute che si contendevano l'una con l'altra il posto di fronte ai suoi occhi.
Fu in quel momento che Tammie si rese conto di stare piangendo.
Smise di camminare e si tolse gli occhiali, strofinando le lenti con un lembo del golfino. Lo zaino che teneva in spalla vibrò. Tammie pensò d'ignorare la chiamata, ma poi si sfilò la cartella da dosso e tirò fuori il cellulare.
- Pronto...?- singhiozzò; si schiarì la voce:- Pronto?- ripeté con maggiore fermezza.
- Sei a casa?
La voce di Calia dall'altra parte dell'apparecchio era intrisa di una malcelata ansia mista a una punta di sollievo. Tammie riprese a camminare.
- No - rispose, asciugandosi le guance con la manica del golfino.
- Stavi piangendo?
- No.
Calia sospirò; seguì un breve silenzio.
- Se non lo fai tu, lo faccio io.
- Ne abbiamo già parlato, ti ho detto che sarebbe inutile.
- Non puoi saperlo. Per lo meno sapremmo se c'è un modo per rimuoverlo.
- C'è, ho controllato su Internet. O sei un hacker o devi avere un bel po' di quattrini da buttare.
- Questa cosa deve finire. Parlane almeno con tuo padre, o con la professoressa Penley. Se vuoi, posso dirlo a mia zia.
- Tanto anche se qualcuno lo togliesse, non la smetterebbero comunque.
La voce di Tammie ora era più ferma, risoluta. Svoltò l'angolo a passo svelto, superò la villa dei signori Osborne e si avvicinò alla staccionata che circondava casa sua. Era di legno bianco, papà l'aveva ridipinta il giugno precedente. Il prato era ben curato, e sotto a un salice piangente era sistemato il barbecue del signor Bentley, accanto a una sdraio a righe gialle e bianche.
Tammie alzò lo sguardo sul salice piangente: quando era piccola, suo padre le aveva costruito una casetta sull'albero, con il tetto rosso spiovente, una porta e una finestra. Tammie non riusciva a starci dentro in piedi, era costretta a rimanere sempre seduta o a camminare carponi, ma l'adorava, e l'aveva riempita con le sue bambole e i suoi disegni, e quando Calia veniva a trovarla ci si arrampicavano insieme e fingevano di essere due signore che prendevano il té, oppure inscenavano una fiaba.
Lei, Tammie, era sempre la principessa tenuta prigioniera. Ovviamente Calia era il cavaliere che veniva in suo soccorso.
Poi lei era cresciuta troppo anche per poterci entrare a gattoni, il legno era marcito, e papà l'aveva abbattuta e usato i pezzi per accendere il camino in soggiorno.
Tammie aprì il cancelletto proprio nel momento in cui Calia esalava un lungo sospiro.
- Sei arrivata? Ho sentito il cigolio del cancello.
- Sì, sono arrivata.
- Tuo padre è tornato?
- Non ancora.
Non c'era traccia della Cadillac del signor Bentley né sul vialetto né in garage, e le luci dentro la casa erano spente. A Tammie sembrò quasi che le gambe le diventassero più pesanti a ogni passo che percorreva verso la porta.
- Vengo da te, stasera.
- No, non serve.
- Sì, che serve. Non risolverà il problema ma potrei tenerti su il morale. Ci mettiamo il pigiama e mangiamo qualche schifezza ipercalorica mentre guardiamo una di quelle mielose commedie romantiche che ti piacciono tanto...
- Mio padre sarà a casa fra un'ora al massimo. La vista di una diciassettenne in top e pantaloncini succinti potrebbe scioccarlo a vita - Tammie si sforzò di ridere.- E poi non vuole che si facciano pigiama party infrasettimanali.
- Va bene - la voce di Calia non sembrava delusa, solo preoccupata.- Ma resto al telefono ancora un po'. Ti tengo compagnia finché non torna tuo padre.
- Ho il cellulare quasi scarico. E poi devo preparare la cena e farmi la doccia.
Dall'altra parte della cornetta arrivò un terzo, profondo, triste sospiro.
- Non hai proprio voglia di parlare, vero? Neanche con me...
- Non sei tu - Tammie si affrettò a dire; estrasse le chiavi di casa dalla tasca della gonna e le infilò nella serratura.- Devo davvero farmi la doccia. E sono stanchissima.
- E' che tu mi sei stata vicina quando...lo sai. Voglio fare lo stesso con te.
- Lo stai già facendo - Tammie sorrise, nonostante tutto. Calia era la sua amica. La sua migliore amica, la sua amica del cuore. L'unica che non le avesse mai vomitato merda addosso da quando erano bambine, l'unica che conoscesse l'Inferno che stava attraversando e l'unica che stava seriamente cercando di fare qualcosa per aiutarla.
Le dispiaceva lasciarla così.
- Lo fai già, sul serio - ripeté, imponendosi di essere risoluta.- Ho solo bisogno di...
- Che cosa?
- Riflettere, ecco. E riposarmi. Oggi è stata durissima.
- Lo so. Sei sicura che non vuoi parlare? Non necessariamente di...quello, se non vuoi. Possiamo anche chiacchierare di cose stupide, se ti va. Come ai vecchi tempi, ricordi?
Tammie ridacchiò stentatamente. Entrò in casa.
L'interno era buio, ma Tammie esitò prima di accendere la luce. Alla fine, premette l'interruttore, e la luce flebile della lampadina rivelò l'angusto atrio: un breve corridoio alla cui sinistra era sistemato un portaombrelli e alla cui destra, qualche metro più in avanti, si apriva la porta della cucina. Tammie si sfilò le scarpe da tennis e zampettò a piedi nudi fino al soggiorno, dove abbandonò lo zaino sul divano.
- Ricordo. Ma come ti ho già detto, devo farmi una doccia. Magari più tardi, che ne dici?
- D'accordo. Ti chiamo dopo cena. Solo...
- Cosa?
- Promettimi che ne parlerai con qualcuno, va bene? Se vuoi, domattina andiamo insieme da mia zia.
- Ci penserò. Ma non da tua zia, lo sai come la penso sugli strizzacervelli.
- Allora da qualcun altro, ma facciamolo. E...Tammie?
- Sì?
- Promettimi solo un'ultima cosa: non guardarlo più. Intesi? Non accendere il computer, non guardare quella merda stasera. Ti fa solo male.
- Okay.
- Allora...a dopo? Stai bene?
- Certo.
- Sicura?
- Sicura. A dopo.
Calia la salutò e Tammie chiuse la chiamata. Spense il cellulare e lo lasciò cadere sul sofà accanto allo zaino. Salì al piano di sopra, ma non andò in bagno per farsi la doccia.
Si diresse in camera sua.
La sua stanza non era cambiata di molto dal giorno in cui la mamma era morta, quando aveva nove anni. Sembrava più la camera da letto di una dodicenne che di un'adolescente che andava al liceo. Il copriletto era nascosto da una ventina fra peluche, bambole e cuscini rosa e bianchi, l'armadio dalle ante aperte era ricolmo di golfini, calze e gonne colorate, e accanto alla scrivania su cui era riposto il suo portatile vi era uno specchio che rifletteva la figura intera.
Tammie vi si avvicinò e iniziò a spogliarsi senza smettere di guardarsi. A ogni centimetro di pelle che scopriva, i foruncoli dell'acne le si palesavano in ogni angolo. Ne era ricoperta: ne aveva sulle spalle, sul torace, sul dorso...la parte più colpita erano il volto e la fronte, un tripudio di brufoli e pustole schifose.
L'acne l'affliggeva da quando aveva tredici anni. Suo padre l'aveva portata da diversi medici e dermatologi, lei stessa spendeva una follia in creme e pomate, ma sembrava che più sforzi facesse per curarlo, più l'acne fiorisse sfigurandola.
Di solito cercava di nasconderlo il più possibile utilizzando strati e strati di fondotinta e tenendo i capelli biondi sempre sciolti in modo che le coprissero parzialmente il viso, ma il problema restava e non c'era nessuno che non se ne fosse accorto, specialmente a scuola.
L'unica a cui sembrava non importare nulla era Calia; la stessa Tammie spesso evitava di guardarsi allo specchio per non vedere quella schifosissima eruzione cutanea; ma quella sera non smise di rimirarsi per un solo istante e, dopo che ebbe infilato la camicia da notte, rimase in piedi di fronte allo specchio per diversi minuti.
Non pensò a niente. Né a quanto fosse brutta e repellente, né a quanto le stava accadendo da un mese a quella parte. Non pensò nemmeno a papà o a Calia. Temeva che se l'avesse fatto, avrebbe cambiato idea.
Decise di mantenere la promessa che aveva fatto alla sua amica, e soffocò l'istinto fortissimo che la spingeva ad aprire il PC e a guardare quella cosa.
Invece, si diresse verso il bagno.
Suo padre non era in casa, ma chiuse comunque la porta a chiave per evitare ogni rischio. Sfilò la cintura dall'accappatoio e prese lo sgabello che da bambina usava per raggiungere il lavandino, e di cui suo padre non si era mai sbarazzato, e lo trascinò verso la doccia. Vi salì in cima e legò saldamente un'estremità della cintura alla traversa della doccia, mentre praticò un nodo scorsoio sull'altra metà.
Se lo avvolse intorno al collo.
Rimase a fissare il vuoto per dieci, venti minuti, forse mezz'ora, prima di chiudere gli occhi e di saltare giù dallo sgabello.
La corda si tese per il peso del suo corpo. Dalla gola di Tammie uscì un urlo strozzato, mentre si portava le mani alla gola e cercava istintivamente di allentare la morsa del nodo scorsoio.
Il suo corpo si dimenò a mezz'aria, i piedi che scalciavano come colti da spasmi.
Poi, i movimenti si fecero più radi, lenti e pesanti, e i piedi smisero di scalciare. Gli spasmi cessarono, e Tammie rimase immobile, un corpo morto e cianotico che penzolava dalla traversa della doccia.
Fuori, il signor Bentley parcheggiò la sua auto nel vialetto di casa e spense il motore.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti.
Vi ringrazio per aver deciso di aprire questa storia e per aver letto questo primo capitolo. Vi chiederei per favore di leggere anche queste note, perché sebbene non essenziali possono aiutare meglio a capire alcune cose.
Parto con il dire che questa è la prima storia che pubblico nella sezione thriller, e che è stata ispirata parzialmente dal romanzo 13 di Jay Asher. Lo lessi nel lontano 2007, quando uscì, e l'ho riletto ultimamente in questi giorni. Come allora – avevo tredici anni – mi colpì molto.
So che ne è stata tratta una serie per Netflix che sta avendo molto successo. Premetto che non ho ancora visto la serie, eccetto alcune immagini scollegate che ho beccato per caso mentre mio fratello stava guardando gli episodi. Di conseguenza, se troverete riferimenti alla serie – a parte ovviamente il tema del suicidio, ma di questo discuterò più tardi – non sono voluti. Provvederò eventualmente ad avvisarvi quando/se inizierò/finirò la serie.
 
Secondo punto. Come avrete capito dall'intro e da questo “prologo”, chiamiamolo così, la tematica del suicidio sarà presente in modo massiccio. Questa fanfiction vuole essere un thriller – ci proverò, almeno – più che un teen drama, quindi sappiate fin da ora che potrebbero esserci delle scene abbastanza forti e/o crude, pur mantenendomi nei limiti del regolamento imposto da EFP.
 
Terzo punto. Dal capitolo 3 in avanti, la fanfiction seguirà la struttura capitolo ambientato nel presente – capitolo flashback – capitolo ambientato nel presente – capitolo flashback ecc.; cercherò di rendere il tutto il più lineare e comprensibile possibile.
 
Quarto punto. Questo come vi ho detto è il primo esperimento thriller della mia carriera di fyccinara sfaccendata, di conseguenza gradirei molto sapere la vostra opinione. Ergo, sarei felice se mi lasciaste una recensione, sia positiva sia critica. Sono dell'opinione che quando una persona pubblica qualcosa automaticamente sta chiedendo anche un parere, e che le critiche costruttive ed educate possano aiutare a migliorarsi. Quindi, se la storia vi interessa e/o avete delle critiche da muovere – anche in virtù del fatto che ci saranno temi delicati, e a maggior ragione un aiuto o una critica m'impedirebbero di fare involontari strafalcioni.
 
Detto questo, grazie per l'attenzione e al prossimo capitolo.
 
Beauty

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I - Tamara Bentley ***


Capitolo I

 

Tamara Bentley

 

 
 
You have my heart, and we'll never be worlds apart
Maybe in magazines, but you'll still be my star
Baby, 'cause in the dark
You can't see shiny cars
And that's when you need me here
With you I'll always share
 
Because
When the sun shines we shine together
Told you'll be here forever
Said I'll always be your friend
Took an oath that I'm a stick it out till the end
Now that it's raining more than ever
Know that we still have each other
You can stand under my umbrella

 

 

 

Su Facebook e Twitter, in particolare sugli ufficiali gruppi scolastici dell'Heaven Barrow High School, aveva iniziato a circolare l'hashtag pernondimenticare.
Calia si era rifiutata di usarlo.
Il profilo Facebook di Tammie era in disuso da sette giorni, e sospettava che il signor Bentley non l'avesse ancora rimosso solo perché non era capace di usare i social network. In compenso, era stata creata una pagina Facebook avente foto profilo una candela accesa nel buio e come immagine di sfondo una fotografia presa dall'annuario scolastico della prima liceo. La pagina era intitolata R. I. P. Tammie Bentley.
Quando l'aveva vista, Calia era scoppiata a piangere di fronte allo schermo.
Sua madre l'aveva sgridata dicendo che non mostrava abbastanza dolore per la morte della sua cosiddetta migliore amica – Monica Jefferson aveva calcato la mano su quel cosiddetta come a rimarcare il concetto, come se lei ne avesse saputo mai qualcosa del rapporto che c'era fra lei e Tammie.
- Dovresti pubblicare fotografie di te e lei insieme, usare quell'hashtag...ho capito che hai saltato la scuola per due giorni, ma mi sembrano veramente troppo pochi. La signora Johnson, ieri dalla parrucchiera, mi ha detto che le sembri veramente troppo fredda e distaccata. Che figura mi fai fare con le mie amiche? Diranno tutti che ho una figlia anaffettiva. Sono andata dal dottor Winchester a farti prescrivere dei tranquillanti per dormire, te li ho messi sul comodino...
Calia aveva pensato che Monica doveva essere fuori di testa a darle una scatola intera di tranquillanti dopo quel che era successo. Come se non ci avesse neppure pensato, oppure che si fosse detta “ma figurati, sono sole le figlie degli altri che si suicidano, la mia non mi farebbe mai fare una figuraccia del genere”.
Calia aveva annuito e poi, quando sua madre era uscita, aveva preso la scatola di medicinali e ne aveva rovesciato l'intero contenuto nel WC.
- Signorina Jefferson? Calia!
Calia trasalì, e lasciò cadere la penna che teneva fra l'indice e il medio. La plastica ticchettò contro il pavimento dell'aula silenziosa, e il suono alle orecchie della ragazza ebbe l'intensità di un rombo di tuono.
Sbatté le palpebre più volte. Si era incantata a fissare il vuoto, chissà per quanto tempo. Una mano esile e sottile le accarezzò una spalla.
- Calia? Va tutto bene?
Calia alzò lo sguardo, incrociando gli occhi azzurri della professoressa Penley. L'insegnante di matematica la guardava con espressione sinceramente preoccupata. Non era una di quelle faccette false che sfoderavano Monica o quasi chiunque altro conoscesse, il che contribuiva a renderle la Penley simpatica.
Calia annuì, cercando di sembrare convinta.
- Hai bisogno di un bicchier d'acqua?- domandò la professoressa; Calia fu felice che non se ne fosse uscita con un come ti senti? o qualcosa non va?, come avevano fatto praticamente tutti i professori. Aveva faticato a trattenersi di fronte a quella domanda idiota.
Il lunedì seguente alla morte di Tammie – il giorno in cui Calia aveva rimesso piede all'Heaven Barrow High School – il signor Ruthven, il suo professore di letteratura inglese, l'aveva avvicinata mentre trascorreva la ricreazione seduta su una panca in giardino.
- Qualcosa non va, Calia?
E lei a quel punto non ne aveva potuto più.
- La mia migliore amica si è ammazzata impiccandosi alla doccia. Secondo lei questo può essere qualcosa che non va, professore?
In condizioni normali, Ruthven le avrebbe dato una nota di demerito e l'avrebbe spedita dal preside a calci in culo, ma di fronte a quella risposta si era limitato a sospirare e a proporle un appuntamento con il consulente scolastico.
- No, grazie - tornò al presente e si sforzò di rispondere cordialmente alla professoressa Penley. Lei non era l'ultima degli stronzi, a differenza di Ruthven; si meritava gentilezza e rispetto anche solo per i suoi tentativi di essere d'aiuto.
La professoressa Penley non insistette; le strinse dolcemente una spalla come a volerle comunicare conforto, poi si allontanò e riprese a passeggiare con la classe.
- Il preside Kincaid ha predisposto che oggi tutti gli studenti che hanno avuto contatti con Tamara Bentley si sottopongano a un colloquio con la consulente scolastica - proseguì il suo discorso da dove l'aveva interrotto; la prima ora del mercoledì mattina avevano matematica con la Penley, la quale rivestiva anche il ruolo di coordinatrice scolastica. Quel giorno, anziché entrare in classe e attaccare con la lezione su monomi e polinomi, l'insegnante aveva detto a tutti di riporre libri e quaderni e di starla a sentire.
Aveva cominciato a parlare di Tammie, aveva comunicato loro che lo Sceriffo di Heaven Barrow aveva aperto un fascicolo sulla sua morte e che era possibile – previo consenso dei genitori – che chiamasse qualcuno di loro per porre qualche domanda. Non dovevano spaventarsi, li aveva rassicurati, si trattava solo di domande di routine; e lei li invitava tutti a recarsi dalla consulente scolastica, dal preside, da qualsiasi insegnante o direttamente alla stazione di polizia, se per caso avessero avuto qualche informazione sulla morte di Tamara. Dopodiché, aveva dato il via a un lungo sermone sull'importanza di confidarsi con qualcuno se si aveva un problema, del cercare aiuto quando si era in difficoltà, aveva sciorinato una serie di numeri utili e raccomandato a tutti di prestare attenzione e qualora vedessero un compagno o un amico in difficoltà di correre subito a riferire il fatto a lei o a un altro insegnante.
La maggior parte degli studenti aveva giocato con il cellulare sottobanco per la maggior parte del discorso, o aveva chiacchierato sottovoce o speso il tempo a fare una battaglia di palline di plastica. Calia si era sforzata di stare attenta più per il rispetto che nutriva nei confronti della Penley che per altro, ma presto la sua mente aveva iniziato a migrare verso altri lidi.
- I colloqui cominceranno al termine di quest'ora, quindi siete tutti pregati di recarvi in corridoio nei pressi dello sportello d'ascolto e attendere il vostro turno. Chi non passerà oggi potrà usufruirne domani...- la Penley fulminò con un'occhiataccia Justin Asher, che in quel momento stava sghignazzando alla battuta del suo compagno di banco. Il ragazzo smise di ridere immediatamente, ma la ramanzina non arrivò. La professoressa chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, poi tornò ad abbracciarli tutti con lo sguardo.
Calia ebbe l'impressione che si stesse rivolgendo più a lei che a chiunque altro.
- Ascoltate...so che quello che è accaduto vi ha scossi, e parecchio. Ma ciò che possiamo fare, adesso, è ricordare la nostra amica Tamara e fare in modo che la sua morte non sia stata vana. Dobbiamo evitare che succeda un'altra volta. Sono certa che tutti voi volevate bene a Tammie e che...
Calia sentì che non ce l'avrebbe fatta ulteriormente e scattò in piedi con tanto vigore che rischiò di ribaltare la sedia.
- Professoressa, posso andare in bagno?- pronunciò la domanda con voce stridula e più alta di ciò che avrebbe voluto. Quel suo scatto improvviso ebbe il potere di far girare tutta la classe nella sua direzione. La Penley ammutolì e rimase a fissarla, sbigottita.
Calia sperò che il suo volto avesse un'espressione neutra, priva di emozioni. Restò in piedi come un baccalà ad attendere la risposta per una manciata di secondi, prima che l'insegnante di matematica sbattesse le palpebre e mettesse a fuoco la questione.
- Ma...ma certo, Calia, certo. Vai pure.
La ragazza borbottò un grazie fra i denti e si diresse a passo sostenuto verso la porta. Uscì e la richiuse quasi sbattendola, e quando fu fuori corse lungo il corridoio deserto fino al bagno femminile, entrò in una latrina vuota e girò la chiave nella serratura della porticina.
Si appoggiò al legno e si mise le mani nel capelli. Un attimo dopo, stava singhiozzando e lasciando scorrere tutte le lacrime che aveva trattenuto sino a quel momento. Si sedette sulle piastrelle sporche e continuò a piangere. Si rese conto che quell'atto la faceva stare meglio. La sofferenza per la morte di Tammie non spariva – e non credeva l'avrebbe mai fatto –, ma piangere le dava un senso di liberazione.
Calia non era abituata a sciogliersi in lacrime. Tamara era tutto il contrario: le bastava pochissimo per commuoversi, un film drammatico, un biglietto d'auguri o la vista di un cane abbandonato. Lei, invece, aveva sempre faticato a cavare fuori anche la minima lacrima. Non che non si dispiacesse per le disgrazie proprie o altrui, o non provasse mai commozione, ma partecipava in modo silente. Più volte aveva anche provato a indurre il pianto, ma senza risultati.
Invece, dalla sera in cui Heather le aveva annunciato del suicidio di Tammie, ogni momento era buono per chiudersi in camera o in bagno e dare sfogo a tutta la sua sofferenza. E piangere le faceva bene.
Anche se non cancellava ciò che era accaduto...proprio come l'ultima volta.
Quand'è stata l'ultima volta che hai pianto? Un anno fa, certo.
Aveva appena iniziato a calmarsi quando sentì la porta del bagno aprirsi e richiudersi e lo scalpiccio di tacchi alti farsi strada lungo la fila dei lavandini. Decise che avrebbe aspettato che le intruse facessero i loro comodi e se ne andassero, prima di uscire dalla latrina.
E la decisione si rafforzò quando riconobbe la voce di una di esse.
- ...il fenomeno da baraccone ha cambiato metodo.
Chi aveva parlato era Sylvia LeBlanc, e a Calia bastò un secondo per indovinare a chi si stesse riferendo. Abbassò la tavoletta del WC e ci si sedette sopra, restando in ascolto.
- Che intendi dire?
- La Bentley aveva capelli biondi e occhi azzurri. Ti ricorda niente?
Stavolta Calia faticò a riconoscere la proprietaria della seconda voce, ma alla fine concluse che dovesse trattarsi di Keira Herring, capitano delle cheerleader dell'istituto. Ironia della sorte, pure lei bionda e munita di un paio di occhi azzurri come Tamara.
- Brrr! Non mi ci far pensare...se penso che anch'io...
- Ecco, fossi in te starei in guardia!
L'ultima voce che aveva parlato – appartenente a Jemima Sheppard, non perché Calia l'avesse riconosciuta ma perché dove c'erano Sylvia e Keira c'era anche lei – scoppiò in una risatina a cui si unì anche quella della LeBlanc. Keira non rise.
- Andate affanculo. Lo sapete il rischio che ho corso.
- Appunto. Meglio se ti chiudi in casa, ora che il mostro è tornato.
Calia drizzò le antenne. Sentì un brivido scorrerle lungo tutte le membra, ma non si sentiva impaurita.
- Sylvia! Ma che dici? Lo sai che è morto. E vorrei vedere, dopo come l'hanno conciato.
- Beh, cosa dice sempre padre O'Neill?
A giudicare dallo sbuffo che emise Sylvia, Keira doveva averle tirato una gomitata in un fianco.
- Cogliona! Fallo un'altra volta e ti spacco la faccia!
- Vaffanculo, finiscila di spaventarmi. E' morto, e non credo a quelle stronzate dei fantasmi.
- E poi la Bentley non è stata mica uccisa - stavolta era il turno di Jemima di parlare, su gentile benevolenza di Keira e Sylvia.- Si è impiccata alla doccia.
- Capitan Ovvio, lo sappiamo. Ma chi ti dice che si sia appesa da sola, là sopra?
- Dai, è chiaro. Se volessi ammazzare qualcuno, gli sparerei un colpo o gli darei una coltellata. Non inscenerei un suicidio.
- Tu non sei Brandon Douthart.
Calia sentì un tuffo al cuore non appena Sylvia LeBlanc pronunciò quel nome.
- Che cavolo, la vuoi piantare?!
- Avanti! E' passato un anno da che è morto. E la Bentley aveva capelli biondi e occhi azzurri, proprio come...
- Sì, ma Lou Anne e le altre le ha squartate, mica ha fatto finta che si fossero suicidate. E comunque, lo sai che è morto, piantala di...
- Ehi, rilassati, ti stavo prendendo per i fondelli.
- Piglia tua madre per i fondelli. I fantasmi non esistono. E poi, lo sappiamo tutte che la Bentley aveva un motivo più che valido per ammazzarsi...
- La merda di faccia pustolosa che si ritrovava? Fossi ridotta così, credo che m'impiccherei anch'io.
- Lo sai di cosa sto parlando, grassona.
La campanella suonò, ma le tre non accennarono a uscire. Calia si accorse con fastidio che le sue gambe si erano addormentate. Jemima sbuffò e dopodiché si udì uno scatto, come una scatoletta che si apriva.
- Questo rossetto non vale un accidenti - commentò Sylvia.- Dite che mi tocca andare dalla strizzacervelli?
- Certo che ti tocca. Potevi evitare di accompagnarti a simili scherzi della natura.
- Ehi, quello è il passato! Non voglio più essere collegata alla Bentley e a quell'altra sciroccata.
- Già, pure quella non sta messa bene. Era sbarellata di suo prima che scoppiasse tutto il casino, dopo quel che le è successo non mi stupirebbe se fosse andata fuori di testa del tutto.
Calia si alzò in piedi e zampettò fino alla porta per sentire meglio. Era calato un silenzio teso fra le tre, come se Keira avesse portato alla luce un argomento scabroso di cui nessuno voleva discutere. E probabilmente il paragone era azzeccato.
- Certo che...beh, insomma, certo che non c'è da stare molto tranquilli...- la voce di Jemima era tremante, incrinata.- Parlo della Jefferson. Voglio dire...chi uscirebbe da una cosa del genere con tutte le rotelle a posto? Non ha avuto nemmeno un po' di...come ha detto che si chiama la Cardenas? Quella cosa che ti viene dopo che hai subito un trauma...
- PTSD, ignorante.
- Quello. Insomma, io al posto suo credo che avrei avuto un esaurimento o qualcosa del genere. Invece, ve la ricordate lei? Niente, non ha fatto neanche una piega.
- Ma se non ha neanche pianto quando le hanno detto che la Bentley si era impiccata! E meno male che sembravano migliori amiche. Mi viene anche da pensare che...
Le tre ragazze trasalirono non appena la porta della latrina alle loro spalle si spalancò.
- Tu pensi, Keira? Deve costarti un grande sforzo, ti ammiro molto - Calia passò loro accanto e si diresse verso l'uscita.- E Brandon Douthart è morto, finitela con queste puttanate.
Fece sbattere la porta così forte che i rossetti e i lucidalabbra di Sylvia traballarono e caddero nel lavandino.
 
Non c'erano molte persone in fila di fronte al consultorio scolastico. Pochi alla Heaven Barrow's High School avevano avuto a che fare con Tamara, e ancora meno erano quelli che la conoscevano.
Calia individuò alcuni suoi compagni di classe, e pochi altri. Quando il suo sguardo e quello di Sylvia LeBlanc s'incrociarono, entrambe lo distolsero immediatamente.
Calia si era seduta sul proprio zaino abbandonato sul pavimento, scapole contro il muro e braccia conserte. L'insegnante di psicologia, la professoressa Cardenas, aveva distribuito ai ragazzi dei cartoncini su cui erano stampati dei numeri in grassetto nero, e lei era la numero dodici. Ci era voluta un'ora e mezza prima che venisse il suo turno, e per tutto il tempo Calia aveva cercato di non guardare nessuno in faccia, sebbene si sentisse gli occhi di tutti addosso.
In particolare, oltre a Sylvia, cercava di ignorare una ragazza accoccolata su una seggiola a due o tre metri di distanza da lei. Era una studentessa, alta e smilza, con i capelli color castano chiaro raccolti in una coda di cavallo, le guance spruzzate di lentiggini e gli occhi grandi e scuri, il nasino all'insù e le labbra sottili.
Indossava un cardigan marroncino su una gonna scozzese, collant bianchi e ballerine di vernice nera. Al polso portava un braccialetto di Hello Kitty che forse sarebbe stato meglio addosso a una bambina di quattro anni piuttosto che a una diciassettenne.
Non aveva smesso di lanciarle occhiate da che l'aveva individuata fra l'esigua folla di ragazzi, e Calia aveva deliberatamente ignorato qualsiasi tipo di messaggio stesse cercando di inviarle con lo sguardo.
Alla fine, la porta del consultorio si aprì e il numero undici scivolò fuori.
La ragazza si alzò ed entrò, chiudendo la porta.
Era stata poche volte dalla psicologa scolastica, e quasi tutte erano state concentrate nel periodo in cui quelle cinque poveracce dell'istituto erano state fatte a pezzi, e...dopo.
E ogni volta che ci entrava – o anche solo le capitava di pensarci – la prima cosa che le veniva in mente era come reagiva chiunque altro quando vedeva la fotografia di Calia ed Heather Jefferson in bella mostra sulla scrivania della strizzacervelli.
La donna in questione non alzò lo sguardo dagli appunti che stava consultando quando la sentì entrare. Calia pensò che probabilmente la Cardenas doveva averla avvisata che la prossima sarebbe stata lei. Lo studio era tranquillo, abbastanza spoglio fatta eccezione per la scrivania e la sedia della terapeuta e due poltroncine, più una pianta di fico in un angolo che a giudicare dalla cera doveva star morendo di sete. La scrivania era ingombra di qualsiasi cianfrusaglia, dal portatile aperto, al portapenne ricolmo, poi libri, fogli e penne e matite sparpagliate ogni dove. All'angolo destro vi erano due cornici: una ritraeva Calia ed Heather abbracciate e sorridenti durante la festa di compleanno di quest'ultima, e l'altra era il ritratto di Michael Jefferson il primo giorno di scuola.
Calia si sedette con noncuranza. La terapeuta non alzò lo sguardo.
- Grazie per avermi concesso il suo tempo, dottoressa. Ho un disperato bisogno di parlare con qualcuno - ghignò la ragazza, certa che la reazione non si sarebbe fatta attendere.
E così fu.
La psicologa ripose malamente gli appunti in un cassetto della scrivania e si tolse gli occhiali quadrati dal naso per guardarla meglio negli occhi.
- Perché non mi hai risposto al telefono?
- Non mi sembra un atteggiamento molto professionale, questo, dottoressa.
- Calia, non farmi ripetere la domanda. Avrò chiamato dieci volte al giorno per una settimana, e non so quanti messaggi in segreteria ti avrò lasciato!
- Avevo staccato il cellulare. Non ho trovato né le chiamate né i messaggi.
- E il fisso? Lo avete buttato nel cesso?
- Monica non l'ha più ricomprato, dice che è una seccatura. E sai che fine ha fatto quello vecchio.
- L'unica cosa che mi ha impedito di fare irruzione in casa tua è stata Heather che ha avuto la buona grazia di rispondere al cellulare e dirmi che stavi bene!
- Quello...e perché l'ultima volta Topher ti ha tirato una lampada. E Monica ha detto che non ti vuole vedere.
- Finiscila di divagare.
- E che cazzo, zia! La mia migliore amica si è suicidata, avrò il diritto di non rispondere a un fottuto telefono?!- sbottò Calia, alzandosi in piedi.
La dottoressa Dawson la guardò per una manciata di secondi, poi chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie con le punte delle dita. Calia si morse il labbro inferiore, capendo di essere parzialmente nel torto. Si risedette.
- Scusa. Avrei dovuto ascoltare almeno i messaggi, hai ragione.
- Non volevo sgridarti, è solo che...ero preoccupata. Dopo tutto quel che ti è successo un anno fa...
- Lo so, non preoccuparti. Hai ancora l'emicrania?
- Non siamo qui per parlare di questo - la dottoressa Dawson si sporse verso sua nipote e le prese una mano.- Calia, non posso farti da consulente, e lo sai...ma posso essere sempre tua zia. Se ti va di parlare...
La ragazza ritrasse piano la mano.
- Non me la sento, scusa. O meglio...non so cosa dire.
- Se hai bisogno di piangere, o di sfogarti...
- Non riporterà qui Tammie.
- Lo so, ma potrebbe esserti d'aiuto.
Calia rimase in silenzio. Si torse le dita in modo nervoso, guardandosi le mani. Le unghie erano mangiucchiate. Era un'abitudine che sua zia l'aveva aiutata a perdere quando aveva dodici anni, ma da un anno a quella parte aveva ripreso.
La dottoressa Dawson si accomodò meglio sulla sua sedia.
- Ascolta, tesoro...so che questi discorsi non ti piacciono, ma sarebbe opportuno che tu cominciassi a vedere un terapeuta. Non quell'incompetente da cui ti mandava tua madre, e non da me. Io non posso aiutarti. Ma qualcun altro, forse...
- Monica dice che il dottor Winchester va più bene. Gli ha chiesto di prescrivermi delle medicine, ma io le ho buttate.
La dottoressa Dawson sospirò.
- Parlerò io con tua madre. Conosco tanti bravi professionisti, di sicuro meglio del dottor Winchester.
- Monica non vuole vederti, te lo ricordi?
- E' mia sorella, so com'è fatta. Dimenticherà presto tutti i nostri rancori.
- Dobbiamo solo aspettare che Topher perda un'altra volta a poker.
La psicologa non rispose. Calia vide che guardava le fotografie sulla scrivania. Angela Dawson somigliava molto a sua sorella Monica Dawson Jefferson Jones, ma era molto più graziosa. Calia non era mai riuscita a capire se ciò fosse dovuto alla fortuna di zia Angela o al fatto che Monica si fosse rovinata a forza di Negroni e Tequila.
Avevano gli stessi capelli biondi e gli occhi scuri, gli stessi lineamenti, anche se quelli di Monica erano molto più duri di quelli di sua sorella minore. Zia Angela aveva quarantadue anni, Monica quarantasette ed era al settimo intervento di chirurgia plastica.
Calia pensava spesso che, da vecchia, sarebbe voluta essere bella come sua zia, e non gonfiata e implasticata come la madre. Anche se lei non assomigliava a nessuna delle due, fatta forse eccezione per gli occhi.
- Com'è la situazione a casa? La mamma?
- Al solito.
- Heather e Michael? Topher vi da ancora problemi?
- Al solito, te l'ho detto. Siamo qui per parlare di casa?
- Voglio solo sapere come ti senti. E...- la psicologa esitò.- Mi ero ripromessa di non dirti questa cosa, ma poi ripensandoci ho ritenuto che sarebbe stato meglio prepararti. E' possibile che presto o tardi lo sceriffo voglia interrogarti.
- Per sapere se so qualcosa sul motivo che ha portato Tammie a suicidarsi...
- E tu lo sai?
La campanella fuori dal consultorio trillò. Calia scattò in piedi, ma sua zia l'afferrò per un braccio.
- No, ehi, ehi, ferma, questa non è una lezione...! Ti ho fatto una domanda, Calia, e ci restano ancora venti minuti...
- Non mi va di farmi urlare dietro da quello stronzo di Ruthven. E comunque no, non lo so perché si è uccisa.
- Rimettiti seduta!- la dottoressa Dawson abbandonò la sua postazione dietro la scrivania e le andò incontro. La fece sedere di nuovo sulla poltroncina e si sedette a sua volta di fronte a lei.
Calia non lasciò trasparire emozioni. Si limitò a guardare sua zia senza dire nulla.
La dottoressa Dawson le accarezzò i capelli e gliene spostò una ciocca dietro a un orecchio.
- Calia, io sono preoccupata per te...soprattutto dopo quel che è successo l'anno scorso.
- Avevamo stabilito che non avremmo più parlato.
- Tu lo avevi stabilito. E quando mai ne abbiamo parlato? Neanche lo sceriffo è riuscito a cavarti fuori qualcosa.
- Tu avresti voglia di parlarne? E tornando a Tammie...
- L'hai sentita, quella sera?
- Sì. Vuoi sapere se mi è sembrata strana?
- Non scherzare. Hai...Calia, so che è dura, ma abbiamo bisogno...ho bisogno che tu mi dica se qualcosa ti è sembrato strano, se hai una vaga idea del motivo per cui Tamara abbia potuto...
- Non ce l'ho - dichiarò.- Scusa, zia, ma non me la sento di parlarne. Posso tornare in classe?
La dottoressa Dawson sembrò sul punto di bloccarla di nuovo, ma dopo una pausa annuì. Calia la salutò e fece per uscire, ma lei la richiamò di nuovo.
- Aspetta un momento - le disse.- La lezione con Ruthven è l'ultima di oggi?
- Sì, perché?
- Aspettami all'uscita. Ti riaccompagno a casa io.
Calia non si oppose ma nemmeno confermò. Uscì dal consultorio e si sentì immediatamente addosso lo sguardo della ragazza con il cardigan e la gonna scozzese. Questa la stava effettivamente fissando, come se stesse aspettando che lei uscisse.
Si alzò dalla seggiola e fece per andarle incontro. Calia l'ignorò e si allontanò il più in fretta possibile da lei, quasi mettendosi a correre, e raggiunse l'aula di letteratura inglese del professor Ruthven.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Mi rendo conto che questo capitolo è un po' – parecchio – noioso, e colgo l'occasione fin da subito per dirvi che i primi capitoli serviranno essenzialmente a introdurre i personaggi e a cominciare a spiegare il passato, ovvero gli omicidi di Brandon Douthart.
Dal prossimo capitolo, comunque, le cose si faranno più movimentate.
Dunque...ho iniziato a vedere 13 Reasons Why, vi ho avvisati come avevo promesso. Ho visto la prima puntata per intero, e sebbene non mi abbia entusiasmata (l'ho trovata un po' lenta) devo dire che sono curiosa di andare avanti.
Ringrazio Xxgeniaxx per aver aggiunto la storia alle preferite, Skadeglaedje per averla aggiunta alle preferite e per aver recensito, gaialor95 per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito, e tutti i lettori silenziosi.
Grazie per aver letto fin qui e fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo :).
Un bacio,
 
Beauty

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Capitolo 3
*** Capitolo II - Kimberly Warren ***


Capitolo II
 
Kimberly Warren
 
 
 
I can hold my breath, I can bite my tongue
I can stay awake for days, if that's what you want
Be your number one
I can fake a smile, I can force a laugh
I can dance and play the part
If that's what you ask
Give you all I am
 
I can do it
I can do it
I can do it
 
But I'm only human
And I bleed when I fall down
I'm only human
And I crash and I break down
 
 
 
Il professor Ruthven era in assoluto l'insegnante meno amato da Calia – e forse non solo da lei. Eppure letteratura inglese le era sempre piaciuta, e parecchio. Non che non fosse bravo come professore, anzi, spiegava ogni argomento con dedizione e dovizia di particolari, non tralasciava nemmeno le curiosità più inutili ma di maggior interesse per gli studenti e in generale era in grado di farti apprezzare la materia.
Questo fino a che non veniva il momento del compito in classe.
Ruthven pretendeva molto, ma non era solo questo il problema. Ogni sua verifica era strutturata in modo che niente di ciò che andava studiato potesse essere tralasciato, chiedeva ogni data e ogni figura retorica possibile e immaginabile, esigeva una conoscenza perfetta della vita di ogni autore e un'analisi impeccabile di qualsiasi opera trattata in classse o assegnata per compito a casa, il tutto ovviamente redatto in calligrafia perfetta e senza errori grammaticali. Per una lettera fuori posto o una data sbagliata era in grado di rifilarti una F senza pensarci due volte. Raramente giudicava la loro preparazione adeguata, Calia stessa pur studiando ogni giorno letteratura – un rush finale la sera prima della verifica sarebbe equivalso a firmare la propria condanna a morte – arrivava a malapena a una striminzita B +.
Sembrava ci godesse a dare brutti voti e a trattare tutti loro come degli idioti. Ruthven non aveva mai fatto mistero di considerarli degli emeriti imbecilli che non avrebbero combinato niente nella vita e che rappresentavano una grossa perdita del suo preziosissimo tempo, tanto non sarebbe mai riuscito a far entrare niente in quelle teste bacate. Perdeva la pazienza con la facilità con cui si cambia fazzoletto quando si ha un raffreddore, pretendeva assoluto silenzio durante le sue lezioni e le sue punizioni erano da manuale. Una volta, Justin Asher, per aver scambiato dei bigliettini con un altro ragazzo, si era beccato oltre alle obbligate tre ore di doposcuola, anche una ricerca sul Medioevo di centocinquanta pagine da consegnare per il giorno seguente. Hayley Mitchell, la ex ragazza di Pete Davis, era corsa fuori dall'aula in lacrime dopo che Ruthven aveva pesantemente criticato la sua maglietta che lasciava appena intravedere l'ombelico. Calia e Tammie, una volta, erano state punite con duecento pagine di saggio su James Joyce.
Non aveva alcuna empatia per gli studenti. Infatti, Calia non si stupì per nulla quando il professore entrò in classe e non spese alcuna parola su quel che era successo a Tammie.
- Aprite il libro a pagina duecentocinquantasette - ordinò; in classe era piombato un silenzio di tomba non appena Ruthven aveva fatto il suo ingesso. Calia si chinò per recuperare il volume di letteratura dallo zaino, mentre il professore inforcava gli occhiali e si metteva alla ricerca dei gessetti per la lavagna.
Era un uomo ancora tutto sommato giovane, non doveva avere più di quarantacinque o quarantasei anni, ed era molto alto e robusto, circa un metro e novanta di altezza per delle spalle da giocatore di football. I capelli castani erano tagliati corti sulla nuca e con un ciuffo che ricadeva sugli occhi, e stavano cominciando a ingrigire. Aveva dei tratti molto particolari, che ricordavano la simmetria delle statue greche: mento pronunciato, naso regolare, labbra strette e sottili, zigomi alti e fronte ampia. Gli occhi erano neri e duri, e ogni volta che si arrabbiava o che notava qualcosa che non era di suo gradimento in essi balenava un lampo di irritazione. Vestiva sempre in modo molto classico, con giacca e pantaloni e camicia con cravatta. Indossava sempre completi scuri, con colori che variavano dal nero, al marrone, al grigio e, raramente, al blu notte.
A Calia non era mai capitato di vederlo arrivare in classe non sbarbato o in disordine, e quest'eleganza forse innata contribuiva solo ad aumentare il senso di soggezione che incuteva, non solo negli studenti. Era fatto universalmente noto che non fosse particolarmente apprezzato nemmeno dal preside o dal corpo docenti: se ne stava sempre sulle sue, parlava poco e solo lo stretto necessario, e non spaziava mai in altri argomenti che non fossero di lavoro. Sua zia, in confidenza, le aveva detto che alle riunioni d'istituto sembrava quasi annoiarsi, arrivava puntuale e filava via non appena la seduta era terminata, come se non volesse avere niente a che fare con nessuno di loro.
Calia aprì il libro e cercò la pagina. Ruthven aveva accennato loro che quel giorno avrebbero iniziato un nuovo argomento, e infatti la scritta a caratteri cubitali in cima alla pagina lo confermava.
 
I MOSTRI DELLA LETTERATURA
Dal romanzo gotico all'orrore dell'amore
 
Calia avvertì un senso di nausea che s'impose di ricacciare indietro.
Ruthven aveva intanto scritto la parola mostro al centro in cima alla lavagna e si era rivolto verso di loro.
- Qualcuno sa dirmi cos'è un mostro?- domandò.
Calia aveva sempre partecipato alle lezioni di letteratura inglese seduta in banco vicino a Tammie. Ora il banco accanto a lei era vuoto, ed era stato svuotato di tutto ciò che la ragazza aveva lasciato: penne, qualche spicciolo, dei fogli con gli appunti...
Due file dietro di lei, la ragazza con il cardigan e il braccialetto di Hello Kitty alzò prontamente la mano, e rispose senza attendere il permesso.
- Freddy Krueger – cinguettò.- Oppure lo squalo, o anche...
- Non le ho chiesto un esempio di mostro, signorina Warren. Ho chiesto una definizione. Qualcun altro vuol provare a rispondere?
Nell'aula tornò il silenzio. Ruthven li squadrò.
- Nessun0?- incalzò.- Come pensavo...- sospirò dopo qualche secondo, con una smorfia. Prese a scribacchiare sulla lavagna mentre parlava.- Secondo la definizione che possiamo trovare sul dizionario, il termine mostro può riferirsi a una creatura mitica avente connotazioni innaturali o sovrannaturali tali da suscitare sgomento oppure orrore. Più in generale, esso può essere riferito a un fenomeno assurdo o contraddittorio. In biologia, ci si riferisce a un individuo animale o vegetale che presenta gravia anomalie. Infine, la parola mostro può essere riferita a un criminale efferato o a un essere dalla bruttezza repellente.
- Praticamente, Brandon Douthart - ridacchiò Justin Asher, suscitando delle risatine tutt'intorno. Calia fissò il banco e strinse più forte la penna che teneva fra le dita.
Ruthven fulminò il ragazzo con lo sguardo, e ciò bastò per far cessare l'ilarità così come era arrivata.
- Un'altra parola non interpellato, signor Asher, e si farà due ore di doposcuola sotto la mia supervisione, oggi pomeriggio. E ora, se avete finito di starnazzare come delle galline senza cervello, comincerei a introdurvi al nuovo argomento...
Qualcuno bussò alla porta, due o tre colpi timidi e incerti. Ruthven alzò gli occhi al cielo e Calia lo sentì digrignare un che altro c'è?! fra i denti, prima di dare il permesso di entrare.
Sulla soglia della classe si affacciò una ragazzetta alta e allampanata, con gli occhi azzurri e una cascata di capelli color biondo miele che le ricadevano in morbidi boccoli sulle spalle. Aveva la bocca piccola e marcata da un lucidalabbra color rosa confetto, lo stesso colore dell'ombretto sulle palpebre. Indossava una camicetta bianca e un paio di jeans, e portava un filo di perle al collo – dettaglio quest'ultimo totalmente fuori luogo, pensò Calia, quella collana sarebbe andata bene per una soirée più che per venire a scuola.
Il professor Ruthven la guardò accigliato.
- Sì?
- E' questa l'aula di letteratura inglese del professor Ruthven?- pigolò la ragazza. Aveva una voce da bambina che si adattava perfettamente al visetto grazioso e infantile.- In segreteria mi hanno detto di venire qui - gli porse un foglietto piegato in quattro che Ruthven prese e lesse con poco entusiasmo.
- Sì, è nel posto giusto. E' lei la nuova studentessa?
- Ehm...suppongo di sì.
- Oh, dannazione, adesso mi toccherà interrompere per fare le presentazioni...- sbuffò l'insegnante, alzandosi dalla sedia. La nuova ragazza avvampò, e Calia sentì qualcuno sghignazzare sotto i baffi.- E va bene. Come si chiama?
- Valerie Bell, professore. Ma tutti mi chiamano Val...
- Io la chiamerò “signorina Bell”, si metta il cuore in pace. Gli altri possono fare ciò che vogliono per quel che m'interessa. E si è appena trasferita in questa noiosa cittadina da...?
- Philadelphia, professore. Sono...venuta a stare con mio padre.
- E le piace Heaven Barrow? Non che mi aspetti di ricevere chissà che risposta, dicono tutti di sì...
- Ehm...è...è una bella cittadina...- la nuova arrivata era paonazza e sembrava sul punto di morire per l'imbarazzo. Le risatine ora erano più udibili. Calia provò quasi pietà per lei.
- Buco di periferia, vorrà dire. Ma è troppo educata per farlo. Va bene, signorina Bell, sono sicuro che il contatto con i suoi compagni di classe l'aiuterà a fare conoscenza. Vada a sedersi laggiù, vicino alla signorina Jefferson.
Ruthven indicò il banco vuoto che era stato di Tammie. Calia avvertì un tuffo al cuore. Sapeva che sarebbe successo, prima o poi, ma ora che stava accadendo doveva soffocare l'impulso di urlare tutto il suo sdegno in faccia a Ruthven e di impedire alla ragazza nuova di sedersi al posto che era stato della sua migliore amica.
Non le sembrava vero né concepibile che qualcun altro potesse sedersi al posto di Tammie, quando loro due erano sempre state in banco insieme dalla prima elementare.
Valerie Bell ringraziò con un sorriso dai denti bianchissimi, neanche fosse stata la protagonista di una pubblicità di dentifricio, e si avviò verso il banco. Calia provò una fitta al cuore quando la sentì sedersi accanto a sé e sistemare la sua roba sulla superficie. Non alzò lo sguardo dal libro, ma sapeva non sarebbe potuta durare a lungo.
Infatti, un attimo dopo la sconosciuta si volse verso di lei.
- Ciao!- la salutò con un entusiasmo fuori luogo.- Io sono Valerie, ma puoi chiamarmi Val. Anzi, ti pregherei di farlo, odio il mio nome - rise, e anche questo a Calia suonò fuori luogo come il saluto e la collana di perle. Val le tese la mano.
Calia esitò. Vide che aveva le unghie ben curate e smaltate. Continuava a sorriderle con quella dentatura da pubblicità e a guardarla con quegli occhi azzurri uguali a quelli di Tammie.
Le strinse la mano con cautela.
- Calia Jefferson - gracchiò.
- Calia? Bellissimo nome. Sai che quando ero piccola la mia vicina di casa aveva una cagnolina che si chiamava Calia?
Che razza di roba è da dire a una che neanche conosci?, si domandò Calia, ma rispose solo con un sorriso tiratissimo. Quella tizia sembrava il manichino ambulante delle cose da non dire e da non fare.
Prese la penna e i fogli per gli appunti per ricopiare la definizione che Ruthven aveva scritto alla lavagna, sperando che Val la lasciasse in pace, ma la speranza fu vana.
- Sono arrivata l'altro ieri. Oggi è il mio primo giorno e sei la prima persona con cui parlo! Sono passata in segreteria, mi hanno dato il foglio con gli orari...ho letteratura con Ruthven, e matematica con la Penley. Anche tu sei nella sua classe?
Calia annuì.
- Fantastico! E hai anche psicologia con la Cardenas e storia con Reid?
Cali annuì di nuovo, sentendosi morire. A quanto pareva si sarebbe sorbita quella ragazza in ben quattro corsi, e se la sfiga ce l'avesse avuta con lei era possibile se la ritrovasse anche a biologia, francese ed economia domestica.
Val batté le mani per la contentezza. Santo cielo, sembrava veramente una bambina! Calia alzò gli occhi al cielo e terminò di scrivere la definizione alla lavagna.
Il professor Ruthven iniziò a spiegare, il che mise a tacere Val. La nuova arrivata prese penna e taccuino e cominciò ad annotare parola per parola il discorso dell'insegnante.
- L'argomento che ci accingiamo ad affrontare è il mostro nella letteratura. I pochi che hanno prestato attenzione alla definizione di mostro avranno forse compreso che il campo che dovremo esplorare è molto ampio e variegato. Il mostro non è solo un qualcosa di brutto, repellente, che ci disgusta. Il mostro è qualcosa o qualcuno che mina ogni nostra sicurezza. Qualcosa che non conosciamo, e che in virtù di questo ci spaventa. La bruttezza è un fattore assolutamente variabile, sebbene in più di un caso sia presente. Prendete il Dracula di Bram Stoker: il conte vampiro romeno è descritto come un uomo forse non bello secondo i comuni canoni estetici, ma comunque ricco di fascino e carismatico. Nonostante ciò, lo possiamo definire un mostro in quanto succhia il sangue – e dunque la vita – alle sue vittime. Troveremo diversi esempi di mostro nella letteratura. Alcuni dei romanzi che andremo ad analizzare saranno Il monaco, Notre Dame de Paris e Carmilla; vi accorgerete, sempre che non vi addormentiate sui banchi, che la maggior parte di queste opere possiede un filo conduttore unito alla mostruosità: la sessualità.
Calia avrebbe potuto giurare che la sua vicina di banco fosse avvampata a quella parola. Non seppe se ridere o se esasperarsi ancora di più.
- In quasi tutti i romanzi troveremo una componente sessuale molto spiccata. Alcuni di voi potrebbero chiamare determinati rapporti storie d'amore, ma ciò è inesatto, secondo il mio punto di vista e secondo quello di numerosi critici autorevoli. Molto spesso il mostro in questione prova un'attrazione erotica e sessuale per un personaggio che rappresenta il suo opposto. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di una ragazza poco più che adolescente, simbolo di purezza e castità, e dunque formalmente lontana dall'orrore incarnato dal mostro. Ho parlato di un personaggio femminile, ma non sempre è la regola. Nel Fosca di Tarchetti abbiamo un caso di ruoli inveriti, dove il mostro è colei che da il titolo al romanzo, e il virginale oggetto del desiderio è un giovane militare. Fatta questa breve introduzione, passo a spiegarvi come sarà impostato questo argomento: leggeremo un libro a settimana, ho già pronto un elenco di titoli che vi farò avere a fine lezione. Ogni venerdì voglio sulla cattedra una relazione di almeno venti pagine sul romanzo trattato in classe che dovrete provvedere a leggere a casa. Al termine dell'argomento mi consegnerete un saggio sul mostro e la sessualità, con riferimenti puntuali alle opere trattate. Capirete da soli che si tratta di un lavoro corposo, dunque vi consiglio di lavorarci a mano a mano che leggerete i vari libri. E per facilitarvi il compito, accetto elaborati compilati in coppia. No!- intervenne subito Ruthven, vedendo due ragazze che iniziavano a parlottare fra di loro per mettersi d'accordo.- Stavolta farò io gli abbinamenti. Ogni volta che vi organizzate da soli finisce sempre che o non combinate niente o combinate uno schifo...
Si alzò qualche mormorio di disappunto. Calia non disse nulla, ma si rattrappì su se stessa evitando di guardare due banchi dietro di lei. Ruthven non era un idiota: già altre volte aveva formato personalmente le coppie per un progetto, e aveva la bastardissima capacità di abbinare persone che sapeva che insieme avrebbero lavorato senza perdere tempo, ma non metteva in coppia due quasi sconosciuti o gente che non si sopportava. Stava attento ad abbinare persone che erano in sintonia fra loro.
E in classe c'era stata una sola persona, oltre a Tammie, con cui Calia fosse mai stata in sintonia...
Pregò che Ruthven non la abbinasse con la ragazza con il cardigan, e tirò un sospiro di sollievo quando quest'ultima finì in coppia con Helen Parker. Il professore continuò a formare le coppie sfoltendo mano a mano la lista degli studenti.
- Jefferson e Bell.
Quella fu la bastardata finale. Calia guardò prima la sua compagna di banco poi l'insegnante. Ruthven le restituì l'occhiata come a voler dire sono io che decido, prova ad aprire la bocca e fili dal preside e continuò imperterrito ad annunciare le altre coppie.
- Sono contenta che lavoreremo insieme!- trillò Val, di nuovo con il sorriso da pubblicità del dentifricio.- E' anche una comodità, visto che siamo anche in banco insieme. Quando cominciamo?
- Non lo so, c'è tempo...- biascicò Calia in risposta.
- Ma il professore ha detto che è meglio fare il lavoro di volta in volta!
- Non ha neanche ancora dato i titoli dei libri...
- Il primo romanzo che andremo ad analizzare sarà Dracula di Bram Stoker - annunciò il professor Ruthven.- Prendete il quaderno e scrivete. Cominceremo con alcune informazioni sulla biografia dell'autore. Stoker nacque a Clontarf nel 1847...
Calia prese ad annotare svogliatamente nomi e date sul quaderno. Val le diede una gomitata in un fianco che avrebbe voluto essere scherzosa, ma che di fatto le procurò una forte fitta al costato.
- Ehi!- bisbigliò.- Io ce l'ho il romanzo! Possiamo leggerlo insieme, così non devi neanche comprarlo...
Calia non replicò.
 
L'ora di Ruthven arrivò al termine abbastanza presto, e non appena la campanella suonò Calia si rese conto di essere accerchiata da due belve: Val Bell al suo fianco che aveva tutta l'aria di voler attaccare bottone un'altra volta, e la ragazza con il cardigan dietro di lei che stava venendo nella sua direzione per parlarle.
Calia raccolse lo zaino e filò fuori dall'aula senza salutare.
La ragazza con il cardigan non fu abbastanza svelta da andarle dietro, a differenza di Val che la raggiunse quasi subito.
- Ehi!- cinguettò.- Dove abiti? Io sto in Bottlebrush Road, e tu? Magari possiamo fare la strada insieme...
- Sto in Tulip Street, è dalla parte opposta alla tua - ringhiò Calia mentre uscivano in cortile e scendevano lungo i gradini d'ingesso della Heaven Barrow High School.
- Non importa, ho l'auto.
- Mi accompagna a casa mia zia, oggi - in realtà, zia Angela le aveva solo di aspettarla fuori perché voleva darle un passaggio, ma lei non aveva detto che accettava. Si sistemò lo zaino sulle spalle e fece un cenno con la mano a Val in segno di saluto.
- Oh...uhm...okay, allora, sarà per la prossima volta!- squittì.- Solo una cosa...quando devo venire a casa tua?
Calia si voltò a guardarla incredula.
- A casa mia?
- Per il progetto. Il professore ha detto che prima cominciamo e meglio è. Casa mia purtroppo è un caos, ho ancora tutti gli scatoloni da svuotare...Porto io il libro e il PC, tu dammi solo un indirizzo...
- Ne riparliamo domani.
Calia girò i tacchi non appena vide la ragazza con il braccialetto di Hello Kitty uscire a sua volta sui gradini della scuola, piantando lì sia lei sia Valerie Bell con il suo sorriso scintillante.
Non attese neanche che sua zia terminasse di lavorare, e si avviò a casa a piedi.
 
Lei e Tammie si conoscevano sin dalla prima elementare, e capitava spesso che i genitori non potessero venirle a prendere a scuola – il signor Bentley perché dopo essere rimasto vedovo doveva lavorare il doppio per portare a casa uno stipendio dignitoso, e Monica essenzialmente perché erano più le volte in cui si dimenticava che non quelle che si ricordava. Così, quando dovevano fare la strada da sole, facevano a turno in modo che ogni volta una accompagnasse a casa l'altra e viceversa. Di tanto in tanto, Calia non tornava neanche e si fermava a dormire da Tammie.
Tulip Street non era vicina alla Heaven Barrow High School, ma in compenson era a dieci minuti da Sweet Alyssum Street, così Calia decise di allungare il percorso e passare accanto alla casa di Tammie.
Si pentì immediatamente dell'idea non appena vi si trovò di fronte.
Le luci della villetta erano spente, la porta chiusa e il giardino ben curato fermo in una sorta d'immobilità sovrannaturale. Le persiane della finestra della camera di Tammie erano sbarrate.
Calia si domandò se il signor Bentley fosse in casa e se non fosse il caso di citofonare e fargli un saluto, ma poi si disse che era meglio di no. Non avrebbe saputo cosa dirgli, e non era neanche sicura che sarebbe riuscita a mettere piede in quella casa senza crollare di nuovo.
Gli occhi e il naso le pizzicarono, ma non uscì nessuna lacrima. Le aveva già esaurite, pensò. Certo, non era abituata a piangere.
Si allontanò in fretta da casa Bentley e si diresse verso Tulip Street.
Heaven Barrown non era una città molto grande. C'erano pochi quartieri, il centro, qualche locale notturno, la scuola, l'ospedale e la stazione dello sceriffo. Era niente più e niente meno che una cittadina tipica e un po' stereotipata della provincia americana. La vera particolarità che distingueva Heaven Barrow era il Bosco.
Calia non era sicura che avesse un suo nome. Lei e chiunque altro di sua conoscenza lo avevano chiamato sempre e soltanto il Bosco. Se si percorreva la strada verso est, si lasciava Heaven Barrow e s'imboccava la tangenziale; se invece si seguiva la direzione ovest, si andava incontro al Bosco.
Era un agglomerato di alberi, cespugli e arbusti che si inerpicava su per una parete rocciosa. La vegetazione era molto fitta e intricata, tanto che farsi strada là in mezzo era parecchio difficoltoso, sia in auto che a piedi...ma d'altra parte, nessuno ci andava mai. C'erano delle vie, stradine sterrate che correvano in mezzo agli alberi e che erano abbastanza larghe perché potesse passarci un SUV, ma erano talmente piene di buche e sassi sporgenti che era veramente rischioso addentrarsi là dentro e sperare di non bucare una gomma o di perdersi. Trattandosi di una macchia boschiva non c'erano cartelli stradali, e smarrire l'orientamento era molto difficile.
E poi, c'erano i burroni e le scarpate.
Anche i cacciatori tendevano a evitare il Bosco, o perlomeno di addentrarsi troppo in esso, a causa di questo. La strada era sempre in salita, e prima o poi ci si trovava a costeggiare un burrone, e se i pneumatici scivolavano era finita.
Tulip Street era a pochi chilometri dal Bosco.
Teoricamente sarebbe dovuto essere un quartiere elegante come Sweet Alyssum Street o Bottlebrush Road, ma nella pratica la sua era una raffinatezza di facciata. Era pulito e ordinato, con le sue due schiere di villette in pieno stile statunitense, ma gli affitti erano a basso costo, molti degli edifici avevano bisogno di ristrutturazioni ed era il quartiere più in periferia di Heaven Barrow. Era chiaro che si trattasse di un luogo dove abitava chi non poteva permettersi una vita altolocata ma ci teneva comunque a mantenere una certa apparenza.
Il ritratto sputato di tua madre, sussurrò una vocina dentro la sua testa, che Calia non si curò neanche di mettere a tacere.
La ragazza rallentò un po' il passo quando si trovò a pochi metri dal sottopassaggio.
La via più breve per arrivare a casa sua era attraversare un breve tunnel pedonale sotto il livello della strada. Era un posto lurido che puzzava di urina di cane, a cui si accedeva scendendo sette gradini.
Calia li percorse lentamente, arrestandosi sulla soglia del tunnel. C'erano tre lampadine attaccate alla sommità che gettavano una luce fioca sui disegni contro le pareti. Qualche genio, giocando sulla vicinanza di Tulip Street al Bosco, aveva avuto la grande pensata di decorare le pareti laterali del tunnel con immagini raffiguranti una foresta. Adesso i disegni erano ancora distinguibili, anche se parzialmente coperti da graffiti fatti con bombolette spray che recavano scritte oscene o stilizzazioni di organi genitali.
Calia prese un bel respiro e iniziò a percorrere il tunnel. Quando erano bambine, a lei e a Tammie quel posto faceva paura – complice anche Monica che, ubriaca, una volta aveva raccontato loro la storia di una strega che viveva là sotto e divorava i bambini. Si tenevano sempre per mano quando lo attraversavano e lo percorrevano quasi sempre di corsa per giungere il più in fretta possibile dall'altra parte.
Calia adesso aveva quello stesso impulso, ma non per paura della strega, bensì per il ricordo di cosa era accaduto ad Ashley Patterson là sotto.
Rabbrividì e accelerò il passo per uscire dal tunnel.
 
Arrivò a casa che il sole stava quasi per tramontare.
Vivevano in quella villetta da quando Monica era rimasta incinta di Michael ed erano dovuti emigrare a Heaven Barrow per evitare lo scandalo. O per farsi prestare i soldi dalla zia per campare. Sua madre l'aveva affittata per una cifra ridicola che pure non era riuscita a pagare, infatti era Topher che si occupava di tutte le spese.
Era color rosa cicca con la vernice scrostata e l'erba in giardino che arrivava fino alla vita di Michael. Calia infilò la chiave nella serratura ed entrò.
Aveva visto già dall'esterno che tutte le luci erano spente, ma domandò comunque se ci fosse qualcuno. Giusto per essere pronta a scappare fuori se si fosse accorta della presenza di Topher.
Nessuno le rispose, e Calia si sentì subito più tranquilla. Si sfilò le scarpe e si diresse verso il salotto. Era una stanza piccola, con un divano foderato di bianco e macchiato, un tappeto, una televisione e un lungo tavolino a muro su cui erano piazzati il telefono e una serie di fotografie di famiglia.
La maggior parte di esse ritraevano Monica e Topher in parecchi, insulsi momenti della loro storia che si trascinava da cinque anni: sua madre e il suo patrigno in vacanza a Miami – vacanza pagata con i soldi di zia Angela destinati all'apparecchio per i denti di Michael –, loro due il giorno del loro matrimonio, con Monica in uno striminzito color grigio perla e Topher alticcio, sempre loro due decisamente sbronzi a una festa della ditta dove lavorava l'uomo, e tante altre. In un angolo c'era l'unica fotografia dei figli di Monica – Topher sosteneva che loro tre fossero poco fotogenici e che dunque tenere troppe immagini di loro in casa sarebbe stato antiestetico: c'erano Calia e sua sorella Heather che abbracciavano Michael mentre si accingeva a spegnere le candeline sulla torta dei suoi quattro anni.
Mancavano totalmente le fotografie del padre di Calia ed Heather – il signor Jefferson, che era il loro genitore ma non quello di Michael, era morto in un incidente d'auto quando le due bambine avevano cinque e due anni, e Topher non sopportava di vedere la foto dell'uomo che lo aveva preceduto in giro per casa – e di zia Angela – che Monica non voleva vedere perché la considerava una lurida usuraia del cazzo.
Calia, comunque, ne aveva una ciascuno nascoste nel cassetto del comodino.
Vide che sua madre si era finalmente decisa a ricomprare un telefono fisso – il suo predecessore l'aveva sfasciato Topher lanciandolo contro il muro – e che c'erano due messaggi in segreteria.
Calia ascoltò il primo.
- Ciiaao teshoro...- biascicò la voce di Monica; Calia si trattenne dal cancellare immediatamente il messaggio.- Volevamo dirti che...- seguì una risatina alticcia, acuta e isterica.- Dai, Toph, smettila...! Ascolta, io e tuo padre sci fermiamo fuori stanotte...la festa non è andata come previsto...- altra risatina isterica.- E poi volevo dirti che...cos'altro? Ah, sì, tuo fratello dorme dal suo amico Joey, sua madre li porta tutti e due a scuola domani mattina...guarda in frigo, dovrebbe esserci qualcosa per cena. Ciao ciao!
Ennesima risata idiota e la comunicazione venne chiusa.
Calia ascoltò il secondo messaggio.
- Ehi, Calia, sono Heather - disse la voce piatta di sua sorella.- Mamma e Topher stasera escono, non so se lo sai...comunque, volevo dirti che Michael dorme da un amico e che io mi devo fermare in biblioteca per studiare con Emma. Ho un compito in classe di geografia, domani. Ha chiamato zia Angela. E' incazzata nera con te perché oggi non l'hai aspettata. A proposito, dov'eri? Non c'eri sull'autobus...In ogni caso, chiamala, okay? Ha telefonato anche una certa Kimberly Warren, ha detto di essere una tua compagna di classe e di voler parlare con te. Magari richiama anche lei, che dici? Beh, ciao, a dopo.
Calia riascoltò una seconda volta il messaggio di sua sorella, ma non richiamò né sua zia né Kimberly. Si fece una doccia e mise su una tuta da ginnastica, poi prese delle patatine dalla credenza e si chiuse in camera sua.
Sgranocchiò qualcosa mentre apriva il PC.
Si connesse a Facebook pur sapendo che si sarebbe trattato di un atto masochistico.
Guardò velocemente il profilo in disuso di Tamara Bentley ed evitò come la peste la pagina di ricordo in suo nome. Passò al proprio profilo: raramente lo visitava e non lo aggiornava da...quasi un anno, ormai.
Ci trovò due messaggi nella casella di posta e una richiesta di amicizia. Aprì quest'ultima e vide che si trattava di Val Bell.
Calia sbuffò e alzò gli occhi al cielo. Non capiva perché quella ragazza si fosse così tanto fissata con lei. Non doveva essere solo perché Ruthven le aveva messe in banco insieme e perché molti corsi in comune. Pensò di far finta di niente e di ignorare la richiesta di amicizia.
Dai, non fare la stronza, si disse alla fine. Si è appena trasferita, non conosce nessuno e parla con il primo che l'ascolta. E accettò la richiesta.
Questo le permise di vedere il profilo di Val. C'era una fotografia della ragazza con un'abbronzatura mozzafiato, in bikini e gli occhiali da sole, e sullo sfondo un mare azzurrissimo e una spiaggia bianca quasi quanto il suo sorriso. Sembrava una fotomodella. L'immagine del profilo era una cesta con tre gattini, due grigi e uno dal pelo rosso.
Lo status la dava single e alla voce “residenza” c'era scritto Heaven Barrow. L'ultima cosa che aveva pubblicato sul suo profilo era una veduta della cittadina dall'alto e la scritta felicissima di essere qui! con tanto di emoticon a forma di cuoricino alla fine.
Aveva un solo amico su Facebook: lei.
Calia decise di abbandonare quel deprimente profilo e di controllare i messaggi privati. Uno era della stessa Val, che la informava di averle inviato una richiesta di amicizia e le chiedeva quando si sarebbero potute incontrare per quel progetto di Ruthven.
Il secondo era di Kim Warren.
 
Ehi, Calia...non sono riuscita a parlarti, oggi. Ho chiamato tua sorella e mi ha detto che non eri ancora tornata. Possiamo sentirci, per favore? Mi dispiace tanto per quello che è successo a Tammie, davvero...quando l'ho saputo ho pianto per due giorni. Vieni al funerale domenica, vero?
Baci.
 
Calia non rispose.
Fece scorrere la pagina del proprio profilo. L'ultima cosa che aveva pubblicato risaliva a quasi un anno prima. Era una fotografia, un selfie per la precisione.
Era stato lei a scattarlo, insieme ad altre tre persone.
Erano tutte e quattro sedute sul letto di Kim, a casa sua. Lei, Calia, era seduta al centro e teneva un braccio sollevato per tenere il cellulare in alto; alla sua sinistra c'era la stessa Kim Warren, con addosso il suo solito braccialetto di Hello Kitty e un pigiama bianco e rosa a sua volta con una stampa di Hello Kitty al centro; Calia indossava solo una maglietta sformata e un paio di pantaloncini, mentre alla sua destra, Tammie, con addosso una camicia da notte con il colletto di pizzo e un paio di babbucce, teneva una guancia contro la sua scapola e un braccio intorno alla sua vita. Dietro di lei, a cingerle la vita c'era anche Sylvia LeBlanc.
I commenti sotto la foto erano i suoi e quelli delle altre tre ragazze. Non dicevano nulla d'importante, solo frivolezze legate al pigiama party appena terminato.
Calia rimase a guardare il volto di Tammie e i suoi occhi azzurri che ridevano da dietro gli occhiali spessi.
Si era ripromessa di non farlo...ma alla fine cedette.
Uscì da Facebook e andò su quel sito che aveva pregato Tamara di non visitare, la notte in cui si era uccisa. Ormai sapeva cosa cercare e dove cercarlo.
Digitò le parole Slut gets punished.
Il video che cercava era proprio il primo della sequenza proposta dal sito.
Lo cliccò, e la scena che aveva già visto miliardi di volte le sfilò di fronte di nuovo.
La telecamera era ferma, e stava filmando la camera buia di un albergo di terz'ordine. A un certo punto si sentì una porta aprirsi e richiudersi, e la luce si accese, rivelando un letto a due piazze con i cuscini lerci e il lenzuolo spiegazzato, accanto al quale vi era un cassettone.
Tamara Bentley venne inquadrata dalla telecamera fissa. Aveva i capelli biondi sciolti come sempre, ma non portava gli occhiali, aveva il rossetto e si era coperta la faccia con chili di fondotinta per nascondere l'acne. Indossava un tubino nero dalla gonna molto corta, calze color carne e un paio di scarpe dal tacco alto che le impedivano di camminare senza zoppicare.
Fra le dita stringeva una borsetta di cuoio.
Era chiaro che il suo intento fosse quello di apparire sexy e provocante, ma quella mise la rendeva solo goffa.
La telecamera continuò a riprendere Tamara mentre si sedeva sul letto e si toglieva le scarpe. La ragazza si guardò intorno, in attesa di qualcosa o qualcuno.
Il video durava un'ora e quarantasette minuti in tutto, e Calia avrebbe proseguito, se non avesse sentito la colonna sonora di Pirati dei Caraibi risuonare nella stanza.
Mise in pausa il video e afferrò il cellulare, accettando la chiamata senza guardare il numero.
- Pronto? Zia, scusa per oggi...
Era certa che fosse zia Angela, ma dall'altro capo del telefono non giunse né smentita né conferma. Le rispose solo il silenzio.
Calia si accigliò.
- Pronto? Zia?
Ancora silenzio, ma stavolta alla ragazza parve di sentire il respiro di qualcuno dall'altra parte del filo. Guardò il numero sul display: sconosciuto.
- Pronto? Con chi sto parlando?
- Sei Calia?
La voce che le rispose non era naturale. Era profonda, cavernosa, chiaramente truccata. Calia si allarmò.
- Chi parla?
- Sei Calia Jefferson?
- Voglio sapere con chi sto parlando!
La persona al telefono ridacchiò.
- Sì, sei Calia. Riconoscerei quel caratterino fra mille.
- Chi sei?
- Tu lo sai.
Calia si irrigidì. Non disse nulla.
- Stai bene, Calia?
- Chi sei? Come hai avuto il mio numero?
- Mi dispiace per la tua amica. Non se lo meritava. Non lei.
Calia si alzò in piedi e iniziò a passeggiare nervosamente per la stanza.
- Conoscevi Tamara?
- Diciamo che sapevo che era una brava ragazza. Se non fosse stato per quello scherzo, sarebbe ancora viva.
- Hai messo tu il video online, bastardo?!- ringhiò Calia.
- Non ho mai detto di averlo fatto.
- E allora come sai che si è suicidata per questo?!
- Ho visto il video fino alla fine...e anche un pezzetto in più.
- Sei stato tu a caricarlo?
- Ti ripeto che non ho mai detto di averlo fatto.
- Non hai risposto!
- Non l'ho caricato io. Ma so chi è stato.
- Bugiardo.
- Come vuoi. Non mi aspettavo mi credessi, comunque. Non subito.
- Chi sei?
- Tu lo sai chi sono.
- E smettila con queste cazzo di frasi criptiche! Che cosa vuoi? Perché hai chiamato?
- Per avvisarti.
- Avvisarmi di che cosa?
- Che sta per cominciare.
- Che cosa?
- Lo vedrai.
- Basta, io riattacco...
- D'accordo. Avevo messo in conto anche questo. Purtroppo non posso dirti la verità adesso, altrimenti lo farei.
- Perché non puoi?
- Perché non mi crederesti.
- Ma chi sei, uno psicopatico?
- Domanda interessante. Te ne farò una io, adesso: perché non sei tornata indietro?
- Tornata indietro? Indietro, dove? Quando?
Lo sconosciuto riattaccò, e Calia si trovò a porre quel quesito al nulla.
Rimase a guardare il cellulare, mentre si ripeteva mentalmente le parole che aveva udito.
Perché non sei tornata indietro?
...già, pensò. Perché?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Spero che questo capitolo sia stato in grado di stuzzicare la vostra curiosità più del precedente. Prima che mi dimentichi, la canzone introduttiva del capitolo scorso è Umbrella (cantata da Epic Pop ft. Jazelle) e questa invece è Human di Christina Perri.
Dal prossimo capitolo comincerà la sequenza capitolo flashback-capitolo ambientato nel presente, e in particolare vedremo alcuni fatti accaduti un anno prima e scopriremo qualcosa in più sui primi omicidi e sul passato di Calia e Tamara.
Ringrazio i lettori silenziosi, Endingstory per aver aggiunto questa storia alle seguite e alle ricordate, Xxgeniaxx per averla aggiunta alle preferite e gaialor95 per aver recensito.
A presto,
 
Beauty

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