Pyramid.

di Kary91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come si costruisce una piramide. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. La base. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Le facce ***



Capitolo 1
*** Come si costruisce una piramide. ***


 

La

dedica

di questa storia

 si divide in quattro, come

le facce della piramide protagonista

di questo racconto. A Natalia, a cui l’altro giorno ho citato

quasi tutto il  Piccolo Principe e che forse lo leggerà. Alla Donna C.,

 perché mi incoraggia sempre e perché le voglio tanto bene.  A Kimyku, che già mi

 manca anche troppo, e che sarà sempre una delle facce della mia piramide. E a Jeremy, perché

. A Jeremy, perché è il mio personaggio preferito. E perché questa storia è nata grazie a lui.  E per lui.

 

 

 

"è facile capire come nel mondo esista sempre qualcuno che attende qualcun altro, che ci si trovi in un deserto o in una grande città. E quando questi due esseri si incontrano,e i loro sguardi si incrociano,tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza. Esiste solo quel momento e quella straordinaria certezza che tutte le cose sotto il sole sono state scritte dalla stessa Mano.

Da L’alchimista.

Pyramid.


 

 

We built this on a solid rock

And even when the wind is blowing

We'll never fall just keep on going

Forever we will stay, like a pyramid.

Pyramid. Charice

 

 

Prologo. – Come si costruisce una piramide -

 

Buttai giù un quarto di disegno. E tirai fuori questa spiegazione:

“Questa è soltanto la cassetta. La pecora che volevi, sta dentro.”

Fui molto sorpreso di vedere il viso del mio piccolo giudice illuminarsi:

“Questo è proprio quello che volevo!”

 

Da Il piccolo Principe.

 

Certe volte, si è talmente sicuri di una decisione presa, che si fatica persino a comprendere che cosa possa averla originata. Ci sono persone che una mattina qualunque, si guardano allo specchio, e si accorgono che nella loro vita c’è bisogno di un cambiamento; che il loro taglio di capelli è passato di moda, che il football non li entusiasma più come una volta, che l’ appartamento in cui vivono sembra improvvisamente essersi fatto troppo piccolo.

 

Per Jeremy, la decisione di lasciarsi alle spalle Mystic Falls per trasferirsi a Denver, era nata più o meno alla stessa maniera. Non ricordava cosa l’avesse spinto a fare le valigie e ad abbandonare sua sorella, i suoi amici, le persone a cui voleva bene.

 

Nell’ultimo periodo, Jeremy si era convinto che non aveva bisogno poi di molto per andare avanti: l’importante era cavarsela e tutto sommato ci stava riuscendo, seppur vacillando, di tanto in tanto.

Eppure, un giorno aveva ceduto. Aveva infilato una manciata di vestiti nello zaino, preparato la valigia e prenotato un biglietto di aereo per il Colorado. Più volte aveva desiderato che Elena provasse a dissuaderlo. Si sentiva in colpa ad andarsene senza di lei: non voleva lasciarla sola. Non voleva fuggire. Sua sorella aveva ripiegato con cura le magliette gettate alla rinfusa nella sacca e l’aveva abbracciato, limitandosi ad assicurarsi che si sarebbe fatto sentire: era evidente che fosse sollevata all’idea di saperlo al sicuro, lontano da Mystic Falls.

 

La prima impressione che ebbe Jeremy su Denver, non fu buona: trovava tutto troppo grande, troppo rumoroso, troppo diverso, rispetto al luogo in cui era cresciuto. Gli bastarono un paio di giorni per rivalutare la città almeno in parte; continuava a pensare che fosse incredibilmente grande e troppo popolata, ma a lungo andare, finì per apprezzare il via vai continuo di persone  che lo sorprendeva ovunque andasse. In qualche modo, era difficile per lui ricordarsi di essere solo, quando a circondarlo c’erano spesso sconosciuti che sembravano dover andare nella sua stessa direzione. Persone da cui non era costretto a guardarsi le spalle di continuo.

 

E poi c’era il parco: uno sprazzo d’erba intarsiato di alberi e panchine, che distava una ventina di metri dal suo appartamento. L’aveva visitato per la prima volta il giorno del suo arrivo, dopo aver seguito per un po’ il chiacchiericcio vivace di alcune ragazze che lo precedevano.

 

Continuò a tornarci spesso anche i pomeriggi successivi; restare troppo a lungo in casa, con persone che ancora non conosceva bene, lo faceva sentire a disagio. E, poi il parco gli piaceva. Ci andava per riflettere, per lo più. Portava spesso con sé il suo album da disegno, ma di rado lo tirava fuori dalla sacca. Il disegno, per lui, era diventato come il fumo: ogni volta che riprendeva in mano il suo blocco, qualcosa cercava di convincerlo a smettere di disegnare.

 

In Denver, però, l’ispirazione sembrava essersi fatta meno rada, e lo sorprendeva spesso, come se da tempo non avesse fatto altro che attendere il suo arrivo.

 

Un pomeriggio, il quinto dal suo trasferimento, Jeremy si decise finalmente a tirare fuori l’album da disegno dallo zaino. Se lo appoggiò sulle gambe, mentre il suo sguardo si aggirava per il parco alla ricerca di qualcosa che lo colpisse, suggerendogli da dove incominciare. Fu quando aveva finalmente individuato un possibile soggetto – due ragazze che chiacchieravano sotto a un albero – che una voce lo distrasse, costringendolo a distogliere lo sguardo.

 

 

“Stai facendo un disegno?”

 

Qualcosa gli colpì un ginocchio e due occhi chiari lo scrutarono con aria vivace, mentre Jeremy sgranava sorpreso i suoi: era un ragazzino.

 

“No.” rispose colto alla sprovvista, mentre il bambino chinava il capo per sbirciare nel suo album.

 

“Ti pare che abbia una matita in mano?”

 

Il bambino non rispose; si arrampicò sulla panchina e tentò di sollevarsi in piedi, appoggiandosi a Jeremy, per non perdere l’equilibrio.

 

“Mi fai vedere i tuoi disegni?” domandò poi, posando entrambe le mani sull’album. Lo attirò a sé con aria incuriosita.

 

Ma che …”

 

Jeremy se ne riappropriò, freddando il bambino con lo sguardo. Il piccolo, tuttavia, si stava già allontanando. Ritornò poco dopo, i capelli scuri scompigliati, e le guance arrossate per via della corsa che aveva fatto.

 

Le sai disegnare le piramidi?” domandò  improvvisamente colpendo più volte il ginocchio di Jeremy con la mano. Il ragazzo sbuffò, sistemandosi nuovamente il blocco sulle gambe: chi diavolo era quel bambino?

 

 “Perché dovrei disegnare una piramide?” commentò in tono di voce atono, abbandonando poi pigramente il capo all’indietro. Il ragazzino diede una rapida scrollata di spalle e corse via. Jeremy lo osservò allontanarsi con aria perplessa, prima di decidere di tornare al suo disegno. Individuò subito le due ragazze che poco prima aveva deciso di ritrarre, recuperò una matita, e  sorrise, quando la mina sfiorò il foglio, per la prima volta ormai da settimane.

 

“Le piramidi sono importanti!”

 

Il ragazzo sobbalzò. Il bambino era di nuovo di fronte a lui, e lo stava osservando con aria seria, le sopracciglia aggrottate.

 

“Dentro ci mettevano i re, quando morivano.” Si arrampicò nuovamente sulla panchina, incrociando le gambe, soddisfatto.

“Non i re, ma i faraoni.” Si corresse poi da solo tirando la manica del ragazzo. Jeremy smise di disegnare, sbuffando una seconda volta.

 

“ I FA-RA-O-NI!” Ripetè il bambino a voce alta, accompagnando ogni sillaba a un battito di mani.

 

“Le piramidi non ti piacciono?” domandò dopodiché con un pizzico di sospetto nello sguardo. Tese le braccia con aria concentrata e poi saltò giù dalla panchina, gettandosi nell’erba. Rise, grattandosi le ginocchia sporche di verde.

 

“Ti piacciono di più i castelli?” Insistette, tornando a guardare il ragazzo.

 

“Preferisco un castello, se proprio devo scegliere.” Confermò stancamente Jeremy, facendo roteare la matita. Il bambino rimuginò per un po’ sulle sue parole, poi fece una smorfia e corse nuovamente via. Quando il ragazzo se lo ritrovò davanti ormai per la terza volta, rimpianse momentaneamente la tranquillità della sua stanza; ma era troppo pigro per convincersi ad alzarsi e a tornare a casa.

 

“Senti! Sono meglio le piramidi dei castelli e sai perché?

 

 Il piccolo fece il giro della panchina correndo, e poi lo rifece al contrario. Notando che Jeremy non gli rispondeva, prese posto accanto a lui.

 

“Lo sai perché?” ripeté.

 

“Perché?” si arrese infine il ragazzo, portandosi una mano sul viso.

 

“Perché non le butta giù niente!” annunciò il bimbo ad alta voce, spalancando le braccia.

 

“Niente! Neanche i terremoti. Neanche le tempeste. Sono fatte con la pietra, sai?” tirò la manica del giovane, ma Jeremy non lo stava ascoltando. Il suo sguardo era diretto poco distante, in direzione dell’ingresso del parco. C’era una ragazza appoggiata alla recinzione; e Jeremy era sicuro di averla sorpresa a fissarlo, poco prima. Eppure, ora che lui aveva sollevato il capo, l’attenzione della ragazza sembrava completamente assorbita dall’ipod che teneva in mano.

 

“Mi disegni una piramide?”

 

L’esclamazione improvvisa del bambino non lo sorprese poi più di tanto.

 

“Se te la disegno, poi te ne vai?” domandò scrutandolo con aria attenta.

 

Il bimbetto annuì solennemente. Jeremy sospirò.

 

“Va bene, allora.” acconsentì infine appoggiando la punta della matita sul foglio. Senza pensarci più di tanto tracciò una riga obliqua, mentre il bambino si appoggiava nuovamente sulla sua spalla, osservando il suo lavoro.

 

“No! No!” esclamò ad un certo punto, agitando le mani: sembrava quasi offeso. Jeremy fece ciondolare il capo, sfinito.

 

“Che cosa c’è, adesso?” borbottò mentre il ragazzino tracciava con il dito una linea orizzontale invisibile.

 

“Prima ci devi fare il pavimento!” spiegò con aria incredibilmente seria, inginocchiandosi sulla panchina: non era proprio in grado di stare fermo.

 

“Sennò cade giù!”

 

Ma certo, che stupido che sono.” commentò ironicamente Jeremy tracciando un abbozzo di rombo nella parte bassa del foglio.

 

“Va bene, così?” domandò infine sollevando il capo per guardare negli occhi il suo piccolo giudice: il sorriso luminoso del bimbetto, lo convinse a pensare che, tutto sommato, il pomeriggio sarebbe anche potuto andargli peggio.

 

“Va bene, sì!”

 

“E adesso?”

 

“Adesso ci devi fare le parti.” spiegò il ragazzino allungandosi, per ripassare con le dita la linea obliqua che aveva tracciato Jeremy.

 

“Sono quattro.”

 

“Non vanno bene solo tre?” cercò di persuaderlo Jeremy, mentre la matita scorreva lenta sul foglio e lui la dirigeva con attenzione, tentando di non farla oscillare. Il bambino scosse il capo cocciutamente.

 

“Quattro!” ribattè, con un accenno di broncio. Jeremy sospirò.

 

“Va bene.” Acconsentì tratteggiando delle linee aggiuntive, per sistemare la sua piramide. Il bimbo annuì soddisfatto.

 

 “Quattro parti, ecco!” commentò indicandole una a una.

“Le parti servono a tenere tutto coperto, così non ti succede nulla.”

 

“Le parti si chiamano facce.” Lo corresse Jeremy a capo chino, ripassando un tratto della piramide.

“E il pavimento si chiama base. Tu invece, come ti chiami?”  domandò, incuriosito. Si era ormai rassegnato alla compagnia di quel ragazzino.

 

Il piccolo non gli rispose. Invece, indicò l’estremità della piramide e gridò:

 

 “La punta, manca la punta!”

 

Sta’ calmo, adesso la facciamo.” lo tranquillizzò Jeremy aggiungendo un tratto di matita al disegno, per unire le linee che aveva tracciato. Il volto del bambino si rasserenò.

 

“La punta è la cosa più importante, perché sta in alto e nessuno la può fare cadere giù.” Spiegò con aria pratica appoggiando una mano sul foglio, e l’altra sulla spalla di Jeremy.

 

“Tutte le piramidi hanno la punta! La punta ce l’ha un nome?” domandò poi, improvvisamente pensieroso. Jeremy annuì lentamente.

 

“Si chiama vertice.” spiegò, mentre il bambino prendeva il blocco da disegno e lo esaminava con aria critica; questa volta, il ragazzo lo lasciò fare.

 

“Sì, il veltice.” Confermò serio il piccolo, saltando a terra con l’album sotto il braccio.

 

“Abbiamo finito!” annunciò infine restituendolo al proprietario.

 

Ma non sei stato molto bravo…” obiettò poi indicandogli la piramide di carta.

 

“Ehi!” si lamentò Jeremy, sorpreso dell’osservazione.

 

“Pensi di saper fare di meglio?”

 

“Alexander!”

 

L’esclamazione catturò l’attenzione di entrambi: una donna stava sventolando il braccio nella loro direzione.

 

“Xander! A casa, per favore.”

 

“Alexander” ripeté Jeremy con un guizzo divertito nello sguardo.

 

“Allora è così che ti chiami!”

 

Il piccolo scosse cocciutamente il capo, nascondendosi sotto la panchina.

 

“No, non mi chiamo così.” Ribattè infilando le dita nelle scanalature del legno. Jeremy rise.

 

“Ah, certo.” Commentò, ironicamente. “Ti chiamerai Tutankhamon, immagino.” Alexander denegò con il capo una seconda volta.

 

 “Non mi chiamo neanche Tuntancamon. Tu come ti chiami?” chiese poi sgusciando fuori dal nascondiglio, mentre la donna lo richiamava una seconda volta.

 

“Mi chiamo Jeremy, ometto.” Rivelò separando dal blocco il foglio che conteneva l’abbozzo di piramide.

 

“Questo lo vuoi?” domandò poi, porgendoglielo.

 

“Uh uh.” Alexander scosse il capo, una terza volta.

 

“No?” Jeremy inarcò un sopracciglio.

 

“E perché diavolo me l’hai fatto disegnare, allora?”

 

“Era per te! Io ce l’ho già una piramide.” Annunciò fiero, incrociando le braccia sul petto.

 

 “Sul serio?” Il ragazzo chiese conferma, sorridendo poco convinto. Il bimbetto arrossì.

 

“La sto costruendo.” Specificò serio, passando un dito lungo i contorni della piramide di carta.

 

“Xander!” la donna lo richiamò una terza volta, prima di incamminarsi verso di loro.

 

“Guarda!” esclamò in quel momento Alexander indicando il centro del disegno.

 

“Dentro ci vivono dei bambini!” annunciò additando personaggi invisibili all’interno della figura.

 

Jeremy si lasciò ricadere pigramente sulla panchina.

 

“Davvero?” commentò con scarso entusiasmo.

 

“E c’è anche una principessa!” aggiunse il bimbo passando la mano lungo la superficie della piramide.

 

“Vivono tutti assieme. E sono felici, sai?” spiegò serio, facendo poi una smorfia quando si accorse che la donna era ormai a pochi metri da loro.

 

“Alexander Davies!Non te lo ripeterò una volta di più, a casa!” Il bambino rabbrividì. Poi scoppiò a ridere.

 

“Devo andare!” annunciò mettendosi a correre in direzione della donna. Jeremy osservò per qualche istante il disegno, prima di sollevare il capo.

 

 “Ehi, …Xander!” Lo richiamò improvvisamente.

 

“Secondo te, ci sono anch’io dentro la piramide?” domandò.

 

Alexander sorrise; ma non gli rispose.

 

 

Nota dell’autrice.

 

Pazza. Sì, sono pazza. E se non me ne esco con le mie follie, non sono io. Alle due di notte, tra l’altro.  Volevo finire il primo capitolo prima dell’arrivo degli esami del prossimo episodio, per evitare che nella 3x11 si scopra improvvisamente che Jeremy resti a MF per qualche strana ragione, smontandomi tutte le supposizioni. Chi mi conosce sa che non avrei potuto trattenermi dall’immaginare la vita di Jeremy a Denver, una volta vista la 3x10. E così ho pensato di provare a scrivere qualcosetta. E visto che in questo periodo sono particolarmente fissata con la canzone “Pyramid” di Charice, ho pensato di provare a inventare una storia che si ispirasse alle piramidi, e così è stato. Pyramid, avrà cinque capitoli. Uno è il prologo che avete appena letto. Seguiranno tre capitoli, e poi ci sarà l’epilogo finale. Chi segue History Repeating”, sappia che questa storia potrebbe venire a tutti gli effetti considerata un approfondimento, o un prequel di quella, perché aiuta a conoscere certe cose sulla famiglia Gilbert. Alexander, l’ometto che avete conosciuto in questo primo capitolo, non è lo stesso Xander che alcuni di voi conoscono, ovviamente. Ha qualcosa del Piccolo Principe (di Antoine de Saint-Exupéry) proprio perché è stato grazie alla citazione riportata a inizio prologo che mi è venuta l’ispirazione per questa storia. Per quello, da qualche parte nel capitolo mi sono riferita a Xander come “piccolo giudice”, e sempre per quello, Jeremy a un certo punto lo chiama “ometto”. Rimandi al Piccolo Principe saranno presenti in ogni capitolo, perché trovo quel libro decisamente adatto a questa storia no, in realtà lo amo talmente tanto che tendo ad infilarlo ovunque, ma shhh.

 

La citazione iniziale, quella tratta da “l’alchimista” (di Coelho) che tra l’altro è un libro meraviglioso -  l’ho aggiunta grazie a Natalia, che me l’ha trascritta mentre io la rimpinzavo di citazioni sul principino. L’ho trovata perfetta, per cui ho deciso di inserirla.

 

Che aggiungere? So che questo mio progettino è ancora più folle dei precedenti. So che Jeremy non è molto apprezzato, come personaggio. Figuriamoci poi, se è trattato senza Anna. O senza qualsiasi cosa che abbia a che fare con il sovrannaturale. Però è qualcosa a cui tengo davvero tanto, e quindi ho deciso di pubblicarla comunque. Grazie di cuore a tutti quelli che hanno letto il prologo!

 

Un abbraccio!

 

Laura

 

P.S. La dedica iniziale divisa in quattro e fatta a forma di piramide, si ispira sicuramente alla dedica di ‘zia Rowling’ in Harry Potter e i Doni della Morte. Mi piaceva troppo come idea!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. La base. ***


Capitolo uno. – La base –

 

‘Bisogna essere molto pazienti.

In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba.

Io ti guarderò con la coda nell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi.

 Ma ogni giorno, tu potrai sederti un po’ più vicino…

Da Il piccolo Principe.

 

Howie Goldman non era mai stato un grande amante della compagnia; gli piaceva trascorrere le giornate a spulciare il giornale sulla poltrona del soggiorno - la televisione accesa, ma con il volume al minimo – al riparo dalla confusione che dirigeva Denver fuori dal suo appartamento: non gli era mai piaciuta, quella città.

Lui e sua moglie Demetria, non avevano sempre vissuto nella metropoli; Mystic Falls era stato il luogo in cui si erano conosciuti, e quello in cui avevano cresciuto la loro unica figlia, Delia. Ma in seguito alla morte del genero, la coppia ormai anziana si era vista costretta a trasferirsi a Denver, per aiutare la figlia nella gestione della piccola libreria di cui era proprietaria.

A dieci anni di distanza, la libreria era ormai chiusa; Delia aveva deciso di lasciarsi tutto alle spalle, abbandonando Denver per trasferirsi a Washington. Demetria e Howie si erano così trovati soli; soli in una città troppo rumorosa e troppo grande, per due persone anziane come loro.

Il giorno in cui Jenna Sommers li chiamò per informarli della morte di Miranda e Grayson Gilbert, fu Demetria che prese la telefonata. La cattiva notizia fu un brutto colpo per la coppia; i due coniugi erano sempre stati molto legati ai Gilbert. Conoscevano da sempre la madre di Miranda e Jenna, e quando la maggiore delle due si sposò, finirono per affezionarsi anche al resto della sua famiglia: il marito Grayson e i due figli, Elena e Jeremy. Per Demetria, venire sapere che quei due ragazzi erano rimasti senza una famiglia fu terribile, ma non pensò mai di adottarli. Lei e Howie erano troppo anziani per gestire due ragazzi, e non le sembrava giusto costringere due adolescenti a cambiare scuola, e allontanarsi dai loro amici, dal luogo in cui erano cresciuti – dopotutto a Mystic Falls, avevano ancora una zia -.

 

Eppure, quando Elena telefonò loro a un anno di distanza dall’accaduto, Demetria non esitò nemmeno un istante nell’accettare di ospitare Jeremy per qualche tempo. L’appartamento che condivideva con il marito era piuttosto grande, disse, senz’altro non avrebbero avuto problemi a trovare un po’ di spazio anche per il ragazzo. In quanto a Howie, il vecchio si era limitato a stringersi nelle spalle, e a ritirarsi in uno dei suoi misteriosi silenzi.

 

Ora che Jeremy era con loro, l’uomo si era reso conto che la sua presenza non destava poi troppo fastidio alla sua routine da persona anziana e solitaria. Il ragazzo non si faceva vedere spesso: scendeva in cucina per i pasti, e la sera domandava a Demetria se c’era qualcosa che potesse fare – lavare i piatti, portare fuori la spazzatura – per rendersi utile in qualche modo. Howie aveva preso l’abitudine di osservarlo di sottecchi, quasi cercasse di scovare nel suo volto i segni di un cedimento, tracce di sofferenza, di tristezza, di malinconia. Spesso finiva per fissarlo con così tanta insistenza, che la moglie era costretta a farlo desistere con una gomitata, specialmente nel notare l’impaccio interdetto dell’adolescente.

 

Nonostante l’atteggiamento insolito e i silenzi imbarazzanti che si arrampicavano spesso tra lui e l’anziano compagno di appartamento, Jeremy si trovava bene con i due coniugi Goldman. Dopotutto, lui stesso non era mai stato un gran chiacchierone, e inoltre trovava quell’appartamento confortevole, così come la sua stanza. Demetria non insisteva mai, non era invadente, eppure riusciva sempre a trovare il modo di dimostrarsi attenta e premurosa. A volte si limitava a raccogliere i panni sporchi che lui aveva preso ad ammonticchiare con imbarazzo in valigia, nella speranza che lei non li avrebbe visti: non gli sembrava giusto, che arrivasse addirittura a fargli il bucato. Ma a Demetria non dava fastidio; dopotutto non aveva poi molto da fare oltre a sedere di fronte alla tv e sfogliare qualche vecchio romanzo con aria nostalgica – fin quando gli occhi tenevano - ; e poi le piaceva avere un po’ di compagnia.

Howie, d’altro canto, aveva un modo quasi buffo di comunicare con l’adolescente. Erano piccoli gesti, i suoi, che facevano spesso spuntare un sorriso interdetto a Jeremy, a metà tra il divertito e il riconoscente. C’erano delle fisse insolite che aveva, come il fatto di domandargli la sera se avesse bisogno di un bicchiere d’acqua, o il telecomando che passava immediatamente in mano al ragazzo, ogni volta che faceva ingresso in cucina.

Aveva poi l’abitudine bizzarra, di lasciargli pronta ogni mattina la ciotola del latte con dei cereali sul tavolino della cucina. Jeremy non se l’era mai sentita di rifiutare quel tipo di colazione, nonostante rimpiangesse l’abitudine di un buon caffè più di qualsiasi altra cosa. Per quello aveva iniziato a svegliarsi presto, le volte che ci riusciva, per poter fare un salto in caffetteria. Molto spesso, a quella sosta, seguiva una capatina al parco, dove il ragazzo si abbandonava pigramente su una panchina per una manciata di minuti al massimo. Giusto il tempo di terminare il suo caffè, osservando il fermento che perfino così presto, ornava le strade trafficate di Denver.

Se era fortunato, qualche volta, gli capitava di riconoscere le esclamazioni furibonde di una donna, costretta a scandagliare il parco in lungo e in largo alla ricerca di qualcosa – di qualcuno, in realtà. In quei momenti gli bastava aguzzare un po’ la vista o mettere in bella mostra il suo album da disegno, per sperare di veder spuntare presto fuori un ometto con i capelli scompigliati e le guance rosse per l’aver corso tanto.

 

“Ma non ci vai mai, a scuola?” aveva esclamato un giorno, individuando dietro un albero un faccino che lo scrutava con aria birichina.

 

“La scuola è per stupidi.” annunciò serio Alexander nascondendosi poi dietro di lui, per evitare lo sguardo della donna che lo stava cercando.

 

“Io invece sono furbo.”

 

Per qualche bizzarro scherzo del destino, Jeremy aveva scoperto che quel bambino rompiscatole abitava nel suo stesso palazzo, a qualche piano di distanza dall’appartamento dei Goldman. Shelby, la donna che almeno tre volte a settimana era costretta a rincorrerlo per tutto il parco prima di convincerlo ad andare a scuola, era probabilmente la baby sitter più sfortunata di Denver: ogni giorno Jeremy ridacchiava tra sé, domandandosi quanto avrebbe impiegato a decidere di licenziarsi.

 

“Mi stai dando dello stupido, lo sai?” dichiarò allungando una gamba sotto la panchina, per fingere di pestare la mano del bambino. Xander rise, schiaffeggiandogli la scarpa.

 

“Non è vero, neanche tu sei a scuola!” ribattè voltandosi poi di scatto, lasciandosi cadere nell’erba appena umida.

 

Ma ci andrò fra qualche minuto.” Spiegò il ragazzo passandosi la tracolla da un lato all’altro della spalla.

 

Mentre eseguiva quell’operazione, la fece ondeggiare, quasi a volersi assicurare che non fosse vuota: tastò la superficie del suo album da disegno e tornò a rifugiare le mani in tasca, sollevato. Aveva ricominciato a disegnare spesso, proprio come un tempo. Disegnava le cose che lo facevano sorridere e quelle che si limitavano a destarlo dai pensieri scomodi, catturando la sua attenzione: due vecchi appollaiati su un muretto, un bambino che giocava con il cane, le stelle. E piramidi, per la felicità del suo piccolo amico. Ormai era diventata un’abitudine: disegnava piramidi in maniera convulsa, come un tempo aveva preso l’abitudine di disegnare i volti affilati dei vampiri. Non sapeva nemmeno lui, per quale motivo lo facesse. Forse voleva solo far divertire un po’ quel bambino o forse trovava rilassante potersi dedicare a qualcosa che non fosse complicato, qualcosa che non avesse fronzoli.

Le piramidi erano facili da disegnare: avevano una base, delle facce e un vertice. Tutto lì; non bisognava aggiungere nulla.

 

Ma c’era qualcos’altro a cui aveva iniziato a lavorare nel corso dell' ultimo periodo: un ritratto. Le sue mani si erano messe a disegnare prima ancora che lui potesse rendersene conto, uno del rari pomeriggi in cui Alexander sembrava non avere la minima intenzione di venire a conversare con lui.

La verità era che la tranquillità di quell’ambiente, e il fatto che lui avesse incominciato ormai ad affezionarsi a quel ragazzino, non erano gli unici motivi che spingevano Jeremy a visitare il parco in maniera sempre più frequente. C’era anche qualcos’altro: c’era una ragazza.

 

L’aveva notata subito, nonostante inizialmente avesse faticato a individuarla fra i passanti – sempre troppi, sempre di fretta – al fondo del parco. Non veniva sempre; c’erano giorni in cui la notava spesso, appoggiata alla recinzione o appollaiata sullo schienale di una panchina, altri in cui non sarebbe riuscito a trovarla nemmeno se avesse trascorso il pomeriggio a cercare. Ogni tanto faceva comparsa la mattina presto, a volte, invece, Jeremy era costretto ad aspettare fino a tardi per vederla. Certi giorni, non veniva e basta.

 

Il motivo per cui si ostinasse a individuare la sua presenza in mezzo a tutti quegli sconosciuti, era un mistero per lui. Eppure, sin dalla prima volta che l’aveva notata in quel parco, aveva avuto l’impressione che anche lei lo stesse tenendo d’occhio. I loro sguardi si erano incrociati solo un paio di volte, ma Jeremy era convinto che non fosse successo per caso; un giorno, lei gli aveva perfino sorriso, di questo era sicuro. L’aveva colto talmente alla sprovvista, che non era nemmeno riuscito a ricambiare.

Da allora aveva cercato più volte di ristabilire quel contatto visivo: aveva voglia di guardarla di nuovo negli occhi. C’era qualcosa in quelle iridi chiare, che lo attraeva, spingendolo ad ammirare il modo in cui il suo sguardo apparisse così luminoso,così vivace: così vivo.

 

“Puoi restare qui, se vuoi. E non andare a scuola.” Propose a quel punto Alexander, distraendolo dai suoi pensieri. Il bambino si convinse finalmente a tirarsi su da terra e prese posto accanto a lui.

 

 

“Così mi aiuti a costruire la mia piramide.” specificò incominciando a frugare nella sacca di Jeremy.

 

“Giù le mani, Tutankhamon.” lo rimbeccò il ragazzo riappropriandosi dello zaino.

 

“Ancora con questa storia della tua piramide?” soggiunse poi tirando fuori quello che il bambino stava cercando.

 

“Non mi chiamò tuntancamon.” brontolò il ragazzino, tendendo poi avidamente le braccia in direzione dell’album da disegno.

 

“Sto costruendo la base.” aggiunse, infilando le braccia tra quelle di Jeremy, per cercare di fargli voltare le pagine più in fretta.

 

“Poi, quando è finita, mi metto a fare le parti. Che sono le facce in realtà; e sono quattro… Jeremy?” domandò improvvisamente lasciando perdere il blocco da disegno; balzò a terra.

 

Il ragazzo si alzò a sua volta, pronto a dirigersi verso scuola.

 

“Che cosa c’è?” si arrese comunque, concedendo un sorriso divertito al ragazzino. Alexander gli rivolse un’occhiata furbetta e incrociò le braccia sul petto.

 

“Chi è quella?” domandò senza indicare nessuno. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, confuso, sistemandosi la tracolla sulla spalla.

 

“Quella chi?” domandò inginocchiandosi, per essere all’altezza del bambino. Xander gli fece cenno di avvicinarsi, cosicché potesse parlargli in un orecchio.

 

“Quella la femmina che guardi sempre, no?” gli sussurrò prima di scuotere il capo con aria incredula.

 

“Oh, sei proprio tonto!” annunciò poi, battendosi una mano sulla fronte.

 

Jeremy gli rivolse un’occhiata interdetta, non sapendo se sentirsi offeso per quella constatazione o se stupirsi del fatto che un bambino così piccolo avesse notato una cosa simile.

 

“Io non guardo proprio nessuno.” decise di ribattere infine tornando ad alzarsi in piedi, lasciandosi poi sfuggire un’occhiata verso il cancello del parco; lei non c’era, ma se lo aspettava. In genere il martedì arrivava la mattina molto presto, e aveva già controllato più volte in quella direzione o altrove, ma non l’aveva individuata.

 

“Ah, si?” Xander lo rimbeccò con espressione da discolo, prima di sfilargli in fretta l’album dalle mani.

 

“E allora, questa femmina qui, chi è?” domandò indicandogli con dito l’ultima immagine del blocco.

 

Era, in effetti, un abbozzo di viso femminile.

 

Ma tu…” sorpreso, il ragazzo si riappropriò dell’album, cacciandoselo poi in fretta nello zaino.

 

Ma che impiccione che sei.” concluse infine scoppiando a ridere, sotto lo sguardo divertito del bambino. Il visetto di Alexander si illuminò.

 

“Mi stai più simpatico quando ridi e non mi chiami tuntancamon.” commentò aggrappandosi a una manica del ragazzo.

 

“Allora chi è?” insistette poi tornando a riferirsi alla ragazza del ritratto. Jeremy sospirò.

 

“Questa “femmina” non esiste, così come non esiste la piramide che stai costruendo tu.” lo rimbeccò con un sorriso, dandogli poi le spalle per avviarsi verso l’uscita del parco.

 

Alexander si posò le manine sui fianchi e squadrò la schiena del ragazzo con aria di sfida, prima di esclamare:

 

“Si che esiste! E io so anche chi è, sta nel palazzo vicino a noi!”

 

Jeremy si fermò all’istante, stupito, incredulo. Diffidente.

Eppure, si voltò lentamente verso il bambino, scrutandolo con aria attenta.

 

“Sentiamo.” commentò infine, allargando le braccia in un cenno di resa. Era convinto che il piccolo stesse semplicemente cercando di giocargli un tiro mancino, eppure la curiosità nei confronti di quella ragazza era troppo forte, perché riuscisse ad ignorare le parole di Xander.

 

“Che altro sapresti dirmi su di lei?”

 

Il bambino si avvicinò a Jeremy a grandi falcate, sempre con le mani sui fianchi. Gonfiò le guance in una smorfia e infine si decise a parlare.

 

“Si chiama….” Incominciò scoccandogli un’occhiata malandrina, prima di voltarsi di scatto e di tornare indietro sui suoi passi.

 

…Non te lo dico!” annunciò in tono di voce serio, allontanandosi a passi decisi in direzione della sua baby sitter – che poverina, tirò un sospiro di sollievo nell’individuarlo -.

 

Jeremy avvertì la delusione punzecchiarlo con insistenza.

 

“Sei un piccolo bugiardo.” costatò, pur continuando ad avvertire con fastidio il dubbio farsi strada dentro di lui.

 

 “Dai, Xander, sputa il rospo!” si trovò a supplicare infine, affrettando il passo per raggiungerlo e mandando a stendere l’orario quasi impeccabile con cui nell’ultimo periodo era riuscito a presentarsi a lezione. Xander scosse il capo cocciutamente, continuando a marciare in direzione della donna.

 

“Te lo devi scoprire da solo. Chiediglielo, no?” propose, sollevando le mani per aria con fare spazientito.

 

“Xander, torna indietro, dai! Dimmi solo il nome!”

 

Alla fine ci rinunciò; probabilmente, in fondo, era tutta una messa in scena del bambino. E Jeremy non poté fare a meno di sentirsi uno stupido, rimuginando su quanto spesso, nell’ultimo periodo, avesse incominciato a dare corda alle farneticazioni di un ragazzino. Scoccò un’occhiata rapida al cellulare, e si decise finalmente a tornare sui suoi passi, dirigendosi verso l’uscita.

 

Analizzando con sguardo assente la staccionata, i suoi pensieri si spostarono nuovamente in direzione di quella ragazza. Si domandò se un giorno o l’altro sarebbe mai riuscito ad avvicinarla, a parlarle. Voleva sapere il suo nome. Voleva domandarle se l’avesse sul serio sorpresa a fissarlo o se fosse stato tutto un bizzarro gioco della sua immaginazione.

 

E decise che sì, un giorno si sarebbe fatto coraggio e gliel’avrebbe chiesto. Poteva farcela, si disse. In fondo, da quando era arrivato a Denver, qualcosa lo spingeva a considerare che in quella metropoli, avrebbe potuto finalmente trovato spazio per realizzare tutto ciò che voleva.

 

Che fosse semplicemente accoccolarsi sui gradini del suo palazzo con una birra in mano o frequentare un corso d’arte. Tutto.

Non sapeva spiegarsi quella sensazione; ma sapeva che era reale.

Reale quanto il sole, timido, ma luminoso che stava incominciando a infastidirgli gli occhi. Reale come lo scricchiolio della ghiaia sotto le sue scarpe.

 

“Si chiama Hazel.” un sussurro lo colse di sorpresa, costringendolo a voltarsi. Xander gli sorrideva malandrino, le mani allacciate alle bretelle del suo zainetto.

 

“Quando ci parli, le chiedi se vuole aiutarmi a costruire la mia piramide?”

 

Il sorriso si arrampicò con facilità anche sulle labbra di Jeremy.

 

Hazel.

 

Ripetè quel nome nella sua testa, quasi a volerne assaporare la pronuncia.

 

Si chiamava Hazel.

 

 

“Grazie, Tutankhamon.” esclamò, mentre la sua mano correva ad arruffare i capelli del bimbetto. Gli diede le spalle e prese a incamminarsi verso la scuola, il sorriso ancora evidente sul suo volto.

 

Alexander sbuffò, infastidito.

 

“Non mi chiamo Tuntancamon!” gli gridò dietro ancora una volta, osservandolo mescolarsi alla massa di persone che accoglieva i passanti sui marciapiedi. Lo rincorse per una decina di metri, ma alla fine si arrese, fece una smorfia e tornò indietro.

 

Jeremy, nemmeno se ne accorse.

 

***

 

 

Una settimana più tardi, il ragazzo era seduto alla solita panchina, la sacca abbandonata a terra e il blocco da disegno sulle gambe: la matita in pugno. Il parco era ormai diventato la sua meta fissa ogni pomeriggio, escluse le rare volte in cui si convinceva a partecipare agli incontri del club di disegno della scuola.

 

Jeremy allungò le gambe e posò la matita sul foglio, per concedersi cinque minuti di pausa. Era uno di quei pomeriggi in cui le urla dei bambini risultavano alle sue orecchie meno voluminose, e la calca di persone meno folta: in quei momenti, l’atmosfera del parco appariva ancora più rilassante, per lui.

 

Istintivamente, il suo sguardo saettò in direzione del cancelletto d’ingresso, spostandosi poi di qualche metro lungo la staccionata; aspettava qualcuno.

 

Dopo tutto quel tempo trascorso a ritrarre una ragazza che non conosceva, pensava di saper ormai riconoscere i momenti della giornata in cui avrebbe potuto trovarsi a incrociare il proprio sguardo con quello della giovane sconosciuta. Sapeva che a volte lei veniva lì sin dalla mattina presto, mentre altre non si faceva vedere se non la sera. Il mercoledì continuava a essere un mistero, per lui. La ragazza passava solo a volte, e sempre a orari diversi: in quei giorni, Jeremy si guardava attorno con apprensione, abbandonando amareggiato la schiena contro la panchina quando lei non si presentava o sorridendo, quando all’improvviso la scorgeva accoccolata sotto un albero.

 

Quel particolare pomeriggio non era un mercoledì. Jeremy si era aspettato di individuare in fretta la ragazza, ma aveva dovuto smentirsi: lei non c’era.

 

Era deluso. Non si erano mai nemmeno rivolti la parola, eppure Jeremy aveva il sospetto che la giovane fosse ben più che consapevole dell’interesse che nutriva nei suoi confronti. Più volte i loro sguardi si erano scontrati; più volte, lei gli aveva sorriso e lui aveva finalmente avuto modo di ricambiare, prima che la sconosciuta tornasse a ignorarlo, rivolgendo la sua attenzione altrove.

 

Ad aggiungersi a questo, Jeremy era convinto che la ragazza stesse incominciando a sedere un po’ più vicino, rispetto a lui. Giorno dopo giorno, il suo sguardo lo attirava da una distanza sempre meno accentuata. Per quel motivo, Jeremy si ostinava a sostare sempre sulla stessa panchina. Per quello, in quel particolare pomeriggio, era rimasto deluso dell’assenza della sconosciuta: per quanto gli costasse imbarazzo ammetterlo, in parte si sentiva tradito.

 

Impensierito e corrucciato com’era, quasi non si accorse dell’ombra che aveva improvvisamente oscurato il ritratto su cui ormai lavorava da settimane. Una voce lo raggiunse alle sue spalle, cogliendolo di sorpresa.

 

“Mi stai disegnando, ragazzino?”

 

Prima che avesse anche solo il tempo di reagire a quell’esclamazione, il suo cuore lo avvertì; accelerò i battiti, impreparato, e Jeremy ci mise un po’ a realizzare quale potesse esserne il motivo; alla fine, però, ci arrivò: era lei.

 

Lo seppe prima ancora di voltarsi, e di individuare il suo sguardo, gli stessi occhi tratteggiati sulla carta, intento a scrutarlo con aria attenta.

 

Era lei; i dieci metri di alberi e panchine che solevano dividerli, erano improvvisamente scomparsi.

 

La osservò inarcare un sopracciglio e non riuscì a non sorriderle, pur rendendosi conto che forse avrebbe fatto meglio a risponderle, invece che perdere tempo a fissarla.

 

“Non credevo avrebbe dato fastidio.” riuscì fine ad affermare, mentre la ragazza appoggiava i gomiti sullo schienale della panchina, per osservare meglio il suo ritratto. Non sembrava irritata, in fondo.

 

“Chiedere il permesso prima, sarebbe stato carino.” commentò, tendendo schiettamente una mano in direzione dell’album da disegno: Jeremy glielo porse senza obiettare.

 

Per un attimo si trovò a considerare il fatto che i suoi incontri al parco girassero continuamente attorno a quel blocco di fogli. Bizzarro, ma non più di tanto, se paragonato a ciò con cui aveva imparato a convivere nel corso dell’ultimo anno.

 

“Non male.” la ragazza giudicò infine, restituendogli l’album senza guardarlo. 

 

“Hai visto di meglio?” le domandò a bruciapelo Jeremy, ormai abituato alle esclamazioni poco colpite di Alexander, ogni volta che terminava un nuovo disegno.

 

La ragazza mantenne un cipiglio critico ancora per qualche secondo, ma quando il suo sguardo si spostò a coincidere con quello del giovane, accennò a un sorrisetto.

 

“Mio padre era un artista.” ammise dandogli le spalle, appoggiandosi con i gomiti alla panchina. “Disegnava molto bene.”

 “E tu, invece?” continuò a domandare Jeremy, voltandosi verso di lei.

 “Io?” la ragazza tornò a scrutarlo con aria divertita.

Fai tante domande.” esclamò infine, focalizzando la sua attenzione verso un gruppetto di bambini che giocava poco distante. Jeremy non riuscì a capire se lo stesse rimproverando, o se la sua fosse una semplice connotazione.

 “Perché voglio conoscerti.” ammise, osservandola con insistenza. “E forse anche tu.” azzardò infine con un pizzico di esitazione in più, decidendosi a vuotare il sacco.

 In seguito alla sua dichiarazione, la ragazza si convinse a incrociare nuovamente il suo sguardo. Dapprima a Jeremy sembrò quasi sorpresa, ma il guizzo divertito che fece capolino tra i suoi occhi poco dopo, lo mise a disagio.

 “Ti credi così interessante?” domandò la giovane, estendendo il suo sorriso. Jeremy si accorse di essere sul punto di arrossire, ma non si arrese.

 “So che mi osservi quando sono qui al parco. Ti ho vista.” aggiunse, innervosendosi appena: prima di pronunciarla, quella frase gli era sembrata a posto, eppure, adesso che aveva aperto bocca, risuonava quasi ridicola.

 Si convinse che la ragazza stesse pensando lo stesso, perché il suo sorriso si trasformò in una risata. La sua reazione, tuttavia, non lo infastidì; c’era qualcosa di contraddittorio nel modo in cui lo guardava, rispetto al suo atteggiamento; c’era un brillio particolare nel suo sguardo che suggeriva interesse, ed era certo che non lo stesse solo immaginando.

“Ti osservo, perché mi fai ridere.” rivelò infine la ragazza,convincendosi finalmente a sfilarsi l’auricolare delle cuffie che  ancora pendeva dal suo orecchio

 “Specialmente i primi giorni: sembravi un animaletto sperduto.”

 Jeremy incassò le sue parole con aria sorpresa, ma decise di stare al gioco.

 “In questo caso, avresti potuto darmi una mano.” ribattè, accennando a un sorrisetto. Adesso che la ragazza si era finalmente decisa a mantenere il contatto visivo con lui, sembrava che nessuno dei due avesse intenzione di distogliere lo sguardo.

La giovane inarcò un sopracciglio.

“E per quale motivo?” domandò. “Non ti eri perso.” aggiunse poi, marcando la nota di divertimento nel suo sguardo.

Rivolse la sua attenzione all’album da disegno del ragazzo, e incuriosito, Jeremy fece altrettanto: l’ultimo foglio, quello in cui aveva tratteggiato il ritratto, aveva un lembo spiegazzato – non faticò ad intravederci lo zampino di Xander – e parte del disegno nella pagina precedente era individuabile assieme alla prima. Jeremy sapeva che là sotto doveva trovarsi l’ennesimo abbozzo di una piramide, ma l’orecchio a bordo del foglio, ne rendeva visibile solo la base.

 “Però adesso sei qui.” Commentò infine, tornando ad osservare la ragazza; lei non lo imitò. Gli diede le spalle, sbirciando in direzione del cielo, che stava incominciando ad annerirsi.

 “…Hazel.” Aggiunse il giovane, decidendo di rischiare. Il suo nome, il nome di una persona che aveva tenuto d’occhio per giorni senza mai avvicinarla, finì per dargli i brividi, nel momento in cui lei sollevò il capo. Gli occhi azzurri della ragazza puntarono diritti a lui, scavando nel suo sguardo: Xander non aveva mentito; era lei. Era Hazel.

 “Per caso mi spii, ragazzino?” la sua espressione si era fatta sospettosa, ma Jeremy non se ne curò.

 “Non penso di essere molto più giovane di te.” ribattè, osservandola con un accenno di sorriso.

 “Quelragazzino’ inizia a starmi un po’ stretto.”

 Hazel si limitò a sorridere a sua volta, tornando a scrutarlo con un cipiglio divertito.

 “Te lo dovrai tenere ancora per un po’.” rispose osservandolo a lungo, prima di decidersi a sollevare i gomiti dalla panchina. “A me sembri proprio un ragazzino.”

 “Non sono un ragazzino, ho un lavoro.” si trovò a ribattere il ragazzo, senza aver tempo di accorgersi del suo strafalcione. Lei, invece, sembrò notare subito l’espressione perplessa del ragazzo, e inarcò un sopracciglio nella sua direzione.

 “Avevo.” si sorprese ad ammettere Jeremy, arrossendo appena. Tuttavia sorrise, quando si accorse che l’espressione di Hazel era tornata a farsi divertita.

 “Visto?” commentò la ragazza ricambiando il sorriso, infilandosi poi le mani nella tasca della felpa.

 Si allontanò di qualche passo dalla panchina, e Jeremy si alzò in fretta, turbato.

 “Aspetta!”

 Hazel allargò le braccia, come ad invitarlo a proseguire, ma lui non continuò:Jeremy era bloccato.

 C’erano diverse cose che avrebbe voluto chiederle. Interrogativi rimasti senza risposta si rincorrevano, nella speranza di farsi notare da lui. C’erano minuti che avvertiva il bisogno di riempire con lei al suo fianco, ancora quella sera. Che lo prendesse in giro, o gli sorridesse, poco importava.

C’erano frasi, diverse frasi, che avrebbe potuto pronunciare per convincerla a restare ancora un po’. Giusto il tempo di conoscerla; di convincersi che sarebbero tornati a parlarsi a quel modo anche il giorno successivo. E quello seguente. Ogni pomeriggio un po’ più a lungo, senza nemmeno rendersene conto.

Avvicinandosi, piano piano.

 

 

“Tu, fino a ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.

Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro.

Tu sarai per me unico al mondo, e io sarà per te unica al mondo.”

 

da Il Piccolo Principe

 

 

Eppure in quel momento, tutto quello che gli passava per la testa finì per sembrargli incredibilmente ridicolo, e decise di spazzare via il tutto.

 Lasciò perdere, tranne che per un’unica domanda.

 “Non vuoi sapere nemmeno il mio nome?” chiese, arrischiandosi a fissarla con insistenza. Ancora una volta, Hazel lo osservò a lungo, e Jeremy si sforzò di restare impassibile, nonostante avesse incominciato a domandarsi se lei lo trovasse divertente, anche quando faceva la figura del perfetto idiota.

 “Come ho detto prima…” incominciò la ragazza, tornando a sorridergli. “Fai decisamente troppe domande.”

 Analizzò l’espressione perplessa del giovane e si mise a ridere, prima di incominciare a dirigersi verso l’uscita del parco, questa volta per davvero.

 “Ci vediamo, Jeremy.” Esclamò, dandogli le spalle.

 Il ragazzo aprì la bocca per ribattere, ma non ci riuscì. Sorrise, infilandosi le mani in tasca e recuperando poi l’album da disegno che aveva abbandonato sulla panchina.

 Durante il tragitto verso casa, si sorprese più volte a ridere fra sé, ripensando all’incontro appena avuto. Rideva, e pensava a lei. Al modo in cui alla fine si erano conosciuti; rideva, e pensava a cosa gli avrebbe detto l’indomani, o il giorno in cui si sarebbero incontrati di nuovo. Si domandava in quale modo le avrebbe chiesto come mai conoscesse il suo nome.

 Il viso da monello di Alexander si frappose fra i suoi pensieri, invitandolo a ridere di nuovo:non faticava ad immaginare che anche in quel dettaglio, dovesse esserci il suo zampino.

 Allungando il braccio per suonare il citofono, la sua mano si fermò all’altezza del suo blocco da disegno. Jeremy osservò il ritratto di Hazel e sorrise, ma quasi subito tornò indietro di una pagina; quella piramide che aveva disegnato per Xander – l’ennesima – era forse la più precisa fra quelle che aveva tratteggiato fino a quel momento. Nell’osservarla, si ricordò di ciò che gli aveva detto il bambino qualche giorno prima: per costruire la sua piramide, era partito dalla base.

 Per un attimo, il pensiero di Jeremy si mosse in direzione dei Goldman. Passò poi in rassegna i luoghi che nell’ultimo periodo avevano costituito per lui la quotidianità; l’ appartamento all’ultimo piano, la scuola, il parco.

 ensò al corso d’arte, a Hazel, e alle corse di Alexander che intravedeva la mattina presto, dopo essersi recato in caffetteria.

 Con un sorriso e un’insolita sensazione di appagamento agli angoli del suo stomaco, Jeremy si trovò a pensare che anche lui, in fondo, aveva incominciato a costruire la sua base.

 

 

 

Nota dell’autrice.

 

Capitolo uno! *yay*

In realtà questo mi convince meno del prologo. Sarà che ci sono un mucchio di descrizioni e poco dialogo, non so. Anyway ci ho tribolato troppo, e avevo bisogno fisico di lasciarmelo alle spalle in questi giorni, e così eccolo qui. E poi, la Mary mi sta dicendo in questo momento che devo fidarmi del suo giudizio, quindi non posso che fare altrimenti e condividere questa nuova parte. *spupazzola la beta*

Dunque, due notine veloci:

Nota uno! I tre capitoli, come potete notare da questo primo, fregheranno il nome alle tre parti della piramide tanto importanti per Xander: la base, le facce e il vertice. C’è un motivo, ovviamente, lo si vedrà man mano che andiamo avanti.

Nota due: sparsi qua e là per il racconto, ho cercato di mettere in risalto dei dettagli che alludono al soggiogamento di Damon e il relativo discorso che fa a Jeremy: dettagli come la birra, il corso d’arte, e gli occhi di Hazel che gli paiono “vivi” (riferimento alle “living girls” XD), così come il fatto che lui senta di poter fare “quello che vuole”. Il continuo appellarsi di Haze a Jeremy con “ragazzino”, fa  riferimento al Piccolo Principe, e in particolare alla citazione che ho inserito nel racconto. E poi gna, niente, lei è fatta così <3

Che altro aggiungere? I Goldman al principio. Mi sembrava giusto presentare le persone che hanno accolto Jeremy, e soprattutto, ho provato a dare una mia interpretazione circa l’esclamazione che il mondo borbotta di continuo da quando Jer è partito “ Se avevano degli amici di famiglia, perché non si sono presi cura loro di Jeremy e Elena?” E via dicendo, ecco, io ho provato a immaginare il tutto così.

Penso di aver detto tutto. Mal che vada, appiccicherò qualche p.s., tanto lo sapete che sono fatta così.

Grazie per aver letto il prologo. Pyramid mi sta a cuore forse anche più di HR, quindi vi ringrazio infinitamente.

Un abbraccio

Laura

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. Le facce ***


 

Capitolo due. – Le facce–

(parte 1)

 

“Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.”

 

“Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto,

tutte le stelle si spegnessero.”

 

Da Il piccolo Principe.

 

 

 

Cammina lungo un corridoio che non riconosce, per via della poca luce che lo circonda; nella mano destra regge una bomboletta spray. Le dita sono ancora sporche di vernice, così come la sua maglietta. Vernice rossa, stipata fra le pieghe della sua t-shirt; ma lui non ci bada. Infila una mano fra i capelli a spazzola, arruffandoli. Sorride orgoglioso, evocando l’abbozzo di graffito che ha tratteggiato su un muro dietro casa; sa che suo padre lo riprenderà una volta rientrato, ma per il momento decide di non curarsene. Raggiunge l’ingresso di casa Gilbert, e c’è silenzio, un silenzio insolito, perfino per quell’ora tarda -. Il singhiozzare sommosso di una donna smorza quella quiete innaturale, e quando Jeremy raggiunge la cucina, il sorriso sulle sue labbra sfiorisce, appassendo per sempre. Le ginocchia gli cedono, la bomboletta di colore rotola a terra, i suoi occhi si velano di sgomento, spaventati dall’aria tormentata di Jenna.

Non c’è bisogno che la donna dica nulla; in quel momento Jeremy capisce, e le lacrime bagnano umide le guance, i palmi delle sue mani si aggrappano al pavimento freddo. Le macchie rosse sulla sua maglietta assumono un colore sinistro, e Jeremy chiude gli occhi, per proteggersi da quello che vede, che percepisce in quella stanza.

È il primo dolore lacerante da sopportare, per lui. Il primo di una lunga serie.

Non fa nemmeno in tempo a rialzarsi, che la porta della cucina si apre di scatto. Elena irrompe nella stanza, si inginocchia sul pavimento accanto a lui.

“Klaus sta arrivando.” annuncia scrollandolo, con violenza. “Jeremy, muoviti, dobbiamo andarcene!”

Non vuole andare via; cerca di opporsi, voltandosi in direzione di Jenna, ma lei non c’è più. Jeremy si arrende alla presa di sua sorella, lasciandosi trascinare lungo il corridoio. Non riesce ancora a distinguere nulla nell’oscurità, ma incomincia ad abituarsi. C’è troppo, troppo dolore, per riuscire a prestare realmente attenzione a ciò che gli sta attorno.

Escono in giardino, per poi allontanarsi lungo il viale di fronte a casa, accelerando il passo. Il cuore di Jeremy incespica, nel momento in cui passano di fronte alla casa dei Donovan: Vicki gli sorride, osservandolo dalla veranda. Accenna a un saluto con la mano,e  il ragazzo nota che è ancora vestita da vampira, proprio come la sera di Halloween, il giorno in cui è morta. Cerca di fermarsi; vorrebbe poterle sorridere un’ultima volta, parlarle, ricambiare il suo gesto di saluto; ma Elena continua a strattonarlo, facendolo correre in direzione opposta.

“Jeremy!”

Una voce lo raggiunge alle sue spalle, e lui riesce finalmente a voltarsi, respingendo la presa di sua sorella.

“Jeremy!”

Anna ha un aspetto terribile; la pelle diafana del suo volto è rigata da segni di frattura sempre più evidenti. Le mani della ragazza sono strette attorno al paletto di legno ancorato suo petto, all’altezza del cuore.

 “Anna!”

La morsa che fino in quel momento aveva avvolto la gola di Jeremy scompare, permettendogli di chiamarla a sua volta.

“Anna!Anna!”

Ma la vampira scuote il capo, lasciandosi cadere a terra; il volto sempre più cereo, inumidito dalle lacrime.

“Mi hai lasciata andare.” riesce a sussurrare infine, gli occhi velati dalla paura.  “Mi hai lasciato andare e adesso sarò sola per sempre.”

Jeremy tenta di raggiungerla, ma la presa di Elena torna a farsi più pesante, le sue scarpe incespicano sul terreno.

Cade a terra, e si accorge che ha da poco incominciato a piovere; l’acqua diluisce le macchie di vernice sulla sua maglietta, e il rosso scorre sulle sue mani, mentre Anna rilascia il capo all’indietro, arrendendosi.

 “Non è colpa mia!”

Riesce solo a gridare Jeremy. Tende la mano per provare ad afferrare la sua, ma non ci riesce.

Non riesce a stringerla un ultima volta; non può dirle addio.

Così come non ha mai potuto dire addio a Vicki; o alla zia Jenna. O ai suoi genitori.

“Non è colpa mia.”

E resta a terra, sporco e ferito.

Chiude gli occhi, nella vana speranza di riuscire a far terminare tutto così; in mezzo a un vicolo, sotto la pioggia. Ma l’urlo di Elena lo costringe a voltarsi, cementando il suo cuore di paura per l’ennesima volta.

“Elena!”

 

 

 

Jeremy sussultò, svegliandosi di soprassalto. Scattò a sedere, tastando freneticamente la superficie della trapunta, mentre con la mano sinistra cercava a tentoni un interruttore. Aveva il fiato corto, e il battito accelerato, come se avesse corso per davvero; e tremava.

Non riuscì a trovare il pulsante di accensione della lampada, e per un attimo si rannicchiò su se stesso, spaventato e disorientato; impiegò qualche secondo, per ricordarsi di non trovarsi a casa sua. Non era a Mystic Falls, ma a Denver, nell’appartamento di Howie e Demetria. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’oscurità, allungando una seconda volta la mano sul comodino, cercando lampada; l’assenza di luce continuò a tormentarlo, fino a che non riuscì finalmente a trovare il pulsante di accensione.

Quando il buio venne meno nella stanza, Jeremy riuscì finalmente a recuperare un barlume di controllo su se stesso. Riconobbe la scrivania piena di libri, la valigia aperta sul pavimento, i vestiti disseminati un po’ ovunque per la sua stanza, e il respiro incominciò a farsi più regolare. Le mani, però, gli tremavano ancora. Si sfilò via il sudore dalla fronte, evocando con un brivido le chiazze rosse sulla sua maglietta, il cenno di saluto di Vicki, le lacrime della zia Jenna, le urla di Anna.

Aveva fatto un sogno – un incubo -. Era stato tutto solo un incubo.

Elena stava bene, e anche lui. Erano entrambi al sicuro.

E lui si trovava nella sua stanza, a Denver: il posto che ormai aveva incominciato a considerare una sorta di seconda casa.

Eppure lo sgomento non scemò in lui, quella notte.

Nel momento in cui tornò a rilassarsi sotto le coperte, convinto di essere finalmente riuscito a calmarsi, il respiro prese a farsi più affannato.

E aveva paura; paura per Elena, paura per se stesso.

Aveva paura, perché in quel momento capì che lasciarsi Mystic Falls alle spalle era stato inutile in fondo; perché non sarebbe cambiato nulla.

Aveva sedici anni, solo sedici anni, e già aveva già perso tutto.

Non c’era la possibilità di un nuovo inizio, per lui. Perché il rosso, il sangue, non era solo più sulla sua maglietta, o sulle nocche delle sue mani: era ovunque.

Non avrebbe ricominciato daccapo: qualcosa dentro di lui si era spento e i timidi tentativi che  stava muovendo per cercare di rimettersi in sesto, non sarebbero stati sufficienti.

Quella notte, Jeremy mise da parte per la prima volta le piramidi, le strade trafficate di Denver, il parco, gli occhi azzurri di Hazel.

“Mi hai lasciata andare…

                                                     “Klaus sta arrivando. Jeremy, Muoviti, dobbiamo andarcene!”

Le poche frasi che gli erano state rivolte nell’incubo, continuavano vorticargli nella sua testa, facendogli male. Graffiando via quel barlume di luce che stava incominciando a riaffiorare nel suo sguardo.

 

“Non è colpa mia.” ripetè come aveva fatto nel sogno, rifugiandosi sotto le coperte.

Sentiva freddo, aveva paura, e provava dolore.

Ed era solo.

 

 “Mi hai lasciata andare…

                                                    “Jeremy!”

 

 “Non è colpa mia.” mormorò un’ultima volta, prima di incominciare a piangere.

 

Era caduta la notte.

Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c'era un piccolo principe da consolare.

da Il Piccolo Principe

 

 

“Demetria?”

“Che cosa c’è?”

Howie si sollevò su un fianco, osservando con aria turbata porta della camera da letto.

“Il ragazzo piange.”

Demetria sospirò, sfilandosi via le coperte dalle spalle.

Scosse il capo con aria triste: nella camera adiacente alla loro c’era un giovanotto - un ragazzino - un ragazzino che piangeva.

E non c’era nulla che potessero fare per consolarlo.

“Lasciamolo tranquillo, Howie.” mormorò infine con dolcezza. “Ha bisogno anche di questo.”

 

“Gli dicevo: il fiore che tu ami non è in pericolo. Disegnerò una museruola per la tua pecora… E una corazza per il tuo fiore. Io…

 

Non sapevo cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo,come raggiungerlo.

Il paese delle lacrime è così misterioso.

da Il piccolo Principe.

 

***

 

Qualche giorno più tardi, una domenica, Jeremy sedeva di fronte al televisore, impigrito dal brutto tempo di quel pomeriggio. Howie occupava come al solito la poltrona, il  volto semi nascosto dietro al giornale che stava leggendo.

 

“Tutto a posto, voi due?” domandò in quel momento Demetria, raggiungendoli in soggiorno, il golfino adagiato sull’avambraccio. “Sto uscendo per fare un po’ di compere. Se avete bisogno di qualcosa, dopo la spesa sarò da Veera, nel palazzo a fianco.

 

Nel sentire nominare il palazzo adiacente al loro, Jeremy distolse lo sguardo dal televisore.

 

“Per caso conoscete una ragazza che si chiama Hazel?” si decise finalmente a domandare, rivolgendo poi a Demetria un’occhiata incuriosita. “Vive anche lei nel palazzo di fianco a questo.”

 

I Goldman si scambiarono una rapida occhiata.

 

“Parli della figlia del dottor Shawn, vero?.” domandò la donna; il suo viso si illuminò.

“Hazel. Sì, la conosciamo.” dichiarò poi, sorridendogli con dolcezza. “Proprio una bella ragazza.”

 

“è figlia di un medico?” domandò ancora Jeremy con aria interessata. “Come me.” aggiunse poi, incuriosito dalla coincidenza: sapeva che Hazel frequentava medicina all’università, ma lei non le aveva mai raccontato nulla sul padre.

 

Demetria annuì.

 

“Oliver Shawn, era oncologo. E anche una persona deliziosa,a dirla tutta.” specificò. “C’è stato addirittura un periodo in cui mi ha aiutato a vedermela con questo vecchio brontolone qui, quando dovevo fargli la puntura.” aggiunse, accennando a Howie con il capo. Il marito grugnì, senza distogliere lo sguardo dal giornale.

 

“Non me lo ricordare.” borbottò poi. Jeremy sorrise, prima di tornare a rivolgersi a Demetria.

 

“Hai detto ‘era’?” domandò, disorientato dall’uso di quel verbo al passato.

 

La donna annuì.

 

“è venuto a mancare due anni fa.” gli spiegò con delicatezza, scoccando poi una seconda occhiata esitante a Howie. “Ti sarebbe piaciuto Jeremy, era una così brava persona!”

 

Jeremy esitò, distogliendo lo sguardo dalla donna.

Erano ormai trascorse tre settimane dal pomeriggio in cui lui e Hazel si erano rivolti per la prima volta la parola. L’aveva incontrata più volte, da allora, talvolta al parco, talvolta bighellonando nel cortile della sua università.

Avevano chiacchierato molto, eppure lui non le aveva mai chiesto nulla sulla sua famiglia. Non sapeva che anche Hazel avesse perso il padre.

 

Nel ripensarci, Jeremy si rese conto che c’erano ancora tante cose di lei, che ancora gli sfuggivano. C’erano dei momenti in cui si trovava a domandarsi se l’avesse seriamente avvicinata o se fossero ancora incastrati nel periodo in cui si limitavano a tenersi d’occhio a distanza, sorridendosi di tanto in tanto.

Hazel sapeva molto su di lui. Se Jeremy le faceva una domanda, era in grado di eluderla; le piaceva manipolare le parole del ragazzo a suo piacimento in maniera da coinvolgerlo nell’interrogativo. E così, alla fine, non era mai lei, ma Jeremy a raccontare frammenti di se stesso.

 

A Hazel piaceva stuzzicarlo, nascondere le risposte alle sue domande, istigandolo a cercare a lungo, per poi premiarlo con un sorriso, quando si avvicinava alla soluzione.

I suoi occhi chiari lo esaminavano con interesse, ma altre volte andavano più a fondo, disorientandolo.  Spingendolo a controllarsi in continuazione, come se temesse che il suo sguardo avesse individuato in lui qualcosa fuori posto. Nel suo aspetto, nelle sue parole. Il più delle volte lei se ne accorgeva e tornava a sorridergli, con quel cipiglio divertito, ma dolce, che non aveva mai rintracciato in nessun altro volto, se non nel suo.

 

E gli piaceva per questo. Gli piaceva, perché sentiva di non avere scampo con lei, mentre Hazel, al contrario, non faceva altro che sfuggirgli.

Gli piaceva, perché per la prima volta dopo tempo, sentiva di avere la possibilità di poter rincorrere qualcosa, senza dover per forza essere relegato in panchina.

 

Voleva eliminarle ogni via di fuga, coglierla in un momento di consapevolezza e farle ammettere che era attratta da lui, nello stesso modo in cui Jeremy lo era da lei.

 

 

Perché lei lo chiamava di rado per nome, ma quando lo faceva, il suo sguardo cambiava; e i suoi occhi sorridevano. 

 

Perché teneva il ritratto che le aveva fatto in uno dei suoi libri, e lo utilizzava per tenere il segno.

 

Perché l’aveva colpita; Jeremy lo sapeva e basta.

 

“Il padre di Hazel era un’artista, vero?” domandò in quel momento, tornando a rivolgersi a Demetria.

 

I due coniugi annuirono all’unisono.

 

“Dipingeva.” grugnì Howie, chiudendo il giornale, e appoggiandoselo sulle ginocchia per piegarlo.

 

“Il dottor Oliver era un grandissimo appassionato d’arte.” spiegò ancora Demetria, sistemandosi il golfino sulle spalle.

 

In quel momento, un rumore sordo, li sorprese, spingendoli a voltarsi in direzione dell’ingresso.

 

“Che sta succedendo sul pianerottolo?” domandò confusa la donna. Jeremy si decise finalmente a sollevarsi dal divano.

 

“Vado a vedere.” dichiarò, raggiungendo la porta dell’appartamento. Fece appena in tempo ad aprirla, che si ritrovò ad arretrare, per via di qualcosa che gli colpì le gambe.

 

“Fermo!”

 

L’inconfondibile voce di Alexander si mescolò ai suoi passetti affrettati, suggerendo a Jeremy che il ragazzino stava salendo le scale.

 

“Torna qui, torna qui!”

 

Jeremy sgranò gli occhi, inginocchiandosi sul pianerottolo; un sorriso divertito prese ad arricciare gli angoli delle sue labbra: c’era un cane di fronte a lui.

 

La creatura scodinzolò con aria soddisfatta, e si avventò di nuovo sul ragazzo, appoggiandogli le zampe sulle cosce.

 

“Torna qui, cagnolino!” strillò Xander, raggiungendo finalmente il pianerottolo. Il bimbo si appoggiò le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.

 

“Cagnolino?” osservò a quel punto Jeremy, inclinando appena il capo.

Gli veniva da ridere: l’animale, che aveva preso a leccargli le mani con entusiasmo, avrebbe tranquillamente superato – e di molto - Xander in altezza, se sollevato sulle due zampe posteriori.

 

“Forse volevi dire cagnolone!” obiettò, accarezzando con tenerezza il muso della creatura: non aveva mai avuto un cane. Quando era piccolo, si era incapricciato con l’idea di prenderne uno, ma i suoi genitori non si erano mai convinti ad accontentarlo, ritenendo che fosse troppo giovane per potersene occupare.

 

L’idea di un cucciolo era una di quelle cose che non era riuscito a togliersi dalla testa nemmeno una volta cresciuto. E in quel momento, tendendo la mano per provare a raccogliere la zampa dell’animale, sorrise, pensando che non gli sarebbe affatto dispiaciuto condividere la stanza con lui. Gli piaceva immaginare di avere qualcuno sempre accanto, specialmente la notte, o nei momenti in cui rimaneva solo. Qualcuno che dipendesse totalmente di lui, che si fidasse e che chiedesse solo di essere coccolato e accudito. Qualcuno che non avrebbe avuto problemi a ritenerlo abbastanza maturo, da potersi affidare a lui.

 

“L’ho trovato nel parco, sai?” domandò in quel momento Alexander inginocchiandosi, per poter accarezzare il cane. “Secondo me non ce l’ha mica il padrone. E poi tremava tutto!”

 

Solo in quel momento, Jeremy notò che il bambino era bagnato dalla testa ai piedi: Xander doveva essere sfuggito per l’ennesima volta alla sorveglianza della sua baby-sitter, sgusciando fuori dall’appartamento.

 

“Può restare a vivere nella mia piramide!” continuò il bambino. Rise, quando il cane approfittò della sua vicinanza per leccargli affettuosamente il mento. “Già sto costruendo le parti… Le facce!” si corresse poi subito, tornando ad accarezzare l’animale.

 

Qualche piano più in basso, una porta si aprì, e dei passi affrettati echeggiarono nella loro direzione.

 

Xander trasalì.

 

“Nascondimi, nascondimi!” sussurrò a quel punto, rannicchiandosi dietro le spalle del ragazzo. Jeremy sorrise sotto i baffi, riconoscendo sulle scale, la baby-sitter del bambino.

 

Quando la donna individuò il cane sul pianerottolo, spalancò la bocca inorridita.

 

 “Oh, Dio!” mormorò, reggendosi alla ringhiera.

 

Ops!” mormorò in quel momento Xander, esibendo un sorrisetto birichino. Jeremy fece il possibile per trattenersi dallo scoppiare a ridere; in quel momento, il cane gli diede un colpetto sul ginocchio con il muso, cercando di attirare la sua attenzione.

 

“Alexander Davies!” strillò a quel punto la donna, riconoscendo nell’ammasso di fango e pioggia rintanato dietro le spalle di Jeremy, il piccolo figlio dei Davies. Gli puntò un dito contro, stizzita, mentre il piccolo ridacchiava convulsamente.

 

“Ho trovato un cagnolino nel parco!” cinguettò poi, spuntando fuori da dietro al ragazzo. Incominciò a scorrazzare per le scale, tenendo le braccia distese.. “Lo possiamo tenere? Dai, lo possiamo tenere?”

 

Quando la donna incominciò a urlare più forte, anche Demetria uscì sul pianerottolo, incuriosita da tutto quel rumore. Rise quanto Jeremy, nel riconoscere Alexander che scorrazzava ridendo da un piano all’altro del palazzo, mentre la povera governante cercava di stargli dietro come poteva.

 

“E quello?” domandò poi basita, spostando la sua attenzione verso il ragazzo e il cane. Jeremy scoccò un’occhiata colpevole all’animale e arrossì.

 

“Un regalino che Xander si è portato dietro dal parco.” spiegò, sorridendo con aria trionfante, quando riuscì finalmente a farsi dare la zampa dal cane.

 

Ma che bravo!” mormorò con un sorriso, grattandogli il capo dietro le orecchie. “Bravo cucciolone!”

 

Demetria li osservò, con aria intenerita.

 

“Gli stai simpatico!” esclamò a un certo punto Xander, raggiungendoli dalle scale. Si buttò sul pavimento e gattonò fino a raggiungere il cane, sdraiandosi poi al suo fianco. “Magari lo puoi tenere tu, mentre io finisco di costruire la mia piramide!” propose, appoggiando le mani sul manto peloso dell’animale.

 

Jeremy continuò ad accarezzare il muso del cane, evitando di incrociare lo sguardo di Demetria; l’appartamento dei Goldman era piuttosto grande, ma non si sarebbe mai osato a chiedere ai due coniugi una cosa simile; soprattutto tenendo conto di quanto fosse grosso l’animale. E non era poi da escludere il fatto che Xander potesse essersi appropriato del cane di qualcun altro, vista la sua esuberanza. 

 

Non ottenendo risposta da lui, il bambino si voltò verso Demetria, rivolgendole un’occhiata interrogativa. Quando la donna anziana scoppiò a ridere, Alexander esultò, prendendolo come un sì.

 

In quel momento la baby-sitter,  -che dopo averlo rincorso per tre piani di edificio si era finalmente decisa a prendere l’ascensore -  lo colse di sorpresa, afferrandolo per il polso.

 

“Lasciami!” esclamò il bambino fra le risa, cercando di divincolarsi. La donna non allentò la presa.

 

“Fila a farti il bagno, piccolo demonio!” borbottò a denti stretti, guidandolo verso il piano inferiore.

 

“Lo chiamiamo Tuntancamon?” fu l’ultima cosa che Jeremy sentì dirgli, prima di osservarlo scomparire attraverso le fenditure della ringhiera.

In quel momento, il cane scattò a sedere di scatto, riprendendo a scodinzolare. Demetria sorrise, posando con delicatezza una mano sul capo dell’animale.

“Pare che Tutankhamon gli piaccia.” commentò.

Jeremy sollevò lo sguardo per incrociare quello di Demetria, e la donna gli strizzò l’occhio con aria complice.

“Ho sempre desiderato avere un cane.” aggiunse, aprendo la porta del loro appartamento per permettere all’animale di entrare.

Jeremy rimase immobile sulla soglia, un’espressione incredula ad illuminare i lineamenti del suo volto: non riuscì nemmeno a dire ‘grazie’.

Demetria sorrise, appoggiandogli con tenerezza una mano sulla spalla.

***

"Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatrè volte!"

E più tardi hai soggiunto: "Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti..."

"Il giorno delle quarantatrè volte eri tanto triste?" Ma il piccolo principe non rispose.

da il Piccolo Principe.

 

Non fu difficile, per Jeremy, abituarsi alla presenza di Tutankhamon. Meno di una settimana dopo il suo arrivo nell’appartamento dei vecchi Goldman, aveva già imparato a considerare tutte le esigenze del cane come elementi di routine. Sapeva in quali momenti della giornata ci fosse bisogno di portarlo fuori, o quanto dovesse dargli da mangiare ad ogni pasto. Prima di arrivare a convincersi che il cane potesse essere considerato suo, lui e Demetria avevano fatto il possibile per cercare di scoprire se  non avesse già dei padroni, telefonando ai canili e a diversi veterinari nella zona, e tenendo d’occhio annunci e bacheche dalle parti del parco.

Jeremy si era affezionato in fretta al suo nuovo compagno di stanza; accadeva più raramente che finisse per sentirsi solo, perché Tutankhamon aveva preso l’abitudine di seguirlo ovunque, sia nell’appartamento che fuori, quando decideva di far visita al parco. E la notte, era un sollievo per Jeremy svegliarsi all’improvviso e riconoscere al buio il respiro regolare dell’animale accucciato sul pavimento.

Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non tornava in lui.

Ci ripensò una sera, mentre accoccolato sui gradini del suo palazzo, osservava il cielo tingersi di rosa attraverso le porte in vetro. Tutankhamon era accucciato al suo fianco, gli occhi socchiusi, visibilmente soddisfatto della mano del padrone appoggiata sul suo collo.

Jeremy gli sorrise, tornando poi a volgere lo sguardo verso le porte; il suo sguardo era velato da un alone di malinconia che di rado si era potuto scorgere tra i suoi occhi nel corso dell’ultimo periodo.

Ma da quando quell’incubo l’aveva sorpreso nel cuore della notte, Jeremy aveva ripreso ad arrancare; svegliandosi dal sogno, aveva riaperto gli occhi rassegnato. Rassegnato e disilluso.

Per giorni aveva preso a domandarsi che cosa gli facesse credere che le cose avrebbero potuto finalmente sistemarsi, per lui. Casa sua era Mystic Falls. Sua sorella - la sua famiglia- viveva ancora lì.

A Denver era riuscito a scrollarsi via un po’ di detriti appartenenti alla sua adolescenza crollata, sfidando i terremoti e le correnti d’aria che ancora cercavano di ributtarlo a terra. Si era rimesso in piedi sulle macerie, in equilibrio precario, e aveva incominciato a ricostruire qualcosa di nuovo; un pavimento. Una base.

Eppure, un quadrato di pietra, per quanto fosse solido, non era sufficiente per metterlo al riparo dalle percosse del vento, dai detriti che ancora lo circondavano, dalle schegge di pensieri tormentati che continuavano a ferirlo, agitate dai sensi di colpa e dagli incubi.

Aveva creduto di essere finalmente al sicuro, ma si sbagliava; fisicamente era forse a casa, me dentro di sé era ancora intrappolato nella tormenta.

“Che cosa stai facendo?”

L’esclamazione vivace di Alexander, riuscì a scalfire appena l’espressione malinconica incisa sul suo volto. Accennò a un sorriso, osservandolo fiondarsi sull’ultima rampa di scale per poi allargare le braccia, gettandosi su Tutankhamon.

“Ciao, Khamon! Ciao ciao ciao, Khamon!” annunciò ad alta voce, prima di affondare il volto nel pelo dell’animale. “Oh, quanto sei morbido!” constatò.

Il cane gli diede un colpetto affettuoso con il muso e tornò a socchiudere gli occhi, appoggiando il capo sulla gamba di Jeremy.

“Ma che hai? Sei triste?” domandò a quel punto Xander, rivolgendosi al ragazzo. Incrociò le braccia sul petto e prese a osservarlo con aria contrariata.

Jeremy gli rivolse un’occhiata sorpresa, prima di scuotere il capo, appoggiando la schiena al muro.

“Nah, stavo solo pensando.” lo tranquillizzò, tornando ad osservare fuori; il cielo stava ormai iniziando ad annerirsi. “Non dovresti essere a casa, tu?” domandò a quel punto accennando a un sorrisetto divertito. “Mi sa che è quasi ora di andare a letto.”

Xander scosse energicamente il capo, battendosi poi i pugni sulle ginocchia con aria cocciuta.

“Macché! Mica sono un poppante, io!” si lamentò prima di balzare in piedi. Scavalcò a piedi uniti gli ultimi due gradini della scala e atterrò a terra con un tonfo. “E poi dovevo salutare Tuntankamon!” aggiunse, tornando a coccolare l’animale. “A cosa stai pensando?” aggiunse poi, spingendogli le gambe contro il muro, per cercare di farsi spazio fra il cane e il ragazzo.

“Stavi pensando a Hazel?” aggiunse poi ancora, mettendosi a gambe incrociate sul gradino.

“Perché sei triste?” continuò imperterrito, senza lasciare il tempo a Jeremy di rispondere alle prime due domande. Il giovane sbuffò, appoggiandosi gli avambracci sulle ginocchia, mentre lo sguardo deciso del bambino lo interrogava con insistenza.

“Ti ho detto che non lo sono.” gli ricordò. Xander fece una smorfia, per nulla convinto.

“Sei triste, perché ti manca casa tua?” continuò infatti poco dopo, analizzandolo con aria seria. “Sei triste per quello?”

Jeremy sospirò, troppo svogliato per cercare di respingere le domande del bambino.

“Forse.” gli concesse infine, allungando le gambe sul gradino inferiore. Sospirò di nuovo, arrendendosi all’affollarsi di pensieri scomodi che andò a crearsi nella sua testa. “Non è la mia casa che mi manca.” decise di ammettere infine, tornando ad appoggiare la schiena al muro. “Mi mancano alcune persone. Ma sono persone che non rivedrò mai più.”

Xander arricciò il naso con aria pensierosa.

“A me manca il mio robot d’acciaio.” Spiegò infine con aria seria, riprendendo ad accarezzare il collo di Tutankhamon.  “L’ho dimenticato al parco un giorno e quando ci sono tornato poi, non l’ho trovato più.”

“E non è triste, pensare che non lo rivedrai di nuovo?” cercò di spiegargli Jeremy, tendendo anche lui la mano per accarezzare il cane. Xander si coprì pensieroso la bocca con le mani.

 “Sì, forse allora mi sento un po’ triste anch’io.” commentò infine , appoggiando il mento sui palmi, e aggrottando le sopracciglia. La sua espressione, tuttavia, tornò a a farsi vivace quasi subito.

Ma magari poi torna, no?” esclamò a quel punto, balzando in piedi di scatto. “La strada che va fino al parco è facile; se proprio non è tonto, il mio robot ci riesce a tornare a casa!” obiettò.  “Speriamo, perché mi manca!” aggiunse, picchiettando con forza il palmo della mano sul ginocchio di Jeremy.

Il ragazzo si mise a ridere. La malinconia di quella sera, sembrò mitigarsi leggermente, in seguito alle parole ingenue del suo piccolo amico. Nel sentire la sua risata, Xander si illuminò.

“Ti manca anche Hazel?” domandò a quel punto, rivolgendogli un’occhiata furbetta. “La vuoi vedere, vero?” Jeremy sorrise di nuovo.

“Sei un po’ troppo furbo per l’età che hai.” commentò con un guizzo divertito nello sguardo.

“Sì, lo so!” annunciò fiero il ragazzino, risalendo a piedi uniti i primi tre gradini. “Mica sono tonto come te!” aggiunse poi, tornando indietro con un balzo.

Ehy!” lo ammonì il ragazzo con aria offesa, mentre il bambino ridacchiava di gusto.

“Se ti dico dove è Hazel, la vai a trovare?” domandò in quel momento Xander, rivolgendogli un sorriso sornione. Jeremy aggrottò le sopracciglia.

“E perché dovrei?” domandò, non riuscendo tuttavia a trattenere un sorrisetto.

Xander si arrampicò sulle sue ginocchia e gli batté una mano sulla fronte.

“Perché se la vai a trovare, poi sei felice e sorridi, no?” spiegò con aria spazientita. “Te l’ho detto che mi stai più simpatico quando sorridi e non mi chiami Tuntancamon!” aggiunse, serio.

Nel sentirsi chiamare per nome, il cane mosse appena le orecchie e puntò il suo sguardo contro Xander, prima di tornare ad accoccolare il muso sul gradino.

Jeremy sospirò, riprendendo poi ad osservare il bambino con aria divertita.

“Dai, dimmi tutto.” gli concesse infine, dandogli un colpetto sulla gamba. Xander, ancora in bilico sulle sue ginocchia, sorrise entusiasta.

“Ci ho parlato prima prima mentre tornava a casa dal parco.” spiegò con aria incredibilmente solenne, prima di annuire vigorosamente. “Le ho chiesto se voleva venire a trovarti, ma ha detto che doveva vedere la sua amica Stacey questa sera. Di fronte a casa sua! Alle nove! So proprio tutto, eh?” aggiunse , esibendo un sorrisetto orgoglioso.

Jeremy scosse il capo, sghignazzando divertito.

“Fammi capire, tu mi vorresti far sabotare l’appuntamento tra Hazel e la sua amica?”  chiese.

Xander inclinò appena il capo e aggrottò le sopracciglia.

“Che vuol dire sabotare?” domandò con aria confusa.

Jeremy non gli rispose; con lo sguardo era già corso a controllare che ora fosse.

“Xander, ma lo sai che quasi quasi lo faccio?” si sorprese ad esclamare in quel momento.

Si sentiva sveglio, tutto d’un tratto; come se avesse appena scosso via un sogno durato troppo a lungo. Era sveglio e intenzionato a muoversi. La malinconia, i pensieri scomodi, il dolore di quegli ultimi giorni, tutto sfumò in secondo piano.

“In fondo, peggio di così non può andare, no?” obiettò. “ A questo punto tanto vale umiliarsi per bene e rischiare… Ho ragione, Tutankhamon?”

 “Sì, ma che vuol dire sabotare?”

Xander si impuntò su quella domanda, sempre più confuso.

Ma Jeremy non lo stava già più ascoltando. Mentalmente, aveva già preso a tracciare il tragitto che separava il suo palazzo da quello di Hazel, e stava osservando nuovamente l’orologio, con sguardo ravvivato: erano le nove meno dieci. Se faceva un salto a recuperare le chiavi in quel momento, forse avrebbe raggiunto il palazzo adiacente in tempo, per scorgere Hazel prima dell’arrivo della sua amica.

“Bada tu a Khamon, e quando sali portalo nel mio appartamento.” si raccomandò a quel punto, sollevando il ragazzino per depositarlo a terra. Con un sorriso appena accennato e lo sguardo insolitamente vivo, Jeremy si chinò per dare un buffetto al cane e si precipitò su per le scale.

“Va bene, ma che vuol dire sabotare??”  Gli gridò dietro Xander ancora una volta, sbattendo i piedi per terra con aria offesa. “Non lo sai nemmeno tu, vero??”  

Quando infine capì di essere rimasto solo in compagnia del cane, sbuffò, portandosi imbronciato le braccia al petto.

 “Certo che ci siamo trovati proprio un amico tonto, Tuntancamon.” borbottò a quel punto, prima di prendere a risalire le scale, con l’animale al fianco. “Non sa nemmeno che cosa vogliono dire le parole che dice lui!”

 

Nota dell’autrice.

Anzitutto, ho scritto una piccolissima Jeremy/Hazel ambientata a qualche *uh* circa a nove anni di distanza da Pyramid – sì, lei lo chiama ancora ragazzino *W* - La trovate QUI.

 

Ora, polpettone time!

Dunque, indovinate un po’? Ho diviso il capitolo *|||||* Eh, sì. Ma non è colpa mia se finisco per dilungarmiiii D: *cerca scuse*. In realtà ho sempre saputo che avendo deciso di riassumere tutta la parentesi di Jeremy a Denver in pochi capitoli,avrei probabilmente finito per scrivere delle robe chilometriche e detesto ammassare le cose che succedono, perché poi il capitolo diventa noioso, a voi cascano le braccia e non si capisce più niente. Perciò, ecco che ho deciso di dividere in due parti il secondo capitolo.

In questa prima parte vediamo Jeremy alle prese con una sorta di ‘ricaduta’ riportata dall’incubo che ha a inizio capitolo. Cose che si agitavano dentro di lui da un pochetto e che era riuscito a mettere momentaneamente da parte perché era impegnato a cercare di ambientarsi nella nuova città, tornano a galla. Nella mia testa, la scena iniziale dell’incubo (Jeremy,la bomboletta spray,zia Jenna) è il modo in cui ho scelto di immaginare il momento in cui apprende della morte dei suoi genitori. E quindi, nell’incubo, si mescolano fatti reali e cose dettate dal suo inconscio.

Passando a un momento un po’ più allegro, abbiamo la conversazione tra Jer e i Goldman, seguita dall’arrivo del cagnetto (<3) Il cane è un altro dei motivi per cui questo capitolo ha deciso di voler raggiungere dimensioni epiche, ma andiamo per ordine.

 Intanto scopriamo finalmente a che cosa deve il suo nome anche il secondogenito di Jeremy e Hazel (lo dico per chi segue anche History Repeating). Di Oliver Shawn, il padre di Hazel, se ne parlerà ancora nella seconda parte del capitolo. E Oliver Grayson Gilbert (ribattezzato da me Casper *W*) porta appunto i nomi di entrambi i suoi nonni.

Poi abbiamo Tutankhamon! (il cane, non il bambino). E beh, sì, quando ho saputo che a Denver si era preso un cane ho deciso che volevo far coincidere almeno questo elemento con il Jeremy a Denver autentico, quello di TVD.

E infine, abbiamo lasciato Jeremy mentre si preparava per andare a ‘sabotare’ l’appuntamento tra Hazel e la sua amica. Xander, proprio come il Piccolo Principe, si intestardisce perché vuole conoscere il significato di quella parola sconosciuta, ma purtroppo per lui, il suo amico ‘tonto’ non gli è molto d’aiuto. Nella seconda parte del capitolo lo ritroveremo ancora, ma soprattutto, ci saranno Jeremy e Hazel;e ovviamente verrà spiegato il collegamento alle ‘facce’ della piramide che in questa prima parte è ancora assente; vedremo che succederà.

In questo capitolo, ci sono molte più citazioni che nelle prime due parti, ma trovavo che calzassero parecchio, in particolare le due successive all’incubo di Jeremy che sono tra i miei passaggi preferiti in assoluto del libro. Nel capitolo precedente, ho scritto il dialogo tra Hazel e Jeremy con le citazioni sul capitolo della volpe in mente, mentre in questo caso ho inserito i vari passaggi dopo aver scritto le varie scene e mi piace quello che è uscito fuori. Nella seconda parte ci saranno parecchi altri rimandi.

 

Niente, spero che questa prima parte vi sia piaciuta quanto è piaciuto a me a scriverla. Ci tenevo proprio tanto a postarla prima del nuovo episodio di TVD, visto che come alcuni di voi sapranno, vedremo finalmente Jeremy a Denver anche lì (in un contesto completamente diverso da questo, ovviamente XD)

 

Un abbraccio grande

 

Laura

P.S. Oh yeah, indovinate un po’? Ho dimenticato qualcosa! I riferimenti al vento, ai terremoti, alle correnti d’aria in relazione alla piramide si ispirano alla canzone da cui appunto ho tratto l’idea per questa toria, Pyramid di Charice.

 Altro P.S. Se siete curiosi di vedere i volti di Hazel, Xander e anche del nostro nuovo arrivato (Khamon) trovate tutte le foto QUI!

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