Danae's Truth

di mise_keith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII - ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Danae’s Truth

 

Title: “Danae’s Truth”

Author: mise_keith

Disclaimer: Ginevra Weasley appartiene a J.K.Rowling, e tantomeno Harry Potter (per carità!) e chiunque altro verrà qui citato (a parte la Silente della situazione che riconduco alla mia modesta e ripetitiva inventiva). Mi riservo solo di meritarmi disprezzo ed eventuali elogi per lo sfogo a cui qui è sottoposta.

Characters: Ginevra Weasley, Harry Potter, Draco Malfoy (e qualcun altro).

Genre: Angst/Drammatico.

Summary: FanFiction ispirata alla leggenda di Danae, fanciulla greca murata viva dal padre e fecondata da Zeus sotto forma di pioggia d’oro, secondo molti divenuta simbolo della volubilità e voluttà della donna. Cosa succederebbe se sogni ed illusioni dovessero scontrarsi con la dura realtà? Racconto di una battaglia per la vita e per la comprensione, senza bene, male, giusto o sbagliato, ma solo l’ineluttabilità delle proprie scelte.

Notes: “Danae’s Truth” (La Verità di Danae) è la mia prima fanfiction dopo tanto tempo. L’ultima l’ho scritta due anni fa. Oggi ritorno e ritento per mettermi ancora alla prova.

Il titolo è riferito sia al mito greco di Danae, murata viva dal padre e fecondata da Zeus sotto forma di pioggia d’oro, sia all’interpretazione che di questo dà Gustav Klimt, nel suo magnifico dipinto, fonte primaria della mia ispirazione, assieme alla mia particolare fissazione per i casi della vita che ci pongono di fronte a ciò che io chiamo “teorema della necessità”. Ovvero la costrizione delle scelte dataci dai precedenti insegnamenti ricevuti che ci spinge a convincerci di negarli o confermarli a seconda dell’intenzione. E che può portare ad una serie di diverse conseguenze.

Non è una fanfiction semplice. È contorta, in ogni sua frase, che può persino apparire completamente senza senso, estrapolata dal contesto. Spero solo di essermi avvicinata il più possibile alla meta che avrei voluto raggiungere. Di soddisfare chi vorrà leggere come ho soddisfatto me.

Dedicated to: Chiara (Thilwen) [E c’è da chiederlo?]

Thanksgivings: A Chiara (Thilwen), perché senza di lei tutto ciò non ci sarebbe mai stato, e la mia estate, come ogni mio giorno, sarebbe stata colma solo di rimpianti. Grazie, grazie sempre, grazie di tutto!

A Gustav Klimt, alla sua stupenda Danae, che è un po’ anche Ginny Weasley messa a nudo (in ogni senso), alla sua arte, all’amore di ogni suo quadro che è Storia ed è una storia.

A “Wish you were here”, Pink Floyd, canzone di questo mio anno, di lacrime e speranza di futuro, che ha saputo ancora una volta risollevarmi nel bel mezzo di questa fic.

A chi vorrà leggere.

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Prologo

 

Forse non ne era valsa la pena di precipitarsi fuori così, con quel freddo che serpeggiava lungo le braccia, sotto al mantello pesante e scuro dagli alamari sbottonati e scrostati, quel freddo che bloccava il cuore su un solo, lungo, unico battito, la mente in una morsa di gelo.

Aveva cominciato a nevicare giorni prima, da allora non aveva più smesso. La neve morbida e bianca si posava su altra neve ormai sporca e indurita ai lati della strada, assomigliava a polvere di zucchero mentre si librava nell’aria, si ritrasformava in desolazione appena toccata la chioma lunga e disordinata sulle spalle, la stoffa nera che copriva quasi casualmente le braccia conserte, le dita intirizzite, il suolo grigio e ghiacciato.

Chissà dove portava la strada, così lunga lì davanti, sembrava salire sempre più verso l’alto, o forse scendere troppo sotto la via fredda e silenziosa, oltre la stessa parvenza di vita dietro alle tende di ogni finestra, oltre il bianco sporco e incrinato dal fango, oltre l’incerta ed incalzante angoscia.

 

Dove sto andando?, pensò fermandosi al centro della strada, sola, inerme di fronte a se stessa.

Dove sto andando?

 

Ginny Weasley bloccò i suoi passi insieme al violento flusso che le invadeva il cervello, veemente e insensata corrente di ampi pensieri inconsistenti e rumorosi, calma Ginny calma.... Lungo respiro profondo, come diceva la mamma, ma la mamma non conta più respirare Ginny, calma....

Chiuse gli occhi, ansimando come se avesse corso per lungo tempo, le mani intrecciate nervosamente, le labbra tremanti, l’ansia e l’urgenza delle lacrime dietro alle palpebre sbarrate e il peso della troppa quiete scesa giù dai tetti grigi fin sopra alle sue spalle.

Dove sto andando? iniziò nuovamente a chiedersi il suo sguardo assente, mentre vagliava incurante il viale infinito davanti a lei, scandito da infinite plumbee case tutte uguali, infiniti grigi comignoli tutti uguali, infiniti mucchi uguali di neve sudicia e mattonelle sporche del marciapiede al lato del lunghissimo ed uguale nastro scuro della strada.

Si strinse ancora di più nel mantello e ricominciò a camminare, questa volta più lentamente, un passo davanti all’altro, calma, piano, calma, piano...

 

Cos’hai fatto Ginny?, si chiese. Non sapeva cosa ci facesse lì, in quella strada babbana troppo lunga per il gusto dei suoi piedi indolenziti. Non sapeva cos’era successo veramente qualche ora prima, forse erano state le urla di sua madre troppo forti alle sue orecchie insofferenti, gli sguardi di suo padre pesanti e delusi sul viso, il freddo, la tristezza in casa, densa e amara, le parole soffocate, sussurrate tanto piano da sembrare tanto poco importanti, perché erano sempre stati felici, dopotutto, non è vero mamma?

“No, Ginny, non possiamo essere felici della miseria.”; invece, un sibilo basso e penetrante, veleno nero che rode l’inconsapevolezza, alza le cortine dell’illusione, spinge oltre ciò che è stato verso l’oscurità di un presente sconosciuto.

Cos’è il futuro? L’acida e incapace tensione a casa? La fine infinita di questo nodo d’asfalto?

Perché tutto era cambiato così? Forse perché tutti avevano capito prima di lei come sarebbe andata, erano fuggiti in tempo?...

Ron non era riuscito a sopportare l’incombenza di un futuro trascinato per la sopravvivenza della famiglia. Era fuggito con Hermione, negli Stati Uniti, si diceva, pur di tentare una scelta che gli fornisse il beneficio di un dubbio possibile da costruire, insieme a lei, che aveva amato dal sempre di quel suo lontano primo anno ad Hogwarts, aldilà del naso all’insù e dei denti grandi, dei capelli crespi e della sua voce perentoria, nell’amore inevitabile della consapevolezza di non conoscere nessun altro così bene e così a fondo come il volto sempre accanto al proprio.

Il negozio di scherzi di Fred e George era fallito ancor prima di cominciare. Le loro ambizioni per quel che credevano un futuro a portata di mano li avevano portati ad affidarsi ad uno strozzino, che aveva stroncato quegli stessi sogni con i suoi interessi troppo alti. I signori Weasley dettero loro tutto ciò che era rimasto di anni di risparmi, e poi non li videro più.

Bill era stato licenziato. Sovrabbondanza di personale. Dopo tre mesi di proteste per la sua mancata liquidazione era stato riassunto alla Gringott, ma come fattorino.

Charlie era disoccupato. Faceva qualche lavoretto saltuario, sempre in Romania, non aveva voluto spostarsi dal luogo in cui aveva donato tanto amore ai suoi draghi, sequestrati dal ministero in allerta, ritenendoli possibili armi per l’esercito che  il Signore Oscuro andava raccogliendo lungo il suo cammino.

E Ginny, la piccola Ginny?

 

Troppi confini immaginari le erano rimasti indietro, nel tentativo di trovare una buona scusa per fermarsi.

Qual è la scelta più ovvia tra la peggiore delle certezze e il più incerto dei futuri?

 

Un enorme frastuono dietro di lei le fece perdere un altro battito. Si voltò di scatto, soffocando un singulto per i nervi.

Alla sua sinistra si spalancò con un per niente incoraggiante cigolio l’entrata di un autobus viola, a tre piani, alquanto sgangherato. Si passò la mano fra i capelli, portandoli indietro. Sospirò e salì i due gradini di fronte a lei.

Il conducente del nottetempo sfiorò con lo sguardo l’impetuoso fiume rosso sulle spalle della ragazza, indugiò sulle lentiggini fitte sulle guance, e chiese con voce incolore:

-         Dove sta andando?

Ginny ebbe un sussulto, chiuse gli occhi e si strinse nelle spalle.

-         A Diagon Alley – sussurrò sospirando.

 

*

Il viaggio era stato lungo, troppo lungo, o forse era la notte che sembrava non passare mai, scandita dai sonori sobbalzi del mezzo. Lei non aveva dormito. Si era seduta, fissando il velluto consumato del sedile davanti a sé, immobile, gli occhi grandi e ambrati spalancati sul silenzio, forse dentro al vuoto di se stessa; le mani abbandonate sul grembo non avevano che un sussulto a qualche scossa inaspettata.

La prima luce filtrò dal finestrino opaco accanto a lei, e solo allora spostò il suo sguardo fuori, oltre la caligine mattutina, verso un cielo annebbiato e spesso, ma graziato dal giorno.

Scendendo, accompagnata dal cigolio della porta scorrevole, fissò il fondo indefinito e lontano della via, anche questa troppo lunga e troppo silenziosa di fronte ai suoi occhi.

E ora? Busserò a tutte le porte chiedendo del mio destino? Sperando che vi sia un cantuccio anche per me nella carità della gente? Non c’è ambizione per chi vuole un presente, o crede di averne bisogno. Forse starò qui, a versare lacrime che non potrò neanche comprendere, perché finora ho visto tutto questo da sopra le spalle degli altri. Forse piangerò e fuggirò attraverso una goccia salata e cercherò la gioia di un fiocco di neve. Forse smetterò di esistere adesso e perderò me stessa e sarà tutto più facile.

Appoggiata contro un muro, qualcuno le scosse la spalla strappandola al suo pianto.

Due occhi fitti e pungenti come capocchie di spillo la colpirono in piena fronte quando alzò il viso, la squadrarono con attenzione, e arricciando il naso e inarcando le sopracciglia esclamarono:

-         E tu da dove salti fuori?

Ginny guardò la donna che le era davanti, bassa e ben piantata, vestita di un mantello nero e spesso, da cui emergevano due occhi azzurri gelidi e sottili circondati da qualche ciuffo ribelle e scuro.

-         I- io?

-         Hai bisogno d’aiuto?

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I - ***


Capitolo I - Presente

 

Fuori era ancora neve, e ancora e ancora. L’inverno era iniziato freddo e aveva continuato gelido e sempre più bianco, vestendo gli alberi di nastri candidi e stalattiti di cristallo.

Dalla finestra tutto sembrava più bello, rami scuri contro un cielo abbagliante e turbinoso, nell’aria calma e calda della stanza, lenzuola pulite come il paesaggio fuori, trapunta spessa come le nuvole.

Il corpo nudo di Ginny sotto le coperte stava immobile. Si passò una mano in mezzo al fiume disordinato sulle spalle, portò indietro le ciocche che le coprivano gli occhi, scomposte dal sonno breve e agitato.

Sdraiata su un lato, tese l’orecchio destro per catturare il respiro dell’uomo steso accanto a lei, che riempiva col suo ansare rumoroso la piccola stanza. Niente da fare, dormiva ancora.

La ragazza si alzò dal letto, scuotendo nel frattempo apposta il molle materasso nel tentativo di far ridestare l’ospite che si era possessivamente impadronito del cuscino.

Si infilò la vestaglia azzurra e leggera, pettinò ancora nervosamente i capelli con la mano e sbuffò.

Si morse un labbro, quindi scrollò le spalle.

-         A mali estremi... – mormorò.

Prese un angolo della coperta e la gettò ai piedi del letto, poi si sedette su un pezzo di bordo libero, accarezzando il collo all’ospite. Ancora niente.

Gli diede un pizzicotto.

-         Ahi! – l’uomo fece un balzo, aprendo repentinamente gli occhi.

-         Oh... mi scusi Mr. Nott, non intendevo svegliarla... – fece lei con aria noncurante, alzandosi e spalancando la finestra. L’uomo rabbrividì.

-         Non le piace l’aria fresca del mattino? E’ proprio una toccasana, vero? – prese la spazzola sul comò e cominciò a pettinarsi senza aspettare risposta.

In silenzio, questi si rivestì, guardandole la schiena coperta dal tessuto sottile.

Quando ebbe finito, si avvicinò e la prese per le spalle, sfiorando le labbra della ragazza con le sue.

-         Ci vediamo, bellezza.

Ginny aspettò che uscisse dalla porta. Quindi sbuffò di nuovo, passandosi velocemente una mano sulla bocca, biascicando qualcosa simile ad un “Bleah...”.

 Lasciò che la vestaglia le scivolasse via per poi richiudere immediatamente la finestra, massaggiandosi le spalle infreddolite, quindi si rivestì anche lei, dopo aver recuperato la biancheria intima gettata per terra, in un angolo della moquette marrone, vicino alle gambe dell’armadio.

 

Andando oltre il cono scuro delle scale arrivò nella cucina, bassa e accogliente, piena di bei mobili intensi di ciliegio, che riempivano meglio lo spazio allargato dalle pareti bianche.

Ginny non entrò, appoggiò una mano allo stipite della porta e sfiorò tutto con uno sguardo trasparente. La donna seduta al tavolo rotondo alzò gli occhi dal suo libro e abbandonò la tazza di caffè che prima teneva stretta in mano. Arricciò il naso piatto e olivastro, riordinando le idee e accendendo gli occhi azzurri e taglienti.

-         Ben fatto, Ginevra. Mr. Nott sembra essere rimasto soddisfatto, ha anche lasciato qualcosa in più, assicurando che tornerà.- così dicendo spinse verso di lei alcune delle monete che si trovavano sul tavolo, senza un sorriso, appena un brillio accennato in fondo agli occhi.

La ragazza si strinse nelle spalle. Guardò un attimo le monete, le mise in una tasca dell’ampia mantella, poi fece un cenno con la testa e, senza guardare oltre la donna, uscì, a labbra strette, chiudendo dietro il calore della casa ed il rigido chignon della padrona.

Era ancora troppo presto per sperare di trovare la folla del mezzogiorno, a quell’ora del mattino, a Diagon Alley. In genere cacciava il prima possibile il suo ospite notturno e poi stava a letto fino a tardi, la testa sepolta sotto al cuscino, pensando al niente.

Aveva fatto così la prima volta, e la seconda, e sempre da due mesi a quella parte, tentando di soffocare nel silenzio e nel calore il ricordo ancora vivido di quelle mani urgenti ed ansiose sopra di lei, dei corpi esigenti che lasciava entrassero ed uscissero chiudendo gli occhi, stringendo le labbra, trattenendo le lacrime.

La prima volta che era successo si era lasciata gettare sul letto e sfilare i vestiti ferma, in silenzio, in silenzio aveva sopportato ed immobile aveva tentato di ancorarsi al materasso, nel tentativo di non lasciarsi trascinare via dalla brutalità sopra e dentro di lei.

La mattina dopo, quando Mrs.Greystone l’aveva attraversata coi suoi occhi-spillo, lei era arrossita ed aveva abbassato lo sguardo.

-         Io... mi dispiace, signora. Credo di non esserne in grado. Davvero.

-         Di cosa? Di sopravvivere? Beh, sì, è difficile. Ma io ti ho dato un’opportunità. Che forse non dovresti sprecare.

-         Ma... non ce la faccio. Non... riesco. Non posso. Io...

-         Tu? O ciò che hai avuto finora? Ciò che eri, ciò che ti è stato inculcato? Dove sta il problema, nella morale, forse?

-         Io... non so...

-         Infatti. Tu non sai. Ma io posso insegnarti, e alla fine vedrai che ti riuscirà tutto più facile. Questa strada è tutta in discesa, tesoro, una volta imboccata. Fidati di me. E soprattutto, di ciò che vuoi e puoi avere, adesso.

Non sapeva cosa l’aveva spinta a restare. Forse la sua impossibilità di scegliere. O la sua incapacità di farlo. Forse. Forse era davvero il destino tanto chiamato venuto a raccoglierla in quell’angolo di strada, anche se ciò rinnegava le sue puerili speranze di un aitante giovane vestito d’azzurro, che l’avrebbe issata sulla sua scopa e condotta verso un azzurro orizzonte. No, decisamente. L’orizzonte che al mattino si stagliava oltre il vetro della sua finestra era grigio, o al massimo bianco sporco.

E nessuna voce melodiosa si distingueva mai in mezzo al traffico brulicante del centro del mondo dei maghi, solo parole stridule ed abiti scoloriti.

Ma almeno niente pretendeva di passarle attraverso in quell’oceano di indifferenza ed egoismo, e seduta ad un tavolo del Paiolo Magico poteva permettersi il lusso di guardare in silenzio dal suo angolo scuro, senza ansimi fastidiosi e pressanti, o simulati, richiesti da corpi sempre troppo pesanti sul suo, o forse dalla speranza ed il bisogno di una moneta in più, il giorno dopo.

E così lasciava e preferiva che le altre vite che aveva davanti le passassero accanto senza sfiorarla, senza immaginare niente per loro che non fosse quello che già leggeva sui visi stanchi, ridenti, malinconici, assaporando solamente il momentaneo potere del guardare ed emozionarsi senza essere vista, almeno per una volta, lasciandosi alle spalle le notti troppo lunghe.

A volte comprava un giornale, e leggeva. Lasciava scorrere gli occhi sulle parole senza volerne davvero comprendere il significato, pensando di averne già abbastanza di ciò che le era spettato in dote dal mondo. Però quando trovava una sola parola consolante si fermava, la girava e rigirava fra la lingua e il palato, e la conservava per l’intera giornata, ripescandola di tanto in tanto quando un viso più provato la raggiungeva, fino al momento fatidico della sera. Poi la dimenticava, ma la ritrovava ad ogni respiro profondo che recuperava, alla fine di tutto, in fondo al petto.

Trovò il suo solito tavolo libero, nell’angolo ombroso in fondo al grande locale sempre più colmo col passare delle ore, prese con calma alcuni sorsi del primo the della giornata (mai perdere le cattive abitudini, mai) e intrecciò le mani davanti a sé, guardandosi le dita.

Si sentiva nervosa, e un singulto le era salito piano fin dalla bocca dello stomaco, cogliendola di sorpresa. Scosse la testa passando gli occhi sull’umanità rumorosa a portata del proprio braccio.

Quando si alzò e se ne andò, dopo aver lasciato due opache monete di rame sul tavolo, ebbe la strana ed acuta sensazione che qualcuno la stesse fissando.

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Capitolo 3
*** Capitolo II - ***


Vi state annoiando? Ebbene, mi scuso infinitamente, ma dovrete farlo ancora per un altro capitolo. La storia entra nel vivo dal prossimo, se proprio di storia si può parlare. Comunque, prometto un aggiornamento più veloce, la prossima settimana, mi sono resa conto di starmela tirando un po’ troppo... excusez-moi di nuovo. Buona lettura (cioè... sempre relativamente...).

 

Capitolo II – Compendi d’ubbidienza

 

Il silenzio della cucina sembrava più pesante del solito, quella mattina. Lo avvertì incombere sul suo capo a pochi passi dalla porta.

Sentì un fruscio provenire dalla stanza di cui ancora non poteva vedere l’interno. Mrs. Greystone doveva essersi accorta della sua presenza, lì fuori. La chiamò con la sua voce impura ma ferma, da mezzosoprano.

-         Entra, Ginevra.

La ragazza esitò qualche secondo, colta alla sprovvista dall’invito. Voleva forse parlarle di qualcosa? Il cliente della sera trascorsa se n’era già andato qualche ora prima, e lei aveva trovato i soldi sul comò, alzatasi dopo il lungo tempo a letto. Che non fosse rimasto soddisfatto?

Oppure non era passato dalla donna, che ora esigeva la sua parte?

Quella, alzata dietro al solito tavolo, aveva le mani appoggiate alla spalliera della sedia che occupava di consueto. Quando fu sicura di avere su di lei gli occhi ambra di Ginny, le indicò un’altra sedia, di fronte alla sua, facendole segno di accomodarsi. Ginny obbedì, silenziosa e circospetta, rimuginando e vagliando ancora le ipotesi possibili sulla chiamata della padrona.

-         Caffè?

Lei scosse la testa.

La donna verso un po’ del contenuto della caffettiera nella sua tazza semivuota, si sedette ed iniziò a sorseggiare, guardando Ginny da un po’ più in basso.

-         Gli affari stanno andando bene. Sei diventata brava.

Ginny annuì senza rispondere, tentando di capire dove l’altra voleva andare a parare.

-         Quel Nott dell’altra sera era un mangiamorte. – scuoteva meccanicamente il liquido caldo nella tazza, quasi pensierosa.

-         L’avevo notato. – assentì, ricordando la pesante ombra a forma di teschio sull’avambraccio che l’aveva accarezzata.

La donna continuò a guardarla con gli occhi acuminati e scrutatori.

-         C’è un certo movimento in questo periodo, da quella parte. Hai già una certa fama. Nott non è stato il primo a venire qui. E non sarà l’ultimo.

La luce proveniente dalla lampada sopra di loro tingeva la stanza di un giallo vivido ma sgradevole, rendendo vaghi i contorni di ciò che le circondava.

-         Suppongo tu sappia già quello che sta succedendo. Si stanno formando gli schieramenti, da entrambe le parti, ed il gioco si fa sempre più pericoloso. Soprattutto per due povere donne sole come noi. – piccole rughe di un sorriso stretto e affilato come una tagliola le si formarono agli angoli delle labbra.

Ginny sorvolò sull’inquietante lampeggiare sulla bocca dell’altra reprimendo un brivido, aggrottò la fronte e intrecciò le mani. Sapeva quello che  le avrebbe detto, adesso.

-         Abbiamo bisogno di quella protezione, Ginevra cara. Ti raccomando di comportarti bene.

 

Ti raccomando di comportarti bene...

Avrebbe voluto scacciare via quelle parole che la tormentavano da quando si era, come ogni giorno, chiusa la porta alle spalle e mescolata in mezzo alla folla di rumori assordanti e visi indistinguibili.

Qualcosa le era riaffiorato sul cuore, qualcosa che le sembrava di non sentire da tanto tempo, che aveva scacciato e soffocato per l’ultima volta in quella lontana sera di Novembre.

Ginny Weasley ora riassaporava tra il fastidioso sollievo per il fragoroso brusio intorno e il chiaro sottofondo della sua malinconica sofferenza, il pungente dolore del dubbio.

Non aveva avuto problemi ad accettare la sua “nuova vita”, o così aveva ripetuto più volte a se stessa, nonostante spesso avvertisse quanto tutto ciò che stesse passando sembrava uno dei tanti terribili modi di morire che le si erano presentati davanti allora.

Aveva sepolto le sue antiche certezze sotto le lacrime già piante e si era accinta a ricominciare, se così poteva dirsi ciò che stava facendo. Ma ora, esse si ripresentavano davanti a lei più vivide e pressanti di prima, ingigantite dal tempo. E Ginny, spossata dall’acuto tormento di quelle mute domande, appena girato l’angolo, si abbandonò sul ciglio della strada, all’ombra di una grondaia arrugginita semi-staccata dal muro portante, si prese la testa fra le mani e lasciò che il fiume in piena dei suoi dubbi la invadesse.

Quando aveva accettato di fare... beh, sì, la prostituta, del resto era proprio questo quello che era, non era forse vero?, si era detta solamente che forse alla fine avrebbe potuto farcela, si trattava di non pensare pur di continuare a vivere, e la scelta era stata tra vita e morte, o così le era sembrato. Insomma, chiunque l’avrebbe fatto! ...o no?

Ma non era questo il punto. Aveva voltato le spalle alla sua famiglia quando non era ancora troppo tardi (forse), per decidere che ne aveva avuto abbastanza di loro ed aveva bisogno di indipendenza. Ma ora... non era proprio il suo sé che avrebbe rinnegato in nome di una protezione? In nome di se stessa?

Probabilmente c’era qualcosa di troppo oscuro perché potesse capirvi qualcosa. O era semplicemente tutto troppo chiaro e abbagliante.

Sarà per questo che non riesco a guardare in faccia la realtà. Ho sempre la sensazione che sia lei ad avere la possibilità ed il potere di scrutarmi in viso, quando meno ne sono consapevole. Dov’è chi mi dovrebbe spiegare cosa fare, in questo momento? Dov’è chi l’ha sempre fatto?

Una fitta alla testa le fece ricordare chi e cosa si era lasciata indietro. Si aggrappò con forza ai capelli, come usualmente lasciati sciolti sulle spalle, chiuse gli occhi e cercò di piangere, invano.

Rimase lì, tentando di dare una forma alla sfibrante angoscia che le palpitava in più parti dello stomaco, non riuscendovi, gli occhi tersi da rapace notturno asciutti e doloranti.

E forse sarebbe rimasta accasciata per terra per tutto il tempo che le era rimasto, su quell’angolo di sudiciume gratuito, come uno dei tanti rifiuti che riempivano incuranti del mondo e di se stessi i margini della via.

Se, alzando lo sguardo vacuo dal terreno dello stesso colore del suo mantello, non si fosse accorta di qualcosa di inusualmente familiare in mezzo al fiume sconosciuto che scorreva incostante davanti a lei.

Senza accorgersene, era finita in una zona da cui fino a quel momento aveva preferito tenersi lontana da quando abitava a Diagon Alley, pur di non perdersi in mezzo al profondo mare dei ricordi inevitabili; quella dei negozi più frequentati del centro, quelli in cui, come tanti studenti prima e dopo di lei, era entrata il giorno precedente all’inizio di ogni suo nuovo anno ad Hogwarts.

E ora, davanti ai suoi occhi, che fissava con smodata e nervosa attenzione la vetrina del Ghirigoro, c’era qualcuno che in quel momento non sapeva se sarebbe stata felice di vedere.

Proprio lì davanti, agitato e insicuro mentre si voltava a scatti a destra e a sinistra più per abitudine che per altro, c’era Harry Potter.

Non si mosse, sorpresa, la mascella bloccata a mezz’aria. Si chiese cosa ci facesse lì, cosa facesse. Fece per avvicinarsi, quindi si bloccò di nuovo, pensierosa. Non l’aveva vista, o perlomeno, non dava alcun segno di averlo fatto.

Stette ancora ferma a fissarlo, indecisa sul da farsi, quando il ragazzo a pochi metri da lei si mosse e cominciò a camminare. Ginny si portò il dito indice alla bocca, per tormentarsi il labbro inferiore; lasciò che egli mettesse qualche altro metro tra loro e cominciò a seguirlo.

Sembrava fosse solo, e sembrava anche che ciò lo agitasse. Camminava a zig zag, mal destreggiandosi tra la calca, le grida dei venditori e le facce troppo o ben poco indaffarate.

Lei misurava i suoi passi, guardandosi intorno con una certa esercitata indifferenza. Di tanto in tanto lo cercava con gli occhi, per essere sicura di non perderlo; e nel frattempo pensava.

Era sparito dopo il diploma. Inutilmente lei e la sua famiglia avevano chiesto e quasi supplicato Silente di metterli in contatto con lui, ma il vecchio aveva sempre rifiutato come solo lui sapeva fare, scuotendo sorridente la lucente testa canuta, congedandoli con gli occhi.

Sua madre aveva pianto più che per Percy, e forse fu proprio allora che consumò tutte le sue lacrime e cominciò ad affrontare il pesante presente a labbra strette, in quella parvenza determinata che sembrava la figlia avesse ereditato. Non pianse per nessun altro dei suoi figli, l’amore donato gratuitamente al più gradevole dei prototipi del perfetto orfano, dopo che le fu strappato via, aveva già colmato lo spazio per qualsiasi colpo finale.

Inutili congetture avevano riempito lo spazio di quegli anni nella mente della ragazza. Inutili e dolorose. Non credeva che ne sarebbe uscita viva, non dopo quello che era successo. Sì portò una mano al fianco. No, niente aveva ancora chiuso quella vecchia ferita.

Silenzio e buio, umida oscurità. Troppa poca  pelle per le mani desiderose, sudore, salato sulla lingua.

-         E adesso? – aveva domandato, chissà se a lui, se a se stessa o alla notte dentro e fuori la stanza.

Egli le aveva passato una mano sul bacino, impacciato, a mo’ di carezza. Il suo sguardo imbarazzato era corso dalle labbra umide e dischiuse di lei al rosso vischioso tra le sue gambe. Si era appiattito con un gesto tremante la frangetta disordinata sulla fronte.

-         Non so. Ho la sensazione che abbiamo fatto uno sbaglio.

La fronte aggrottata di lei gli aveva fatto abbassare lo sguardo.

-         Ginny... saremo mai capaci di sopportare tutto questo?

-         Credi di no?

-         Non credo. – un sussurro più tagliente dell’intenzione, un alito di familiarità dall’uscio, una porta che si chiude.

Il vuoto dell’assenza.

Urtò per sbaglio qualcuno, passò avanti senza dire una parola, senza essersene accorta, gli occhi che lampeggiavano verso la fitta aureola nera. Si conficcò improvvisamente le unghie nei palmi, i denti tenuti stretti non modificavano l’espressione impassibile.

Aveva svoltato a destra, inconsapevole e concentrata, e il paesaggio era cambiato. La folla diradata girava a testa bassa, troppo occupata di per sé, le vetrine dei negozi erano diventate opache, il mormorìo più basso, ma più esacerbante. I pochi sguardi alzati più audaci.

Ginny si fermò d’un tratto. Sentì diverse paia di occhi posarsi sul fitto manto della sua chioma e sul suo viso lentigginoso. Si strinse istintivamente nel mantello e fece indugiare gli occhi sulla sua sinistra, dove qualcosa attirò la sua attenzione.

Era all’altezza del numero 37 di Notturn Alley.

Notturn Alley.

Fece un passo indietro.

Cercò la figura familiare davanti ai suoi occhi, ma si rese conto che era scomparsa.

Borbottò qualcosa a mezza voce.

Complimenti Ginny.

 

“Ti raccomando di comportarti bene”.

 

***

Ringrazio tutti coloro che hanno commentato! Anzi, specifichiamo:

Thilwen: (Eh... Ehm... Signorina... Grazie per il commento... sono felice che la storia le piaccia... E... Ecco... Grazie ancora.) A parte gli scherzi, hai visto la fic crescere, mi hai incoraggiata, spinta quando ne avevo bisogno. Tutto il mio lavoro è soprattutto merito tuo, e lo sai. Ma non smetterò mai di ripetertelo. Forse, più che altro, si stancherà chi legge. Ma ho molti altri lavori da parte, tra l’altro tutti a te dedicati, ci faranno l’abitudine...

Abigale: Grazie, anche se ho già avuto modo di farlo via e-mail (abbiamo avuto modo di dirci “grazie” abbastanza). Non sarà mai abbastanza per la tua gentilezza. E le parole sono pioggia, ma possono anche portarla via, e sono felice di esservi riuscita per te, come tu hai fatto per me con “Field of Innocence”.

cloudy-chan: Beh, incuriosire è il primo passo per legare. Sono contenta che ti piaccia, spero che succederà anche e soprattutto con la parte interessante, che prometto invierò presto! Tutto dipende dall’incoraggiamento, comunque.. ;P

Briseide: Che dire? I tuoi commenti mi hanno fatto un piacere immenso, quasi sento di non meritarli. Hai colto quello su cui ho studiato mentre scrivevo, e questo è il complimento migliore che potessi ricevere. Hai dato poesia a quella che è tecnica, però. Grazie, grazie davvero, sono senza parole.

Helen Lance: Grazie davvero per i complimenti. È già tutto deciso, la fanfiction è stata finita tempo fa. La storia è il percorso di Ginny da un’incapace rimorso ad un’accettabile rassegnazione. Ed ovviamente, aiuterà qualcuno che la aiuterà a crescere in questo senso. Dal prossimo capitolo sarà tutto più chiaro, davvero. O forse creerà ulteriori dubbi, ma il dubbio è il vero protagonista della storia.

Takami: Grazie anche a te. Spero che continuerai a leggere.

Gioia: Inutile dire che sono lusingatissima dal tuo commento. E’ stato davvero inaspettato, ma una sorpresa stupenda. Grazie dei complimenti, in effetti questa è più una fanfiction da commentare a fine storia, ma la meravigliosa  vanità del capitolo agisce anche su di me... Ah, e aggiungo che le storie campate in aria hanno il loro fascino, almeno secondo me. Senza surrealismo non vi sarebbe modernismo, e scriveremmo tutti come Manzoni (aaaaarrrghhh!)... scrivere senza radici è reinventare!

Hermia: Beh, tento di far apparire distaccato quello che non lo è, è un’impressione che mi piace dare con la pseudo-terza persona, che in realtà è un flusso di coscienza. I pensieri visti da fuori possono apparire lontani. Grazie, comunque. Ma devo deluderti dicendo che non rivelerò chi la stava fissando. E’ forse chi pensi, forse non lo è, forse era una mera impressione di Ginny, che in realtà è un po’ paranoica, ma comprendiamola, poveretta. Io non avrei avuto il coraggio di affrontare tutto questo, credo. Ma troverà la spalla per la sua tragi-commediola, don’t worry... e grazie ancora!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo III - ***


Capitolo IIIGrigie oscurità

 

Complimenti Ginny.

 

“Ti raccomando di comportarti bene”.

 

Il primo pensiero che le venne fu quello di tornare indietro. Subito. Immediatamente.

Era ferma in mezzo alla strada, e gli occhi puntati avanti guardavano senza realmente vedere.

Poi si riscosse.

No. Harry.

Ricominciò a guardarsi attorno con una certa caparbietà. Forse era entrato in qualcuno di quei negozi.

Si portò su un lato della strada, camminando lentamente, decisa a non destare l’attenzione.

Non aveva idea del perché  lo stesse seguendo. Dopo averlo visto, un meccanismo inconscio era scattato dentro di lei, e non sapeva che cosa avrebbe fatto una volta trovatolo. Che cosa gli avrebbe fatto.

Il suo primo impulso era stato di avvicinarglisi per dargli uno schiaffo. Poi qualcosa era sopraggiunto insieme alla rabbia, qualcosa come un ricordo di, se non amore, almeno di affetto, nei suoi confronti. Il suo cuore aveva ricevuto una leggera stretta. Le era mancato.

Si era ritrovata molto spesso, in quegli anni, a pensare a lui. Lui che era sempre stato tutto ciò che avesse mai desiderato, tutto ciò che non aveva mai avuto (forse, a pensarci bene, le due cose erano prettamente consequenziali). Aveva cercato in tutti i ragazzi con cui era stata la dolce armonia dei suoi occhi smeraldo, il profumo vellutato della sua pelle, il tocco di quei capelli scarmigliati sul suo collo, e aveva continuato ad aspettarlo. Fino a quella notte, quando l’aveva finalmente avuto; poi se n’era andato. Uscito dalla sua vita, come da quella di tutti.

Sapevano che era stato l’anziano preside di Hogwarts a portarlo via. Via dai confini del loro amore, per il suo bene, per il loro, per il bene del mondo, avrebbe detto.

E allora lei aveva sperato.

Aveva sperato che lui si fosse chiuso quella porta alle spalle puramente per l’ineluttabilità del fato che gli era stato assegnato, per non farle soffrire la sua mancanza, ma che sarebbe ritornato, il più presto possibile, in quel letto, fra le sue braccia.

Lo avrebbe aspettato tutto il tempo necessario, così si era detta. Ma il tempo necessario non è infinito, e la dolcezza di una speranza non è mai abbastanza per riempire dei giorni troppo vuoti.

Ci sono avvenimenti che non smettono mai di pesarti sulle spalle.

Si accorse che le era venuto il singhiozzo, come sempre quando era estremamente nervosa. Strinse ancora di più i denti, senza alzare gli occhi dal terreno, sollevandoli solo di tanto in tanto per guardare oltre le vetrine al suo fianco, in quelle stanze polverose e buie che sembravano tutte deserte.

Ad un certo punto si fermò. La strada sembrava continuare all’infinito, e scendere sempre più in basso, in curve tortuose che sembravano richiamare i gironi infernali, e lei era stanca. Non sapeva quanto doveva aver camminato, e si fermò un attimo a riprendere fiato.

Non le piaceva il posto dove era andata a finire.

Era buio, sporco, poco affollato, ma da quel genere di persone che non ti piacerebbe incontrare, pensò.

Aveva guardato in alto. Il cielo si era fatto più scuro, sembrava che le nuvole si fossero infittite.

E lei era sola.

Non poté reprimere un brivido.

Alzò lo sguardo nel tentativo di trovare qualcosa di rassicurante, ed incontrò un paio di occhi neri a un metro dai suoi.

Trasalì per un attimo.

-         Bellezza. – riconobbe la voce e le grandi mani, sue padrone per una notte.

-         Salve, Mr. Nott. – disse a bassa voce, facendo appello a tutta la sua fermezza mentre affrontava il sorriso quasi ghignante dell’uomo.

Quegli si avvicinò di qualche passo.

-         E cosa ci fa qui una bella ragazza tutta sola? Non è certo posto per la passeggiatina quotidiana.

Aveva abbassato di nuovo la testa.

Gli angoli della bocca di lui si erano allargati.

-         Ma forse, ora che sei qui, potresti fermarti per una chiacchierata.

Le aveva teso una mano. Una mano grande, lievemente abbronzata, quasi invitante. Se poco più in alto non vi fosse stato quel sorriso. Si era sforzata di guardarlo negli occhi neri, profondi come due buchi in un’oscurità penetrante. La stessa che le sue lunghe notti portavano con sé.

Non rispose, ma fece un passo avanti, ignorando il palmo bianco, dopo averlo esaminato tentando di apparire noncurante, con una certa riluttanza.

Le labbra dell’uomo si riavvicinarono. Si voltò per entrare da un uscio lì davanti, girandosi di nuovo verso di lei per controllare che vi fosse ancora.

Lo seguì. Represse un singulto.

Era stata tentata dal rifiutare, o almeno dal giragli le spalle ed andarsene, ignorando i lucenti fori neri che adesso cercavano la sua figura lì accanto.

Ma poi si disse che non ne sarebbe stata capace. Provava ora una sorta di reverenziale timore che l’aveva privata dell’impulso con cui poco prima era ostinatamente andata avanti per la via malfamata.

Non riusciva a spiegarsi. Aveva avvertito qualcosa sulla testa, una sorta di senso d’impossibilità. Del resto, lui non l’avrebbe lasciata andare.

Lui non avrebbe...

La sua coscienza si morse le labbra per la futilità delle sue giustificazioni.

-         Prendi qualcosa, regina? – erano seduti l’uno di fronte all’altra.

Si voltò di scatto, dall’ombra al suo viso, nero su nero nel locale buio.

Gli rivolse uno sguardo interrogativo.

-         Ginevra non era forse la consorte di un re? – la sua voce si assottigliò quanto i suoi occhi.

Ginny si strinse nel mantello. Quella mellifluità la infastidiva, la infastidiva il fatto che lei stessa tentasse di non farglielo notare.

-         Un idromele, grazie.

-         Un idromele e un idromele doppio! – alzò la voce per farsi sentire da dietro al bancone.

Il suo sguardo incontrò di nuovo quello della ragazza, allungò la mano per accarezzarle le dita, forse per accorciare l’attesa di quella quiete troppo spessa.

-         Nott. – una voce sovrastò il silenzio. Il mangiamorte ne individuò il proprietario oltre la testa di Ginny, che si voltò, confusa.

-         Nott, vedo che hai compagnia. – la ragazza poté distinguere solamente una macchia chiara che prendeva posto alla sua destra.

Gli occhi ambra cercarono l’uomo davanti a sé, che ora rivolgeva un sorriso forzato al nuovo arrivato.

-         Malfoy... – mormorò in saluto.

Ginny avvertì la sua mascella indurirsi sotto l’esame dei due occhi grigio ferro.

Non riuscì a fermare il rossore che le invase le guance, repentino come il suo stupore. All’improvviso si rese conto di non sapere dove guardare per dissimulare l’imbarazzo e la curiosa sensazione indefinita che le si era formata al centro dello stomaco.

Tentò di aggrapparsi ad un pensiero sensato, uno qualsiasi, e si accorse quanto le riusciva difficile trovarne.

Qualche piega incuriosita si era formata agli angoli degli occhi chiari dell’uomo.

-         Forse conosci già la nostra bella Ginevra, Malfoy... – Nott si mostrò leggermente contrariato dall’interruzione.

-         Forse? – la voce profonda prese un tono interrogativo.

-         La nuova ospite di Mrs.Greystone.

-         Mm. Capisco.

Ginny chiuse gli occhi. Doveva concentrarsi su qualcosa. Su qualunque cosa. Qualunque cosa non la facesse pensare. Pensare di essere di fronte al suo acerrimo nemico, nemico di sempre. Fin dai tempi di Hogwarts. Dimenticati, lontani, inesistenti (oramai).

Inesistenti...

-         Cercavo proprio te, Nott. A quanto pare hai combinato un pasticcio in uno scambio di messaggi. – le labbra pallide si stiracchiarono in un sorrisino a metà fra il divertito e lo schernitore – Avery vuole parlarti. E’ qui fuori, ed è abbastanza... come dire... poco ben disposto? nei tuoi confronti.

L’espressione sul volto dell’uomo di fronte a lei s’indurì. Si alzò senza ribattere, né lasciare all’altro possibilità di continuare. Sfiorò mentre usciva i capelli sanguigni della ragazza. Che non si voltò. fece altro.

Malfoy ebbe un altro luccichio in fondo agli occhi metallici guardando oltre la vetrina opaca. Increspò gli angoli della bocca.

-         Allora, Ginevra. Non ci conosciamo?

Ginny non seppe se abbandonarsi alla meraviglia o all’ira, che in quel momento le combattevano a metà della gola.

-         Forse? – i suoi occhi lampeggiarono sarcastici – Credevo che certe cose fossero difficili da dimenticare. Ma forse – e qui si fermò con enfasi – un Malfoy ha ben altro da pensare, ben più importante delle vecchie... rivalità, risalenti ai lontani tempi della scuola. – sbuffò in qualcosa di simile ad una risata nervosa.

Le sopracciglia dell’uomo al suo fianco si inarcarono. Vi fu un attimo di religioso e sospeso silenzio.

-         Weasley? – abbracciò con uno sguardo i lunghi capelli rossi e gli occhi cristallini lucenti di stizza, con la bocca semi-aperta, come a non voler credere ai suoi occhi.

Si fermò, come considerando ancora l’ipotesi, senza smettere di fissarla. Ebbe un sorriso ironico.

-         Beh, considerando che ti mancano i palettoni della Granger... sì, devi essere proprio tu.

Qualcuno poggiò sul tavolo due boccali colmi di liquido profumato. Qualcun altro borbottò un “grazie”.

L’uomo afferrò quello davanti a lui, e lo poggiò sulle labbra chiare, quasi indistinguibili sul viso diafano.

-         Weasley... – sembrò rigirarsi quel nome in bocca, troppo a lungo – Weasley. – scoppiò a ridere.

Lei gli gettò un’occhiata carica d’odio, ignorando il boccale colmo davanti a lei.

-         Non mi hai ancora detto come tu sia diventata... com’era? “ospite”? della signora Greystone? – represse un’altra risata.

-         Devi ancora spiegarmi cosa ci trovi di tanto divertente, “mangiamorte”. – sfiorò con uno sguardo schifato l’avambraccio coperto di Malfoy, nel punto in cui sapeva si trovava il marchio nero.

-         Beh, sai... una Grifondoro pezzente e babbanofila, pazzamente innamorata di Potter, pazzamente!, che finisce a fare la puttana d’alto borgo per i mangiamorte... – il suo tono sottile e crudele le s’infilò sotto la pelle – Sai? Proprio quelli come me. Non è una barzelletta?

Ginny strinse i denti. Una nota di sardonica indulgenza comparve nel tono dell’uomo.

-         Oh... scusa... Forse avrei dovuto riconsiderare il “pezzente”... – rise ancora.

Ginny ebbe l’istinto di abbassare gli occhi e piangere, ma decide di non concederselo, non davanti a lui, nei cui occhi le sembrava di leggere l’ironia verso quello stesso lancinante conflitto interiore che tentava di sopprimere da mesi.

Scosse la testa, mentre gli occhi le lampeggiavano.

-         Mm. Certo, Malfoy. Notevole come chi passa al male per scelta fa ironia su chi si sacrifica per necessità...

Per un attimo vide l’espressione perennemente trionfante sparire dal volto dell’interlocutore. Per un attimo.

-         Interessante teoria, Weasley... – qualcosa di affilato ricomparve sul viso dell’uomo.

Ginevra si sentì toccare a una spalla.

-         Bene, Malfoy... – la voce di Nott strascicò le parole con una certa enfasi – Grazie della compagnia e del disturbo. – uscì fuori dalle labbra socchiuse una s allungata e sibilante.

-         Non c’è di che, Nott. Non c’è di che. – fece quegli alzandosi, senza staccare gli occhi dall’impetuoso fiume di astio che sgorgava dagli occhi della ragazza – Bene. Allora... vado, ma almeno la compagnia in cui ti lascio io è ottima. – si congedò con uno schiocco involontario delle labbra, ed un’ultima occhiata ferrea.

Il frusciare del suo mantello riempì un’ultima volta l’oscurità del locale.

-         Io... forse è meglio che vada. – pronunciò Ginevra a voce bassa ma chiara, alzando gli occhi sulle mani abbronzate che ora le stringevano le spalle.

Un piccolo lampo di sorpresa riempì gli occhi dell’altro.

-         Sì. Certo. – fece, porgendole nuovamente invano la mano, mentre ella si dirigeva verso l’esterno, alla luce del grigio sole invernale, un ultimo sospiro e bagliore di occhi dorati.

 

 

Un po’ di tempo finalmente, anche se è davvero poco. Avevo promesso un aggiornamento più veloce, ed eccolo qui, ne avevo bisogno. Ho l’impressione che adesso le settimane mi sembreranno più corte, visto che è iniziata la scuola, e mi sento già distrutta. Beh, almeno leviamoci dai piedi questa Verità (soggettivissima, come sempre), al resto ci si penserà dopo.

Thilwen: Ginny è una prostituta vergine, già, perché non avrà mai il coraggio di svendersi abbastanza. È un’idealista, neanche la sopravvivenza le sembra motivo sufficiente per concedersi, ma la sua pseudo-morale, inculcatagli da una famiglia che vuole rinnegare ma a cui non riesce davvero a rinunciare (è pur sempre una Weasley della peggior specie...) le concederà l’involucro di cui avrà bisogno. C’è una Weasley e c’è un Malfoy, ma il sentimento è solo una scusa, quindi ci sarà un motivo per cui non ho definito la fanfiction “sentimentale”, cosa che la rende meno fruibile di tante altre, unfortunately...Sono tutte cose che sai, ma ti sto puramente utilizzando come sfogo, visto quante volte lo sei già stata, tesoro. E ricorda che non sei prolissa, ma sei una delle poche che riesce sempre a dire tutto ciò di cui c’è bisogno. E di certo non sarei qui adesso a lamentarmi delle mie fortune per via della stanchezza, se non ci fossi tu... Ebbene, sto delirando. Liberissimi tutti di ignorarmi, sarà l’idea di dover abbandonare presto la postazione computer a frustrarmi...

Helen Lance: No, niente svolta definitiva, non ancora. I capitoli (epilogo a parte) sono sette, quindi, a buon rendere, dovrete sopportarmi ancora per un po’. Ma vi do l’autorizzazione ad abbandonarmi per lasciarmi ad impazzire da sola, non c’è problema, sento di essere sulla buona strada. Grazie per i complimenti, allora!

Hermia: Sono felice che ti piaccia, ognuno di questi commenti è per me un peso in meno. Grazie davvero per i complimenti, sono contenta che mi diciate anche solo di avere uno stile, è un passo avanti. Ma temo di dover fare un piccolo appunto su quel ricordo. Pensavo si riuscisse a comprendere che il famoso “rosso in mezzo alle gambe” di Ginny non fosse altro che la perdita della verginità. Mi scuso comunque con tutti/e coloro che avessero frainteso, promettendo che la prossima volta sacrificherò il mio tentativo di poeticità alla chiarezza. Chiedo ancora perdono. E ripeto: grazie!

Izumi: Beh, che dire? Posso solo farti i complimenti per quello che sei riuscita a capire al terzo capitolo, visto che io stessa pensavo che per averlo più chiaro bisognasse attendere la fine, e dirti che non sei assolutamente in ritardo. Te l’ho già scritto via e-mail, lo ribadisco qui, e ripeto che forse è il Dostoevskij che abbiamo in comune. Mi fa comunque un sacco di piacere avere un tuo commento, davvero! Spero che questo capitolo ti sembri accettabile, visto che finalmente appare l’”oggetto della questione”. È inutile, se c’è Ginny e non c’è lui, la situazione precipita, meno male che è sempre a portata di mano...

Briseide: Grazie. I tuoi complimenti mi imbarazzano ed appagano allo stesso tempo. Anche perché (lo ripeto, ma è un mio vizio essere sempre a corto di parole, soprattutto in certi frangenti) scritti da te mi sembrano immeritati. Sono davvero lusingata dal fatto che quello su cui ho speso tanto di me possa significare qualcosa. Soprattutto per qualcuno che come te sa usare tanto bene la parola. Ancora grazie.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV - ***


Capitolo IVMicrocosmi

 

-         Grazie. – sentì mormorare con la sua voce da qualcun altro, osservando la tazza di the portatale e appoggiata sul tavolino di legno scuro. Osservò il contrasto dell’oro ambra sul bianco, ambra oro e caldo, mentre un vento insistente e pungente bussava ed ululava appena fuori della finestra.

Piccoli mondi galleggiavano nel liquido, vortici di costellazioni, o di foglie morte trascinate dal vento. Agitò la bevanda con il cucchiaino. Per un secondo tutto scomparve. Eventi. In quel mondo calmo e liquido, sconvolti in una bufera. Quindi, tutto come prima. O quasi.

Spinse da un lato la zuccheriera senza pescarvi dentro. Beveva il the liscio, senza zucchero, limone, o latte. Lo sorseggiava piano, da subito, bollente, sapido del solo calore, del fine di esorcizzare una solitudine. Un po’ troppo grande per le sue mani sottili e nervose, per la sua mente provata. E forse, chiudendo gli occhi e concentrandosi sui fiotti bollenti e rassicuranti come fobie puerili in una felicità troppo vasta e inconsapevole, avrebbe lasciato ricordi e angosce scivolare via dai propri vestiti in quell’angolo silenzioso.

C’erano freddo e occhi grigi in mezzo a tutto ciò che avrebbe voluto dimenticare, ma aveva la vaga consapevolezza che non avrebbe potuto neanche provare a lasciarli indietro.

C’era qualcosa, in ciò che aveva vissuto due giorni prima, di impellente e necessario. Turbini di pagliuzze d’oro pallido l’avevano riportata alla lontananza dei suoi anni a scuola, a felicità intraviste, all’interminabile ma serena attesa che aveva sospinto da parte aspettando qualcos’altro. Chissà quale vita felice.

Sacrificherei qualsiasi fuggevole sole pur di non pensare.

Sospiro e rassegnazione in fondo alla gola, tra un sorso e l’altro, occhi socchiusi, e il piacere/bisogno dell’ombra.

Ombra. Ombra.

C’era un’ombra, in fondo all’angolo opposto del locale. Una specie di grande fagotto scuro, immobile anche nel respiro; ma lei sapeva che la stava fissando. Una curiosa sensazione alla base del collo la avvertiva degli occhi posati su di lei.

Strinse le labbra mentre posava la sua tazza, rovesciando inavvertitamente un po’ del liquido sul legno lucido e venato. E c’era qualcosa di furioso in quel tintinnio di porcellana.

Fece un respiro profondo, decisa a calmarsi. In quel periodo, aveva la sensazione che troppi occhi la vagliassero di nascosto da chissà quale tenebra, da silenzi troppo profondi. E ogni volta, turbata, abbandonava la sua pace e i suoi pensieri, e correva via, inconsciamente svuotata dal timore che troppe vite potessero interferire e infastidire la sua torbida tranquillità.

Ma quella volta decise di non lasciarsi sopraffare. Continuò imperterrita nel suo rito insipido e concentrato, mostrandosi calma. Probabilmente i suoi sorsi furono più frettolosi e riavvicinati del solito, ma la sua mano era ferma quando posò per l’ultima volta la tazza sul tavolo, lasciò le solite due monete e si alzò, un’occhiata fuggevole alla macchia scura immobile nell’angolo lontano.

Niente neve, fuori, ma un sole pallido e lontano ed un cielo spazzato dal vento. Qualche pungente alito le s’infilava sotto al mantello mentre metteva un passo davanti all’altro con estrema precisione, confortandosi con la geometria immaginaria tracciata dai suoi piedi. Occhi sulle scarpe, marroni e spesse, otto galeoni, quarantacinque corti ansimi nel buio.

Buio. Buio.

Buio e lugubre e tonante il mormorio assente alle sue orecchie. Poca gente, ai lati della strada, in capannelli involontari pur di trovare calore e chiudersi alla mano penetrante della Tramontana. Rumore di passi, ticchettante e regolare.

Il fragore assordante della quiete di Gennaio.

Forse avrebbe dovuto frenare il suo disagio di fronte alla strada troppo vuota davanti a lei, quel risucchio al centro del torace che provava da sempre di fronte ai luoghi troppo vasti e solitari. Forse avrebbe dovuto fermare i suoi passi più avanti, vicino ai versi soffocati provenienti dal Serraglio Stregato, a pochi passi da lì. Forse non avrebbe dovuto girare gli occhi a destra e a manca, soffocando un singulto, ed infilarsi in quel vicolo a portata di braccia per riprendere fiato e chiudere gli occhi.

No, decisamente stava diventando una cattiva abitudine quella di chiudere gli occhi nei momenti più strani.

Perché una volta riaperti, avrebbe dovuto sapere che si sarebbe ritrovata davanti qualcosa di decisamente inaspettato.

-         Sshh. – qualcuno le premette una mano sulle labbra, proprio quando le sarebbe piaciuto urlare per esprimere il suo disappunto per quel naso troppo pallido e leggermente sporgente ad un centimetro dal suo. E due occhi grigi troppo vicini perché lei potesse distoglierne lo sguardo.

-         Sshh. – ripeté il sussurro, allontanando la mano dalla bocca di lei e portandosi l’indice dell’altra alla bocca semisocchiusa, labbra sottili e chiare, color dell’avorio.

Fu lui a voltare bruscamente la testa ed a guardarsi intorno, stavolta, abbassando le mani troppo vicine al viso di lei.

-         Malfoy? – sentì la sua voce replicare strozzata alla circospezione sul viso dell’uomo.

-         Weasley. – troppa inusuale serietà in quell’unica parola.

-         Che... che cosa ci fai qui? Cosa vuoi? – un corto ma rumoroso respiro – Eri tu, nel locale? Mi hai seguita? – si morse un labbro, mormorando rabbiosa.

Non rispose né fece un cenno. Si allontanò di un passo, permettendo al cuore di Ginny di battere nuovamente. I suoi occhi saettarono per il vicolo sporco.

Si piantarono di nuovo in mezzo al suo viso.

-         Non ti montare la testa, Weasley. – sentì il suo tono diventare tagliente – Non sono qui mica per...

-         Per? – fece lei, alzando un sopracciglio a quella che sembrava una pausa spaesata.

-         ...esclusivamente per te. – completò, agitando le mani nella sua direzione, tendendo tutti i muscoli del viso in un bagliore di occhi ferrei.

-         Interessante. – esclamò a voce più alta, sentendo la rabbia montarle dentro – Se allora potessi essere così cortese da spiegarmi il perché mi avresti fermata qui, bloccandomi contro il muro con una mano sulla bocca in un vicolo buio, forse potremmo andarcene tutt’e due più tranquilli e felici. – si fermò un attimo per recuperare aria – Sai, ho altro da fare, io.

L’altro sembrò soffocare una risata.

-         Decisamente. Sbrighiamoci, allora. Mi sembra di aver visto la coda davanti alla tua porta, venendo qui. Non vorrai tardare. – allargò la bocca mostrando i denti candidi, le punte dei canini aguzzi – Mi sembra che te la cavi bene a sopravvivere, Weasley.

Ginny gli si avvicinò, fissandolo negli occhi, a denti stretti, le unghie pronte e tese verso le mani inerti dell’uomo.

-         Vuoi spiegarmi cosa cazzo vuoi da me, Malfoy?

-         Uh, calma, calma. C’infiammiamo facilmente, non è vero? Attenta, i capelli potrebbero prendere fuoco.

-         Ti stai arrugginendo – una smorfia di disgusto le deformò la bocca – Questa non faceva ridere.

-         Difficilmente ti ho mai visto ridere di te stessa, ragazza. – la sua espressione derisoria non variò.

Lei prese un respiro profondo.

-         Cosa – vuoi. – ripeté, sillabando.

-         Indo – vina. – il suo ghigno si allargò. Ginny indietreggiò improvvisamente, per la prima volta il controllo impostosi sul suo viso cadde, e le si allargò nello sguardo un’espressione di terrore.

L’uomo davanti a lei rise forte guardandola sbattere gli occhi più volte mentre faceva qualche passo indietro.

-         Calmati, Weasley. Non ho bisogno di puttane, io. O perlomeno, – si fermò riavvicinando le labbra in un sussurro serpentesco – non di te.

Strinse di nuovo forte i pugni, tentando di non saltargli addosso, consapevole che avrebbe avuto la peggio. Aprì la bocca per ribattere, ma lui la fermò.

-         Ma a quanto pare io e Nott siamo di idee differenti. – si fermò di nuovo, stavolta per gustare l’effetto delle sue parole.

Un’espressione attonita s’impossessò del viso di Ginny, facendole spalancare gli occhi ambrati.

-         Nott?

-         Nott. Si è davvero preso una bella cotta per te, sai? – spalancò un poco il ghigno, spiandola con le sue finestre d’acciaio – Mi ha fatto una bella scenata l’altro giorno, per via della nostra breve chiacchierata. Credo voglia marchiarti e importi un qualche coprifuoco, per sicurezza. A quanto pare hai ambrosia in mezzo alle gambe, Weasley.

Ginny era combattuta tra il mettergli le mani al collo ed abbandonarsi sul terreno, aspettando che lui se ne andasse, per piangere. Ma non se ne sarebbe andato.

-         ... ma lui non se ne andrà. – aveva biascicato a bassa voce, parlando con se stessa, lasciando i suoi occhi vagare sul terreno.

-         Credevo ti avrebbe fatto piacere. – aveva sibilato con la bocca affilata e candida, fredda come un attimo di tramontana sulla pelle nuda.

-         Piacere? – aveva alzato gli occhi un attimo solo, incapace di sostenere il suo sguardo, con una nota d’urgenza nella voce.

-         Piacere. Via dubbi, incertezze, preoccupazioni. – sentì il suo gelido sguardo sulla nuca – Niente più ricerca della cacciagione. – si conficcò più a fondo le unghie nel palmo della mano – Via i pensieri. E’ la soluzione ideale alla tua scelta, in fondo.

Per un istante, Ginny tremò.

-         Scelta? Scelta? Perché tu credi sia stata una scelta, vero? Che tra tanti rosei futuri davanti a me abbia scelto delle notti troppo lunghe per essere dimenticate, abbia rinunciato a me stessa, abbia rinunciato all’amore? – ora urlava, senza rendersene conto, ad occhi chiusi, sbarrati, nell’oscurità pesta e nera intorno a lei, le mani sempre più strette, le fitte sempre più dolorose.

Lo sentì sbuffare.

-         L’amore. Ancora? Voi donne amate vedere ed inventare e tessere con le vostre appiccicose fantasie mondi che non esistono. Vedi l’amore, qui, da qualche parte? A cos’è che hai rinunciato, a questo meraviglioso nulla? Al ricordo del tuo amato Potter? – lei non lo vedeva, ma anche lui aveva alzato la voce, ora isterica e crudele, e allargava le mani in gesti eloquenti e scomposti – No, Weasley, non si ama in tempo di guerra. E tu non sei l’unica a dover difendere con l’alibi dell’ineluttabilità del destino le tue scelte. Sì, scelte. Perché anche la morte è una scelta, Weasley.

A quel punto lei aprì gli occhi, stupita. Davanti a lei, lui si agitava sotto al mantello, il viso quasi paonazzo (per quanto la sua carnagione potesse permetterglielo), la voce e le parole sempre più aspre e taglienti.

-         Stai paragonando la tua vita alla mia, adesso. Io lo so... questo è solo un tentativo di farmi passare dalla vostra parte, e per cosa? Per attutire i sensi di colpa? Per sentirsi soddisfatti della propria causa? (Causa!) Perché? – lei stava urlando di nuovo, e adesso ansimava, affannata.

Qualcosa si ruppe, nell’aria intorno a loro. Ginny sentì distintamente un rumore come di cristalli infranti.

Impassibile, inconcepibile, il viso diafano e allungato di Malfoy contro l’ombra.

-         Il male ama prendere sembianze bionde, Weasley.

L’ombra di un ultimo acuminato sorriso aleggiava ancora nell’aria nel punto dove erano state le sue labbra, quando, senza aggiungere altro, si voltò e girò l’angolo, scomparendo alla sua vista.

 

 

Ogni volta che rileggo i capitoli che invio riesco a vedervi sempre più qualcosa d’innaturale. Sarà lo stato d’animo che mi ha spinto a scrivere questa storia, che ormai è andato, per lasciare che di me s’impadronisse la spossatezza e il non-pensiero tipici del periodo scolastico, sarà che le pressioni politiche di un liceo classico di provincia riescono persino a spazzare via ogni tentativo d’introspezione, sarà che c’è proprio qualcosa che non và. Sono stanca, eppure ho ancora delle idee da mettere necessariamente su carta, prima che sia troppo tardi e questo vortice mi ingoi definitivamente. Beh, teoricamente ho ben poco da lamentarmi, almeno fino adesso... ma piantiamola con le paturnie, che servono solo a farvi capire con quale energia io risponda ai commenti e la calante qualità di quello che verrà pubblicato dopo Danae (che già....). Scusate la fiacchezza, e grazie a tutti coloro che leggono, e soprattutto commentano questo lavoro.

Helen Lance: Grazie per il commento, ancora una volta, e soprattutto per la fedeltà. Fa sempre piacere vedere che c’è qualcuno che segue, e ce n’è sempre bisogno. Spero che questo capitolo ti piaccia, a mio parere è uno dei migliori, o comunque la storia prende qui una svolta definitiva, finalmente. Aggiornerò presto, comunque.

Abigale: Non parliamo di scuola, sì, ne so qualcosa... Non ti preoccupare, quindi, mi fa comunque tantissimo piacere che tu continui a seguirmi. Sì, ripeto, aggiornerò presto, presumibilmente martedì. Il terzo capitolo avvia finalmente quello che è la storia, in realtà, è diverso di per sé da quella che era stata una specie di parte introduttiva. Anche se io ho sempre avuto l’impressione che l’intera fanfiction sia un po’ una perpetua transizione, con ben poco di definito... Grazie, spero che, sulla scia  del terzo, ti piaccia anche questo capitolo! A presto.

Syberie: Wow, grazie dei complimenti! Sono davvero contenta che ti piaccia, è davvero gratificante... Il tuo “flusso” me lo fa comunque capire, e mi lusinga davvero. In quanto alla tua domanda, devo dire di non averci pensato, ma è piuttosto legittima. Mr. Nott è un uomo giovane, di conseguenza è il junior compagno di Draco; dubito che abbiano mai avuto grandi rapporti quei due, a parte quelli costretti per via del loro mondo in comune... la freddezza che intercorre tra loro comunque non credo sia  un errore. Spero che continuerai a seguire!

Thilwen: Eh sì, so quanto entrambe aspettassimo lo scorso capitolo, io per togliermi una soddisfazione, e tu... pure. Sì, sì, Harry è tutto quello che dici tu, ma mi sa che stiamo rovinando la sorpresa al resto, in questo modo... Ginny, in fondo, lo ama ancora (o così crede di fare). Aprirei proprio qui uno spazio per il dibattito “Potty è un uomo o meno? – L’ultimo mistero della scienza”, ma credo che non sia né tempo né luogo. Mah, vedremo poi (sto tentando di non anticipare, comprendimi). Come sempre la cosa che emoziona di più, piuttosto che i miei capitoli, sono i tuoi commenti. E comunque, cosa sarebbe il mio Draco se non avesse conosciuto il tuo? Purtroppo, nonostante tanto tempo assieme, rimani tu quella con la tendenza a fare di tutto ciò che scrivi un capolavoro... E se mi contesti questa esco fuori i miei soliti argomenti! Vabbè, la taglio qui, mi sa che come al solito parlo una lingua conosciuta solo ad entrambe... Un bacio, tesoro, e grazie, grazie sempre.

Izumi: Che piacere, signora! Eh già, eccolo qui, mancava solo lui, il personaggio cruciale. Sono lieta che ti sia piaciuto, Draco è qualcosa su cui cerco d’impegnarmi, perché mentre su Ginny, personaggio nuovo almeno nel contesto in cui è posta, ho avuto carta bianca, per Draco l’Out of Character (perlomeno del Draco da fanfiction) non mi ha mai attratto... è affascinante di per sé, insomma, e c’è poco da fare nel connotarlo, molto per il tentare di farlo bene. Mi piace il giudizio che dai di Ginny, ma a mio parere c’è un che d’ingenuo (prettamente insito, mi sa) nell’affrontare tutto senza mai riuscire a prendere una decisione. È vero che è consapevole dei suoi sbagli, ma ciò è una colpa, una pecca umana, che la giustifica ben poco anche davanti ai suoi occhi. E Ginny quasi piange davanti a Draco perché è lui che le ricorda il peso dei suoi sbagli, ancor più in questo capitolo. Grazie grazie grazie comunque, come sempre, di tutti i complimenti! Ci sentiamo presto.

Florinda: Grazie del commento. Sono felice che ti sia piaciuta, spero che continuerai a recensire!

Briseide: Sempre più lusingata, davvero. Grazie, i tuoi commenti sono sempre pura poesia, un fiotto di calore, ogni volta più intensi. E sono contenta di essere riuscita a farti piacere un personaggio che di recente anch’io sopporto poco, soprattutto dopo il sesto libro... Grazie anche per i complimenti per Draco, davvero, ma il più grande complimento è il fatto che tu continui a recensire! Spero a presto, allora.

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Capitolo 6
*** Capitolo V - ***


Capitolo V – Pelle

 

Perché anche la morte è una scelta, Weasley.

Troppe volte durante la notte quelle parole erano rimbombate fra le pareti della stanza, avevano sovrastato i suoi respiri, avevano oltrepassato rumori e silenzio. Ora, ad occhi spalancati, Ginny fissava un nastro di luce filtrare attraverso la finestra e le tende, stagliarsi immobile sulla parete e su un angolo di moquette, amico ed estraneo nella quiete, e rifletteva.

Rimasta sola nella semi-oscurità del vicolo, si era portata le mani alla tempia, e resa conto che lì pulsavano ancora, disordinate, le taglienti parole del mangiamorte (o forse semplicemente di Malfoy?), librandosi come farfalle impazzite, manifestandosi come fitte lancinanti al capo.

Sembrava che sapesse. Che quel  dolore sepolto sotto coltri e coltri di buio lo tormentasse allo stesso modo.

Ma non era riuscita a guardarlo negli occhi. Era sicura che vi fosse qualcosa di molto maligno lì in fondo, in mezzo a tanti bagliori grigio ferro.

Ma si può sapere cosa volesse?!

Le sue lacrime, come se non avesse già pianto abbastanza, qualche altro frammento del suo cuore, della sua anima, gli ultimi brandelli di un’idea, l’unica sua idea, che l’aveva tenuta in vita, che aveva allontanato i suoi occhi dalla morte...?

Harry. Oh, Harry...

Ma il buio divenne più pesante sulle sue palpebre, e poté distintamente udire dentro di lei il frastuono di una definitiva rottura.

Basta così. Troppo rumore e troppa luce, fuori. Avrebbe aspettato lì, ferma immobile, sotto le coperte, che fosse calato il sole sul giorno e sulla notte, sulle notti e sui giorni, avrebbe atteso. Ma stavolta non avrebbe raccolto la mano di alcun destino.

Quant’era bello e consolante immaginare che si potesse ancora tornare indietro.

 

Gente, quanta gente!, in abiti scuri sgargianti svolazzanti, mai vista tanta in un solo luogo, mai tanti sorrisi, mai quella curiosa atmosfera di sospesa e chiassosa allegrezza.

-         Ginny... Ginny... vieni! Di qua.

Il tocco deciso di sua madre sulle spalle attraverso la folla, in avanti, sempre più vicini alla locomotiva scarlatta, sembrava ridesse anche lei, sembrava non si potesse fare altro che essere felici.

-         Ragazzi! Non andate, non ancora, tutti qui... Fred, George! Ronnie, hai qualcosa sul naso...

Il vociare allegro dei suoi fratelli, ulteriori risate, cristalline, rintoccanti.

-         Siete sempre voi due... Comportatevi bene quest’anno... insomma! – voce perentoria, squillante, ma con una certa intrattenibile nota eccitata. – Ronnie, mi raccomando, non iniziare a seguire il loro esempio... – tocco esasperato ed esasperante. Sua madre, com’era sempre stata.

Ma lei non ascoltava. A pochi passi, poteva quasi toccarlo, un tuffo al cuore, un ragazzino magro, la schiena un po’ curva per l’abitudine, i capelli scarmigliati e neri, e dietro gli occhiali, profondi vortici color... argento.

-         Ginevra.... – un sibilo, basso, acuto, crudele, supplicante.

-         Ginevra. – alle sue orecchie, udì il suo nome pulsare fin dentro al timpano, mormorato con una voce familiare e ferma, sua madre?; ma è ancora presto, è ancora presto...

No. Forse è troppo tardi.

-         Ginevra. – stessa voce, più bassa, di petto, quasi armoniosa, quasi piacevole.

-         Ginevra! – una nota stonata.

Aprì gli occhi, di scatto. Urgenza e decisione su di lei, negli occhi azzurri ed appuntiti e nel fischio fra le labbra.

Si sedette sul materasso con una certa diffidenza, spingendosi il cuscino dietro alle spalle, riavviandosi i capelli annodati e scarmigliati, radunandoli sul petto. Strinse la bocca.

Mrs Greystone la fissava dalla posa in cui l’aveva vista quando aveva aperto gli occhi, seduta sul lato opposto del letto, il bastone in una mano, illuminata dal fascio di luce violenta, o così sembrò alle sue pupille rattrappite dall’oscurità, che scorreva ed entrava dalla finestra ora aperta, con l’impetuosità di una dolorosa cascata.

-         Ginevra. – ripeté, per incanalare completamente verso di sé l’attenzione dell’altra, che la fissava con gli intensi occhi ambra in attesa che continuasse, stretta nelle spalle, il lenzuolo tirato fino alla vita, il calore tiepido della stanza che le accarezzava la pelle nuda.

-         Non sei scesa oggi, non sei uscita. – la donna schioccò le labbra in un gesto involontario, mostrando più del dovuto i pochi denti anneriti dal caffè, facendo un pausa per permettere all’altra di giustificarsi.

-         Non mi sento troppo bene. – mormorò, stringendo ancora di più le braccia al petto e alzando di poco le spalle, le labbra ancora strette, gli angoli del viso contratti.

L’altra annuì, arricciando il naso, scrutandole sotto la pelle con un lampo azzurro.

-         Neanche ieri ti ho vista troppo in forma. Ad ogni modo, - fece  un gesto vago con la mano, indicando alla sua destra – i soldi sono sul comò, li ho lasciati lì. Solo... – si fermò per un attimo, appoggiandosi saldamente al bastone.

Si alzò, facendo qualche passo lento in giro per la camera. Si voltò di nuovo verso di lei. Ginny non disse né fece niente.

-         Mr Nott. – disse, puntandole contro un dito – E’ passato, ha avvertito che verrà stasera. Che... deve parlarti. – qui esitò, lasciando che il suo sguardo vagasse altrove, nel vuoto dei mobili scuri e del muro spoglio.

Ginevra continuava a guardarla, imponendosi l’impassibilità, conficcandosi le unghie a fondo nella pelle morbida e chiara dei seni, mordendosi le labbra vermiglie dall’interno.

La donna sorrise. Un sorriso vasto come un buco nero, dai pochi denti appuntiti, né dolce, né forzato, né inconsapevole. Ma duro e freddo come un pezzo di ghiaccio.

-         Quanto hai provato, Ginevra, non ti darà gratitudine verso te stessa o gli altri, forse, probabilmente neanche calore. Ma lo vedi anche tu, tesoro. Aldilà delle responsabilità delle scelte, - la ragazza non riuscì a non rabbrividire, lasciò per un attimo che gli occhi le si chiudessero – questa è pura, solamente pura necessità. Che non ti chiede certezze né abnegazione ma il coraggio che la viltà stessa esige. Non è una delle tante direzioni da prendere, non è una battaglia fra amore e odio, bianco e nero. E’ l’eterno, l’eterno male che solo il grigio porta con sé, che non lascia via di scampo, possibilità di pensiero. – le labbra erano adesso una linea curva e sottile – Non possono esistere sensi di colpa.

Quando la porta si chiuse alle spalle della donna, Ginevra sentì il dolore e la ribellione della sua pelle a quella doccia gelida di parole affilate e neve bigia. Si tirò le coperte fino al mento, improvvisamente infreddolita. Si sdraiò di nuovo, portandosi le due mani alla testa, tentando di soffocare pressando il duro rimbombare di quei suoni sconnessi.

Ma tutto ciò che poté fare fu abbandonarvisi, stanca e stravolta, addormentandosi, piangendo sommessamente la sua sofferenza in rare lacrime ferree attraverso le sue guance.

 

Le due pozze nere davanti a lei assomigliavano a due oblò con vista sulla notte. Sopracciglia sottili, labbra carnose, pelle abbronzata. La scrutavano e sfioravano e accarezzavano con un umido cantilenare sconnesso, il suo nome, o il nome di qualcun’altra, o forse solo pioggia, e scrosciare di onde.

Sentiva il calore del sesso di lui premere contro il suo fianco, le sue braccia tese sullo stomaco, nervose, le dita che si tendevano e rilassavano su di lei, inerme, toccando i suoi seni, palpando la sua pelle sudata.

Pelle, e nient’altro, pensò, in quell’attimo di quiete dopo la tempesta, dopo la violenza della rassegnazione. Pelle, e involucri di sogni racchiusi fra queste quattro mura. E nient’altro, in realtà. Nient’altro.

Forse da qualche parte erano rimaste le ombre delle sue speranze, gettate chissà dove, lontano, assieme ad occhi verdi e sorrisi infantili. Ed a laceranti ed interminabili attese.

Lui le prese il mento fra le dita, ed ella spostò di nuovo gli occhi sui suoi. Turbinavano come nuvole cariche di pioggia.

-         Devo parlarti. – quella voce roca, affaticata, tentava di essere suadente. Ginny sentì palpitare attorno a lui una densa aura d’angoscia.

Non rispose, si limitò a continuare a fissarlo, con una certa educata, nervosa curiosità.

-         Voglio che tu venga con me.

Ancora silenzio.

-         Voglio che tu mi aspetti nel mio letto, la sera. – le prese la testa fra le mani, percepiva agitazione nella sua voce – Non voglio dividere la tua pelle con qualcun altro. Non avrai più bisogno di nulla.

Pelle. Ancora.

Se è tutta qui la questione. Tutta questa la smania, questo il dolore, il peso dell’inquietudine, la paura del vuoto. Fece per dire qualcosa. Ma si fermò.

Gli occhi di lui lampeggiavano. Non sapeva dire di cosa. Sentiva le sue dita tornate sempre più mobili e nervose sul torace.

Abbassò le palpebre, inspirò profondamente. Tutto questo non era niente dopo ciò che era stato, del resto.

È l’eterno, l’eterno male che solo il grigio porta con sé.

 

“Il male ama prendere sembianze bionde, Weasley.”

 

 

 

Capitolo breve, anche se piuttosto denso. I commenti non sono stati tantissimi l’ultima volta, ma è anche colpa mia, pardon, ma quando mi dico di rispettare una tabella di marcia... E non posso non approfittare di un giorno semivuoto come questo. OK, tenterò di essere meno prolissa, in quanto sospetto di essere tanto poco apprezzata anche per questo. ;P Vabbuò, sono io a cercarmi responsabilità del genere...

Ma lasciamo perdere...

Spazio alle vostre stupende recensioni! Grazie a tutte!

Abigale: Però, sempre la prima, tempismo perfetto! Grazie per i complimenti su Ginny, ma, ad essere sincera, in questo capitolo mi piace ancora di più. Anche perché qui è da sola, e  quando Draco è in scena è lui che riesce a catalizzare tutta l’attenzione... In effetti è sempre piuttosto oscuro come personaggio, nonché piuttosto controverso. Ma hai tutto il tempo che vuoi, don’t worry. -3 capitoli, oramai! E il prossimo mi piace particolarmente...

aletheangel: Salve! Piacere che ti piaccia, ed ecco il “seguito”. Continua a seguire!

Helen Lance: Grazie ancora dei complimenti, davvero, mi fa sempre piacere trovare i tuoi, non manchi mai un appuntamento! Grazie grazie grazie, che altro dire?

Izumi: Wow! Le tue recensioni sono sempre più emozionanti... e devo dire che sono una delle cose più belle di pubblicare questa fanfiction. Cogli tutto con una tale assidua precisione da lasciarmi ogni volta più stupita. ed imbarazzata. Il mio intento nello scorso capitolo era proprio quello di mettere a confronto le loro due diverse realtà, ed in genere, l’intrinseco bisogno d’amore che appartiene ad entrambi. Come tu sottolinei benissimo, di Ginny perché l’ha conosciuto, e non può fare a meno di sentirne al mancanza, di Draco proprio perché è quello che più gli è stato negato. Entrambi cercano inconsapevolmente un appoggio ed in questo senso, qualcosa con cui riempire delle vite che altrimenti sarebbero solo dolore, perché non vi è alcun mezzo d’accettazione e di digestione del torturante e continuo meccanismo delle responsabilità. Come tu stessa hai citato poco tempo fa, “la prostituta e l’assassino chini sul libro eterno”, in una sorta di destino comune (perché così loro vogliono).

Sono rimasta senza nient’altro da dire, mi sa, anche perché ho la sensazione di essermi lasciata sfuggire troppo (niente di più ovvio, per carità...). Grazie, grazie ancora per i complimenti e per il seguirmi! A presto!

Thilwen: Beh, storico confronto è esagerato! E comunque anch’io ho Il meglio de “Le Stagioni del Dubbio” che mi tiene compagnia sul diario, come ben sai. E ripeto anche qui che è soprattutto colpa mia se non hai potuto commentare, quindi bando alle colpevolizzazioni... Grazie tantissime, melensaggini comprese, a me fanno sempre piacere, altrimenti credo che non sarei tanto ripetitiva e troverei altro modo per sfogare le mie banalità. Mi spiace di non riuscire a dire mai altro, ma mi conosci. Troveremo sempre il modo di non dire di esserci dette tutto.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI - ***


Capitolo VI – Heroes for ghosts

 

Tremava.

Tremava ancora, da quella mattina, quando si era svegliata, e aveva trovato il letto vuoto, sempre tiepido, le pieghe fra le lenzuola, ad indicare che qualcuno era stato lì. Qualcuno che non c’era.

Era tardi. I soldi sul comò, non sarebbe dovuta passare in cucina, il mantello, le scarpe, le scale, la porta d’ingresso.

C’era il sole fuori, quel giorno, un sole quasi caldo, senza dubbio luminoso, vivace, incoraggiante.

Ma lei tremava.

Tremava al suo tavolo al Paiolo Magico, tremava la sua tazza di the sollevata con le mani a coppa, che continuarono a tremare anche quando questa cadde, inavvertitamente o forse no, il liquido caldo ambrato riversato sul pavimento, foglie di the e polvere, microcosmi ed universi differenti venuti a contatto con la rottura. La porcellana in frammenti era finita sotto al tavolo e alla sedia, una scheggia era scivolata fin sotto alla finestra, accanto al muro.

I soliti due zellini, il solito tintinnare della campanella alla porta, di nuovo la strada. Sempre la stessa. Sempre più tortuosa e meno invitante, eppure non si poteva fare a meno di andare avanti, pensò. A che pro fermarsi? Non v’era neanche un senso o una meta, ma questo non importava.

Ripensandoci, forse sì. Forse importava.

Ripensandoci, ripensandoci bene...

Svoltò a sinistra, non considerando realmente ciò che stava facendo, o addirittura troppo assuefatta da quello a cui non avrebbe proprio dovuto stare pensando, per accorgersi che stava agendo davvero.

Lì c’era sempre penombra. Forse vi era qualche incantesimo che schermasse il sole, per rendere il posto automaticamente poco piacevole e malfamato, o forse era proprio il sole che si teneva lontano da un luogo del genere, raduno di reietti, di perduti, di gente che aveva preso per la mano quel destino con un marchio sull’avambraccio, e una maschera sul volto, verso un orizzonte più nero della pece. Ma probabilmente neanche a loro era stato concesso di guardare al proprio orizzonte.

Chissà.

Si fermò non appena si accorse che la strada iniziava a scendere, a svolgersi sempre più in basso come le spire di un serpente.

Riconobbe quella curva, quel locale incassato fra le case piccole e strette, una porta scura e sottile, forse una volta era stata verde. Verde speranza.

La fissò, e si ritrovò a chiedersi se erano stati i suoi piedi a ripercorrere inconsciamente i suoi passi di qualche giorno prima, spinti da una mano invisibile, o se l’avesse voluto davvero lei stessa.

Non si rispose, ma si diresse verso l’uscio, lo spinse, per rientrare in quel locale buio, forse sporco, di certo trasandato. Il mondo scorreva fuori dalla vetrina opaca. No, adesso era fermo.

Come il suo cuore.

Il tavolo di quel giorno era già occupato. Da mani candide, sottili, che stringevano un boccale semivuoto, miele liquido su labbra fini, labbra pallide, chiare, appena rosee. E un’aureola d’oro niveo.

Lampi d’acciaio.

Lei rimase immobile sulla soglia. Mentre le sue mani tremavano. Le sue dita si rincorrevano e stringevano e annodavano come serpenti impazziti.

Serpenti.

Vide sollevarsi gli angoli delle sue labbra. Abbassò gli occhi.

-         Vieni, Weasley. Siediti. Cosa aspetti? – il sordo trascinare di una sedia spostata, la curva invitante e spigolosa dei suoi zigomi tesi.

Fece qualche passo avanti, si abbandonò sulla sedia senza parlare, senza alzare gli occhi. Vagavano sulla superficie scrostata del tavolo, sui tre boccali già vuoti, sulle mani di lui, rilassate, indolenti come pallidi e severi ragni. Sulle proprie, intrecciate, vibranti.

Lui fece un segno verso il bancone, uno schiocco sonoro con le dita, uno zampillo nel torbido silenzio.

Portarono un altro boccale, che spinse verso di lei, calmo, elegante.

Quel sorriso appena accennato, come una lama che le trapassava la fronte. Dolore lancinante.

-         Brindiamo.

Sollevò lo sguardo quel tanto che le permettesse di scrutare la sua espressione. Serafica causticità fra le pieghe attorno ai suoi occhi.

-         A cosa? – le scappò un sussurro dalla bocca, incerto, ma un momento dopo seppe di essersene pentita.

-         Alla sicurezza economica. Alla certezza di un presente. Al potere di scegliere. – fece un pausa per sottolineare e controllare l’effetto delle sue parole. Lo sguardo di Ginny rimase basso.

-         A Ginevra Weasley. – voce ferma, una luce vaga in fondo ai suoi occhi, derisione, forse, l’ennesima.

-         I-io... – esordì Ginny, ma si bloccò. La mano a mezz’aria fra il suo viso e l’oscurità intorno. La bocca in una piega sempre più stretta.

-         Con chi stai cercando di giustificarti, piccola Ginny? Con l’ineluttabilità del caso?

Un alito pungente, gelido, un bagliore di denti, un’espressione quasi feroce. Un fuggevole baleno di disprezzo.

Fuggevole.

Strinse i pugni, prossima alle lacrime; forse.

Piccola Ginny.

Si fermò, allargando i palmi delle mani, stendendoli davanti a sé, iniziando a strofinarli fra di loro con un gesto automatico. Le labbra socchiuse. L’espressione vacante.

-         Io non ho scelto. – mormorò risoluta, alzando finalmente di nuovo lo sguardo, fermo su quegli occhi grigi, pozze di pioggia, immobili – Non ho scelto. Non ancora. O forse non lo farò mai. Credo solo... – indugiò, lasciandosi sfuggire un sospiro – che la sicurezza non mi basti. Non questa sicurezza, non un sicuro vuoto.

L’uomo davanti a lei abbassò per un attimo le palpebre e si lasciò sfuggire qualcosa a metà fra uno sbuffo e una risata.

-         Il tuo idealismo è radicato nel sangue, ragazza. Generazioni di presunzione Grifondoro, già. Già. – un mormorio sempre più basso e pensieroso.

-         Beh, generazioni di superbia Serpeverde, e il tuo dov’è? – una traccia d’irritazione più per abitudine che altro. Una certa rassegnazione.

Tentò di sembrare determinata mentre i suoi occhi intensi e dolorosi la trapassavano da parte a parte, quasi curiosi, quasi sinceri, eppure.

-         Gli ideali vanno bene per le esistenze agiate.

-         E non si ama in tempo di guerra. – replicò lei con voce piatta – Giusto?

-         Altro, Weasley? – la voce piegata e contratta un sibilo tagliente. Ginny aggrottò le sopracciglia – Hai intenzione di continuare a giudicare dall’alto delle tue non-scelte? O sei venuta qui per qualcos’altro?

Ginny si strinse nelle spalle, sperduta. Non sapeva dirsi da dove era uscita tutta la sua sicurezza. Non sapeva dove fosse finita, adesso.

-         E tu cosa vuoi da me, Malfoy? – un tono nervoso, vacillante. Le parole che in qualche angolo della sua mente maceravano da giorni.

Si stupirono entrambi del silenzio che cadde. Lei abbassò gli occhi, involontariamente, sul suo grembo vuoto.

-         Forse mi fa rabbia la facilità con cui tu abbia deciso di non schierarti, con cui sei fuggita. Perché sei fuggita, vero? – Ginny vide il suo viso tingersi improvvisamente di chiazze rosse – La piccola Ginny Weasley che abbandona la sua famiglia per pensare a se stessa, e che poi viene lacerata da un terribile conflitto interiore, perché ha rinnegato tutto, eppure non vi è neanche completamente riuscita. Perché, piccola Ginny, non sei in grado di prenderti le responsabilità delle tue scelte. Non sei in grado proprio di fare delle scelte. Ma chi l’ha fatto è un perduto e un dannato. Giusto? Proprio come me. Perduto. Dannato. Per sempre. E tu, - si era alzato in piedi, a puntarle contro un dito bianco ed affilato, gli occhi che lanciavano lampi nel buio – tu invece ti limiti a biasimare, forzi le vite degli altri e reciti la tua particella imparata a memoria con l’autorità di un Inquisitore Supremo. Ma non hai ancora visto cosa c’è sotto al tuo piedistallo. – abbassò la voce, non appena i suoi occhi catturarono una lacrima scintillare sul viso di lei, cadere dalle palpebre adornate dalle ciglia color rame, scivolare oltre le guance. Lui fece un profondo respiro, chiuse gli occhi. Il viso di Ginny era ancora chinato, il capo una cascata di sangue. – Ma tu non hai ancora ribattuto ad una sola mia parola, Weasley.

Si abbassò, le prese il mento con una mano e lo sollevò, in modo da poter catturare il suo sguardo. Qualcun altro aveva fatto quel gesto la sera prima. Ma questa mano era ferma, e fermi e magnetici gli occhi metallici. Avevano una sfumatura azzurra, le sembrò di notare, e c’era ancora qualche chiazza rossa intorno al naso, ma ora il viso era impassibile.

Una mano bianca si avvicinò al suo volto, lenta. Un pollice le disegnò delle ombre sotto agli occhi, terse via le lacrime. Il suo viso era vicino. Molto vicino. Sentiva il suo fiato sul mento, adesso.

-         E non parlerai. – gli occhi grigi si abbassarono, sfiorandole le cosce, scendendo fino al pavimento.

-         Io... non so... – sembrò voler cominciare a dire qualcosa, ma poi si rese conto che non aveva proprio niente da replicare, piccola Ginny. Qualcosa le pulsava a metà della gola. – Non so...

-         No. – si rialzò, lentamente si risedette. Prese un altro sorso dal boccale ormai vuoto. – No. Non sai.

Non disse altro quando lei, ad occhi bassi, si sollevò e lasciò a grandi passi il locale.

 

 

 

Ho aspettato di lasciarmi alle spalle il miscuglio pressante che da giorni si agitava nel mio stomaco, e con un compito di greco in meno sulla mia coscienza invio finalmente il sesto capitolo. Dubito fortemente di essere mancata a qualcuno ma, cari miei (anzi, care mie, considerata la schiacciante maggioranza), non è finita qui. E ci mancherebbe!, aggiungerebbe probabilmente qualcuno dei pochi che segue questa storia sempre più visionaria. Ah, a proposito! Vabbè che è facile facile, ma una caramella a chi mi contestualizza la citazione del titolo (che è citazione si dovrebbe capire dal corsivo... No, Chiara, abbassa quella mano, per te non vale!), convertibile in soddisfazioni realizzabili dall’autrice. Fra le eventuali conversioni non è prevista la scrittura di fanfiction Harry/Hermione, Draco/Hermione, Ron/Ginny (Ehi! questa è interessante, non ci avevo pensato!), Remus/Tonks, Draco/Pansy, Dumbledore/McGonagall, Dumbledore/Snape, James/Sirius (ecc. ecc. ecc.) ed altre coppie altamente odiose quanto inverosimili (e chi mi viene a dire che la Remus/Tonks non lo è, può ufficialmente considerarsi precluso l’ingresso alla setta di eletti Pullmaniani in procinto di essere fondata da me e Thilwen), la traduzione di versioni di latino o greco (specialmente di quest’ultimo), una pronuncia polita e diffusibile sul personaggio di Harry Potter, nonché su Dante Alighieri, Agostino e Tommaso, Ratzinger o l’attuale maggioranza di governo.

Credo di aver concluso lo sproloquio. Dulcis in fundo, spazio ai ringraziamenti ad personam:

Helen Lance: De hi hi ho ho... ebbene sì, cose cattive oscure e malvagie, anche se non per chi si pensa davvero... Chi vivrà vedrà, soprattutto il prossimo capitolo, che è per me fonte di grande soddisfazione (perché di soddisfazioni me ne sono tolte...). Grazie grazie! Contentissima che la storia ti stia piacendo, ma i complimenti sono esagerati. Ce n’è di gente decisamente più meritevole in giro... Ma mi fa davvero piacere, grazie!

Briseide: I soliti ringraziamenti, anche questi non di rito ma sentitissimi (anche qui non sta decisamente bene, ma io sono iperbolica insitamente...). Mi fa davvero piacere che ti piaccia il mio Draco, ma probabilmente è la situazione che tira fuori il meglio (che è il peggio) dei personaggi. Sia lui che Ginny hanno sviluppato una certa abitudine alla lucidità, e, a mio parere, è ciò che dà loro la coscienza di scegliere almeno ciò che possono concedersi. Il pianto a mio parere, seppur caratteristica banale, è una connotazione quasi essenziale in un personaggio spesso debole (in tutti i sensi) come Ginny, se la si vuol rendere più naturale. Beh, che dire, grazia ancora, davvero, dei tuoi commenti-guida, della tua attenzione. Spero tu gradisca anche questo capitolo.

Thilwen: beh, in effetti a mio parere il commento era comprensibile, ma spesso ci sono momenti in cui io stessa non comprendo ciò che scrivo... prendi, Danae’s Truth, ad esempio, a rileggerla col senno di poi ci capisco la metà (^^’ Ok, facciamo che nessuno di voi abbia letto niente di tutto questo...). No, no, serietà, ci vuole... Grazie tesoro, il commento è sempre solida e consistente poesia, chiarezza disegnata a tratti tenui, e soprattutto comprensione. Ti voglio bene.

 

Uh, dimenticavo! Vabbé che la pubblicità non è fondamentalmente corretta, e che proprio lei non ne ha bisogno, ma Thilwen ha pubblicato il primo capitolo della sua ultima, splendida, fanfiction, Scribere Oportet Aqua, protagonista una splendida Narcissa Malfoy provata dal tempo, da un ricordo persistente di ciò che è stato, di ciò che è stata. Vi consiglio di leggerla, per quanto possa valere il mio parere e il mio riassuntino patetico, per amore di un paese libero e meritocratico... Un bacio!

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Capitolo 8
*** Capitolo VII - ***


Capitolo VIINon-ritorno

 

Era stanca, affaticata. Sentiva i polmoni come tranciati a metà, il respiro corto, l’aria troppo pesante per essere digerita. E un peso, quel peso sullo stomaco.

Forse non aveva ancora corso abbastanza.

Forse non c’era distanza che avrebbe potuto mettere fra sé e fra chi la inseguiva. Cosa la inseguiva. Cosa?!

Non sapeva. Non voleva sapere. Troppo, troppo dolore. Ancora quel peso sul suo stomaco, eppure forse era proprio ciò da cui fuggiva. Troppe lacrime dietro agli occhi, sulle guance, sul collo, sul cuore.

Sentì due dita sopra al suo mento, che le alzavano il viso da terra. Un tocco leggero sotto alle palpebre chiuse. Fiato sopra ai suoi occhi. Caldo e dolce, in quella notte fredda, immensa.

Chissà che quello sguardo plumbeo non illuminasse la strada buia, in quel momento.

Ma quando tese le mani e riaprì gli occhi non c’era niente. O meglio, il buio c’era ancora. E c’era anche un respiro, corto ed incostante, al suo fianco.

Qualcun altro stava facendo dei sogni agitati, quella notte. Dubitava però, che ci fossero occhi grigi a disposizione per tutti.

Abbozzò un sorriso alla fitta oscurità, si avvolse stretta fra le lenzuola, si asciugò le lacrime col palmo della mano. E si morse le labbra.

Forse era fuggita abbastanza, Weasley.

Sentì un flebile lamento provenire dal suo fianco. Una gamba sfiorare la sua. La nuca di un estraneo agitarsi contro il cuscino.

Il suo estraneo quotidiano.

Si avvicinò al viso dell’uomo, tentando di ricordarne i lineamenti e confrontandoli con l’ombra che ne rivelava l’oscurità. Accostò la mano alla guancia, lasciò che il suo dito indice disegnasse il suo profilo.

Fronte, naso, labbra, spesse e rosee; le ricordava sulla sua pelle. Qualche screziatura luminosa fra i capelli chiari.

Spostò il suo bacino contro il fianco dell’uomo. Si strinse nelle lenzuola, i gomiti a contatto con la pelle dell’altro. Una sagoma nera sull’avambraccio.

Un sospiro.

Chissà di che colore sono i suoi occhi...

 

Inebriante. Odore di luoghi lontani e di casa. Casa. Odore di ricordi.

Cominciò a bere il suo the, con il giornale davanti, la mente altrove, scomparsa, come i pensieri.

Nient’altro che quello: liquido, caldo, fiotti di rassicurazione dalla gola a tutto il corpo. Serenità, o molto più probabilmente l’assenza di questa. Assenza di sentimento, che bussava fuori dalle finestre, fuori dalla sua mente pulsante ma distaccata.

Niente rimpianti, oggi, lo prometto.

Solo calore, silenzio, carezze lontane. Fiato sul viso. Occhi dentro agli occhi. Mani sul cuore.

E parole taglienti.

Assolutamente no. Tutto ciò non tocca e non fa male. Come può? Un mangiamorte? Un Malfoy? Un... Draco? No. Certo che no. Probabilmente. Forse. Non saprei. Sì.

Grazie, cara. L’ho già detto. Niente lacrime, oggi. Se ciò può servire, anche se non vedo come,continuerò a sognarlo, perché mi fa bene, continuerò a vederlo al mio fianco che sorride e beve il the, liscio, niente zucchero, limone o latte. Harry, forse. Però ha gli occhi grigi e turbinosi. E fa male.

E allora forse non dovrei.

Ma non c’è altro.

Spalancò gli occhi. Le si bloccò il respiro. Rischiò di soffocare, un sorso un po’ distratto, un pensiero che l’aveva svegliata e stupita come una doccia fredda e improvvisa. Gelo, ma chiarezza. Sentiva la testa girarle quando posò la tazzina e si alzò, afferrando il mantello gettato con noncuranza sulla spalliera della sedia. C’era troppa nebbia intorno. Rumori, assordanti, insistenti, pressanti. Come alti fischi da dentro qualche angolo della sua mente.

E poi il buio. Un buio fermo e immobile. Ne ebbe paura, ma almeno c’era silenzio. Però...

Aveva chiuso gli occhi, di questo ne era sicura. E la testa aveva ripreso a dolerle, più di prima. Brusio, di nuovo. Ronzante.

Aveva chiuso gli occhi. E li riaprì. E come avrebbe dovuto aspettarsi (Teorema già sperimentato, del resto, si disse), c’era qualcosa a poca distanza dal suo viso.

Si lasciò scappare qualcosa a metà fra lo stupito ed il rassegnato.

Lo sapeva. Non poteva dire di non averlo sempre saputo. Che ciò che aspettava, da cui era più spaventata, che tanto desiderava, sarebbe accaduto, prima o poi.

La vita è prevedibile, quando non c’è da scegliere.

-         Stai bene? – conosceva quella voce. Morbida, aperta, alta. Verde. Come i bagliori danzanti dietro alle lenti.

-         Harry. – mormorò solamente, con un profondo respiro.

 

Di nuovo quella sedia e quell’angolo. Niente the caldo, tra le mani. Vetro, trasparente, come l’acqua dentro. Fredda, come quel turbine ignoto che spadroneggiava nello stomaco. Come lo strano, galleggiante silenzio.

Harry tentò di sorridere. Aveva una mano poggiata sul mento, si tirava e torturava la pelle sull’osso. Gli riuscì solo di storcere gli angoli della bocca. Un che di grottesco, in mezzo a tutto quel gelo. Dentro. Fuori. Di lei.

-         Allora?

-         Mm? – inflessione leggermente interrogativa. Occhi sui suoi. Vi leggeva un certo imbarazzo, mentre lui accavallava le gambe con un gesto un po’ nervoso.

-         Va meglio?

-         Sì. Credo di sì. – laconica. Una certa angoscia traspariva dalla sua voce. Se ne rese conto. Si passò inconsciamente una mano sulle labbra.

Lui tentava di apparire rilassato. Non lo era. Si appiattì più volte i capelli sulla fronte. Sembrava facesse un grande sforzo per riflettere su cosa dire.

-         Stai tentando di fare conversazione?

A lui scappò una smorfia.

-         Beh... sto tentando di incominciare da qualche parte. – poggiò i gomiti sul tavolo, in quello che probabilmente voleva sembrare un fare deciso. La tazza davanti a lui vibrò scampanellando contro il piattino, lasciandosi sfuggire qualche goccia di caffè. Su porcellana bianca. Rivoli scuri. Inchiostro su carta. Ripensò a tutti i Caro Harry che l’altro non aveva mai letto. Ma che adesso anche lei ricordava appena, qualcosa che fu. Non le sarebbero serviti. Non le erano serviti. Lui era lì, ma la sua assenza le pesava ancora.

Si portò una mano al petto, ed aggrottò le sopracciglia.

-         Incominciare cosa? – un moto d’impazienza.

Harry la guardò di sottecchi, mentre giocherellava col cucchiaino, dopo aver zuccherato la bevanda calda. Zucchero. Caffè. Dolciastro. C’era chi non aveva sofferto né  imparato a convivere con l’insipido, allora.

-         Ginny... – gli sfuggì un sospiro. Lei strinse le labbra, abbassò lo sguardo, prossima alle lacrime.

L’avrebbe abbracciato. Le era mancato (le mancava ancora). Lui, Harry. Tutto ciò che avesse mai avuto. Tutto ciò che non avesse mai avuto. Tutto ciò che l’aveva spinta ad andarsene e che le aveva insidiato l’amaro desiderio di tornare indietro, verso quello di cui si diceva aveva già avuto abbastanza, senza fare i conti con il moto perpetuo delle abitudini che torna, sempre, sotto forma di rimorso. Ma ora lo odiava. Eppure era tutto come prima. Perché non c’era nulla da dirsi, nulla era cambiato. Era cambiato qualcuno. Non lui. Nemmeno il suo amore verso ciò che lui era stato.

Era stato.

-         Questi anni, Ginny. Io... mi sono... dovuto allontanare, lo sai, affari dell’Ordine. Tu... perché l’hai fatto? Tua madre...

-         Hai rivisto mia madre? – deglutì. Inspirò. Avvertì qualcosa risalirle su per la trachea, spingere sin da sotto al diaframma. 

Si torse le mani. Non aveva intenzione di mostrarsi debole davanti a lui. Non di nuovo.

-         Sì. Silente. Mi ha detto di tornare, di andare da vo... loro. – Ginny rimase impassibile, gli occhi ambrati come pesanti e truci pugnali conficcati sul suo viso. Harry avrebbe voluto distoglierne lo sguardo: lei lo avvertì. Ma sentiva anche che non ne era capace.

Egli prese un respiro profondo, socchiudendo per un attimo gli occhi, spostandosi indietro gli occhiali in un gesto meccanico. Tentò di continuare.

-         Ginny... Credi che sia stato facile per me? Trovare quella che per me era come una famiglia, distrutta? E tu? Scomparsa? Non sai che dolore hai dato a Molly, io...

-         Perché te ne sei andato? – quelle poche aspre parole le sgusciarono fuori dalle labbra prima che potesse accorgersene. Non rimpianse di non averle fermate quando lo vide trasalire.

-         Io... lo sai... te l’ho detto... la missione...

Acuta e bassa come un sibilo, una risata s’insinuò rapida fra tutti i pensieri che lottavano cercando sfogo fuori dalla sua bocca. Poteva percepire la tensione dell’altro salire.

-         Bravo, ma bravo. Di certo il tempo per trovarti un alibi non ti è mancato. – lui abbassò lo sguardo, e il cuore della ragazza ricevette una stretta più forte mentre tutte le sue supposizioni si rivelavano vere – Chissà sei hai sedotto e abbandonato anche Silente per convincerlo ad assegnarti questa fantomatica, oscura e soprattutto lontana missione. Il suo povero e anziano cuore non avrà retto per il dolore. – incrociò le braccia sul petto, mentre qualcosa saettava sul viso di lui, un lampo rosso, d’irritazione forse, di vergogna.

-         Silente non è argomento su cui scherzare adesso, sta molto male, e...

-         Oh, sì, certo. Il nostro Silente. Come faremmo senza di lui? Lui ti capisce, vero, Harry? Povero ragazzo incompreso, che agisce per il bene del mondo? È sempre stato lui a giustificarti e portarti via dai guai, nevvero? E così tu con tanta abnegazione vai e ti sacrifichi per tutti in pericolose missioni. E quindi, tornato, vedi il tuo piccolo universo perfetto andato in pezzi, ti guardi intorno, ed è tutta colpa degli altri. Come sempre. Perché non ti passa mai per la testa, né per il cuore, né per lo stomaco, perché forse quella è la parte più sensibile che possiedi, che sia tutta, solo ed esclusivamente colpa-tua!

Non stava gridando, ma era come se lo stesse facendo. Vide Harry spostarsi indietro sulla sedia, inconsciamente, sconvolto da quel sibilo basso e penetrante, attraverso gli occhi socchiusi che ribollivano di rabbia. Il veleno pungente della voce di lei affondato sotto alla sua pelle. Lui aveva stretto i denti senza accorgersene. Non riusciva ad abbassare lo sguardo, per trovare conforto sul pavimento di cotto, calmo, rassicurante, ordinato.

Ginny scuoté la testa lasciando la lunga chioma ondeggiarle dietro alle spalle in suggestive onde scarlatte, furiose, sanguigne.

-         Ma... – provò a ribattere.

-         Sì? – Harry rabbrividì a quella s strascicata e furiosa – Sì? Continua. Non ti stai tormentando? Non è da quando mi hai vista svenuta sul pavimento che la domanda ricorre ansiosa e pressante ad intervalli, nella tua testa? Chiedimelo, Harry. Chiedimi dove sono finita, e cos’è che mi rende tanto frustrata da aggredire te dopo tanto tempo, dopo che avevi progettato un ritorno in grande stile, indifferente, distante, freddo, dopo quello che mi hai già fatto. Avevi immaginato tutto, io che ti sarei saltata al collo, magari, e tu che mi avresti scostata con le tue belle parole pompose e ridondanti perché avevi cose più importanti da fare. Non è vero?

Lui avvampò, si mosse leggermente in avanti, poggiando gli avambracci sulla tavola, gli occhi verdi prima smarriti ora animati da un barlume di indignazione.

-         Credo che ora tu stia esager...

-         No, Harry. Non esagero affatto. – Ginny ansimava, adesso – Non esagero affatto. – scandì ogni parola, sottolineandole con respiri corti e affannati.

Si alzò in piedi, china sul tavolo, e afferrò repentinamente un polso dell’uomo davanti a lei, avvicinandosi al suo volto, portandosi a pochi centimetri dal suo viso. Un fremito le attraversò la schiena e si accorse che era disgusto. Si ritrasse, sbattendo veloce le ciglia, una smorfia involontaria sulle labbra vermiglie.

-         Ma credo che tu possa renderti utile per la prima e ultima volta.

Qualche gocciolina di sudore scese dalla tempia alle guance dell’altro, mentre lei si alzava ed il suo mantello, di nuovo sulle sue spalle, gli frusciava accanto.

-         Puoi riferire a mia madre che non è colpa sua, se sono andata via. Ho avuto tempo per rifletterci. – gli occhi di Ginny saettarono – Il mio punto di rottura sei stato tu. Ed è colpa tua se adesso tutto ciò che sua figlia può fare è la puttana.

Non vide l’espressione di Harry quando uscì fuori, calma, con passo controllato. Sperò di non vedere neanche la propria, non era sicura di quello che avrebbe potuto trovarvi.

Si passò una mano sulle labbra e spalancò gli occhi quando si rese conto di quale fosse l’ultima parola che avesse pronunciato. Sospirò.

Sentì la porta sbattere dietro di lei, e si voltò di scatto. Non avrebbe osato seguirla. All’improvviso si sentì un po’ stretta nel cortiletto del retro del locale, compressa tra quelle quattro mura e le pattumiere davanti a lei. Ma la figura alta ed incappucciata lì davanti non era Harry, non era Harry che batté la bacchetta su un mattone alla sua altezza, e la precedette nel varco verso il centro vibrante del mondo magico.

Non erano di Harry gli occhi grigi che lampeggiarono un attimo sul viso pallido, incorniciati di capelli biondi, troppo pieni di parole per quel silenzio.

-         È già un passo avanti ammetterlo, Ginevra. – un sorriso quasi ghigno, ma, capì per la prima volta, sincero come pochi altri avesse mai ricevuto.

Decisamente non era Harry l’ombra che scomparì senza un rumore tra la gente nella strada affollata.

 

 

Eccomi di nuovo qui, in una breve pausa dai miei pressanti impegni esterni, per tentare di soddisfare le mie care pulsioni interiori. Penultima puntata! Una delle più soddisfacenti, più che altro per i numerosi sassolini che ho potuto togliermi dalle scarpe (sospiri di sollievo ad intermittenza tra una parola e l’altra. Che bello essere quasi soddisfatti dei propri lavori).

Ok, la smetto con le mie tiritere prolisse ed insopportate, anche perché il mio tempo è davvero poco, ed è giusto lasciare spazio alle risposte. Ma prima di tutto, devo congratularmi con voi per aver indovinato, anche se l’avevo detto che era facile! Ebbè...

Thilwen: Wow, grazie tesoro, i tuoi commenti sono sempre più commoventi (sarà l’avvicinarsi della fine), nonostante i Wordsworth che pendono come spade di Damocle sulla tua testa... Ebbene sì, lo scorso capitolo, con quarto e ottavo è uno dei più belli, ma non c’è bisogno di ricordarmi che avrei dovuto imporre a Draco di comparire più spesso... anche se a me la diluizione non piace mai, non per niente la mia media è di fanfic di due pagine. Sì, e fortunatamente nessuna delle mie lettrici è tanto crudele da impormi qualcosa del genere... M’invidio da sola...

Izumi: Non ti preoccupare, ma stavolta dovrai essere tu a perdonarmi per la brevità della risposta... Bravissima ancora per aver indovinato... Sono sempre più contenta del tuo giudizio su Draco, che personalmente adoro (come già ben sai, e suppongo si noti anche da tutto ciò che gli metto in bocca...). Grazie anche per il solo fatto di perdere tempo con me, e non preoccuparti. Il prossimo è l’ultimo capitolo comunque... badate che però non vi lascerò per così poco!

Briseide: E qui devo lasciarmi qualche secondo per sopprimere un rossore spontaneo. Avrei bisogno di ancora un po’ tempo per digerire tutti questi complimenti, ma mi sa che dovrò farmi bastare quello che ho... Grazie grazie grazie, suppongo sia superfluo nonché banale ripetere quanto sia lusingata, ma non posso fare altrimenti. Spero di riuscire trattenerti almeno fino al prossimo capitolo, allora. Un bacio, e grazie ancora.

Helen Lance: E grazie anche a te! Su, che ho praticamente finito...

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII - ***


Capitolo VIIIIn a fish bowl

 

Non si era mai sentita così. Tremante. Vittoriosa. Sconfitta. Scossa da fremiti invisibili, emozioni represse, lacrime che lottavano per uscire fuori insieme a scoppi isterici di risa. Si agitava sul letto. Completamente vestita. Abiti del giorno prima. E la sera non aveva voluto vedere nessuno, l’aveva detto a Mrs.Greystone di quel suo forte ed insopportabile mal di testa. Non si sentiva in grado.

Nonostante avesse rinunciato al suo passato, ed un senso di trionfo le desse quel vago e soffuso piacere che non si sarebbe mai aspettata.

Ma forse più che al suo passato aveva rinunciato ad Harry.

Harry. Ciò che era stato. Ciò che non sarà più, si disse risolutamente. Mai più.

Però in tutto quello c’era anche tristezza. Dovuta a non sapeva che cosa. O forse sì. Certo, la sua risoluzione. La sua indecisione. Codardia. E angoscia, per il passo che sentiva non avrebbe dovuto fare. Per la solitudine di quella stanza estranea di estranei, piena di volti che non avrebbe voluto conoscere, di labbra sulle sue che avrebbe preferito allontanare. Come una volta. Un sì, o un no. Ma era proprio quello da cui lei si era ostinata a fuggire, caparbia nei suoi ideali forse, nella certezza di questo dubbio infinito, perché le bastava aver distrutto la sua vita senza dover aggiungere altro ai pesi che premevano sulla sua schiena. Schiaccianti. E non c’era nessun giusto e nessun sbagliato. C’era il grigio che nemmeno aveva voluto scegliere. Scegliere.

Sì, scegliere. Perché anche la morte è una scelta, Weasley.

Si portò le mani al viso, tentata dall’urlare, per liberarsi di quelle voci, di quei sogni, tormentosi, angoscianti, e tornare a non pensare e a pensare troppo.

Perché sentiva di dover fare qualcosa, ed indietro non si poteva tornare. Non l’avrebbe fatto. Non avrebbe rinunciato al suo ultimo orgoglio. Ma le molteplici direzioni che si districavano adesso di fronte ai suoi occhi appannati ottenevano solo di confonderla. E di gettarla nel più completo panico. Per la sua eterna indecisione. Per quello che aveva voluto e dovuto fare e di cui adesso si pentiva. Per ciò che non vedeva davanti a lei. Per la mano che avrebbe voluto afferrare, chiudendo gli occhi, lasciandosi trasportare. In un altrove più vicino al grigio che era il suo destino.

Al grigio dei suoi occhi.

Qualcuno bussò. Chissà come, chissà dove. E come se questa fosse stata la molla di tutte le sue costrizioni, iniziò a piangere. Deliberatamente, irreparabilmente. Ad occhi chiusi, singhiozzando, gemendo, gridando, liberandosi di ogni gravoso silenzio in cui si era rinchiusa, delle parole che avrebbe voluto dire, delle urla che avrebbe voluto lanciare al mondo, destino, vita crudele, a chiunque altro potesse essere accusato, perché io non ho colpa, io non ho colpa, io non ho colpa...

Sentì. Una mano le accarezzava i capelli, glieli scostava dal viso, le sfiorava le guance bagnate come un alito di brezza, lontano sul mare. Si riscosse con un tremito, gemette ancora.

-         Tu non hai colpa. – sussurrato piano al suo orecchio scoperto, ai suoi occhi gonfi e lacrimanti, al suo viso macchiato di pianto. Quelle parole le sembrarono la verità più incontestabile che avesse mai sentito, pronunciate con la sua voce morbida, suadente, greve.

Annuì, tenendo le palpebre abbassate, l’espressione deformata da quell’acuta tristezza, tremante.

-         Tu non hai colpa.

Le asciugò le lacrime con il palmo, fresco e asciutto, morbido, contro la sua pelle umida.

-         Tu non hai colpa.

Le dita arrivarono alle sue labbra, ne disegnarono i contorni, lievemente, con dolcezza.

Ginny sollevò la testa. Tese le mani, cercando il suo viso. Tastando senza sguardo i suoi capelli, le orecchie, le guance.

-         Quale altra consolante contraddizione mi rifilerai oggi? – mormorò, poi mordendosi un labbro, abbassando di nuovo il capo come per permettere alle lacrime di arrivare per la strada più breve.

-         Di quale altra contraddizione parlano le tue lacrime, Ginevra?

E fu allora che decise di guadarlo. Al suo nome pronunciato con un sorriso invisibile, lo stesso, provocatorio, dolcissimo, che aveva riempito le sue notti. E le sue visioni, continue, di the insipidi e case lontane.

I suoi occhi erano lì, gli stessi di sempre, ma sentì di non poterli guardare più a lungo. Sentì che il peso dei suoi errori era scritto nel costante fiume di parole che sgorgava dalle limpide pozze grigie davanti a lei, fiume che tormentava come un fastidioso brusio le sue orecchie, che la sfiorava con quelle dita algide e sottili, che le ricordava rimpianti e rinunce.

-         Ho allontanato ancora il mio passato. – biascicò, e le sue mani corsero verso il proprio viso in cerca di sollievo.

-         Vi hai rinunciato, Ginevra. Perché non vuoi ammetterlo? – la sua voce era miele, stillava dolcezza e pace per gli occhi arrossati, stillava comprensione. Spingendola verso un precipizio.

Portandola a dire ciò che non aveva mai confessato neanche a se stessa.

-         Perché ho perso l’unico legame che mi teneva in vita. Ho perso il mio passato. Ho abusato della mia speranza, l’ho lasciata marcire, l’ho gettata in faccia a colui che era stato per me vita. Ho detto addio ad Harry. L’ho gridato. Ed ora non ho più nient’altro. Senza neanche sapere perché l’ho fatto.

Lui la fissava, cercando il suo sguardo, sollevò il suo viso e i suoi occhi all’altezza dei suoi. Il suo profilo affilato le si avvicinò pericolosamente, severo, impassibile, immobile.

-         Quando smetterai di mentire a te stessa?

Parole più taglienti del ghiaccio, adesso.

-         Cos’è che vuoi da me? – una voce che era un sussurro, inevitabile, supplichevole, lamentoso.

Lui sospirò.

-         Legge del taglione. Occhio per occhio, dente per dente. Quello che hai dato a me, ora devo restituirti. Dovere divino e necessario, Ginevra. – rispose alla sua occhiata interrogativa e tormentata, al viso dolorosamente concentrato, alle mani che si rincorrevano tremanti, ora sul suo grembo – Sei stata tu a cominciare. Ricordi? Quel giorno nel locale. Nel buio. È toccato a te risvegliare i miei rimorsi. Per acutizzarli prima della fine, ho pensato allora. Per permettermi inconsapevolmente d’imparare davvero ad accettare come mi ero costretto a fare, senza riuscirvi, in realtà. Ed ora ci sei tu, davanti a me. Sei sola, e senza un futuro, lo so. Tu mi diresti di non essere. Ma io so già. So tutto. – la sofferenza sul suo viso era diventata intensa incredulità – E ti dico che il primo passo per superare è comprendere. Comprendere le proprie scelte. Anche se è ciò doloroso. Anche se queste sono dolorose.

-         Smettila di tormentarmi. – riuscì appena a biascicare lei, fra i denti, stringendo gli occhi e frenando le lacrime. Non stavolta. Non ancora. Basta così. Sì, era abbastanza.

Era fuggita abbastanza.

Niente da fare, pensò. Le lacrime si ostinavano a scendere, pioggia salata sulla sua pelle abusata. Estranea. Rifiutata persino da se stessa.

-         E chi altro ti vorrà mai, Ginevra Weasley? – rispose, sorridendo, scostando la sua cortina di lunghi capelli sanguigni, facendosi spazio nel suo dolore, avvicinandola a sé, stringendola al petto.

Le scappò un singulto nervoso, ma alzò gli occhi, di sua sponte, per fissarlo meglio in viso, i lineamenti distesi per la prima volta da quando li aveva visti, in quello che era davvero un segno aperto e puro sul suo viso latteo e aspro.

Lo fissò, e si perse nei suoi occhi grigi. Accarezzò con lo sguardo la sua anima, ora aperta, schiusa, davanti a lei, per lei sola. E si accorse che tutto ciò che aveva pensato, per lei, per tutti, non era vero, che di vero c’era solo quello che non aveva osato immaginare, e che ora aveva davanti.

Che vedeva con la chiarezza di un mondo racchiuso dentro ad una boccia di cristallo.

E allora fu lei a cercare le sue labbra tanto a portata di bocca, i suoi denti con la sua lingua e la sua lingua coi suoi denti. Cercò di strappargli a forza tutto ciò che aveva da dirle, tentando di spingersi sempre più in fondo, voracemente, quanto una ragazzina inesperta a cui sia concesso il suo primo, grande amore. Con le lacrime agli occhi, ancora.

Lui rispose al suo richiamo, e le afferrò il viso tra le mani, asciugò le lacrime con la saliva, ad occhi chiusi le esplorò il viso e il collo.

Ma fu lei a tirarlo sopra di sé, a tendere per prima le mani sotto i suoi vestiti, a spogliarlo della tunica scura, della camicia di sotto, a cercarlo in una frenetica corsa spinta e affrettata da bisogni e desideri, a spingerlo dentro al suo corpo, per la prima volta dopo tanto tempo a chiamare qualcuno dentro di sé. E finalmente sentì che tutto quello non era solo pelle. E che quel luogo in cui la sua anima abitava non era più tanto estraneo. Che in qualche modo, in quel momento, avvinghiata al suo corpo, incatenata alle sue braccia, stava vivendo, e quel luogo era casa. Ed era tutto ciò che stesse cercando.

E quando aprì gli occhi, sudata, ansimante, non più vuota ma con qualcosa dentro, che le pulsava, e si faceva spazio dentro di lei spingendo via tutto quello che sentiva esserci stato prima, si vide spaventata ed appagata in quei suoi occhi profondi e trasparenti, vide il mondo deformato e chiuso fuori dallo spesso vetro della vita di lui, dall’accettazione attraverso la rinuncia, che adesso anche lei aveva abbracciato.

E lui sorrise, sorrise ancora. Quasi radioso, stanco, scivolando accanto a lei senza lasciarla, le sue mani attorno al suo bacino, il suo respiro affannato contro il suo braccio, senza alcuna pressante possessione, ma con un senso di remissiva appartenenza.

-         E adesso? – si ritrovò a chiedersi, chissà se a lui, a se stessa o all’oscurità dentro e fuori la stanza.

-         E adesso è ancora presto. Domani. Domani la guerra finirà. – rispose lui, prendendo un profondo respiro, puntando agli occhi al soffitto della stanza, con quella lieve increspatura di dolce sicurezza sulle labbra.

-         E allora, Draco? – pronunciò il suo nome senza volerlo davvero fare, ma ne sorrise, e così anche lui, lasciandosi andare in lievi sussulti gioiosi l’una fra le braccia dell’altro.

-         E allora, finita la guerra, ci sarà anche posto per l’amore.

 

 

Fine.

 

 

OK OK OK. In genere tento di trovare la forza di rileggere i capitoli, considerate le numerose sviste che ritrovo ogni volta, ma oggi non ce la faccio proprio.

Mi spiace di non essermi fatta sentire per diverso tempo, anche per rispetto nei confronti di voi stupende lettrici, ma è stato un periodo davvero pieno. Questi pochi giorni di ponte sono stati una toccasana, vista la mia stanchezza, nonostante fossi strapiena di cose da fare. Ed oggi, finalmente, trovo un po’ di tempo per pubblicare l’ultimo capitolo di questo bel macello.

Non so se vi ho mai detto quanto mi costi scrivere qualcosa di diverso da un happy ending. I finali cupi mi piace leggerli, ma a meno essere davvero depressa (cosa che in verità, per mia fortuna e di chi mi sta accanto, non accade da molto tempo), non mi riescono davvero. Far male ai miei personaggi (vabbè che qui non lo sono proprio, ma l’affetto è affetto...) è una sorta di masochismo inarrivabile per la mia etica. E poi in una coppia del genere, voglio dire, se il lieto fine non ci fosse qui, figuriamoci nei libri veri... Che poi diciamocelo, in confidenza, non è che siano di questa grande bellezza, è solo l’idea che non era male.

Basta così. Mettiamo fine a questo sproloquio. Avrò qualcos’altro da inviare dopo, niente di semi-leggibile come mi vanto sia questa fanfiction, solo un paio di meri passatempi estivi...

Quel che mi dispiace è che non verrà mai finito l’ultimo dei miei progetti potteriani,di cui Chiara è a conoscenza, in quanto ha letto le prime due parti, ma sono senza ispirazione e ormai piuttosto lontana dallo stato semipuro in cui ho iniziato a scrivere. Ma non ne sentirete la mancanza, posso assicurarvelo. E poi, scusate, ma non ne posso proprio più, vorrei davvero passare ad altro, sempre che mi riesca...

Ho ricominciato. Va bene, va bene, la smetto. Rispondo ai vostri commenti, anche perché ve lo meritate proprio. Alla prossima!

Abigale: Vedi? Ho inconsciamente esaudito la seconda parte del tuo contrastante desiderio. Ma la prossima volta sii più chiara, o dovrò rimanere dilaniata dal dubbio di aver fatto bene o meno... Un bacio!

aletheangel: “Tra poco”, relativamente, come vedi tu stessa... Grazie del commento, comunque, lusingata della tua attenzione. Spero la fine ti soddisfi.

Thilwen: “Chiara, t’ittasti!” è il primo commento che affiora spontaneamente alle labbra... Troppi complimenti, tesoro, ma sai quanto ne avessi bisogno, di scrivere qualcosa del genere. In realtà penso che dovrei fare un mestiere del pubblicizzare i miei sfoghi e spacciarli per fanfiction... finora mi è riuscito moderatamente bene. Tu parli di compito di mate? A me sono andati all’aria tutti i miei progetti di scrittura pomeridiana grazie al CANTIERE... il prossimo mese, la grafica se la fa qualcun altro... (a proposito di bei commenti e belle risposte, insomma... comprendimi, non ce la faccio più! Ti voglio bene.)

Briseide: Rossore ormai canonico, e ricerca disperata di qualcosa di sensato da dire. Anch’io amo Baricco, ed in realtà, quando ho letto “Seta” (credo tu lo conosca), mi è salito in gola una nodo di rabbia, perché ha scritto il romanzo che io avrei voluto scrivere da sempre. Grazie anche per il riferimento ai film francesi, che mi piacciono infinitamente. Musicalità e colori. Mi piacerebbe poter dare quest’effetto con le parole, anche se ciò probabilmente suona in modo un po’ troppo pretenzioso. L’intento è quello comunque, l’ispirazione anche. Grazie dei tuoi affascinanti conforti ad ogni capitolo, grazie.

Izumi: Beh, dubito che Thilwen si sia offesa... non ti preoccupare, per quanto vasto possa essere il vocabolario italiano, c’è sempre qualche termine che difetta... Sì, non so si fosse capito quale fosse l’intenzione del capitolo, ma credo fosse abbastanza evidente. Anch’io non lo posso vedere, ma fortunatamente, qui siamo tutte d’accordo... Non per niente questa è una “Draco/Ginny e Harry ci rimane fregato”. Avrei voluto specificare in tal modo il pairing a inizio storia, ma in qualche modo ciò sarebbe significato anticipare, e la storia avrebbe perso quel minimo di attrattiva. Grazie davvero, anche per aver notato lo zucchero nel caffè. È un particolare che mi è piaciuto sottolineare, e vederlo cogliere dà una certa diffusa soddisfazione... Ci vedremo presto, comunque, non vi abbandonerò ancora del tutto (dillo che ci avevi sperato...). Un bacio, allora. Spero che il finale ti abbia soddisfatto.

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