Capitolo due. – Le facce–
(parte 1)
“Se qualcuno ama
un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni
di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.”
“Ma
se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto,
tutte
le
stelle si spegnessero.”
Da Il piccolo
Principe.
Cammina lungo un corridoio che non riconosce, per
via della poca luce che lo circonda; nella mano destra regge una bomboletta
spray. Le dita sono ancora sporche di vernice, così come la sua maglietta.
Vernice rossa, stipata fra le pieghe della sua t-shirt; ma lui non ci bada.
Infila una mano fra i capelli a spazzola, arruffandoli. Sorride orgoglioso,
evocando l’abbozzo di graffito che ha tratteggiato su un muro dietro casa; sa
che suo padre lo riprenderà una volta rientrato, ma per il momento decide di
non curarsene. Raggiunge l’ingresso di casa Gilbert, e c’è silenzio, un silenzio insolito, perfino per quell’ora tarda -. Il
singhiozzare sommosso di una donna smorza quella quiete innaturale, e quando
Jeremy raggiunge la cucina, il sorriso sulle sue labbra sfiorisce, appassendo
per sempre. Le ginocchia gli cedono, la bomboletta di colore rotola a terra, i
suoi occhi si velano di sgomento, spaventati dall’aria tormentata di Jenna.
Non c’è bisogno che la donna dica nulla; in quel
momento Jeremy capisce, e le lacrime bagnano umide le guance, i palmi delle sue
mani si aggrappano al pavimento freddo. Le macchie rosse sulla sua maglietta
assumono un colore sinistro, e Jeremy chiude gli occhi, per proteggersi da
quello che vede, che percepisce in quella stanza.
È il primo dolore lacerante da sopportare, per lui.
Il primo di una lunga serie.
Non fa nemmeno in tempo a rialzarsi, che la porta
della cucina si apre di scatto. Elena irrompe nella stanza, si
inginocchia sul pavimento accanto a lui.
“Klaus sta arrivando.” annuncia scrollandolo, con
violenza. “Jeremy, muoviti, dobbiamo andarcene!”
Non vuole andare via; cerca di opporsi, voltandosi
in direzione di Jenna, ma lei non c’è più. Jeremy si arrende alla presa di sua
sorella, lasciandosi trascinare lungo il corridoio. Non riesce ancora a
distinguere nulla nell’oscurità, ma incomincia ad abituarsi. C’è troppo, troppo
dolore, per riuscire a prestare realmente attenzione a ciò che gli sta attorno.
Escono in giardino, per poi allontanarsi lungo il
viale di fronte a casa, accelerando il passo. Il cuore di Jeremy incespica, nel
momento in cui passano di fronte alla casa dei Donovan: Vicki gli sorride,
osservandolo dalla veranda. Accenna a un saluto con la mano,e
il ragazzo nota che è ancora vestita da vampira, proprio come la sera di
Halloween, il giorno in cui è morta. Cerca di fermarsi; vorrebbe poterle
sorridere un’ultima volta, parlarle, ricambiare il suo gesto di saluto; ma
Elena continua a strattonarlo, facendolo correre in direzione opposta.
“Jeremy!”
Una voce lo raggiunge alle sue spalle, e lui riesce
finalmente a voltarsi, respingendo la presa di sua sorella.
“Jeremy!”
Anna ha un aspetto terribile; la pelle diafana del
suo volto è rigata da segni di frattura sempre più evidenti. Le mani della
ragazza sono strette attorno al paletto di legno ancorato suo
petto, all’altezza del cuore.
“Anna!”
La morsa che fino in quel momento aveva avvolto la
gola di Jeremy scompare, permettendogli di chiamarla a sua volta.
“Anna!Anna!”
Ma
la vampira scuote il capo, lasciandosi cadere a terra; il volto sempre più
cereo, inumidito dalle lacrime.
“Mi hai lasciata andare.” riesce
a sussurrare infine, gli occhi velati dalla paura. “Mi hai lasciato
andare e adesso sarò sola per sempre.”
Jeremy tenta di raggiungerla, ma la presa di Elena
torna a farsi più pesante, le sue scarpe incespicano sul terreno.
Cade a terra, e si accorge che ha da poco
incominciato a piovere; l’acqua diluisce le macchie di vernice sulla sua
maglietta, e il rosso scorre sulle sue mani, mentre Anna rilascia il capo
all’indietro, arrendendosi.
“Non è colpa mia!”
Riesce solo a gridare Jeremy. Tende la mano per
provare ad afferrare la sua, ma non ci riesce.
Non riesce a stringerla un ultima volta; non può
dirle addio.
Così come non ha mai potuto dire addio a Vicki; o
alla zia Jenna. O ai suoi genitori.
“Non è colpa mia.”
E resta a terra, sporco e ferito.
Chiude gli occhi, nella vana speranza di riuscire a
far terminare tutto così; in mezzo a un vicolo, sotto la pioggia. Ma l’urlo di
Elena lo costringe a voltarsi, cementando il suo cuore
di paura per l’ennesima volta.
“Elena!”
Jeremy sussultò, svegliandosi di soprassalto. Scattò
a sedere, tastando freneticamente la superficie della trapunta, mentre con la
mano sinistra cercava a tentoni un interruttore. Aveva
il fiato corto, e il battito accelerato, come se avesse corso per davvero; e
tremava.
Non riuscì a trovare il pulsante di accensione della
lampada, e per un attimo si rannicchiò su se stesso, spaventato e disorientato;
impiegò qualche secondo, per ricordarsi di non trovarsi a casa sua. Non era a Mystic
Falls, ma a Denver, nell’appartamento di Howie e Demetria. Strizzò gli occhi
per mettere a fuoco l’oscurità, allungando una seconda volta la mano sul
comodino, cercando lampada; l’assenza di luce continuò a tormentarlo, fino a
che non riuscì finalmente a trovare il pulsante di accensione.
Quando il buio venne meno nella stanza, Jeremy
riuscì finalmente a recuperare un barlume di controllo su se stesso. Riconobbe
la scrivania piena di libri, la valigia aperta sul pavimento, i vestiti
disseminati un po’ ovunque per la sua stanza, e il respiro incominciò a farsi
più regolare. Le mani, però, gli tremavano ancora. Si sfilò via il sudore dalla
fronte, evocando con un brivido le chiazze rosse sulla sua maglietta, il cenno
di saluto di Vicki, le lacrime della zia Jenna, le urla di Anna.
Aveva fatto un sogno – un incubo -. Era stato tutto
solo un incubo.
Elena stava bene, e anche lui. Erano entrambi al
sicuro.
E lui si trovava nella sua stanza, a Denver: il
posto che ormai aveva incominciato a considerare una sorta di seconda casa.
Eppure lo sgomento non scemò in lui, quella notte.
Nel momento in cui tornò a rilassarsi sotto le
coperte, convinto di essere finalmente riuscito a calmarsi, il respiro prese a
farsi più affannato.
E aveva paura; paura per
Elena, paura per se stesso.
Aveva paura, perché in quel momento capì che
lasciarsi Mystic Falls alle spalle era stato inutile in fondo; perché non
sarebbe cambiato nulla.
Aveva sedici anni, solo sedici anni,
e già aveva già perso tutto.
Non c’era la possibilità di un nuovo
inizio, per lui. Perché il rosso, il sangue, non era solo più sulla sua
maglietta, o sulle nocche delle sue mani: era ovunque.
Non avrebbe ricominciato daccapo: qualcosa dentro di
lui si era spento e i timidi tentativi che stava
muovendo per cercare di rimettersi in sesto, non sarebbero stati sufficienti.
Quella notte, Jeremy mise da parte per la prima
volta le piramidi, le strade trafficate di Denver, il parco, gli occhi azzurri
di Hazel.
“Mi hai lasciata
andare…”
“Klaus sta arrivando. Jeremy, Muoviti, dobbiamo
andarcene!”
Le poche frasi che gli erano state rivolte
nell’incubo, continuavano vorticargli nella sua testa, facendogli male.
Graffiando via quel barlume di luce che stava incominciando a riaffiorare nel
suo sguardo.
“Non è colpa mia.” ripetè
come aveva fatto nel sogno, rifugiandosi sotto le coperte.
Sentiva freddo, aveva paura, e provava dolore.
Ed era solo.
“Mi hai lasciata
andare…”
“Jeremy!”
“Non è colpa mia.” mormorò un’ultima volta,
prima di incominciare a piangere.
Era caduta la notte.
Su di una stella, un pianeta, il mio, la
Terra, c'era un piccolo principe da consolare.
da Il Piccolo
Principe
“Demetria?”
“Che cosa c’è?”
Howie si sollevò su un fianco, osservando con aria
turbata porta della camera da letto.
“Il ragazzo piange.”
Demetria sospirò, sfilandosi via le coperte dalle
spalle.
Scosse il capo con aria triste: nella camera
adiacente alla loro c’era un giovanotto - un ragazzino - un ragazzino
che piangeva.
E non c’era nulla che potessero fare per consolarlo.
“Lasciamolo tranquillo, Howie.” mormorò infine con
dolcezza. “Ha bisogno anche di questo.”
“Gli dicevo: il fiore che tu ami
non è in pericolo. Disegnerò una museruola per la tua pecora…
E una corazza per il tuo fiore. Io…”
Non sapevo cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro.
Non sapevo come toccarlo,come raggiungerlo.
Il paese delle lacrime è così misterioso.
da Il piccolo
Principe.
***
Qualche
giorno più tardi, una domenica, Jeremy sedeva di fronte al televisore,
impigrito dal brutto tempo di quel pomeriggio. Howie occupava come al solito la poltrona, il volto semi nascosto dietro
al giornale che stava leggendo.
“Tutto
a posto, voi due?” domandò in quel momento Demetria, raggiungendoli in
soggiorno, il golfino adagiato sull’avambraccio. “Sto uscendo per fare un po’
di compere. Se avete bisogno di qualcosa, dopo la spesa sarò da Veera, nel palazzo a fianco.”
Nel
sentire nominare il palazzo adiacente al loro, Jeremy distolse lo sguardo dal
televisore.
“Per
caso conoscete una ragazza che si chiama Hazel?” si decise finalmente a
domandare, rivolgendo poi a Demetria un’occhiata incuriosita. “Vive anche lei
nel palazzo di fianco a questo.”
I
Goldman si scambiarono una rapida occhiata.
“Parli
della figlia del dottor Shawn, vero?.” domandò la
donna; il suo viso si illuminò.
“Hazel.
Sì, la conosciamo.” dichiarò poi, sorridendogli con dolcezza. “Proprio una
bella ragazza.”
“è
figlia di un medico?” domandò ancora Jeremy con aria interessata. “Come me.”
aggiunse poi, incuriosito dalla coincidenza: sapeva che Hazel frequentava
medicina all’università, ma lei non le aveva mai raccontato nulla sul padre.
Demetria
annuì.
“Oliver Shawn, era oncologo. E anche una
persona deliziosa,a dirla tutta.” specificò. “C’è
stato addirittura un periodo in cui mi ha aiutato a vedermela con questo
vecchio brontolone qui, quando dovevo fargli la puntura.” aggiunse, accennando
a Howie con il capo. Il marito grugnì, senza distogliere lo sguardo dal
giornale.
“Non
me lo ricordare.” borbottò poi. Jeremy sorrise, prima di tornare a rivolgersi a
Demetria.
“Hai
detto ‘era’?” domandò, disorientato dall’uso di quel verbo al passato.
La
donna annuì.
“è
venuto a mancare due anni fa.” gli spiegò con delicatezza, scoccando poi una
seconda occhiata esitante a Howie. “Ti sarebbe piaciuto Jeremy, era una così
brava persona!”
Jeremy
esitò, distogliendo lo sguardo dalla donna.
Erano
ormai trascorse tre settimane dal pomeriggio in cui lui e Hazel si erano
rivolti per la prima volta la parola. L’aveva incontrata più volte, da allora,
talvolta al parco, talvolta bighellonando nel cortile della sua università.
Avevano
chiacchierato molto, eppure lui non le aveva mai chiesto nulla sulla sua
famiglia. Non sapeva che anche Hazel avesse perso il padre.
Nel
ripensarci, Jeremy si rese conto che c’erano ancora tante cose di lei, che
ancora gli sfuggivano. C’erano dei momenti in cui si trovava a domandarsi se
l’avesse seriamente avvicinata o se fossero ancora incastrati nel periodo in
cui si limitavano a tenersi d’occhio a distanza, sorridendosi di tanto in
tanto.
Hazel
sapeva molto su di lui. Se Jeremy le faceva una domanda, era in grado di
eluderla; le piaceva manipolare le parole del ragazzo a suo piacimento in
maniera da coinvolgerlo nell’interrogativo. E così, alla fine, non era mai lei,
ma Jeremy a raccontare frammenti di se stesso.
A
Hazel piaceva stuzzicarlo, nascondere le risposte alle sue domande, istigandolo
a cercare a lungo, per poi premiarlo con un sorriso, quando si avvicinava alla
soluzione.
I
suoi occhi chiari lo esaminavano con interesse, ma altre volte andavano più a
fondo, disorientandolo. Spingendolo a controllarsi in continuazione, come
se temesse che il suo sguardo avesse individuato in lui qualcosa fuori posto.
Nel suo aspetto, nelle sue parole. Il più delle volte lei se ne accorgeva e
tornava a sorridergli, con quel cipiglio divertito, ma
dolce, che non aveva mai rintracciato in nessun altro volto, se non nel suo.
E
gli piaceva per questo. Gli piaceva, perché sentiva di non avere scampo con
lei, mentre Hazel, al contrario, non faceva altro che sfuggirgli.
Gli
piaceva, perché per la prima volta dopo tempo, sentiva di avere la possibilità
di poter rincorrere qualcosa, senza dover per forza essere relegato in
panchina.
Voleva
eliminarle ogni via di fuga, coglierla in un momento di consapevolezza e farle
ammettere che era attratta da lui, nello stesso modo in cui Jeremy lo era da
lei.
Perché
lei lo chiamava di rado per nome, ma quando lo faceva, il suo sguardo cambiava;
e i suoi occhi sorridevano.
Perché
teneva il ritratto che le aveva fatto in uno dei suoi libri, e lo utilizzava
per tenere il segno.
Perché
l’aveva colpita; Jeremy lo sapeva e basta.
“Il
padre di Hazel era un’artista, vero?” domandò in quel momento, tornando a
rivolgersi a Demetria.
I
due coniugi annuirono all’unisono.
“Dipingeva.”
grugnì Howie, chiudendo il giornale, e appoggiandoselo sulle ginocchia per
piegarlo.
“Il
dottor Oliver era un grandissimo appassionato d’arte.” spiegò ancora Demetria,
sistemandosi il golfino sulle spalle.
In
quel momento, un rumore sordo, li sorprese, spingendoli a voltarsi in direzione
dell’ingresso.
“Che
sta succedendo sul pianerottolo?” domandò confusa la donna. Jeremy si decise
finalmente a sollevarsi dal divano.
“Vado
a vedere.” dichiarò, raggiungendo la porta dell’appartamento. Fece appena in
tempo ad aprirla, che si ritrovò ad arretrare, per via di qualcosa che gli
colpì le gambe.
“Fermo!”
L’inconfondibile
voce di Alexander si mescolò ai suoi passetti affrettati, suggerendo a Jeremy
che il ragazzino stava salendo le scale.
“Torna
qui, torna qui!”
Jeremy
sgranò gli occhi, inginocchiandosi sul pianerottolo; un sorriso divertito prese
ad arricciare gli angoli delle sue labbra: c’era un cane di fronte a lui.
La
creatura scodinzolò con aria soddisfatta, e si avventò di nuovo sul ragazzo,
appoggiandogli le zampe sulle cosce.
“Torna
qui, cagnolino!” strillò Xander, raggiungendo finalmente il pianerottolo. Il
bimbo si appoggiò le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
“Cagnolino?”
osservò a quel punto Jeremy, inclinando appena il capo.
Gli
veniva da ridere: l’animale, che aveva preso a leccargli le mani con
entusiasmo, avrebbe tranquillamente superato – e di molto - Xander in altezza,
se sollevato sulle due zampe posteriori.
“Forse
volevi dire cagnolone!” obiettò, accarezzando con
tenerezza il muso della creatura: non aveva mai avuto un cane. Quando era
piccolo, si era incapricciato con l’idea di prenderne uno, ma i suoi genitori
non si erano mai convinti ad accontentarlo, ritenendo che fosse troppo giovane per potersene occupare.
L’idea
di un cucciolo era una di quelle cose che non era riuscito a togliersi dalla
testa nemmeno una volta cresciuto. E in quel momento, tendendo la mano per
provare a raccogliere la zampa dell’animale, sorrise, pensando che non gli sarebbe affatto dispiaciuto condividere la stanza
con lui. Gli piaceva immaginare di avere qualcuno sempre accanto, specialmente
la notte, o nei momenti in cui rimaneva solo. Qualcuno che dipendesse
totalmente di lui, che si fidasse e che chiedesse solo di essere coccolato e
accudito. Qualcuno che non avrebbe avuto problemi a ritenerlo abbastanza
maturo, da potersi affidare a lui.
“L’ho
trovato nel parco, sai?” domandò in quel momento Alexander inginocchiandosi, per poter accarezzare il cane. “Secondo me non ce l’ha mica il padrone. E poi tremava
tutto!”
Solo
in quel momento, Jeremy notò che il bambino era bagnato dalla testa ai piedi:
Xander doveva essere sfuggito per l’ennesima volta alla sorveglianza della sua
baby-sitter, sgusciando fuori dall’appartamento.
“Può
restare a vivere nella mia piramide!” continuò il bambino. Rise, quando il cane
approfittò della sua vicinanza per leccargli affettuosamente il mento. “Già sto
costruendo le parti… Le facce!” si corresse poi
subito, tornando ad accarezzare l’animale.
Qualche
piano più in basso, una porta si aprì, e dei passi affrettati echeggiarono
nella loro direzione.
Xander
trasalì.
“Nascondimi,
nascondimi!” sussurrò a quel punto, rannicchiandosi
dietro le spalle del ragazzo. Jeremy sorrise sotto i baffi,
riconoscendo sulle scale, la baby-sitter del bambino.
Quando
la donna individuò il cane sul pianerottolo, spalancò la bocca inorridita.
“Oh,
Dio!” mormorò, reggendosi alla ringhiera.
“Ops!” mormorò in quel momento Xander, esibendo un sorrisetto
birichino. Jeremy fece il possibile per trattenersi
dallo scoppiare a ridere; in quel momento, il cane gli diede un colpetto sul
ginocchio con il muso, cercando di attirare la sua attenzione.
“Alexander
Davies!” strillò a quel punto la donna, riconoscendo nell’ammasso di fango e
pioggia rintanato dietro le spalle di Jeremy, il piccolo figlio dei Davies. Gli puntò un dito contro, stizzita,
mentre il piccolo ridacchiava convulsamente.
“Ho
trovato un cagnolino nel parco!” cinguettò poi, spuntando fuori da dietro al
ragazzo. Incominciò a scorrazzare per le scale, tenendo le braccia distese.. “Lo possiamo tenere? Dai, lo possiamo tenere?”
Quando
la donna incominciò a urlare più forte, anche Demetria uscì sul pianerottolo,
incuriosita da tutto quel rumore. Rise quanto Jeremy, nel riconoscere Alexander
che scorrazzava ridendo da un piano all’altro del palazzo, mentre la povera
governante cercava di stargli dietro come poteva.
“E
quello?” domandò poi basita, spostando la sua attenzione verso il ragazzo e il
cane. Jeremy scoccò un’occhiata colpevole all’animale e arrossì.
“Un
regalino che Xander si è portato dietro dal parco.” spiegò, sorridendo con aria
trionfante, quando riuscì finalmente a farsi dare la zampa dal cane.
“Ma che bravo!” mormorò con un sorriso, grattandogli il capo
dietro le orecchie. “Bravo cucciolone!”
Demetria
li osservò, con aria intenerita.
“Gli
stai simpatico!” esclamò a un certo punto Xander, raggiungendoli dalle scale.
Si buttò sul pavimento e gattonò fino a raggiungere il cane, sdraiandosi poi al
suo fianco. “Magari lo puoi tenere tu, mentre io finisco di costruire la mia
piramide!” propose, appoggiando le mani sul manto peloso dell’animale.
Jeremy
continuò ad accarezzare il muso del cane, evitando di incrociare lo sguardo di
Demetria; l’appartamento dei Goldman era piuttosto grande, ma non si sarebbe
mai osato a chiedere ai due coniugi una cosa simile; soprattutto tenendo conto
di quanto fosse grosso l’animale. E non era poi da escludere
il fatto che Xander potesse essersi appropriato del cane di qualcun
altro, vista la sua esuberanza.
Non
ottenendo risposta da lui, il bambino si voltò verso Demetria, rivolgendole
un’occhiata interrogativa. Quando la donna anziana scoppiò a ridere, Alexander
esultò, prendendolo come un sì.
In
quel momento la baby-sitter, -che dopo averlo
rincorso per tre piani di edificio si era finalmente decisa a prendere
l’ascensore - lo colse di sorpresa, afferrandolo per il polso.
“Lasciami!”
esclamò il bambino fra le risa, cercando di divincolarsi. La donna non allentò
la presa.
“Fila
a farti il bagno, piccolo demonio!” borbottò a denti stretti, guidandolo verso
il piano inferiore.
“Lo chiamiamo Tuntancamon?”
fu l’ultima cosa che Jeremy sentì dirgli, prima di osservarlo scomparire
attraverso le fenditure della ringhiera.
In quel momento, il cane scattò a sedere di scatto,
riprendendo a scodinzolare. Demetria sorrise, posando con delicatezza una mano
sul capo dell’animale.
“Pare che Tutankhamon gli piaccia.” commentò.
Jeremy sollevò lo sguardo per incrociare quello di
Demetria, e la donna gli strizzò l’occhio con aria complice.
“Ho sempre desiderato avere un cane.” aggiunse,
aprendo la porta del loro appartamento per permettere all’animale di entrare.
Jeremy rimase immobile sulla soglia, un’espressione
incredula ad illuminare i lineamenti del suo volto:
non riuscì nemmeno a dire ‘grazie’.
Demetria sorrise, appoggiandogli con tenerezza una
mano sulla spalla.
***
"Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatrè
volte!"
E più tardi hai soggiunto:
"Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti..."
"Il giorno delle quarantatrè volte eri tanto
triste?" Ma il piccolo principe non rispose.
da il Piccolo Principe.
Non fu difficile, per Jeremy, abituarsi alla
presenza di Tutankhamon. Meno di una settimana dopo il suo arrivo
nell’appartamento dei vecchi Goldman, aveva già imparato a considerare tutte le
esigenze del cane come elementi di routine. Sapeva in quali momenti della
giornata ci fosse bisogno di portarlo fuori, o quanto dovesse dargli da
mangiare ad ogni pasto. Prima di arrivare a
convincersi che il cane potesse essere considerato suo, lui e Demetria avevano
fatto il possibile per cercare di scoprire se non
avesse già dei padroni, telefonando ai canili e a diversi veterinari nella
zona, e tenendo d’occhio annunci e bacheche dalle parti del parco.
Jeremy si era affezionato in fretta al suo nuovo
compagno di stanza; accadeva più raramente che finisse per sentirsi solo,
perché Tutankhamon aveva preso l’abitudine di seguirlo ovunque, sia
nell’appartamento che fuori, quando decideva di far
visita al parco. E la notte, era un sollievo per Jeremy svegliarsi
all’improvviso e riconoscere al buio il respiro regolare dell’animale
accucciato sul pavimento.
Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non tornava in
lui.
Ci ripensò una sera, mentre accoccolato sui gradini
del suo palazzo, osservava il cielo tingersi di rosa attraverso le porte in
vetro. Tutankhamon era accucciato al suo fianco, gli occhi socchiusi,
visibilmente soddisfatto della mano del padrone
appoggiata sul suo collo.
Jeremy gli sorrise,
tornando poi a volgere lo sguardo verso le porte; il suo sguardo era velato da
un alone di malinconia che di rado si era potuto scorgere tra i suoi occhi nel
corso dell’ultimo periodo.
Ma
da quando quell’incubo l’aveva sorpreso nel cuore della notte, Jeremy aveva
ripreso ad arrancare; svegliandosi dal sogno, aveva riaperto gli occhi
rassegnato. Rassegnato e disilluso.
Per giorni aveva preso a domandarsi che cosa gli
facesse credere che le cose avrebbero potuto finalmente sistemarsi, per lui.
Casa sua era Mystic Falls. Sua sorella - la sua famiglia- viveva ancora lì.
A Denver era riuscito a scrollarsi via un po’ di
detriti appartenenti alla sua adolescenza crollata, sfidando i terremoti e le
correnti d’aria che ancora cercavano di ributtarlo a terra. Si era rimesso in
piedi sulle macerie, in equilibrio precario, e aveva incominciato a ricostruire
qualcosa di nuovo; un pavimento. Una base.
Eppure, un quadrato di pietra, per quanto fosse
solido, non era sufficiente per metterlo al riparo dalle percosse del vento,
dai detriti che ancora lo circondavano, dalle schegge di pensieri tormentati
che continuavano a ferirlo, agitate dai sensi di colpa e dagli incubi.
Aveva creduto di essere finalmente al sicuro, ma si
sbagliava; fisicamente era forse a casa, me dentro di
sé era ancora intrappolato nella tormenta.
“Che cosa stai facendo?”
L’esclamazione vivace di Alexander, riuscì a
scalfire appena l’espressione malinconica incisa sul suo volto. Accennò a un
sorriso, osservandolo fiondarsi sull’ultima rampa di scale per poi allargare le
braccia, gettandosi su Tutankhamon.
“Ciao, Khamon!
Ciao ciao ciao, Khamon!” annunciò ad
alta voce, prima di affondare il volto nel pelo dell’animale. “Oh, quanto sei
morbido!” constatò.
Il cane gli diede un colpetto affettuoso con il muso
e tornò a socchiudere gli occhi, appoggiando il capo sulla gamba di Jeremy.
“Ma che hai?
Sei triste?” domandò a quel punto Xander, rivolgendosi al
ragazzo. Incrociò le braccia sul petto e prese a osservarlo con aria
contrariata.
Jeremy gli rivolse un’occhiata sorpresa, prima di
scuotere il capo, appoggiando la schiena al muro.
“Nah, stavo solo pensando.” lo tranquillizzò,
tornando ad osservare fuori; il cielo stava ormai
iniziando ad annerirsi. “Non dovresti essere a casa, tu?” domandò a quel punto
accennando a un sorrisetto divertito. “Mi sa che è quasi ora di andare a
letto.”
Xander scosse energicamente il capo,
battendosi poi i pugni sulle ginocchia con aria cocciuta.
“Macché!
Mica sono un poppante, io!” si lamentò prima di balzare in
piedi. Scavalcò a piedi uniti gli ultimi due gradini della scala e
atterrò a terra con un tonfo. “E poi dovevo salutare Tuntankamon!” aggiunse, tornando
a coccolare l’animale. “A cosa stai pensando?” aggiunse poi, spingendogli le
gambe contro il muro, per cercare di farsi spazio fra il cane e il ragazzo.
“Stavi pensando a Hazel?” aggiunse poi ancora,
mettendosi a gambe incrociate sul gradino.
“Perché sei triste?” continuò imperterrito, senza
lasciare il tempo a Jeremy di rispondere alle prime due domande. Il giovane
sbuffò, appoggiandosi gli avambracci sulle ginocchia, mentre lo sguardo deciso
del bambino lo interrogava con insistenza.
“Ti ho detto che non lo sono.” gli ricordò. Xander
fece una smorfia, per nulla convinto.
“Sei triste, perché ti manca casa tua?” continuò infatti poco dopo, analizzandolo con aria seria. “Sei
triste per quello?”
Jeremy sospirò, troppo svogliato per cercare di
respingere le domande del bambino.
“Forse.” gli concesse infine, allungando le gambe
sul gradino inferiore. Sospirò di nuovo, arrendendosi all’affollarsi di
pensieri scomodi che andò a crearsi nella sua testa. “Non è la mia casa che mi
manca.” decise di ammettere infine, tornando ad appoggiare la schiena al muro.
“Mi mancano alcune persone. Ma sono persone che non rivedrò
mai più.”
Xander arricciò il naso con aria pensierosa.
“A me manca il mio robot d’acciaio.” Spiegò infine
con aria seria, riprendendo ad accarezzare il collo di Tutankhamon. “L’ho
dimenticato al parco un giorno e quando ci sono tornato poi, non l’ho trovato
più.”
“E non è triste, pensare che non lo rivedrai di
nuovo?” cercò di spiegargli Jeremy, tendendo anche lui la mano per accarezzare
il cane. Xander si coprì pensieroso la bocca con le mani.
“Sì, forse allora mi sento un po’ triste
anch’io.” commentò infine , appoggiando il mento sui
palmi, e aggrottando le sopracciglia. La sua espressione, tuttavia, tornò a
a farsi vivace quasi subito.
“Ma magari poi torna, no?”
esclamò a quel punto, balzando in piedi di scatto. “La strada che va fino al
parco è facile; se proprio non è tonto, il mio robot ci riesce a tornare a
casa!” obiettò. “Speriamo, perché mi manca!” aggiunse, picchiettando con
forza il palmo della mano sul ginocchio di Jeremy.
Il ragazzo si mise a ridere. La malinconia di quella
sera, sembrò mitigarsi leggermente, in seguito alle parole ingenue del suo
piccolo amico. Nel sentire la sua risata, Xander si illuminò.
“Ti manca anche Hazel?” domandò a quel punto,
rivolgendogli un’occhiata furbetta. “La vuoi vedere, vero?” Jeremy sorrise di
nuovo.
“Sei un po’ troppo furbo per l’età che hai.”
commentò con un guizzo divertito nello sguardo.
“Sì, lo so!” annunciò fiero il ragazzino, risalendo
a piedi uniti i primi tre gradini. “Mica sono tonto come te!” aggiunse poi,
tornando indietro con un balzo.
“Ehy!” lo ammonì il
ragazzo con aria offesa, mentre il bambino ridacchiava di gusto.
“Se ti dico dove è Hazel, la vai a trovare?” domandò
in quel momento Xander, rivolgendogli un sorriso sornione. Jeremy aggrottò le
sopracciglia.
“E perché dovrei?” domandò, non riuscendo tuttavia a
trattenere un sorrisetto.
Xander si arrampicò sulle sue ginocchia e gli batté
una mano sulla fronte.
“Perché se la vai a trovare, poi sei felice e
sorridi, no?” spiegò con aria spazientita. “Te l’ho detto che mi stai più
simpatico quando sorridi e non mi chiami Tuntancamon!”
aggiunse, serio.
Nel sentirsi chiamare per nome, il cane mosse appena
le orecchie e puntò il suo sguardo contro Xander, prima di tornare ad
accoccolare il muso sul gradino.
Jeremy sospirò, riprendendo poi ad
osservare il bambino con aria divertita.
“Dai, dimmi tutto.” gli concesse infine, dandogli un colpetto sulla gamba. Xander, ancora in bilico
sulle sue ginocchia, sorrise entusiasta.
“Ci ho parlato prima prima mentre tornava a casa dal parco.” spiegò
con aria incredibilmente solenne, prima di annuire vigorosamente. “Le ho chiesto se voleva venire a trovarti, ma ha detto che doveva
vedere la sua amica Stacey questa sera. Di fronte a casa sua! Alle nove!
So proprio tutto, eh?” aggiunse , esibendo un
sorrisetto orgoglioso.
Jeremy scosse il capo, sghignazzando divertito.
“Fammi capire, tu mi
vorresti far sabotare l’appuntamento tra Hazel e la sua amica?” chiese.
Xander inclinò appena il capo e aggrottò le
sopracciglia.
“Che vuol dire sabotare?” domandò con aria confusa.
Jeremy non gli rispose; con lo sguardo era già corso
a controllare che ora fosse.
“Xander, ma lo sai che quasi quasi
lo faccio?” si sorprese ad esclamare in quel momento.
Si sentiva sveglio, tutto d’un
tratto; come se avesse appena scosso via un sogno durato troppo a lungo. Era
sveglio e intenzionato a muoversi. La malinconia, i pensieri scomodi, il dolore
di quegli ultimi giorni, tutto sfumò in secondo piano.
“In fondo, peggio di così
non può andare, no?” obiettò. “ A questo punto tanto vale umiliarsi per bene e rischiare… Ho ragione, Tutankhamon?”
“Sì, ma che vuol dire sabotare?”
Xander si impuntò su quella
domanda, sempre più confuso.
Ma
Jeremy non lo stava già più ascoltando. Mentalmente, aveva già preso a
tracciare il tragitto che separava il suo palazzo da quello di Hazel, e stava osservando
nuovamente l’orologio, con sguardo ravvivato: erano le nove meno dieci. Se
faceva un salto a recuperare le chiavi in quel momento, forse avrebbe raggiunto
il palazzo adiacente in tempo, per scorgere Hazel prima dell’arrivo della sua
amica.
“Bada tu a Khamon, e quando
sali portalo nel mio appartamento.” si raccomandò a
quel punto, sollevando il ragazzino per depositarlo a terra. Con un sorriso
appena accennato e lo sguardo insolitamente vivo, Jeremy si chinò per dare un
buffetto al cane e si precipitò su per le scale.
“Va bene, ma che vuol dire sabotare??” Gli gridò dietro Xander ancora una volta,
sbattendo i piedi per terra con aria offesa. “Non lo sai nemmeno tu, vero??”
Quando infine capì di essere rimasto solo in
compagnia del cane, sbuffò, portandosi imbronciato le braccia al petto.
“Certo che ci siamo trovati proprio un amico
tonto, Tuntancamon.” borbottò a quel
punto, prima di prendere a risalire le scale, con l’animale al fianco. “Non
sa nemmeno che cosa vogliono dire le parole che dice lui!”
Nota dell’autrice.
Anzitutto, ho scritto una piccolissima Jeremy/Hazel
ambientata a qualche *uh* circa a nove anni di distanza da Pyramid – sì, lei lo
chiama ancora ragazzino *W* - La trovate QUI.
Ora, polpettone time!
Dunque,
indovinate un po’? Ho diviso il capitolo *|||||* Eh, sì. Ma
non è colpa mia se finisco per dilungarmiiii D: *cerca scuse*. In realtà ho sempre
saputo che avendo deciso di riassumere tutta la parentesi di Jeremy a Denver in
pochi capitoli,avrei probabilmente finito per scrivere
delle robe chilometriche e detesto ammassare le cose che succedono, perché poi
il capitolo diventa noioso, a voi cascano le braccia e non si capisce più
niente. Perciò, ecco che ho deciso di dividere in due parti il secondo
capitolo.
In questa prima parte vediamo
Jeremy alle prese con una sorta di ‘ricaduta’ riportata dall’incubo che ha a
inizio capitolo. Cose che si agitavano dentro di lui da un pochetto
e che era riuscito a mettere momentaneamente da parte perché era impegnato a
cercare di ambientarsi nella nuova città, tornano a galla. Nella mia testa, la
scena iniziale dell’incubo (Jeremy,la bomboletta
spray,zia Jenna) è il modo in cui ho scelto di immaginare il momento in cui
apprende della morte dei suoi genitori. E quindi, nell’incubo, si mescolano
fatti reali e cose dettate dal suo inconscio.
Passando a un momento un po’ più allegro, abbiamo la
conversazione tra Jer e i Goldman, seguita dall’arrivo del cagnetto (<3) Il
cane è un altro dei motivi per cui questo capitolo ha deciso di voler
raggiungere dimensioni epiche, ma andiamo per ordine.
Intanto scopriamo finalmente a che cosa deve
il suo nome anche il secondogenito di Jeremy e Hazel (lo dico per chi segue
anche History Repeating). Di Oliver Shawn, il padre di Hazel, se ne parlerà
ancora nella seconda parte del capitolo. E Oliver Grayson Gilbert (ribattezzato
da me Casper *W*) porta appunto i nomi di entrambi i suoi nonni.
Poi abbiamo Tutankhamon! (il
cane, non il bambino). E beh, sì, quando ho saputo che a Denver si era preso un
cane ho deciso che volevo far coincidere almeno questo elemento con il Jeremy a Denver autentico, quello di TVD.
E infine, abbiamo lasciato Jeremy mentre si
preparava per andare a ‘sabotare’ l’appuntamento tra Hazel e la sua amica.
Xander, proprio come il Piccolo Principe, si intestardisce
perché vuole conoscere il significato di quella parola sconosciuta, ma
purtroppo per lui, il suo amico ‘tonto’ non gli è molto d’aiuto. Nella seconda
parte del capitolo lo ritroveremo ancora, ma soprattutto, ci saranno Jeremy e
Hazel;e ovviamente verrà spiegato il collegamento alle
‘facce’ della piramide che in questa prima parte è ancora assente; vedremo che
succederà.
In questo capitolo, ci sono molte più citazioni che
nelle prime due parti, ma trovavo che calzassero
parecchio, in particolare le due successive all’incubo di Jeremy che sono tra i
miei passaggi preferiti in assoluto del libro. Nel capitolo precedente, ho
scritto il dialogo tra Hazel e Jeremy con le citazioni sul capitolo della volpe
in mente, mentre in questo caso ho inserito i vari passaggi dopo aver scritto
le varie scene e mi piace quello che è uscito fuori.
Nella seconda parte ci saranno parecchi altri rimandi.
Niente, spero che questa prima parte vi sia piaciuta
quanto è piaciuto a me a scriverla. Ci tenevo proprio
tanto a postarla prima del nuovo episodio di TVD, visto che
come alcuni di voi sapranno, vedremo finalmente Jeremy a Denver anche lì (in un
contesto completamente diverso da questo, ovviamente XD)
Un abbraccio grande
Laura
P.S. Oh yeah, indovinate
un po’? Ho dimenticato qualcosa! I riferimenti al vento, ai terremoti, alle
correnti d’aria in relazione alla piramide si ispirano
alla canzone da cui appunto ho tratto l’idea per questa toria,
Pyramid di Charice.
Altro
P.S. Se siete curiosi di vedere i
volti di Hazel, Xander e anche del nostro nuovo arrivato (Khamon)
trovate tutte le foto QUI!