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Autore: RobTwili    31/03/2012    23 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Ad Ale, Chiara, Cris ed Elle. Perché mi sopportano, anche troppo, e perché probabilmente, senza di loro, il capitolo non sarebbe qui. <3
 
 
 
«Come hai detto?». Ero stupita, sul serio: Brandon non stava assolutamente scherzando ma sembrava piuttosto preoccupato che qualcuno fosse entrato in casa mia. Li guardai a uno a uno, leggendo nei loro volti lo stesso identico sguardo confuso. Non avevano cercato né zucchero né sale, non si erano intrufolati in casa mia per farmi uno scherzo. Ma se non era stato qualcuno di loro, allora chi aveva violato la mia privacy, facendo irruzione nel mio appartamento?
Indietreggiai di un passo, cercando un mobile che potesse sostenermi: l’idea che qualcuno di estraneo fosse entrato in casa mia, rovistando tra le mie cose, mi faceva girare la testa.
«Ehi, Lexi» mormorò Brandon, correndo verso di me e sorreggendomi, proprio mentre sentivo le gambe diventare molli. Le sue braccia forti si appoggiarono ai miei fianchi, sostenendomi e trascinandomi verso il divano, dove mi distese.
No, perché mi aveva fatta distendere sul divano? Dovevo andare a casa e controllare che tutto fosse apposto, che non avessero preso niente, che non mi avessero rubato i… «I soldi» strillai, mettendomi a sedere di scatto per poi alzarmi e correre verso la porta, prima che qualcuno mi appoggiasse le mani sui fianchi, fermandomi. Non mi voltai nemmeno per guardare chi fosse, non mi interessava. Era casa mia, c’era tutto quello che per me aveva un significato. «Lasciami» protestai, cominciando a muovermi. La presa era salda e sicura, tanto che i miei piedi smisero di toccare il pavimento, mentre scalciavo. Chi diamine mi stava costringendo a rimanere lì?
Mi voltai, percorrendo le braccia ricoperte da tatuaggi e, non appena incontrai il suo volto, parlò: «non fare cazzate, lentiggini. Calmati, tu rimani qui». Ryan tornò a farmi sorreggere dal pavimento, tenendo le sue mani sui miei fianchi perché non potessi scappare. Come potevo anche solo pensare di farlo? Mi avrebbe raggiunta in un paio di passi e sarebbe stato benissimo in grado di caricarmi in spalla e legarmi al letto perché non scappassi.
«Voglio solo sapere se hanno rubato qualcosa» spiegai, cercando di calmarmi. Non ero così stupida da provare a scappare, non con cinque persone alte due metri lì vicino a me. D’accordo, quattro persone e mezza, se contavo la gamba di Sick che non gli permetteva di muoversi liberamente.
«Lexi, potrebbero essere ancora dentro casa, se sono dei ladri potrebbero farti male, non essere sciocca». Di nuovo Brandon, a preoccuparsi per me. Sapevo che era la verità, ma non volevo cedere: era casa mia, non mi interessava prendermi un nuovo pugno sul naso da qualcuno.
«Che vengano a tirarmi un pugno! Che ci provino» sbottai, camminando di nuovo verso la porta, convinta di quello che stavo facendo. Cosa credevano, che avessi paura di qualcuno solo perché era un po’ più alto di me?
«Sta ferma, qui». L’ordine di Ryan, o almeno, la sua mano sul mio polso, mi costrinse a fermarmi con un piede già sul pianerottolo. Mi voltai, guardandolo: non stava ridendo, non si stava nemmeno prendendo gioco di me; semplicemente mi vietava di tornare a casa mia. «Non essere ridicola, lentiggini, ti stenderebbero con un pugno, anche un moscerino ci riuscirebbe. Stai qui, senza rompere le palle, e andiamo a controllare noi». Cominciava a perdere l’aria seria di poco prima, facendo nascere quel ghigno –che odiavo – sulle sue labbra. Voleva fare di testa sua, mettendo in pericolo la sua vita e quella dei suoi amici? Bene, non avrei di certo interferito con la sua scelta di morire.
«D’accordo». Incrociai le braccia sotto al seno e andai a sedermi sul bracciolo del divano, fingendo una calma che non possedevo. La verità era che, oltre alla paura di qualcuno ancora dentro casa mia, ero arrabbiata con Ryan, che credeva di avere potere anche su di me. Non riusciva a capire che io non ero parte degli Eagles? Era così difficile per lui pensare che non poteva comandare tutto e tutti?
Un rumore, proveniente dall’appartamento di fronte, ci fece immobilizzare tutti: il colpo si era sentito, tanto che anche Sick, ancora disteso sul divano, cercò di raddirizzarsi per capire da dove fosse venuto quel rumore sordo.
Ryan aprì la porta per dirigersi verso le camere, tornando subito dopo con un borsone scuro tra le mani. Lo aprì, senza parlare, tirando fuori un groviglio di stoffa scura che appoggiò delicatamente sopra al tavolo della cucina.
«Ryan, che cosa vorresti fare?» domandò Brandon, avvicinandosi a lui e sistemandosi al suo fianco, senza però aiutarlo a districare quel groviglio di stoffa. Quando Ryan estrasse una pistola, sussultai spaventata, rischiando di cadere dal bracciolo del divano sul quale ero seduta. Cosa ci faceva con una pistola dentro a un borsone? Perché aveva un’arma in casa? Il mio sgomento aumentò quando appoggiò sul tavolo davanti a lui altre quattro pistole.
Cinque, le pistole sopra a quella tavola erano cinque, ma ero quasi sicura che dentro a quel borsone ce ne fossero altre.
«Brandon, Dollar, Josh e Paul, prendete le pistole» ordinò Ryan, prendendone una in mano e controllando che dentro al caricatore ci fossero dei proiettili. Non avevo mai visto di persona quelle armi, ma vederle maneggiate con così tanta naturalezza mi terrorizzò. Indietreggiai, allontanandomi da Ryan e da quello che aveva in mano. Mi ero sempre immaginata una pistola come quelle che si vedevano nei vecchi film western, con il tamburo con i sei colpi disponibili. Quella che Ryan stava impugnando assomigliava più a un’arma dei telefilm polizieschi, dove in ogni episodio bisognava scoprire l’assassino. Quando Ryan caricò la pistola, sussultai spaventata: sembrava ancora più alto e spaventoso, con quell’arma in mano.
«Ryan, calmati, non sappiamo nemmeno che cosa è successo» cercò di farlo ragionare Brandon, avvicinandosi comunque a lui, senza prendere nessuna pistola in mano.

Dollar, obbedendo all’ordine di Ryan, camminava avanti e indietro, attorno alla tavola, come se fosse indeciso su quale arma prendere.
«Ryan, non saprei, per una volta vorrei avere la pistola più grande della tua» scherzò, aprendosi in un sorriso che increspò la cicatrice sulla sua guancia. Brandon cercò di soffocare una risata, mollandogli uno schiaffo sulla nuca per ammonirlo; Sick invece, disteso sul divano, si fece sentire con una sonora risata che contagiò anche Josh e Paul.
«Prendi quella fottuta pistola e mettici dentro quei fottuti proiettili, cazzo» sbottò Ryan, spegnendo le risate di tutti quanti. I ragazzi presero una pistola a testa, senza badare troppo a quale avessero scelto, e seguirono Ryan, che si era avvicinato alla porta, aprendola.

Sussurrò ai ragazzi qualcosa che non riuscii a capire, ma li vidi annuire; avanzarono, dividendosi poi una volta arrivati davanti alla porta del mio appartamento: Brandon e Dollar a destra e Josh e Paul a sinistra. Ryan spalancò la porta con un calcio, tenendo le braccia tese in avanti, con la pistola stretta tra le mani. Pochi istanti dopo, Brandon, Josh, Paul e Dollar lo seguirono, entrando in casa mia senza fare rumore.
«Lexi, chiudi la porta» consigliò Sick, facendomi sussultare per la sorpresa: ero così impegnata a guardare Ryan e gli altri che non mi ero più ricordata di lui. «Chiudila» ripeté, strisciando sul divano perché potessi vedere il suo volto. Non era una battuta con qualche possibile sfondo sessuale, semplicemente mi stava ordinando di chiudere la porta, ma perché? Obbedii, socchiudendo l’uscio e avvicinandomi a lui, mentre, nervosamente, cominciavo a mordicchiarmi l’unghia del pollice, sovrappensiero.
«Sick, e se c’è qualcuno in casa mia, che succede?» chiesi, non riuscendo a calmarmi. L’idea che Dollar, così giovane, potesse ferirsi a causa mia non mi allettava. E, per quanto potessi odiarlo, non mi piaceva neanche l’idea di avere la vita di Ryan sulla coscienza.
Sick si sistemò meglio, cercando di mettersi a sedere, poi, dopo aver sbuffato per il dolore o forse per la mia domanda, cominciò a dire: «Se dovesse esserci qualcuno di là, te ne accorgeresti. Si sono presi anche i silenziatori?» si informò, guardandomi, in attesa di una risposta. I silenziatori? Non sapevo nemmeno che forma avessero, come potevo sapere se li avevano presi? Probabilmente notando la mia confusione, Sick continuò: «Allora non ti preoccupare, li sentirai se qualcosa andrà storto, e spero proprio di no, visto che non vorrei perdermi tutto il divertimento» ghignò, indicandosi la gamba fasciata. Non sembrava nemmeno preoccupato per le sorti dei suoi compagni; non sapevo se fosse totale disinteresse verso di loro o troppa stima e sicurezza per un esito positivo.
«Non ti interessa se qualcuno di loro muore?». Ero davvero sconvolta dalla sua tranquillità. Non riuscivo a capire come potesse rimanere seduto su quel divano senza agitarsi per la possibilità che uno dei ragazzi con cui divideva l’appartamento potesse morire. Dannazione, lo ero io che li conoscevo da meno di un mese!
«So che non accadrà. Ryan sa cosa fare in ogni situazione, e fino a quando c’è lui a capo di tutto e Brandon gli guarda le spalle, so che non succederà nulla. A proposito, che giorno è oggi?» concluse, tastandosi le tasche dei pantaloni rotti, come se stesse cercando qualcosa.
«Il… il due luglio, perché?». Ryan e gli altri non erano ancora tornati e lui si preoccupava di sapere che giorno era? Cominciavo a capire perché si chiamasse Sick – ero sicura che non fosse il suo vero nome.
«Quel porco di James Deen! Oggi esce il trailer del suo film. Lexi, prendimi il PC, devo assolutamente vederlo, è con la gnocca con i capelli rossi» esclamò, agitandosi sul divano per cercare di guardare dove fosse quello di cui aveva bisogno.
Trailer di film porno? Esistevano anche i trailer dei film porno? E cosa, esattamente, facevano vedere? Credevo che tutti i film, bene o male, avessero le stesse scene dentro. Insomma, cambiavano le posizioni, ma la sostanza era sempre quella.
«Muoviti Lexi! Avrei dovuto vederlo stamattina. Come ho potuto dimenticarlo?».
Era decisamente melodrammatico, soprattutto quando, imprecando contro se stesso per quella dimenticanza, cominciò a tirare pugni sul cuscino del divano, sfiorandosi, a ogni gesto, la gamba ferita. Mi guardai attorno, cercando un PC per poterglielo dare. Certo non ero affatto curiosa di sapere come fosse fatto un trailer di porno; la domanda nella mia mente era pressoché disinteressata, la riposta invece molto temuta.
«Ecco» mormorai, porgendogli il PC che avevo trovato sopra alla tavola, poco distante dal borsone contenente le pistole. Sick nemmeno mi ringraziò, impegnato com’era ad accenderlo e a tamburellare con le dita in attesa che finisse di caricare la pagina iniziale.
«Eccoci… andiamo…» borbottò, digitando velocemente l’indirizzo di un sito e sospirando estasiato. «Vuoi vedere anche tu, Lexi?» domandò, girando il volto verso di me, per essere sicuro di vedere la mia reazione. Se quella domanda me l’avesse posta Ryan, ci avrei visto sicuramente un motivo per prendermi in giro, ma Sick… lui voleva solo essere gentile e condividere la sua felicità con me, per questo non riuscivo ad arrabbiarmi con lui, perché mi sembrava di vedere un bambino davanti all’entrata di Disneyworld.
«No, no. Grazie lo stesso, non mi interessa molto». Cercai di liquidare la faccenda, allontanandomi dal divano per non sentire strani rumori, ma soprattutto per cercare di captare qualcosa di quello che stava succedendo nel mio appartamento. Per questo sussultai spaventata quando sentii la porta aprirsi: Dollar, il primo a entrare, era senza lividi o sangue in faccia, e lo stesso per gli altri ragazzi. Sospirai, sollevata. Per fortuna nessuno di loro era ferito.
«Non c’è nessuno, ma ti hanno messo sottosopra la casa. Dovresti vedere se ti hanno rubato qualcosa, ma non ti consiglio di chiamare la polizia» spiegò Ryan, avvicinandosi ai divani per controllare cosa stesse facendo Sick. Poi, senza badare a me o spiegarmi altro, si sedette lentamente, stringendo un pugno senza però lamentarsi: ero sicura che fosse la costa che gli doleva. «Che cazzo stai facendo, Sick? Hai una faccia da idiota» ghignò poi, cercando di colpirlo con un pugno, senza però riuscirci: era troppo distante e con tutta probabilità non voleva alzarsi.
«Il trailer del film di James. È… dovete vederlo, sarà il miglior film in assoluto, sì». La voce di Sick era quasi comica, sembrava parlare come se avesse un nodo in gola, tanto che tutti i ragazzi cominciarono a ridere, mentre Brandon raccoglieva le pistole di tutti per riportarle dentro al borsone.
«Dici così ogni volta Sick, ormai sappiamo tutti che non è vero» scherzò Brandon, mentre Paul e Josh annuivano, dandogli ragione. Erano rilassati e tranquilli, come se per loro fosse normale sistemare le armi dopo essere entrati in casa mia, per controllare che non ci fosse nessuno.
«Io… non vorrei disturbarvi e mi dispiace interrompere questo momento, ma vorrei sapere se posso tornare a casa mia, per controllare se hanno rubato qualcosa» bisbigliai, sistemandomi nervosamente un ciuffo di capelli dietro la schiena, perché all’improvviso si erano tutti voltati a guardarmi. Essere così al centro dell’attenzione, senza nessuno di fianco non mi piaceva, mi faceva sempre sentire a disagio e ricordai di aver provato la stessa sensazione quella mattina, appena entrata al Phoenix.
«Ryan, perché non le diamo una pistola? Così almeno se ha bisogno di qualcosa può difendersi» propose Dollar, come se fosse stata una grande idea.
«Cosa? No». Una pistola, a me? Io che non sapevo nemmeno come si sparava. Io che avevo il terrore di quelle armi, anche quando, alle giostre di primavera, le mettevano per far impazzire i ragazzini. Odiavo le armi, erano pericolose.
«Dagli la Rivoltella. Le va più che bene» sbadigliò Ryan, stiracchiandosi sul divano senza muoversi troppo. Rivoltella? Che cos’era?
Brandon cercò qualcosa dentro al borsone e, dopo aver preso una pistola piccola, si avvicinò a me con un sorriso: «Tieni, Lexi» mormorò, porgendomi l’arma che istintivamente presi tra le mani. Se prima mi sembrava piccola, quando sentii il suo peso e la vidi tra le mie mani, mi accorsi che non lo era. «Calibro trentotto, è una Smith & Wesson modello 60. Cinque colpi, semplice da usare e la puoi nascondere in borsa, così sarai sempre armata. Consideralo un regalo di benvenuto da parte nostra» concluse, con un sorriso sulle labbra che risaltava tra gli zigomi ancora segnati dalla lotta della sera prima.
Una pistola, come benvenuto? Cordiale da parte loro, visto che ero sicura fosse costosa, ma non mi interessava proprio per niente.
«Io… vi ringrazio per il pensiero, ma credo non mi interessi». Non mi avevano mai insegnato a rifiutare una pistola come regalo e non ero nemmeno sicura che ci fosse un modo giusto per farlo. Semplicemente mi sarei spaventata di me stessa; se avessi portato con me un’arma non mi sarei più riconosciuta nei miei valori. «Ora vado a controllare i danni» mormorai, cominciando a gesticolare ancora con la pistola in mano, visto che Brandon si era allontanato da me per finire di sistemare la tavola.
«Oh, lentiggini, abbassala. È carica, se vuoi uccidere qualcuno fallo con i Misfitous, cazzo» sibilò Ryan, alzandosi e raggiungendomi in pochi passi. Prese la pistola dalle mie mani, aprendo il tamburo e togliendo i proiettili che c’erano dentro. «Tieni, ora gioca a fare la dura». Mi restituì l’arma, richiudendola con un rumore sordo.
«No, non la voglio» ribattei, tendendo le braccia verso di lui, perché potesse riprendersi la pistola. Cominciò a ridere, tenendosi una mano sulla costa che gli doleva, poi, dopo aver guardato Brandon e Dollar, si incamminò verso il mio appartamento, lasciandomi davanti alla porta aperta, ancora con l’arma in mano. «Ti ho detto che non la voglio» sbottai, entrando in casa mia, ma bloccandomi subito: era semplicemente un disastro, tutto era fuori posto. I cuscini del divano erano sparsi per tutta la stanza, ogni anta dei mobili della cucina gialla era aperta e c’erano delle pentole sparse per il pavimento e sui fornelli. Non riuscivo nemmeno a parlare, men che meno a muovermi.
Qualcuno era entrato in casa mia, aveva toccato e spostato le mie cose. Avanzai lentamente verso il corridoio, spaventata da quello che probabilmente avrei visto. Quando arrivai in camera, prima di svoltare l’angolo per entrare, socchiusi gli occhi respirando a fondo per calmarmi, ma, alla vista di tutti i miei vestiti sparsi per il pavimento e dei cassetti della biancheria aperti e mezzi svuotati, non riuscii a trattenermi e fui costretta a correre in bagno, senza nascondere i conati di vomito per poi tirare lo sciacquone. Mi rinfrescai il viso, guardandomi attorno nel piccolo bagno: la tenda della doccia, quella che avevo portato da Los Angeles perché aveva delle tavole da surf disegnate, era a brandelli, sparsa sul pavimento. Il mobiletto con le medicine era aperto e alcuni flaconi erano sparsi tra il lavandino e il pavimento, così, mi avvicinai per controllare che non avessero aperto quello che conteneva una parte dei soldi che mi ero portata da casa. Sospirai sollevata, quando mi accorsi che non li avevano rubati, probabilmente perché non avevano avuto il tempo di guardare dentro a tutti i barattoli.
«Ti hanno rubato i soldi?» domandò Ryan, entrando nel bagno che a causa della sua presenza vicina sembrò ancora più piccolo. Sbirciò dentro alla confezione, come per assicurarsi che non stessi mentendo. Quella parte di risparmi non era stata toccata, temevo però per l’altra metà, quella che avevo nascosto in camera.
«Questi sono più di cinquecento dollari, ma non li hanno nemmeno visti, credo. Però ne ho altri in camera» mormorai, scansando Ryan e lasciando un’ultima occhiata ai pezzi di tenda: me ne serviva un’altra, sicuramente. Non potevo farmi la doccia senza tenda per sempre, o avrei rovinato il bagno.
«Forse quelli in camera li hanno presi, lì c’è un disastro» spiegò Brandon, seguendomi poi in silenzio mentre entravo nella stanza, fermandomi subito, perché mi veniva di nuovo da vomitare: i miei vestiti sparsi ovunque, l’armadio aperto e tutti i cassetti ribaltati per terra; la mia biancheria sparsa sul pavimento e sul letto. Cercai di respirare a fondo di nuovo, avvicinandomi all’armadio per controllare che non avessero preso i soldi.
«Non ci sono» mormorai, atona, quando mi accorsi che la scatola da scarpe era sparita. Avevano rubato quasi cinquecento dollari, praticamente metà dei miei risparmi. Eppure non riuscivo a pensare in modo ragionevole, come se non mi rendessi totalmente conto di quello che era successo, perché continuavo a guardare la stanza messa sottosopra, ricordando che qualcuno aveva toccato le mie cose senza permesso. «Devo lavare tutto quanto» spiegai, cominciando a raccogliere i vestiti sparsi per la stanza per andare in bagno. Sentivo gli occhi dei ragazzi puntati contro, ma non mi interessava: lenzuola, intimo, vestiti… tutto sarebbe finito in lavatrice, a costo di rimanere con quella maglia addosso per una settimana. E dovevo anche fare le pulizie, lavare il pavimento e tutti i mobili.
«Se hai bisogno chiama. Ragazzi, andiamo» borbottò Ryan, incamminandosi verso la porta di casa senza chiedere se in quel momento mi servisse qualcosa. Lo ringraziai mentalmente per quel gesto, andando poi in bagno e riempendo la lavatrice con tutti i vestiti che ci potevano stare. Non mi ero accorta però, che qualcuno mi aveva seguita.
«Doc, posso chiederti una cosa? So che non è il momento, ma sono davvero preoccupato». Dollar, davanti a me, continuava a dondolarsi sui piedi, in evidente disagio. Annuii, senza interromperlo. «Ehm, il problema è che... insomma, Dio che vergogna, ma sei un dottore, no? Ok, andiamo dritti al dunque. Sono stato con Butterfly e... adesso il mio... coso è... così». Non mi lasciò nemmeno il tempo di capire di che cosa stesse parlando, perché si abbassò i pantaloni e i boxer, rimanendo nudo dalla vita in giù. Non aveva nemmeno chiesto il permesso, semplicemente si era spogliato, come se fosse normale per lui mostrarsi nudo a chiunque.
«Dollar!» strillai, cercando di non far vedere quanto mi imbarazzasse vederlo in quello stato. Dovevo essere professionale, giusto? Abbassai lo sguardo lentamente, arrivando alla fonte del suo problema, e schiarendomi la voce. Non ero sicura di quello che stavo vedendo, ma mi sembrava brutto abbassarmi per controllare meglio.
«Ti prego, dimmi che non morirò e che non è una malattia che si prende quando si... insomma...» bofonchiò, gesticolando imbarazzato. Quella situazione era davvero assurda, chiunque, se fosse entrato dalla porta in quel momento, si sarebbe fatto un’idea sbagliata. Ma Dollar mi aveva chiesto di essere professionale. Mi chinai leggermente in avanti, senza toccare nulla, e non riuscii a trattenere una risata, quando capii cosa lo preoccupasse così tanto.
«Dollar, è rossetto» spiegai, tornando a guardarlo in viso cercando di non ridere: tentai di soffocare la ridarella, ma fu impossibile. Quando poi cercò di dire qualcosa, la mia bocca si contorse in una smorfia divertita, così rinunciò.

Riaprì di nuovo la bocca, cercando di non arrossire, con scarsi risultati: «Ho appena fatto una gran figura di merda, vero?» domandò, piegando le gambe per indossare di nuovo i calzoni. Si portò una mano davanti agli occhi, evitando di guardarmi, probabilmente perché non riuscivo a nascondere quanto quella situazione fosse comica. La verità era che con quell’incomprensione, Dollar era riuscito a farmi dimenticare per qualche minuto quello che era successo in casa mia. «Bene, credo di poter tornare a casa. Grazie per il consulto medico e spero che questa cosa possa rimanere tra di noi, senza che altri vengano a sapere del mio… problema all’aquilotto» concluse, avvicinandosi alla porta prima che potessi replicare qualsiasi cosa. Quando sentii il rumore della serratura che si chiudeva, mi appoggiai alla lavatrice davanti a me, tenendomi una mano sullo stomaco per il troppo ridere.
Dollar, il piccolo Dollar – che tanto piccolo non era – si era denudato davanti a me perché credeva di avere qualche malattia strana, quando in verità era solo un po’ di rossetto. Non mi era mai capitata una cosa del genere, durante i miei turni al pronto soccorso di Los Angeles.
Quando, dopo qualche minuto, riuscii a riprendermi, il silenzio che c’era attorno a me, cominciò a ricordarmi cosa era successo, e, schiacciata dal peso di tutto, mi accasciai a terra, scivolando con la schiena contro la lavatrice. Chi poteva essere entrato in casa mia? Perché mi avevano rubato i soldi, lasciando tutto in disordine? Sapevano che gli Eagles abitavano nell’appartamento di fronte, chi era così stupido da tentare un furto proprio nel loro palazzo? Forse qualcuno che non lo sapeva, o qualcuno che ce l’aveva con me.
Ma soprattutto, chi sapeva dove abitavo? Avevo dato il mio indirizzo solo a John, ma mi rifiutavo di credere che fosse stato lui, visto che era rimasto sempre dentro al locale. Allora chi mi odiava così tanto da entrare in casa mia e rubare?
Frustrata e arrabbiata con me stessa per essere capitata in quel posto disperso e pieno di gente pazza, cominciai a pulire la casa, senza nemmeno guardare l’orologio; per questo, quando, dopo aver steso l’ultima lavatrice e aver finito di lavare il pavimento della mia camera per la seconda volta, guarda l’ora, mi stupii di vedere che erano le sette di mattina.
Per quante ore avevo risistemato e pulito casa? Con un rapido calcolo mi resi conto che avevo fatto tutto in meno di dodici ore, senza mai fermarmi e senza dormire.
«Cavolo» sbuffai, ricordando che John mi aspettava al Phoenix alle nove. Non potevo tardare il primo vero giorno di lavoro, non con John come capo, che avrebbe preso l’occasione al volo per licenziarmi. Non volevo dargli quella soddisfazione, piuttosto mi sarei licenziata io, nel momento in cui non mi fossero più serviti soldi. «Sei uno splendore» farfugliai ironica, davanti alla mia immagine riflessa sullo specchio del bagno: i capelli arruffati e tutti in disordine, le guance rosse per lo sforzo di pulire tutto e la fronte sudata. Mi serviva una doccia, subito.
Camminai in punta di piedi fino alla cucina, prendendo un paio di slip e un reggiseno un po’ più asciutti degli altri e, dopo essere ritornata in bagno, mi spogliai, lanciando i vestiti sporchi dentro al cesto.
Fantastico! Non avevo nemmeno una tenda per non bagnare tutto il bagno, visto che il ladro si era impegnato per rompere anche quella. Girai il rubinetto, lasciando che la stanza si scaldasse un po’ e, quando l’acqua diventò sufficientemente calda, feci un passo in avanti, permettendo al getto di massaggiarmi le spalle tese e la schiena. Inclinai anche il capo all’indietro, lasciando che l’acqua bagnasse i miei capelli e sbattesse contro al mio viso, come se potesse levare i segni di stanchezza.
Sorrisi, rimanendo sotto al getto d’acqua e soffiando fuori le gocce che mi entravano in bocca. Da piccola mi divertivo canticchiando, perché la voce che sentivo sotto al getto d’acqua era sempre distorta e assomigliava a quella di un alieno; in più mi sentivo isolata da tutto e tutti, in un mondo tutto mio.
«Perché cazzo non hai risposto?» strillò qualcuno, facendo esplodere la mia bolla privata e riportandomi nel mio piccolo bagno, a Whittier Street. Spalancai gli occhi confusa, togliendomi le gocce d’acqua dagli occhi che non mi permettevano di vedere chi avesse parlato. Quando ci riuscii, inorridii: Ryan, Dollar e Brandon erano davanti a me, con tre espressioni completamente diverse.
Improvvisamente, seguendo lo sguardo di Dollar, ricordai che ero nuda. «Uscite dal mio bagno» ordinai, portando un braccio a coprirmi il seno e accavallando le gambe perché non mi vedessero. Come se non l’avessi nemmeno detto, Ryan e Dollar rimasero a guardarmi; a differenza di Brandon che si girò, guardando dalla parte opposta. «Uscite» urlai di nuovo, indicando con una mano la porta, senza però perdere la mia scomoda posizione. Perché quei due idioti continuavano a guardarmi, senza scomporsi? Mi guardai attorno, cercando qualcosa con cui coprirmi: a pochi passi da me c’era l’asciugamano che avevo appoggiato sopra al lavello, ma se mi fossi mossa, mi avrebbero vista di nuovo nuda, e non mi sembrava una buona idea.
«Sto aspettando una risposta» ribatté Ryan, incrociando addirittura le braccia al petto. Ma era serio? Io ero nuda, davanti a lui, e voleva sapere perché non gli avevo risposto?
«Mi sto facendo la doccia, potreste uscire dal mio bagno, o almeno girarvi dall’altra parte che mi copro con l’asciugamano?» domandai esasperata. Con uno sbuffo infastidito Ryan girò il volto, guardando lo stipite della porta. Quando si accorse che Dollar, di fianco a lui, continuava a guardarmi divertito, gli lasciò una pacca sullo stomaco che lo fece gemere e subito dopo voltare dall’altra parte. Presi velocemente l’asciugamano, arrotolandomelo attorno al corpo come se fosse un vestito e tenendolo fermo con la mano. «Siete davvero gentili» sbottai, prendendo l’intimo in mano e nascondendolo dietro di me perché non potessero vederlo.
«Perché cazzo non hai risposto quando ti abbiamo chiamata? È da venti minuti che bussiamo alla porta, credevamo ti avessero rapita». Ryan tornò a guardare verso di me, seguito da Dollar e Brandon subito dopo, come se gli avessi dato il permesso.
«Perché mi stavo facendo la doccia. Scusa se non sento chi bussa, da qui» risposi sarcastica, spostandomi un ciuffo di capelli dal viso che mi solleticava una guancia.
«Non è una scusa, abbiamo scassinato la serratura» esplose poi, appoggiandosi con la spalla contro allo stipite della porta. Voleva che gli offrissi anche una tazza di tè per metterlo più a suo agio, forse? Brandon cercava di scusarsi con lo sguardo, senza però farsi vedere da Ryan; almeno lui non mi aveva guardata, dimostrando un po’ più di buon senso rispetto agli altri due.
«Sai Doc, non credevo fossi un tipo da tatuaggi. Un po’ esagerato, forse, ma carino» ammiccò Dollar, indicando con il mento il mio fianco coperto dalla spugna bianca. Si era accorto addirittura del piccolo disegno nero con un surfista che stava cavalcando un’onda buona? «Se potessi rivederlo di nuovo…» tentò, mentre prendevo il sapone e  cercavo di scagliarglielo contro per ferirlo; Dollar però riuscì a prenderlo al volo, ridendo ancora più forte del mio mancato tentativo di ferirlo.
«Puoi anche scoprirti, tanto sarebbe come vedere una bambina per quel poco che hai» ironizzò Ryan, facendomi ribollire il sangue nelle vene. Quel poco che avevo? Be’, almeno io non mi ero rifatta e non rischiavo che mi esplodesse il seno ogni volta che salivo su un aereo. Io rispettavo il mio corpo e se Madre Natura non mi aveva donato due grandi tette, era stata generosa con il mio cervello.
«Vaffanculo. E adesso uscite da casa mia, tutti e tre». Ero arrabbiata, di più, infuriata, perché si stavano prendendo gioco di me, perché offendevano il mio corpo.
Non ero insicura, non mi era mai interessato non avere molto seno o l’essere alta come un puffo: sapevo che in alcuni campi bastava essere intelligenti, non di certo con delle misure da modella.
«Che sboccata e scortese! E noi che volevamo solo invitarla domani. Potremmo anche ritirare l’invito, eh, Brandon?» ghignò Ryan, dando dei leggeri colpetti con il gomito allo stomaco di Brandon. Invitare me? Per andare dove?
«Dove?» domandai, sinceramente stupita. Perché volevano invitarmi? Ero quasi sicura di dover lavorare anche il giorno dopo, e non potevo chiedere un permesso a John il terzo giorno di lavoro.

«Domani è il quattro luglio. Di solito andiamo giù alla spiaggia, se ti va di fare un salto, mi piacerebbe rivedere bene quel tatuaggio» scherzò Dollar, sghignazzando. Il quattro luglio. La Festa dell’Indipendenza. Come avevo potuto dimenticare che il giorno dopo sarebbe stato il quattro luglio?
«Io… be’, grazie… è un pensiero davvero gentile da parte vostra» mormorai, imbarazzata. Mi sarebbe piaciuto passare la giornata in compagnia, piuttosto che rimanere chiusa in quella casa che cominciava a farmi paura. Non sapevo nemmeno se i negozi fossero aperti, a New York. Mi sembrava una buona alternativa passare una giornata al mare, sotto al sole di luglio di New York, perché sarebbero andati a Coney Island, no? «Andate a Coney Island, giusto?» mi informai, sperando di non fare figuracce con le mie scarse conoscenze di geografia del posto.
«Sì, lentiggini. Ma non si può fare surf, calma la tua adrenalina» mi derise Ryan, facendomi arrabbiare. Ogni volta che parlava era capace di risvegliare la parte più volgare e manesca che avevo, come se, per forza, dovessi tirargli un pugno per farlo tacere. Se, prima della sua battuta, ero felice di passare una giornata con loro, dopo aver sentito la sua ironia contro di me, avrei volentieri declinato l’invito.
«Grazie, accetto volentieri». Sorrisi, fingendomi molto più felice di quanto non fossi in realtà. Una giornata intera passata in compagnia di Ryan mi avrebbe sicuramente distrutta: non era così facile rispondere a tono alle sue continue frecciatine insulse. «Ora, se volete scusarmi, dovrei andare a lavorare» conclusi, sperando che potessero finalmente uscire da casa mia, lasciandomi il tempo di preparami prima di partire.
Ryan non rispose, mi girò le spalle, incamminandosi verso l’uscita, seguito subito dopo da Brandon che mi salutò con un cenno del capo. Dollar rimase per qualche istante sull’uscio, indeciso se dire o meno qualcosa. Poi, dopo aver sorriso, disse: «Adesso siamo pari, più o meno». Ammiccò e sparì dalla mia vista prima che potessi anche solo cercare qualcosa da scagliargli contro. «Ah» mormorò, ricomparendo sulla soglia, «questo è tuo». Lanciò qualcosa verso di me e istintivamente allungai le braccia per prenderlo tra le mani, dimenticandomi di tenere l’asciugamano che scivolò a terra, lasciandomi di nuovo nuda. «Sì, ora siamo pari» ghignò, sparendo ed evitando il sapone che avevo lanciato di nuovo verso di lui ma che andò a sbattere contro la porta.
«Idiota» urlai, causando una sua risata prima di sentire il rumore della porta di casa che si chiudeva.

 
 
 
 
 
 
Buongiorno ragazze!
prima di tutto mi scuso per l’imprecisione nel capitolo scorso, dove chiamavo ‘costole’ quelle che in verità, nell’uomo, sono ‘coste’. Scusate ancora, ma come ho già detto non studio medicina e affini e quindi non so sempre la terminologia esatta. Posso assicurare che negli animali si chiamano costole :P

Comunque ho corretto tutto nel capitolo precedente e qui devo aver parlato solo di coste.
Poi poi poi… diciamo che è un capitolo di passaggio e leggero, perché il prossimo sarà un po’ più descrittivo e soprattutto storico. Ci sarà la storia delle gang americane, per farvi capire come sono nati gli Eagles, ci sarà la storia di Ryan e Brandon e forse anche di Sick.
Insomma, vorrei però dire che non mi sono dimenticata di chi è entrato in casa di Lexi, non preoccupatevi! :)
Come sempre mi scuso per il linguaggio di Sick, se ha irritato/infastidito qualcuno non l’ho fatto volontariamente, ma vi ricordo che la storia ha rating arancione e l’avvertenza non per stomaci delicati. Siccome il rosso è per le scene di sesso descrittivo, e qui non ci sono, non credo che per un paio di parolacce e battute idiote ci sia bisogno di alzare il rating.
Le pistole… non so molto, la mia conoscenza si basa su ricordi di quando ero piccola e ho usato Wikipedia per rinfrescarmi la memoria. La pistola di Lexi esiste, è una pistola piccola e maneggevole, scomoda se si deve combattere negli scontri a fuoco perché ha solo 5 colpi, a differenza delle semiautomatiche di Ryan, che sono come quelle dei poliziotti di CSI, per capirci, con il caricatore da sotto.
Per la scena della strana malattia di Dollar, mi sono ispirata alla scena di un film che amo, dove però l’esperto era proprio Dollar! :P
La reazione di Lexi a quello che le è successo… mmm, non so spiegare il perché abbia reagito in modo così… strano, sinceramente. Ma sono convinta che non si è totalmente resa conto di aver subito una rapina, ma ripeto: questo aspetto sarà ripreso più avanti.
Coney Island è una spiaggia famosa che si trova a Manhattan, famosissima soprattutto per il suo luna park.
Infine, la doccia… devo davvero dire qualcosa per questa scena così scema? Chi è nel gruppo sa che ce l’avevo in mente da mesi e… niente! :P
Siete pronte per il prossimo capitolo, per chiarire una volta per tutte cosa è Ryan, perché tutti hanno paura di lui, la storia degli Eagles, di Ryan e Brandon? Spero di sì, ma vi avverto: armatevi di caffè e Poket Coffee per rimanere sveglie! :)
Grazie ancora a chi inserisce la storia tra i preferiti, seguiti e da ricordare, a chi legge e a chi recensisce!
Vi ricordo il gruppo spoiler: Nerds’ corner.
A presto!

 


   
 
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