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Autore: Sonnyx94    31/03/2012    2 recensioni
Demi Lovato è appena tornata a New York. E' stata lontana per un anno, ricoverata in ospedale per una malattia che l'aveva colpita. Qui tornerà a riprendere la sua vecchia vita al liceo e tra amici ritrovati, nuove conoscenze e il calore di essere tornata a casa, scoprirà che qualcosa nella sua vita cambierà. Quel cambiamento lo provocherà Joe Jonas, trasferitosi nella Grande Mela poco dopo la partenza della ragazza. Demi imparerà che la vita può essere malvagia ma che se si è in due le cose possono risultare più facili e mai avrebbe potuto immaginare di venire salvata dal Paese delle Meraviglie, come New York, da un Pirata, come Joe.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Demi Lovato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 15: "Sono felice che tu esista"



POV DEMI

Ho sempre saputo di essere forte.
Non fisicamente, certo. Non sono una lottatrice e nemmeno una persona violenta, ma so benissimo di avere un carattere forte.
Altrimenti come avrei potuto sopportare una vita di minacce, abusi e accuse di essere la colpevole della morte di mia madre?
Già, perché se nessuno lo aveva ancora capito la mia vita era sempre stata un ripetersi di queste tre cose, tre cose che mio padre non perdeva mai occasione di ricordarmi, tutte le volte che ci trovavamo da soli.
Ad un certo punto ero anche arrivata a credere di essere davvero la causa della morte di mia madre e del mostro che era diventato mio padre.
Sì, non c’era altra spiegazione. Le cose fino alla mia nascita erano andate lisce come l’olio, mio padre era una persona normalissima, a sentire mio fratello, un padre amorevole con il figlio e che amava alla follia la moglie. La mia nascita aveva cambiato tutto, mia madre era morta e mio padre, a sentire l’agente che mi stava davanti, era affetto da una “crisi depressiva”.
Seduta in una stanza con le pareti grigie, osservavo il poliziotto che parlava, parlava e parlava. Non lo stavo ascoltavo. Mi strinsi nella sedia su cui ero seduta,  faceva davvero freddo in quella stanza. Dorota era seduta al mio fianco e mi teneva la mano come per tranquillizzarmi, ma io ero tranquilla, anzi diciamo la verità, Dorota mi stringeva la mano perché quella terrorizzata era lei.
Il poliziotto, nella sua divisa blu notte, passeggiava su e giù per la stanza. Stava parlando di mio padre, i medici lo avevano visitato la sera prima ed era venuto fuori che la morte della moglie lo aveva profondamente traumatizzato, provocandogli una “crisi depressiva aggressiva”.
Provai a ripetere quelle tre parole velocemente nella mente, creando un nuovo scioglilingua.
L’agente continuò dicendo che l’assunzione di alcool e di droghe non avevano fatto altro che peggiorare la situazione.
Ma perché mi diceva quelle cose? Le sapevo già, avevo vissuto diciassette anni con quell’uomo.
< Signorina Lovato, sapeva che suo padre era un alcolizzato e un drogato? > mi chiese il poliziotto, appoggiando le mani sul tavolo davanti a me e sporgendosi per guardarmi dritto negli occhi.
< Sapevo che beveva > dissi calma.
< E della droga? > continuò l’agente.
< No, ieri sera è stata la prima volta che è tornato a casa così >
< Però sapeva che si drogasse > concluse.
< Lo sospettavo > risposi < Ma visto che in casa mia non c’è mai stato nulla che lo potesse provare non ho detto niente >
L’agente annuì soddisfatto.
Dorota mi strinse ancora di più la mano.
< Suo padre è accusato di spaccio di droga e tentato omicidio. Ma le sue condizioni mentali devono essere prese in considerazione... >
Fece una faccia schifata quando menzionò le condizioni mentali di mio padre, come se lui volesse semplicemente sbatterlo dentro per quello che aveva fatto.
< Quindi domani mattina lei sarà chiamata in tribunale  e il giudice deciderà il destino di suo padre >
Io annuì semplicemente.
< Visto che suo padre non potrà, c’è un tutore che può accompagnarla? >
< Sì, mio fratello arriverà questo pomeriggio dalla California > risposi pronta.
< Bene > disse il poliziotto < Ma l’avverto, per quanto suo padre sia una persona in stato di infermità mentale... >
Infermità mentale, l’argomento lo stavamo trattando in diritto, una persona che non può prendere decisioni che valgano giuridicamente.
< Non tornerà a casa molto presto > concluse l’agente.
Ci ero arrivata molto tempo prima di lui.
< E con questo abbiamo finito > disse il poliziotto porgendomi la mano.
La strinsi e Dorota fece altrettanto.
< Un mio collega vi fermerà e vi dirà l’ora in cui dovrete recarvi in tribunale. Buona giornata >
E così ci aprì la porta di quel buco di uno stanzino per gli interrogatori per farci uscire.
La sentenza era prevista per le 7 del mattino successivo, decisi che sarei andata comunque a scuola il giorno dopo.
Zac arrivò alle 6 del pomeriggio di quel giorno.
Appena mi vide mi strinse a sé ed io per la prima volta da quando mio padre mi aveva picchiato, scoppiai a piangere.
 
 
Salii velocemente sulla limousine e dissi ad Edward di raggiungere la scuola il prima possibile.
Sfrecciavo a tutta velocità per i quartieri di Manhattan, su quell’automobile di lusso color nero notte.
I finestrini scuri impedivano ai passanti di vedermi.
Bene, pensai, almeno non avrebbero visto lo stato pietoso in cui ero. Quella mattina mi ero svegliata male, io e Zac ci eravamo addormentati sul divano della nostra enorme sala.
Era la prima volta da giorni che tornavo a casa e non me la sentivo di stare da sola, nonostante la presenza di mio fratello non avevo preso sonno fino all’alba e mi ero addormentata un ora prima che la sveglia suonasse.
Dovevo andare in tribunale.
Non avevo avuto nemmeno il tempo per pettinarmi i capelli, mi ero infilata la gonna della divisa scolastica, una felpa e le mie Convers nere, dalle quali spuntavano le mie immancabili calze lunghe fin sotto il ginocchio a righe viola e nere, in perfetta sintonia con la gonna.
Il giudice era una donna sulla cinquantina, aveva guardato il fascicolo che l’avvocato di mio fratello gli aveva posto, aveva lanciato un’occhiata di disprezzo in direzione di mio padre e una dolce verso di me.
L’inchiesta era durata meno di un’ora e mezza, il mio avvocato aveva parlato in modo molto professionale, camminando per la stanza con le mani nelle tasche dei pantaloni grigio sbiadito. Aveva l’aria di chi sa cosa stava facendo, mentre rivolgeva domande a trabocchetto all’uomo che avrei dovuto considerare mio padre.
Ma non lo avevo mai fatto dopotutto.
Alla fine del processo si decise che mio padre sarebbe stato mandato in una struttura specializzata, dove sarebbe stato disintossicato, la sua forma di depressione curata e alla fine della permanenza nella struttura sanitaria avrebbe dovuto scontare la sua pena in prigione per tentato omicidio.
La durata della permanenza in  prigione sarebbe stata ritrattata in un altro momento, alla sua guarigione.
In ogni caso, non avrebbe mai più avuto contatti con me e Zac e tutti i suoi beni sarebbero passati a mio fratello perché maggiorenne e poi anche a me al compimento dei diciotto anni. Alcuni soldi sarebbero stati prelevati dalla banca di mio padre per il pagamento delle cure.
Era finita. Ero libera.
Ma allora perché sentivo un vuoto dentro di me?
< Signorina siamo arrivati > la voce di Edward mi fece sobbalzare sul sedile bianco di pelle.
Stordita risposi < Oh, grazie > aprii la portiera e scesi.
Presentai la giustificazione alla segreteria e mi diressi verso il mio armadietto. Le lezioni erano già cominciate, doveva essere appena iniziata la seconda ora.
Mi avvicinai all’armadietto, ma notai un’altra persona nel corridoio. Era una ragazzina, doveva essere del primo o del secondo anno. Aveva dei grossi occhiali neri e spessi, l’apparecchio e dei capelli vaporosi che doveva avere cercato di domare legandoli con un frema capelli.
< Ciao, hai bisogno di aiuto? > chiesi cercando di fare un sorriso, nonostante il mio pessimo umore.
Lei mi guardò sgranando gli occhi e stringendosi la cartina della scuola al petto.
< Guarda che non ti mangio mica > le dissi avvicinandomi e sorridendole, stavolta con convinzione. < In che aula devi andare? >
< Qua-quarantasei > mi rispose balbettando.
< Sono così orribile stamattina? > le chiesi ridendo, mentre mi guardavo da capo a piedi.
< No è che... > azzardò lei < Tu sei Demi Lovato, non dovresti parlare con me >
< E perché non dovrei? > chiesi.
< Perché io non sono una “ popolare” >
Scoppiai in una risata amara < Bè non lo sono nemmeno io se è per questo. Mi hai mai visto mangiare al tavolo degli snob? > sorrisi all’idea che se Joe fosse stato lì in quel momento mi avrebbe preso a parole.
La ragazzina trattenne una risata.
< Come ti chiami? > chiesi.
< Cleo >
< Bè Cleo la tua aula è dopo il secondo corridoio a sinistra, la prima porta. È stato un  piacere conoscerti > dissi porgendole una mano, lei la strinse, mi ringraziò e se ne andò a passo svelto.
Tornai al mio armadietto e lo aprii, ma non feci nemmeno in tempo a prendere il libro di biologia che mi ritrovai con la schiena contro l’armadietto del mio vicino, mentre il mio “aggressore” mi teneva ferma per le braccia.
< E così sarei uno snob, eh? > chiese Joe a mezzo millimetro dal mio viso.
Come avevo previsto.
< Non penso tu voglia saperlo davvero > risposi.
< Brutta antipatica! > esclamò Joe e mi fece il solletico alle braccia.
Quando riuscii a farlo smettere, ci ritrovammo ancora più vicino di prima.
Chiusi gli occhi e mi lasciai baciare dolcemente, il respiro di Joe che mi sfiorava le labbra, sentii per un momento che il vuoto di prima iniziava a colmarsi.
Ma non del tutto, mancava ancora qualcosa anche se di preciso non sapevo cosa.
Joe interruppe il bacio staccandosi leggermente da me, mi teneva il viso tra le mani e con il pollice scostò un ciuffo ribelle dalla guancia per guardarmi meglio.
< Come stai? Non ti sei più fatta sentire, mi hai fatto preoccupare > disse in un sussurro.
< Scusa è che sono ancora frastornata, con tutto quello che è successo penso che le cose mi siano scivolate di mano >
< Com’è andata con tuo padre? > chiese non riuscendo a nascondere un filo di odio nel nominarlo.
< Verrà trasferito in una clinica e quando sarà guarito sconterà la sua pena in prigione, non gli permetteranno più di avvicinarsi a me e a Zac. Il suo patrimonio ora è passato a noi > dissi e quando smisi di parlare feci un gran respiro, ero distrutta.
Joe fece una smorfia e facendomi appoggiare la testa sulla sua spalla, mi avvolse in un abbraccio caldo.
Gli strinsi con le mani il colletto della camicia, lasciandomi cullare.
< Hai un aspetto orribile, dovresti andare a casa a riposare > mi disse all’orecchio, affondando il viso tra i miei capelli.
< No > risposi < Casa mia è l’ultimo posto in cui voglio andare, ho bisogno di non pensare e tutto quello che sta accadendo e questo è l’unico posto che me lo permetta >
Lui non ribatté, rimanemmo in silenzio per un po’.
Chiusi gli occhi respirando il suo profumo, cullata dalle sue braccia. Non mi importava di essere in mezzo al corridoio, che i bidelli avrebbero potuto beccarci e spedirci dal preside o del fatto che avrei dovuto essere in classe da ormai un quarto d’ora. Sarei potuta rimanere così per sempre.
Poi la parte razionale di me prese il sopravvento.
< Dovremmo tornare in classe > dissi.
< Si, probabilmente il mio prof di letteratura inglese penserà che sono caduto nella tazza del bagno! >
Alzai gli occhi al cielo.
Ma come accidenti faceva un ragazzo ad essere tanto dolce e cinque secondi dopo tanto deficiente?
Non trovai mai risposta a quella domanda.
< Senti, che ne dici se dopo scuola ti porto fuori? Andiamo in un posto dove ti potrai rilassare e non pensare a niente > mi propose.
< E dove? > chiesi.
< Sorpresa! > rispose Joe, mi diede un velocissimo bacio a stampo e scappò via.
Lo guardai sparire con un sorriso, ripensando alla frase che una volta mi aveva detto Miley:
Devi sapere che il principe azzurro non arriva su un cavallo bianco, sguainando la spada. Ma arriva a piedi, è pieno di polvere, puzza di sudore e si è anche perso un paio di volte prima di arrivare. Ma prima o poi arriva.
Anche se Joe lo vedevo meglio nei panni di Jack Sparrow.
 

POV JOE

Il vento gelido di fine ottobre alzava le foglie multicolore nel cielo, per poi farle ricadere sulle strade di Manhattan.
Una visione alquanto deprimente e allo stesso tempo fantasiosa, ma ormai i newyorkesi non ci facevano più caso, probabilmente si lasciavano impressionare dall’altezza dei grattacieli e a quanto questi ti facessero sentire piccolo.
Alla fine delle lezioni mi precipitai in macchina ed uscii dal parcheggio, posteggiai davanti all’entrata della scuola nell’esatto istante in cui Demi usciva insieme a Selena, Miley, i miei fratelli e David.
David e Selena parlavano assorti come se non ci fosse nessuno intorno a loro, da quando il mio migliore amico se ne era andato (il giorno prima) dalla compagnia di ragazzi snob che avevamo frequentato fino all’anno prima, sentivo che le cose erano cambiate, quella mattina a pranzo me ne ero andato con una scusa, non riuscendo a sopportare l’assurdità dei discorsi dei miei così detti amici.
Senza di lui, i “popolari” non erano poi così divertenti, anzi a dire la verità erano alquanto noiosi, parlavano di cose banali, dicevano cose banali, pensavano cose banali.
Insomma una compagnia di una banalità assurda!
Nick parlava timidamente insieme a Miley, le guancie di mio fratello erano sfumate leggermente di rosso e aveva il suo solito sorriso da ebete stampato sulla faccia.
Tipico di quando parlava con una ragazza che gli piace, ridacchiai.
Anche se lo invidiavo come non mai.
Demi stava parlando con Kevin, poi distolse lo sguardo ed incrociò il mio, aprendosi in un sorriso.
Un sorriso stanco, distrutto, ma pur sempre illuminante e bellissimo.
Ricambiai e le feci segno di salire in macchina, lei mi lanciò un occhiata sbigottita come se volesse dire: sei sicuro di volerlo fare davanti a tutti?
Era una cosa a cui non avevo pensato, probabilmente qualcuno sarebbe morto di infarto quel giorno.
Speriamo che sia Chelsea, pensai, almeno non dovrò trovare il modo di rompere con lei.
Codardo! Mi ripetei.
Ma dopotutto se volevo levarmi quella “compagnia banale” dalle scatole questo poteva essere un inizio, no?
Così mi sporsi per aprire la portiera del passeggero.
Demi salutò gli altri, raggiunse la mia macchina e salì.
< Ciao! > mi salutò con un sorriso ancora più smagliante di prima, mentre si allacciava la cintura.
< Ciao > risposi, lanciando un’occhiata ai suoi amici.
Miley e Selena avevano la mascella che sfiorava la scalinata d’uscita della scuola ed erano diventate pallide in volto, i miei fratelli avevano gli occhi sgranati, David si limitò a farmi l’occhiolino e ad alzare un pollice di nascosto.
Partii a tutto gas, lasciando il parcheggio con soltanto il rombo del motore della mia macchina che riecheggiava nell’aria, mentre l’intero corpo studentesco aveva già cominciato a mettere in giro i soliti pettegolezzi.
< Vai di fretta? > chiese Demi, tenendosi con forza al sedile.
Feci una risata, lanciano un’occhiata alla mia Mercedes Biturbo, nera come la notte senza luna, i sedili in pelle e i vetri oscurati.
< Mi piace andare veloce > le risposi alzando le spalle.
Demi sorrise < Allora, signor autista, dove si va? >
< Oh lo vedrai >
A tutto gas raggiunsi l’Uptown dove, al centro dei due quartieri, l'Upper West Side e l'Upper East Side, sorgeva il più grande parco di Manhattan. Central Park.
Entrammo nel parco, mentre guidavo Demi per le vie ormai mezze sommerse dalle foglie cadute. I colori rosso e giallo predominavano, quasi il cielo non si vedeva e il tutto dava un’atmosfera quasi fiabesca. Come se all’improvviso potesse saltare fuori uno gnomo vestito di verde da dietro un albero e salutarci con la mano.
< Come mai mi hai portato qui? > mi chiese Demi, mentre passavamo davanti al Carosello sommerso dai bambini, che facevano la fila impazienti con i loro genitori per salire.
< Mi piace venire qui, è tutto così tranquillo. Un posto dove stare solo > risposi < A volte ne ho bisogno >
< Si, capisco >
Proseguimmo fino al giardino di Shakespeare, dove ci sedemmo su una panchina.
Stranamente non c’era nessuno.
< Cosa farete ora, tu e tuo fratello? > chiesi, non potendone fare a meno, la domanda mi frullava in testa dalla mattina.
Demi si appoggiò allo schienale, mise i piedi sulla panchina, le ginocchia che le arrivavano quasi al mento e buttò la testa all’indietro mettendosi a fissare la cima degli alberi e le mille varietà di fiori che popolavano il giardino.
< Non lo so, sinceramente > mi rispose.
< Hai ereditato anche l’orfanotrofio di tua zia? >
Sta zitto deficiente! Mi insultai da solo.
< Sì, perché? >
< Niente, solo che l’altra sera mi hai detto che era il tuo sogno riaprirlo e così... > la frase mi morì in gola, il solo pensiero che lei potesse andarsene mi distruggeva.
E ancora una volta mi maledissi per non essermi morso la lingua.
Demi spostò lo sguardo su di me, con un sorriso accusatorio < Joe Jonas hai per caso paura che me ne vada? >
< Cosa? Chi? Io? Nooo > colto in pieno!
< Oh siii > disse lei scoppiando a ridere e puntandomi un dito contro < Ammettilo! >
< Ammettere cosa? >
< Che hai paura che io me ne vada! >
< Ma neanche morto! >
Lei si tirò su a sedere e mi guardò torva.
< Ok, potrebbe darsi che nel caso te ne andassi, mi mancheresti > e dopo un secondo aggiunsi < Un pochino >
< Un pochino? > chiese scettica e alzando un sopracciglio.
< Un po’ >
< Un po’? >
< Oh dio! Demi sei esasperante! > esclamai.
< Non lo sarei se tu non mentissi a te stesso e a me > ed iniziò a farmi il solletico.
Da lì fu una lotta all’ultimo sangue, finché non mi ritrovai letteralmente sdraiato su di lei sulla panchina.
< Mi sembra di averla già vista questa scena > commentò Demi, probabilmente riferendosi alla sera passata a casa mia.
Feci un sorriso ammaliante, uno dei miei migliori < Si, anche a me >
E la baciai.
Rimanemmo così finché non ci dovemmo staccare, con riluttanza, per potere respirare.
< Hai parlato con Chelsea? > mi chiese Demi.
Le spostai una ciocca di capelli dal viso, mettendogliela dietro l’orecchio. < Te l’ho già detto, la nostra storia in realtà è finita da un pezzo. Devo solo trovare il modo di farla finita senza che ci siano conseguenze >
< Conseguenze? >  
< La conosci Chelsea, se commetto un passo falso me la farà pagare cara, ma non è questo che temo >
< E allora cosa temi? >
< Temo che ci potrebbero essere conseguenze anche per te, dopo che tutti ci hanno visti oggi >
Demi mi fece capire di tornare a sedere, così mi staccai e feci come voleva. Lei si sedette prendendosi a massaggiare le tempie e guardando avanti a lei.
< Joe, sono in grado di badare a me stessa >
< Lo so, ma questa è una cosa che riguarda me e non te. Ti voglio fuori da tutto questo >
Demi fece un sospiro, probabilmente per ricacciare dentro una frase per ribattere.
Così mi alzai, le andai davanti e mi chinai in modo da avere il suo viso alla mia altezza e le alzai il volto, in modo da incrociare il suo sguardo.
< Lo so benissimo che ti sapresti difendere e che non ti importerebbe niente di quello che la gente penserebbe, ma è una cosa che devo sbrigare da  solo. Io tempo fa ho deciso di diventare come loro ed ora io mi tirerò fuori da tutti questo >
Demi rimase in silenzio.
< Mi hai fatto aprire gli occhi, mi stai restituendo la mia vita di un tempo e ti ringrazio. Ma questa battaglia la vincerò da solo >
Lei mi guardò per un altro istante, poi annui, mi sorrise e mi baciò.
Senza di lei non ce l’avrei mai fatta, lo sapevo.
Avrei dovuto resistere, affrontando tutto ciò che più mi spaventava, restare fedele alle cose che davvero contavano nella vita e prendere le decisioni con intelligenza.
Ma dovevo anche imparare a fare i conti con i miei errori e alle conseguenze che avrebbero comportato.
Alla fine rimanemmo fermi a guardarci, come se il mondo intorno a noi fosse all’improvviso sparito, come se ci fossimo solo noi.
< Perché mi guardi così? > chiese Demi, divertita dal mio modo di guardarla.
< Niente. E’ solo che...sono felice che tu esista > risposi.
Allora il suo sorriso si fece ancora più luminoso < Bè devo dire che anche tu non sei poi così male >

Angolo Autrice: Ciao a tutte!!! Chiedo umilmente perdono ragazze, potrete mai scusarmi?? Sono stati dei mesi impegnativi, difficili e orribili...e prorprio non avevo più tempo e voglia di riprendere questa storia. Però adesso sono tornata, ho bisogno di evadere dalla mia vita e scrivere di quella di qualcun altro, giusto per non dover pensare a tutti i miei problemi. Comunque vi sto annoiando, così vi chiederò solo di dirmi che ne pensate di questo capitolo pubblicato mesi dopo l'ultimo...Finalmente Demi è libera da suo padre, ma ora ha ereditato tutto e avrà la possibilità di riaprire l'orfanotrofio di sua zia, il suo sogno. Che cosa farà? E Joe? La storia non è finita qui, ci saranno nuovi colpi di scena, nuovi personaggi  e nuove scelte che metteranno a dura prova l'amore dei nostri due protagonisti. Alla fine sarà vero amore o solo una cotta importante tra adolescenti, però destinata a non durare per tutta la vita?...ummm il finale resta ancora aperto perchè non ho ancora preso una decisione.
Commentate numerose!

un bacione, Sonny.

  
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