The Rain Before it Falls

di Angeline Farewell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Liyng Season ***
Capitolo 2: *** The Hungry Satan ***



Capitolo 1
*** Liyng Season ***


Quella mattina si era svegliato con un raggio di sole a solleticargli il naso e per un lunghissimo istante aveva perso la percezione del tempo e dello spazio: sole?

Eddie era tornato a Seattle da meno di una settimana, Halloween era passato da poco e da allora non aveva mai smesso di piovere.

Avrebbe dovuto capirlo da quel particolare che la giornata sarebbe scivolata giù storta, perché a Seattle non è quasi mai il sole a darti il buongiorno. A meno che non voglia farti dispetto facendoti pagare la colossale sbornia della sera prima.

Non era nello stato psico-fisico migliore, insomma, per la telefonata che, chissà perché, aveva deciso di fare prima di pranzo. È che a volte ne sentiva la nostalgia: a quasi ventisei anni non dovrebbe probabilmente più succedere, ma Karen gli mancava spesso. Anche se non riusciva a decidere fosse stata una buona madre o meno.

Forse non stava comunque a lui decidere, però.

“No mamma, non credo di poter tornare a Chicago per Natale. Lo so che ho saltato anche il Ringraziamento, ma non ho tempo. No mamma, non sto inventando scuse, e lo so che il bastardo non ci sarà, non è lui il problema e lo chiamo bastardo quanto mi pare.”

Non era solo lui il problema, almeno.

Il dolore cominciava a pulsargli più forte nelle tempie, quasi non riusciva a tenere gli occhi aperti e quel sole maledetto non lo aiutava. Inserì per sicurezza un altro quarto di dollaro nel telefono pubblico reprimendo un moto di stizza, perché non aveva alcuna voglia di continuare quella conversazione, ma allo stesso tempo voleva continuare a sentire la voce di sua madre e magari riuscire finalmente a spiegarle perchè capitava tanto di rado a Chicago. Ma ogni volta gli mancava il coraggio di scomodare la verità. Cosa avrebbe dovuto dirle, che non sopportava il modo in cui tutti lo guardavano? Che non sopportava il modo in cui lei lo guardava? Che ne aveva le tasche piene delle vecchie zie che aveva scoperto da tanto poco di avere che continuavano a toccarlo come fosse una reliquia e a raccontargli di quanto somiglia al suo povero papà, che bel ragazzo che era, che bel ragazzo che sei, hai proprio i suoi occhi, anche lui era tanto bravo a cantare, e suonava il pianoforte, hai ripreso sicuramente da lui, prendi un tortino di carne era il suo piatto preferito, ti piace il tortino?

No, il tortino gli faceva schifo anche solo guardarlo, era vegetariano da più di dieci anni, ma sembrava non interessasse a nessuno dei suoi nuovi parenti. Perché Edward era tanto ghiotto di manzo, avessi visto le grigliate che preparava!

Che fregatura il codice genetico, finisce per costringerti alla catena di un legame con un padre che nemmeno conosci ed allo stesso tempo spezza sul nascere quello che si sarebbe potuto instaurare con l’uomo che ti ha comunque regalato un cognome ed un posto nel mondo.

Balle.

Scosse la testa concentrandosi di nuovo sulla voce di sua madre, non voleva pensare all’avvocato, non voleva il suo nome e se n’era liberato appena ne aveva avuta la possibilità. Non voleva essere un Mueller, non voleva essere un Severson, non voleva nemmeno essere l’ennesimo Edward, tutto quello che voleva era essere solo Eddie.

Aveva riagganciato promettendo a Karen che lui e Beth si sarebbero fatti vedere non appena si fossero sistemate le cose a Seattle. Non prima dell’estate, insomma, ma questo a lei non l’aveva detto.

Aveva riagganciato piano appoggiandosi alla cornetta all’apparecchio alla cabina telefonica, come se sentisse un peso insostenibile gravargli sulle spalle; aveva abbandonato il letto da poco, ma già si sentiva stanco, e si sentiva solo.

Ad Eddie sarebbe piaciuto potersi ammantare dell’aura dell’eremita, dell’inaccessibile asceta, ma la verità era non riuscisse a stare da solo. Non davvero da solo, almeno. Aveva bisogno di sapere ci fosse qualcuno ad attenderlo, che pensasse a lui, una persona di cui poter ascoltare la voce e sentire il calore in ogni momento. Persone di cui potersi fidare. A San Diego aveva tantissimi amici, a San Diego conosceva tutti, dai musicisti scapestrati ai pescatori della baia fino ai surfisti di Trestles.

A Seattle non conosceva nessuno tranne i componenti del suo nuovo gruppo dal nome stupido –Mookie Blaylock? Quanto dovevano essere stati ubriachi per pensare fosse una buona idea il nome di un giocatore di basket?  - e poche settimane di frequentazione e qualche concerto insieme non bastavano a farne degli amici. A Seattle nemmeno il calore del sole gli risultava accogliente, persino quei pochi raggi sembravano corrosi dall’umidità.

Un giorno avrebbe amato quella città, l’avrebbe amata come si ama un rifugio, avrebbe amato il lussureggiante smeraldo che la circondava come un alone e quella grazia sfatta da vecchia regina del nord, sarebbe riuscito a sentire il caldo abbraccio di cui era capace, avrebbe tratto energia dal suo ventre ribollente di umori. Ma non allora, non in quel novembre d’inizio decade che sembrava prenderlo in giro scimmiottando la luce di quella California ch’era già Messico, facendogli montare la nostalgia persino di certi pomeriggi ad Encinitas1, nel giardino davanti casa a rincorrere il cane con un frisbee mentre cantava  I want you back(2) imitando il falsetto di un ragazzino poco più vecchio di lui, nella patetica parodia di una felice normalità da downtown tutta americana.

S’incamminò curvo lungo la 4th Ave superando un paio di caseggiati in via di demolizione mentre tentava di arrivare al capannone: non che il covo non meritasse di essere tirato giù, ovviamente, ma i proprietari non sembravano molto interessati alla riqualificazione in atto nella zona e questo a loro andava più che bene visto la miseria che chiedevano d’affitto.

Guardò l’orologio e poi il cielo, il cielo e poi di nuovo l’orologio: era passato da poco mezzogiorno, ma solo allora s’accorgeva non ci fosse una sola macchia azzurra sopra di lui. Il cielo era bianco, lattiginoso e opprimente, come una coperta non troppo pesante lasciava trasudare una luce molesta, non rassicurate.

Stava sudando ed era ancora quella pioggia che non si decideva a cadere.

In un piccolo snack bar qualcuno teneva gli amplificatori troppo alti e  About a girl  risuonava nei dintorni con il suo carico di fatalismo sporco e senza via d’uscita: Cobain aveva sapientemente e scientemente macchiato la  Michelle”  di Lennon ed in pochi se n’erano accorti, avevano solo mangiato quella sporcizia come piccoli topi avidi.

Scosse la testa pensando a quel ragazzetto biondo tutt’ossa che gli era capitato d’incrociare qualche volta all’Off Ramp, quando suonavano i Garden o gli Screaming Trees, sapeva di non essergli simpatico e non riusciva a capirne il motivo. Non avevano mai parlato, nessuno li aveva mai nemmeno presentati, Jeff gli aveva semplicemente detto lascia perdere quando gli aveva accennato di voler fare quella conoscenza e persino Stone e Mike – che di solito parlava bene di tutti in quanto non gli fregava davvero di nessuno – l’avevano dissuaso. Non era uno tutto giusto, quel Cobain e, soprattutto, non poteva vedere quel loro nuovo gruppo in blocco, perché Mark Arm aveva già deciso fossero una band di paraculi pronti a tagliarsi le palle per vendere. E Mark Arm era il piccolo dio alternativo che aveva cominciato a far muovere le acque grigie di Seattle, Cobain non era il solo a dargli credito sulla parola. Poco importava Arm dovesse il suo nome e la gloria indie dei Green River ai riffs dello stesso Gossard e al potente finger style di Ament: i River non esistevano più perché chi pensava di vivere con la musica era solo l’ennesimo leccaculo del sistema.

Pensare che a lui sarebbe bastato diventare come Ian MacKaye(3), l’Off Ramp in fondo somigliava un po’ ad un centro sociale, cupo e stretto com’era.

Sarebbe stata dura farsi un seguito serio con quelle premesse.

Sarebbe stata dura anche far dimenticare, o almeno mettere da parte, quell’altro biondino di cui non voleva prendere il posto. Rispettava il lavoro di Andrew Wood, gli piacevano le sue canzoni, sapeva che, se fosse sopravvissuto, sarebbe diventato una rock star anche più grande di quel grosso pallone gonfiato di Axl Rose.

Wood, per la Seattle dei clubs e dei vicoli, quella sporca e triviale, era una sorta di monumento e lo era diventato molto prima di bruciare come un’apparente nova senza futuro – ché invece i Mother Love Bone erano una supernova che avrebbe generato una luminosissima stella.

Eddie aveva chiesto di poter vedere le registrazioni dei concerti e ci era rimasto secco, perché sentire quella voce sul nastro non l’aveva preparato all’effettiva portata visiva di un ventiquattrenne che sembrava aver rubato il carisma di Marc Bolan. Wood era un pagliaccio che non aveva bisogno di trucco e belletti per creare la sua maschera migliore, quella che vestiva sul palco da che era un adolescente troppo alto e troppo etereo per il grigio del nord, quella che faceva accorrere sotto il palco donne e uomini in egual misura nonostante il suo viso non potesse proprio essere considerato bello né per un uomo né per una donna, quella che lo rendeva sfrontato senza ritegno, ed allora poteva presentarsi sul palco anche con l’ombelico scoperto come una star degli anni 70 - o una squillo che non avresti mai potuto avere. Non aveva l’irriverenza elegante di Ziggy, né i suoi tratti da geisha senza sesso, non era un pierrot triste, lui: era una Circe coperta di lustrini e piume con il pacco in evidenza, e sul palco esplodeva in un’orgia di vita.

La stessa vita che aveva consumato sulla punta di un ago, però.

Eddie non voleva essere il nuovo Love Child(4), non voleva essere  quello che ha preso il posto di Andy” ed in quei primi tempi a Seattle era stata anche la prima cosa che aveva ribadito con forza inaspettata: a lui non interessava prendere il suo posto, era stanco di prendere il posto di un altro, gli bastava camminare per la propria strada, con i propri vestiti addosso, al massimo sventolare una bandiera nera.

Sarebbe stato fighissimo.

Avrebbe riportato il punk dove meritava di essere, avrebbe lasciato libero il rock di scorrere come ai vecchi tempi, come se la Luna non si fosse mai addormentata e Hendrix stesse ancora suonando in mezzo al fango The Star-Spangled Banner(5)con la mano del diavolo sul cuore.

Gli venivano i brividi solo a pensarci.

“Eccoci a casa. E speriamo bene.”

“Che fai, parli da solo?”

Eddie aveva sussultato comicamente girandosi di scatto verso quella voce che l’aveva apostrofato tanto divertita. Stone lo guardava stando qualche passo dietro di lui, le mani affondate nelle tasche dei jeans e la chitarra in spalla; e quella sua espressione indecifrabile. Eddie era arrossito fino alla punta delle orecchie per essere stato riportato tanto bruscamente alla realtà da uno scomodo testimone: perché Stone era la persona più strana il cantante avesse mai incontrato, se non avesse avuto i capelli tanto lunghi, la sua compostezza avrebbe fatto pensare ad un nerd, poi però ti gelava con il suo umorismo tagliente che d’inglese aveva solo il cinismo a tratti feroce. E i suoi occhi ti fissavano sempre come se stesse per affondare quella sua lingua aguzza in un bersaglio troppo facile. Eddie aveva un po’ paura di diventare quel bersaglio, ma anche di perdere le staffe e menargli così, per una ragione che avrebbe poi capito solo lui.

Stone aveva soppesato il californiano per un po’, davvero divertito, perché quel ragazzo si ostinava a non voler entrare nell’ottica del clima del nord-ovest: era vestito troppo pesante per quella coda di estate di San Martino che a Seattle si trasformava solo in un limbo uggioso fatto di goccioline sospese a mezz’aria: ma se guardavi bene, potevi arrischiare la ricerca del tesoro ai piedi di un arcobaleno chimico.

Perché anche la musica era chimica in fondo, forse era quello il motivo per cui, in quel colpo di coda di un decennio strano e vacuo, anche Seattle poteva andar bene come palcoscenico: da Hendrix in poi, almeno, nessuno aveva più potuto ignorare quel nord dal clima infame e dai paesaggi suggestivi.

Ma Stone era anche uno che non sprecava una buona battuta per chi sapeva non l’avrebbe capita. O l’avrebbe capita male. Il ragazzo californiano gli andava a genio, ma gli dava l’idea di essere davvero troppo indifeso: era come uno di quei gattini randagi che tenta di graffiarti gli occhi per non lasciarti vedere quanto è invece inerme. Sostanzialmente innocuo.

Ancora non riusciva a credere – oramai più di un mese prima – si fosse presentato da loro con dei regali, piccoli collage e quadri fatti da lui, a tema musicale ovviamente. Molto belli anche, originali; Jeff, da illustratore mancato qual’era, li aveva adorati. Stone, che aveva una sorella più piccola che amava da morire, non aveva potuto far altro che sentire un moto di tenerezza per quel ragazzino troppo cresciuto che stava ingenuamente tentando di farsi accettare da degli sconosciuti. E per Jeff era stato lo stesso, l’aveva adottato nel momento stesso in cui aveva sentito quel demo, in fondo.

“Dobbiamo aspettare Jeff, è lui che ha le chiavi. Sono rimasto fuori anch’io, sto aspettando qua fuori come un fesso da quasi venti minuti.”

Eddie gli aveva fatto un cenno di saluto abbassando gli occhi sulle scarpe, non aveva nemmeno tentato di darsi un tono. Stone scosse la testa con un mezzo sorriso e gli si avvicinò invitandolo a sedersi sull’asfalto davanti al cancello d’ingresso, tanto per stare più comodi. Tentò anche di imbastire una conversazione di un qualche tipo, ma con Eddie non era tanto facile. Per lui almeno: Jeff gli aveva detto al contrario che il cantante era un gran chiacchierone, se ingranava poteva andare avanti a parlare per ore dimenticando persino di respirare. Ma con il bassista Eddie sembrava aver sentito un’intesa particolare da subito, probabilmente doveva solo dargli un po’ di tempo per sciogliersi.  Anche sul palco.

Avevano già fatto qualche serata insieme, la prima dopo appena una settimana dall’arrivo del cantante a Seattle: a Mike era quasi preso un colpo, ma un po’ tutti avevano fissato Stone come se fosse impazzito. Solo Eddie era stato zitto e non aveva fatto nemmeno un’obiezione.

All’inizio aveva pensato quello fosse un punto a suo favore, aveva fegato ad accettare di mostrarsi così presto ad un pubblico sconosciuto che poteva risultare persino ostile visti i trascorsi e la dipartita recente di Andy. Ma dovevano pur cominciare, rimandare sarebbe stato inutile.

Eddie su quel palco all’Off Ramp gli aveva fatto ancora più tenerezza, però. Era più grande di Stone di quasi due anni, persino più prestante, ma gli faceva tenerezza comunque.

La prima cosa che aveva notato di lui quella sera era stata l’immobilità quasi totale. L’asta del microfono - regolata all’altezza minima, ma che lo sovrastava comunque di un paio di centimetri - quasi non la sfiorava neppure: cantava e basta. Guardava un punto imprecisato sopra le teste del pubblico con quei suoi incredibili occhi in cui il grigio e l’azzurro si fondevano per regalarti solo la pienezza del vuoto ancestrale della tristezza, e cantava.

Quella bella immagine non era del chitarrista però.

Era stato Jeff a suggerirgliela quella notte stessa dopo il concerto, mentre lo riaccompagnava a casa con il suo scassatissimo pick-up: era in quei momenti che Stone realizzava quanto era costato al bassista dover abbandonare i suoi studi e quel sogno di dipingere la vita con l’acido degli acrilici.

“Ed, posso farti una domanda?”

“Certo…”

“Perché non ti muovi?”

“Eh? In che senso…?”

“Voglio dire… Sul palco. Ormai è un po’ che suoniamo insieme, durante le prove non sei mai così statico, ma non possiamo certo nasconderti il pubblico o suonare per sempre solo tra noi. Mi pare la gente ti abbia accolto bene, no? Quindi perché non riesci a scioglierti?”

Stranamente Ed non aveva abbassato lo sguardo, ma aveva fissato il chitarrista con un’espressione spaurita spalancando gli occhi come un ragazzino colto con le mani nel vaso di biscotti. Stone stava quasi per rimangiarsi la domanda un po’ pentito di essere stato tanto diretto – e forse aveva ragione Jeff quando gli diceva che non poteva fare lo schiacciasassi con chiunque -, ma Eddie si era ricomposto subito, con un sospiro che suonava quasi sollevato.

“E’ che ho visto Andy.” Gli aveva risposto a bruciapelo tornando a guardarsi le scarpe.

“Cosa? Che fai vedi la gente morta? Guarda che non ti fa bene bere tanto se…”

“No, non in quel senso! Voglio dire le registrazioni, i vostri concerti come Mother Love Bone. Le ho chieste a Jeff. La gente di qui sembrava proprio in fissa con il vostro vecchio gruppo.”

“Beh, sì, non ci possiamo lamentare. Quel cretino era bravo, ci sapeva fare con la gente.”

“Già. Ma io non sono Andrew Wood. Io non so stare sul palco come lui e non ci voglio nemmeno provare.”

Il chitarrista si era messo a ridere; dapprima piano, poi aveva proprio cominciato a sganasciarsi. Eddie non sapeva se doveva imitarlo – anche se non capiva il motivo di tanta ilarità: però non voleva passare per scemo, magari aveva detto qualcosa di divertente senza accorgersene.  – od offendersi a morte: pensava stessero facendo un discorso serio, vaffanculo.

Il chitarrista si era asciugato gli occhi cercando di trattenere gli ultimi sussulti d’ilarità ed aveva guardato Eddie con la sua solita espressione tanto ironica da risultare persino insultante.

“Guarda che lo so, lo sappiamo tutti che non sei come Andy, e ti assicuro che non è mai stato un problema. Se avessimo voluto un altro come lui tu non saresti qui adesso, perché saresti stato bocciato prima ancora che ti vedessimo in faccia: non siamo sordi, la tua voce non ha niente a che fare con quella di Andy e le tue canzoni sono talmente diverse da quelle che scriveva lui che è impossibile paragonarle. Mettiti bene in testa una cosa: noi non stiamo ricostruendo i Love Bone, quello è passato e tale rimarrà. Stiamo cercando di fare qualcosa di nuovo, quindi tu fa solo quello che ti senti di fare. Se preferisci stare immobile davanti al microfono, beh, fa’ pure. Ma non farlo solo perché hai paura qualcuno possa paragonarti ad Andy, perché l’hanno capito tutti che questa è un’altra storia. E poi diciamocelo, tu col rossetto faresti cagare.”

Ed Eddie l’aveva fissato a lungo negli occhi, poi gli aveva sorriso, forse per la prima volta da che si erano incontrati. Sembrava non volesse sentirsi dire altro.

“Sì, non credo il rossetto mi starebbe bene, ma chi lo sa, mai precludersi niente nella vita.”

“Oh, se vuoi c’è Mike che può darti un sacco di consigli, la sua vecchia band faceva glam rock(6), avresti dovuto vederlo con la cresta e gli spandex!”

“Mike? Dai, stai scherzando!”

Avevano continuato così per un po’, ridendo come stupidi di tutto e niente. Così li aveva trovati Jeff quando era finalmente arrivato, trafelatissimo con il basso a tracolla e lo skate sottobraccio.

“Finalmente!” Stone aveva apostrofato il bassista fintamente irritato, ma senza riuscire a stemperare il mezzo sorriso che gli aleggiava sulle labbra. In fondo era stato un bene avesse fatto tardi.

“Mi dispiace ragazzi, ma ho dovuto fare gli straordinari al ristorante oggi, non sono riuscito a venir via prima.”

“Oh andiamo Jeff, stai ancora lavorando lì? Perché non l’hai lasciato quel lavoro del cazzo?”

Il bassista aveva mentalmente contato fino a dieci per evitare d’incazzarsi. Non aveva voglia di litigare, era stanco e pure affamato dato che non aveva avuto tempo di mettere niente sotto i denti, aveva caldo ed anche un principio di mal di testa. Tutto quel che voleva era cominciare le prove e decidere il da farsi per la serata.

“Stone, non lo lascio il lavoro finchè non avremo il disco pronto e te l’ho detto mille volte, non importa se abbiamo già il contratto firmato. E ora alzate il culo che devo aprire il cancello.”

“Che palle che sei. Non avresti problemi di affitto se mi avessi dato retta e fossi venuto da me, sarebbe stato più comodo per tutti.”

“Ancora con questa storia? Cazzo Stone, non possiamo dividere casa io e te, ci scanneremmo ogni due minuti, già vorrei dartele adesso! E poi i soldi ci servono, abbiamo altre spese e la casa discografica ancora non copre un cazzo, quindi piantala di dare aria alla bocca che abbiamo altri problemi!”

Eddie era rimasto prudentemente in disparte assistendo a quel litigio piuttosto perplesso, senza riuscire a decidere se intervenire o meno. Non avrebbe saputo a favore di chi, comunque.

“Litigano di nuovo? Che palle.”

Per la seconda volta quel giorno, il cantante era stato colto di sorpresa alle spalle da un chitarrista. Mike non lo stava degnando di uno sguardo, comunque, si limitava a guardare Stone e Jeff che continuavano a discutere mentre si dirigevano verso l’interno del caseggiato. Solo quando i due erano scomparsi all’interno si era voltato verso Ed con un sorrisone allegrissimo sulle labbra.

“Ciao. Allora, che è successo stavolta, Stone ha fatto qualche altro cambiamento senza dirgli niente?”

“Stone fa cambiamenti senza consultare nessuno?”

“Solo alle canzoni, ma di solito mentre suoniamo: una delle canzoni sul demo che ti abbiamo mandato l’abbiamo rifatta almeno dieci volte, non era mai contento del risultato. Jeff stava per spaccargli il basso in testa. Vabbè, entriamo?”

“Sì…”

Mike si era incamminato verso l’interno a passo lento, ciondolante, facendo oscillare noncurante la chitarra; Eddie l’aveva seguito pensando a quanto quel gruppo fosse assortito male, erano talmente diversi l’uno dall’altro che se non fosse stato per la musica non si sarebbero probabilmente mai nemmeno parlati.

Sorrise a quel pensiero.

Avevano la musica in comune. Era più che sufficiente.

Krusen si unì al resto del gruppo solo dopo un’ora, ma era previsto, quindi nessuno si era preoccupato della sua assenza: la moglie del batterista era incinta, qualche concessione dovevano pur fargliela visto che era difficile le rimandassero a casa il marito prima dell’alba.

Ne avevano approfittato per limare un paio di canzoni praticamente già pronte per essere registrate – quando sarebbe stato il momento. Ma quanto ci mettevano a decidersi, alla Epic?  – e portarne avanti altre: Mike doveva aver vaticinato, perché Stone aveva davvero fatto dei cambiamenti stravolgendo completamente l’arrangiamento di una delle sue musiche, vanificando il lavoro di Eddie che, proprio su quel pezzo, aveva composto un testo nuovo.

E Jeff si era incazzato ancora.

“Questo è troppo, non puoi cambiare i pezzi a piacimento quando sono praticamente finiti, Cristo, c’è pure il testo!”

“Ma la base melodica era noiosa! Ho solo fatto un’apertura sul secondo do, non è niente di così complicato da ricordare o eseguire.”

“Non è questo il punto, Stone! È che ora si dovrà riadattare la metrica del testo, probabilmente dovrà essere riscritto e allora sarà altro tempo perso! Perché diavolo ti ostini a non avvertire nessuno e a fare tutto per conto tuo?”

“Oh andiamo, vi ho avvertiti, no? La modifica l’ho fatta appena sveglio, quella nota mi era risuonata in testa tutta la notte: sentila, senti quanto è più bella adesso.”

Era vero.

Ma sarebbe stato vero anche per i successivi settantanove cambiamenti cui quella canzone sarebbe stata sottoposta. Settantanove o forse più, è sempre difficile riuscire a tenere il conto con il sistema nervoso a pezzi: quella canzone sarebbe diventata una hit ed un inno, ma allora ancora non potevano immaginarlo, per loro sarebbe solo e sempre rimasta la prova della follia perfezionista di Stone Gossard(7).

“Va bene ragazzi, dateci un taglio, mi sto cagando addosso quindi si riprende più tardi.”

Mike non era mai stato un ragazzo che le mandava a dire, né che perdeva  tempo a cercare perifrasi: semplicemente si sciolse dall’abbraccio della sua Les Paul – che poggiò accuratamente sull’apposito supporto – e corse in bagno. Lasciando tutti lì interdetti.

“Uhm… era diventato giallo stavolta… Mi sa che gli ci vorrà più tempo del solito.”

Ma nessuno aveva riso alla mezza battuta di Jeff, nemmeno lui: sapevano tutti Mike stesse male per davvero, quel morbo8 che gli stava mangiando l’intestino e la giovinezza avrebbe preteso un po’ più d’attenzione, ma il chitarrista aveva solo ventitré anni e poca voglia di contenersi.

 Nessuno di loro aveva molta voglia di farlo, in realtà.

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Capitolo 2
*** The Hungry Satan ***


Niente pioggia.

Per il secondo giorno consecutivo il cielo era rimasto muto e asciutto, non una sola goccia di pioggia aveva lasciato quelle nuvole sempre più simili a spugne senza colore. Seattle rimaneva sospesa in una luce senza luce, un biancore latteo che velava i contorni dei palazzi e smorzava il verde di solito brillante dei parchi.

Tutto sembrava fermo come in una foto d’epoca, sfumata.

Come in una fastidiosa replica del giorno precedente, Eddie si era svegliato con la spiacevole sensazione di trovarsi nel posto sbagliato e non era un buon segno. Si era srotolato dalle lenzuola sentendosi sgradevolmente appiccicaticcio benché avesse dormito in mutande, e i capelli gli si erano tutti incollati al viso ed alla schiena facendolo sentire una sorta di Cugino It.

Doveva farsi una doccia, urgeva.

Eddie non immaginava ci fosse già qualcuno che lo aspettava dabbasso mentre s’incastrava nel microscopico gabbiotto della doccia tentando di lavarsi senza morire soffocato dai suoi stessi capelli.

“La tua chitarra è scordata, lo sapevi?”

In quel preciso istante Eddie Vedder, quasi ventisei anni da compiere il 23 dicembre, aveva rischiato d’allungare la nutrita scia di morti bianche della musica e di farlo in un modo al contempo umiliante ed originalissimo: stava per prendergli un infarto.

“Mike! Cazzo mi hai fatto prendere un colpo! Aspetta che diventiamo famosi prima di farmi la pelle, ora come ora non diventerei un mito per nessuno!”

Il chitarrista si era allungato ulteriormente sul letto sfatto con noncuranza mentre ancora trafficava con le corde della chitarra. Aveva pizzicato qualche nota prima di sorridere tra sé e finalmente decidere che poteva prestare attenzione al cantante, che se ne stava ancora impalato sulla porta del bagno, i capelli grondanti e un asciugamano stretto intorno ai fianchi.

“Ma stai ancora così? Guarda che abbiamo un sacco di cose da fare oggi, per questo sono passato a prenderti. E comunque dovresti chiudere la porta a chiave, sai?”

“Non avete le prove con Cornell oggi? Non voglio starvi tra i piedi se…”

“Sei del gruppo anche tu e i nostri amici sono i tuoi amici. Vedrai che Chris ti piacerà, anche gli altri sono a posto. E poi anche loro sono curiosi di conoscerti.”

“E perché?”

“Oh andiamo, lo sai che il mese scorso al Ramp c’era pure Susan Silver e, se non ti hanno avvertito, oltre ad essere la donna di Chris è anche la manager dei Soundgarden e degli Alice, un pezzo grosso insomma. E sembra tu abbia fatto colpo.”

“Non lo sapevo fosse la donna di Cornell…”

“Ora lo sai. Quindi muoviti a vestirti che ci stanno aspettando alla Galleria.”

“…”

“…”

“…”

“Allora?”

“I miei vestiti sono nella valigia sotto il letto. E tu ci sei sopra.”

Mike lo aveva visto inspiegabilmente arrossire e distogliere lo sguardo mentre quel suo vocione cavernoso diventava sempre più flebile: e poi dicevano quello strano fosse lui.

Si era sollevato dal letto con un’alzata di spalle portando con sé l’acustica di Eddie e si era seduto sul pavimento rivolto alla finestra per evitare di metterlo ulteriormente a disagio; e aveva cominciato ad accarezzare le corde con delicatezza estrema richiamando le lacrime sbiadite dalla foschia di un Angelo londinese. La malinconia del blues gli si addiceva, lo vestiva come un guanto usurato, esattamente come riusciva ad indossare la maschera orribile dei Kiss. La musica gli si addiceva tutta, se avesse potuto l’avrebbe bevuta, liscia e senza ghiaccio, o l’avrebbe sciolta fino a farsela scorrere direttamente nelle vene fino al cuore e al cervello.  Pum.

Angie non doveva essere infelice ed anche Eddie doveva saperlo, perché aveva cominciato a mormorare piano le parole di quel lamento triste a tempo con le note. Mike non era riuscito a fare a meno di sorridere ascoltandolo cantare, la lingua di Eddie stava mutando senza nemmeno accorgersene lo spirito di Jagger, sulle sue labbra il pianto funebre del blues diventava il vagito altrettanto doloroso della nascita: ancora non lo sapevano, ma Eddie avrebbe convinto una generazione intera a fare bandiera di un canto di morte facendo credere a tutti stesse intonando la rinascita, avrebbe raccontato un suicidio come una favola al contrario, di lotta e di sopravvivenza fino alla fine.1

Ma Eddie era un ragazzo strano, era un ragazzo triste che non ci aveva proprio mai pensato a farsi sconfiggere dalla storia - soprattutto dalla propria.

Il luogo d’incontro si trovava verso la periferia opposta di Seattle, purtroppo parecchio distante dall’oceano ed anche dal canale. E Mike non era esattamente quello che si sarebbe detto un buon guidatore, almeno per i parametri di Eddie: andava troppo veloce, persino per qualcuno che aveva fretta; ed Eddie odiava la velocità quando non poteva controllarla.

Erano arrivati alla Galleria – che era effettivamente una galleria d’arte: le prove le avrebbero tenute nel piano interrato, tra tele invendute o ancora da esporre e cataste di bottiglie vuote – un po’ in ritardo, ma nessuno si era scomposto. Eddie aveva salutato tutti con un mezzo sorriso ed un cenno prima di defilarsi silenziosamente verso un angolo della sala, abbastanza vicino da ascoltare i discorsi degli altri, ma non tanto da dovervi per forza partecipare. Gli unici membri dei Soundgarden presenti erano Cornell e Cameron, il batterista, ma prima di allora gli era capitato di intravederli solo di sfuggita in qualche club o after-party, non ci aveva mai parlato; non li conosceva.

Chris Cornell era esattamente come Eddie l’aveva visto sulle cover degli LP, un ragazzo altissimo – o almeno, staccava chiunque in sala di almeno una spanna – con lunghissimi capelli neri e gli occhi verdi, la pelle lattea; sembrava l’incarnazione della città, ne fondeva in sé lo spettro di sfumature e colori, persino quella sua bellissima voce, che ricordava di aver ascoltato per la prima volta in Flower appena un paio d’anni prima, sembrava rispecchiare il vento del nordovest, un range vocale potente, che toccava le scale superiori senza apparenti difficoltà.

Eddie non riusciva a non concentrarsi sulle voci dei due sconosciuti mentre fingeva di scribacchiare sul suo blocco appunti, gettando di tanto in tanto qualche occhiata al gruppo che provava e suonava quel ricordo postumo di Andrew Wood.

Gli avevano detto Wood e Cornell fossero stati molto amici, avessero addirittura diviso casa; non l’ero, però, perché Cornell era un’anomalia per Seattle: in una città in cui il narcotico era l’unica via di fuga da quella realtà soffocante e uggiosa, lui pretendeva di rimanere lucido fino in fondo, e ci aveva provato a spiegarlo ad Andy.

In realtà né Eddie né gli altri potevano immaginare cosa fosse davvero quel tributo in musica, nessuno di loro poteva immaginare quel che si agitava nel cuore di Chris mentre scriveva quelle canzoni. Ed era senso di colpa.

Aveva voluto bene a quel biondo idiota come ad un fratellino minore, aveva cercato di proteggerlo come tale, ma aveva fallito, gli aveva probabilmente dato la spinta finale verso l’oblio proprio quando Andy si era finalmente deciso a ripulirsi. In pochi lo sapevano, ma, proprio alla vigilia delle registrazioni del primo album degli allora Mother Love Bone, Andy aveva deciso di darci un taglio, di tornare a casa dai suoi genitori, di farsi aiutare a disintossicarsi del tutto: aveva ventiquattro anni e si sentiva ancora troppo figlio per non desiderare la sicurezza del nido in un momento come quello.

Era stato proprio Cornell a convincerlo a rimanere, a continuare le registrazioni.

Puoi venire a stare da me, non puoi mollare proprio adesso che avete una possibilità vera, io sono pulito, ci penserò io a tenerti lontano dalle cattive compagnie.

Invece non aveva considerato che l’essere il leader di un gruppo già affermato e di successo l’avrebbe tenuto lontano da casa anche per settimane; così aveva finito per diventare il demone della distruzione per il proprio migliore amico.

Era quel senso di colpa che gli riempiva la voce di passione mentre cantava, era per quell’unico motivo che aveva deciso di non cantare quei testi con il suo gruppo ma di chiedere ai vecchi compagni di Andy di dividere il calice con lui. E se Jeff – pur ignaro dei veri sentimenti di Chris – si sentiva egualmente in colpa nei confronti di Andy, Stone era quello più arrabbiato, l’unico a poter creare la cornice giusta per quei testi.

Erano nati così i Temple of the Dog, per motivi sbagliatissimi, per quello sapevano fin dall’inizio che non ci sarebbe stato seguito per quell’unico album ed avevano deciso di coinvolgere più gente possibile persino nelle prove, che fosse Kevin Wood, Mike, o un ragazzo californiano totalmente estraneo.

Eddie si era limitato a stare in disparte per giorni dopo quella prima prova, senza accorgersi di essere oggetto delle curiosità di tutti i presenti, Cornell compreso: l’avevano già sentito cantare, sia Chris che Matt erano stati tra i primi ad ascoltare la cassetta che Jeff aveva ricevuto da San Diego qualche tempo prima ed erano stati tra coloro che avevano dato il benestare per quel nuovo acquisto. Non lasciatevelo scappare, questo materiale è ottimo.

L’avevano anche visto sul palco, però, e non sapevano cosa pensare, non riuscivano a sovrapporre i suoi testi all’atteggiamento che teneva in scena. Eddie Vedder aveva il sapore intrigante degli enigmi più complicati da sciogliere.  Nemmeno immaginavano lui non si sentisse affatto tale e non vedesse l’ora di unirsi alla festa: aveva semplicemente paura di occupare un posto che non gli spettava per l’ennesima volta.

Lo scantinato della Galleria era un po’ più fresco dell’esterno, le pareti non sembravano bere l’umidità di quel novembre stranamente asciutto come ogni altro palazzo di Seattle.

Chris aveva smesso di cantare ed aveva lasciato il microfono, scompigliandosi quei lunghissimi riccioli neri che finivano sempre per coprirgli il viso, con l’aria avvilita. Non andava.

Il demo continuava a girare in loop in consolle inascoltato ormai da tutti. Il cantante dei Saundgarden stava mostrando i suoi appunti agli altri sconsolato, quella strofa gli sembrava perfetta, ma non riusciva ad aggiungervi altro: serviva un bridge, serviva un ritornello, serviva assolutamente aggiungere qualcosa o avrebbero dovuto accantonarla e non voleva.

Immersi in quelle discussioni, nessuno – o quasi - aveva notato l’altro vocalist avvicinarsi al microfono. Eddie aveva quasi smesso di respirare pur di non far rumore, ma quella canzone gli piaceva troppo, quel brano era stupendo. Con circospezione si era avvicinato al microfono lasciato aperto ed aveva aspettato che la cassetta ritornasse al punto esatto che gli serviva, poi aveva cominciato: aveva aperto la bocca ed aveva cantato. Con gli occhi chiusi e le mani strette al bordo della felpa mentre il movimento del piede con cui dava il tempo gli faceva scivolare i capelli sul viso.

Cantò esattamente la stessa strofa che aveva poco prima sentito cantare a Cornell, ma a modo suo. La sua voce tanto più morbida e profonda di quella di Chris dava una consistenza diversa alle parole, le arrotondava, le ricopriva come di una sostanza vischiosa e sporca da cui ci si sentiva attratti inesorabilmente.

I suoi bassi coprivano le note profonde che l’intonazione naturalmente più acuta di Cornell non riusciva a raggiungere facilmente.

Eddie aveva guardato istintivamente verso Jeff e i suoi compagni di band come per chiedere silenziosamente un parere, ma lo sguardo di Stone l’aveva quasi gelato: era praticamente inespressivo, lo fissava senza guardarlo con gli occhi di vetro.

Eddie non sapeva che aveva appena fatto accendere una lampadina nella testa del chitarrista che aveva smesso di pensare a quella sessione di prove e di jam non appena l’aveva sentito intonare il secondo movimento. Stone era già lontano, Stone era già virtualmente su un nuovo spartito, su mille nuovi spartiti, perché in quel momento aveva realizzato di avere potenzialmente mano libera, di poter scrivere qualunque melodia, sicuro che Eddie l’avrebbe comunque cantata nel modo giusto. Stone in quel momento aveva perso ogni dubbio residuo sul cantante, proprio lui che era stato anche l’unico ad avere inizialmente delle resistenze.

Il cantante era tornato a fissarsi le scarpe pronto a tornare nel suo angolo quando si era sentito afferrare per le spalle da Cornell stesso.

“E’ perfetta, è così che deve essere, sei stato incredibile. Ragazzi! Abbiamo risolto, contenti?”. E gli aveva sorriso dandogli una pacca sulla spalla spingendolo finalmente verso il centro della stanza, verso il gruppo.

Quella di Cornell era stata una dichiarazione di stima incoraggiante, che obbligava Eddie ad ulteriori sessioni di prove certo, ma la cosa non gli pesava per niente, e stare in sala prove o in studio di registrazione con gli altri – insieme agli altri – l’aiutava a rilassarsi, a sentirsi accettato e, soprattutto, a dimenticare per qualche ora l’urticante umidità di quei giorni.

Però non ci furono cambiamenti nella compostezza già notata da Stone di Eddie: sul palco continuava a sentirsi spaesato, nervoso. Non perdeva una nota e teneva gli occhi del pubblico incollati su di sé, ma quegli occhi cercava di evitarli il più possibile perdendosi piuttosto nel buio oltre i faretti d’illuminazione.

Confondendo il pubblico del Ramp dell’Hollywood del Tunnel. Di Seattle.

Perché il biondino con gli occhi grigi non saltava, non scuoteva la testa, non si dimenava, non urlava. Cantava e basta.

Il biondino con gli occhi grigi era bello, ma per una groupie quel dettaglio poteva anche passare in secondo piano se non si aveva anche la sfrontatezza di Axl Rose.

Al biondino si avvicinavano energumeni equivoci ed universitari in pausa studio a cui piacevano i suoi shorts cargo un po’ consunti, ma non gli chiedevano mai dove li avesse acquistati.

Eddie cantava e basta.

Anche quella sera Eddie si limitò a cantare, l’unica concessione che fece – e si fece – fu di non cercare Jeff,  non solo almeno, ma d’inaugurare il primo dei tanti assoli schiena contro schiena con Mike: scoprì che gli piaceva sentire le vertebre del chitarrista vibrare contro le sue insieme alle corde della chitarra, era una sensazione elettrizzante, quasi sessuale. Sembrava di entrare fisicamente in contatto con la musica.

“Che ne dici Kim, non sono per niente male, eh?”

Chris Cornell era appoggiato al bancone del bar del Ramp con una birra davanti a sé ed il suo chitarrista-filosofo-sciamano di fianco: Thayil era un concentrato di stereotipi tutto indiano, filosofo e buddista con una punta di trascendenza animista – o quello che era - che non guasta mai; un po’ il suo Maharishi Mahesh Yogi2, solo che gli costava significativamente meno. Insomma, per fortuna aveva preferito la chitarra elettrica al sitar, chitarra che sapeva maneggiare maledettamente bene.

“I ragazzi sono sempre stati grandiosi. E anche se è ancora un po’ timido, hanno fatto bene a scegliere quel californiano, ha un certo non so che… quell’aura particolare che lo circonda… Non la vedi?”

Chris aveva contato fino a dieci per non sbottare a ridergli in faccia, o peggio ancora, cedere e dargli ragione sulla fiducia, ma quest’ultima opzione l’avrebbe poi costretto ad ubriacarsi di brutto per tentare di reggere l’inevitabile lezioncina sulle filosofie orientali, le discipline di controllo dell’aura e pure sul relativismo culturale che stava così brutalmente spogliando le tradizioni millenarie del sapere dei popoli orientali per piegarle alla moda. Cominciare a fare yoga per sfuggire alle paranoie pseudo-intellettuali del suo chitarrista era fuori discussione, che poi sarebbe finito pure lui nel novero dei modaioli che praticano gli antichi insegnamenti solo per fare i fighetti.

Santa pazienza.

“Certo, quello che hai detto tu. Hanno finito, vado a salutare!”

Chris non sapeva se quel Vedder fosse circonfuso di luce come sosteneva Kim, quelle puttanate esoteriche non lo interessavano – anche se si guardava bene dal metterla in quei termini con l’amico -, ma era certo gli piacesse e, sebbene non ne fosse cosciente per primo, quel ragazzo aveva i numeri ed il carisma per stare al centro del palco.

Eddie era sudato fradicio, la maglietta gli si era completamente incollata addosso, così come i capelli; nell’ambiente era impregnato ovunque lo sgradevole odore di sudore misto a polvere smossa ed al terriccio umido che fungeva da pavimento per il locale. Il soffitto basso – e l’inevitabile ulteriore vicinanza dei faretti – non aiutava a liberarsi dalla leggera claustrofobia che la struttura ispirava fin dall’esterno: l’acustica del Ramp era praticamente perfetta, ma sembrava di suonare in una bara circondata dai mille lumini della Statale.

Avrebbe voluto cantare ancora, avere qualche altra canzone da poter offrire, ma giù dal palco si sentiva meglio, qualche entusiasta della prima ora - già pronto a giurare la propria fedeltà imperitura di fan a quel nuovo gruppo - si era addirittura avvicinato senza ricevere in cambio solo silenzi imbarazzati, ma autentica gratitudine.

Eddie non riusciva a capire perché non riuscisse a sciogliersi, aveva pensato il problema fosse il possibile paragone con Wood, ma aveva ricevuto più di una rassicurazione al riguardo, a ripensarci a mente fredda era vero: lui e Wood non avevano proprio nulla in comune, a partire dal timbro vocale.

E quindi cosa?

Quello con Jeff, Stone, Mike e Dave non era il suo battesimo del fuoco, era già stato davanti ad un pubblico, aveva già cantato su un palco, a San Diego aveva addirittura registrato un piccolo EP con la sua vecchia band3, avevano persino un piccolo ma fedele seguito. Pure a scuola aveva recitato tutti gli anni nel musical di fine anno!

Cos’era quell’ansia che lo prendeva lì a Seattle, allora? Perché aveva paura di quel pubblico e dei loro occhi?

Forse era tutta colpa della pioggia sempre sospesa a mezz’aria in quella città grigia e verde in cui la vita pareva saper esplodere solo in sprazzi di luce acida.

“Ehilà, Eddie!”

Cornell gli si stava avvicinando facendosi largo tra la piccola folla dei frequentatori del Ramp già piuttosto alticci. Aveva salutato un po’ di gente, nel mentre, qualche ragazza gli aveva ammiccato invitante, debitamente ripagata con una furtiva palpata di chiappe. Con tutta probabilità Susan non c’era quella sera.

“Siete stati davvero forti stasera! Vieni, ti offro una birra. Ma dove sono gli altri?”

Gli altri erano semplicemente già inseriti in una rete di conoscenze amicizie incontri che dopo ogni concerto vedeva Eddie sempre un po’ defilato: quella sera, poi, Pandora si era presa una piccola pausa dai suoi studi per volare a Seattle dal Montana, e aveva preteso Jeff tutto per sé dopo il concerto, quindi chissà dove si erano imboscati.

Era solo insomma.

Cornell si era appoggiato di nuovo al bancone del bar facendo cenno all’allampanato biondino che serviva da bere di portare due birre che comunque non riuscirono a bere visto il viavai continuo di gente che si fermava a salutarli – sì, entrambi – e a fare i complimenti a Eddie per lo spettacolo.

Chris sembrava soddisfatto dell’accoglienza che il popolo di Seattle stava riservando all’altro cantante, nemmeno si sentisse il padrone di casa desideroso di fare bella figura. E un po’ era anche vero, ma la realtà era Cornell fosse semplicemente un ragazzo naturalmente accogliente, felice i suoi amici riuscissero ad avere successo nonostante quello che era loro capitato, ed era un altro drogato di musica che cercava nuove sonorità e nuovi stimoli dietro ogni angolo. Aveva sentito da subito una naturale connessione con quel ragazzetto californiano con gli occhi che sembravano ghiaccio e la voce ch’era invece pura lava.

“Vieni con me, qui c’è troppo casino, non si riesce nemmeno a parlare.”

Cornell l’aveva portato verso uno degli angoli estremi del palco in fondo alla sala, vicino alle strumentazioni ormai spente e ai faretti ancora puntati verso il pubblico che pian piano sciamava verso l’uscita o il bancone del bar: i neonati Blaylock non avevano ovviamente roadies per aiutarli con la strumentazione, quindi avrebbero risolto per conto loro dopo la chiusura del locale.

In quell’angolo un po’ defilato, però, Eddie aveva cominciato a sentirsi nuovamente a disagio.

Chris sorseggiava tranquillo la sua birra mentre gli parlava, la sua voce era piacevole e suadente, persino troppo per qualcuno che conosceva da tanto poco.

Eddie non poteva fare a meno di tenergli gli occhi incollati addosso, probabilmente lo stava fissando con espressione ebete, ma non riusciva a preoccuparsene. Chris continuava a parlargli e a sorridergli, ogni tanto spostava una ciocca riccioluta che gli cadeva sugli occhi per appuntarla dietro un orecchio, il suo sguardo ed i movimenti ritmici della sua testa bruna ipnotizzavano Eddie che ormai li vedeva come al rallentatore, perso completamente dietro la malia diabolica che circondava l’altro: Eddie pensò che forse avrebbe dovuto dirglielo che si era piazzato proprio davanti ad uno di quei faretti alogeni scuri che avevano usato durante il concerto, e che, soprattutto, quel faretto lo rendeva una macchia nera aureolata con gli occhi e i denti fosforescenti.

 “Cavolo, la mia prima conversazione con Satana…”

Alla fine, ovviamente non gli aveva detto nulla temendo di metterlo in imbarazzo, ed era l’ultima cosa volesse. Anche perché, Chris, fatta eccezione dei suoi compagni di band e dei loro ‘familiari’, era stato l’unico a mostrargli sincera simpatia da che era tornato a Seattle. Era pur vero nessuno gli avesse esplicitamente mostrato avversione, non c’era stato aperto ostracismo nei suoi confronti, ma Eddie sapeva di non essere stato completamente accettato nel giro. La scena musicale di Seattle –l’aveva capito immediatamente – era chiusa e ripiegata su se stessa, una sorta di scombinata famiglia infelice che andava avanti su scambi matrimoniali ed incesti incrociati: tutti erano stati, anche solo per poco, in gruppo con qualcun altro. Tutt’altra cosa rispetto alla California.

Stone e Jeff erano un’eccezione dato che si erano incontrati, scoperti e mai più separati, e da più di sei anni dividevano spartiti, litigi e strumenti: i loro cambi di formazione li avevano sempre fatti in coppia nonostante qualche defaillance di brevissima durata e sempre per progetti collaterali a loro.  

Li avevano buttati fuori dal locale che erano quasi le due, Cornell e alcuni suoi amici – compreso lo sciamano-chitarrista che aveva comunque passato buona parte del tempo a discutere con Mike della metafisica della corda – li avevano aiutati a sbaraccare la strumentazione e si erano poi ritrovati a ridere e chiacchierare nel parcheggio semideserto del locale scambiandosi le ultime birre sottratte al bar.

Il cielo era completamente coperto come al solito, non si vedeva una sola stella, ed il freddo umido che funestava quei giorni entrava nelle ossa, ma solo Eddie sembrava sentirlo. Forse perché, al contrario degli altri, non aveva portato un’ulteriore giacca da mettere: ma proprio non ci riusciva, non ci arrivava ad entrare nell’ottica di un clima che ti costringe, a novembre, ad indossare una semplice camicia durante il giorno e tre strati di magliette felpe e cappotti di notte. Intanto moriva di freddo e nemmeno la birra o la canna che si stavano passando riuscivano a scaldarlo.

“Ed, ma che hai freddo?”

Stone aveva passato il mozzicone al cantante per l’ultimo giro e si era ritrovato di fianco una massa di capelli tremante che praticamente tentava di piegarsi su se stessa. Eddie aveva scosso il capo poco convinto, ma la mano che aveva accettato quell’ultimo tiro tremava vistosamente, cosa che Stone sembrò trovare molto divertente. Un po’ meno Jeff, che si stressava sempre troppo per qualsiasi cosa, soprattutto per l’apparente leggerezza di Stone che sembrava non riuscire a prendere sul serio nulla che non fosse segnato in note su uno spartito. Ma se il cantante si ammalava, come avrebbero fatto per le prove le registrazioni i concerti? Non c’era niente da ridere.

“Conviene tornare a casa, per stasera possiamo anche ritenerci soddisfatti. E poi sta scendendo un po’ d’umidità…”

“Un po’? Ma se è praticamente una settimana che respiriamo acqua, mi sento un pesce in una boccia!”

Eddie probabilmente non aveva molto senso dell’umorismo. Forse era persino un po’ suscettibile. Perché non gli sembrava di aver fatto nessuna battuta giustificasse lo scoppio d’ilarità improvvisa che aveva seguito le sue parole: da un po’ di tempo a quella parte un po’ troppa gente lo faceva sentire un comico involontario – per non dire un idiota – e la cosa non gli piaceva.

Non aveva detto niente, come al solito. Ma desiderò tantissimo essere a San Diego per potersi sfogare sulla sua tavola da surf, persino qualche caduta avrebbe giovato al suo umore.

Alla fine si erano separati dirigendosi verso le proprie macchine, Mike avrebbe scortato Stone, Jeff sarebbe tornato – ovviamente – a casa con la sua ragazza, lo sciamano aveva seguito una rossa con poche tette ma un culo che parlava da solo desideroso di farci due chiacchiere, Cornell si era incaricato di recapitare a casa Eddie sano e salvo. Nemmeno fosse un pacco, fanculo a tutti quanti.

La statale scorreva veloce sotto le ruote del pick-up di Cornell, le poche porzioni d’asfalto rischiarate dall’illuminazione pubblica e dai fari della vettura erano le uniche cose visibili nella totale oscurità di quella notte senza luna e senza stelle.

Ed si era rannicchiato nel sedile passeggeri cercando di trarre più calore possibile dalla sua felpa sdrucita, ma senza successo. Quel freddo improvviso lo rendeva troppo lucido per i suoi gusti, e rimuginare non gli faceva bene, soprattutto se i pensieri avevano tutti il colore di quel paesaggio invisibile e la consistenza della nebbia.

Cornell guidava in silenzio ticchettando il volante con le dita a tempo con la musica che l’autoradio trasmetteva a bassissimo volume: la KZUU stava trasmettendo un pezzo degli Alice In Chains, i ragazzi della Wazzu4 avevano orecchio, lo si doveva ammettere. E non si stupì più di tanto nel sentire che anche Eddie seguiva la canzone mormorandola piano, evidentemente sovrappensiero.

Chris gli era andato dietro bisbigliando via via sempre più ad alta voce, finchè non si erano ritrovati entrambi a cantare a squarciagola Won't you come and save me, save me5 sulle battute finali insieme a Layne: Eddie era di nuovo a suo agio, ma non aveva meno freddo.

“Odio questa maledetta umidità, come diavolo fate a vivere con questa insopportabile pioggia… con questa pioggia che non vuole cadere?”

Cornell lo aveva guardato per un attimo confuso, come se credesse di non aver sentito bene le parole dell’altro, poi aveva sorriso con un sospiro paziente mentre riportava l’attenzione alla strada fortunatamente deserta.

“La pioggia fa parte di Seattle anche quando non c’è, ma non è così male. E forse, chissà, stavolta sta semplicemente aspettando qualcosa di nuovo su cui cadere, no?”

“…”

“Vuoi essere tu quel qualcosa, Ed?”

“Io voglio solo cantare le mie canzoni, le canzoni del gruppo.”

“Bene. E allora canta le vostre canzoni e piantala di aver paura del pubblico. Tu sei il cantante, Ed, e il cantante è il fuoco del palcoscenico. Quindi, cazzo, brucialo quel palco. Se la pioggia ti da tanto fastidio, allora sii fuoco e falla evaporare tutta fino all’ultima goccia.”

Quando Chris Cornell aveva lasciato il coetaneo Eddie Vedder sotto la pensione in cui quest’ultimo alloggiava, nemmeno immaginava cosa avesse innescato pronunciando quelle poche parole su una strada secondaria del quartiere industriale. Ed non era riuscito a prendere sonno quella notte – mattina – continuando a rimuginare quelle frasi in un crescendo di consapevolezza vergogna stupore determinazione. Soprattutto quell’ultima, che l’aveva sempre accompagnato nell’arco della sua vita e che doveva aver chissà come dimenticato a San Diego. A Eddie non interessava l’Olimpo e non voleva toccare il cielo. Lui quello stesso cielo voleva grattarlo via liberandosi di quella rabbia e di quel dolore che di notte gl’impedivano di dormire e respirare, voleva strappare quell’infinito vuoto che opprimeva con le sue promesse di libertà illusorie.

Lui, il gruppo, non sarebbe stato la pietra focaia, ma l’onda anomala che avrebbe investito Seattle, l’America, il mondo, chissenefrega:  avrebbe liberato l’energia cinetica imprigionata dentro di lui a tempo con le note.

Loro sarebbero diventati pioggia.

End.

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