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Autore: RobTwili    10/04/2012    23 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Spiaggia.
Questo era il mio pensiero costante da quando Ryan mi aveva parlato di Coney Island. Perché il mare era la mia casa: i piedi immersi nella sabbia e il profumo di salsedine. Non avevo mai considerato Los Angeles come la mia vera casa, l’oceano, quello sì. Perché con la sensazione dell’acqua che mi bagnava la pelle e il rumore delle onde che mi trasportava in un altro mondo mi sentivo tranquilla. Non ne avevo mai fatto mistero, mai.
Per questo ero elettrizzata dall’idea di ritornare, in qualche modo, a casa. Non era l’oceano ‎Pacifico, ma mi sarei accontentata.
«Ciao Alexis» salutò Aria, non appena entrai al Phoenix. Cercavo di non dare l’idea di avere la testa tra le nuvole, ma era inutile, visto che continuavo a sorridere come una stupida. Il pensiero di quello che sarebbe successo il giorno dopo bussava alla mia testa ogni tre secondi.
Sorrisi, dimostrandomi gentile ed educata con lei, che sembrava l’unica persona vera, in quel posto di pazzi e squilibrati. Sentivo la mancanza di un’amica, e non mi sarebbe dispiaciuto avere a fianco una persona abituata ai comportamenti degli Eagles, e che sapeva come prenderli. Poteva essere solo una del posto. Qualcuna con cui non avere segreti e poter sparlare; insomma, qualcuna di cui fidarmi. In fondo, ragionai, se Aria stava in quel posto, voleva dire che era in qualche modo legata agli Eagles, e chissà perché poi.
«Era tanto in disordine?» mormorò, riscuotendomi dai miei pensieri e avvicinandosi a me; si guardava  attorno, sembrava aver paura che qualcuno potesse sentirla. Non riuscivo a capire a cosa si stesse riferendo e probabilmente riuscì a comprenderlo dalla mia espressione, perché si fece più vicina, sfiorandomi l’orecchio con le labbra: «Il tuo appartamento, era tanto in disordine? Ti hanno rubato molto?». Come faceva a sapere che dei ladri erano stati in casa mia e che mi avevano rubato i soldi? Chi poteva averle detto quello che era successo? Cercai un modo carino per chiederle come fosse venuta a saperlo, ma mi anticipò, ammiccando verso di me. «Ryan, Brandon e Dollar sono venuti qui un paio d’ore fa. Erano abbastanza arrabbiati e credo che se non ci fosse stato Brand, Ryan non si sarebbe controllato così tanto. Ha urlato contro John dicendogli che ti portata qui non per fare in modo che ti distruggesse la casa. John ha detto che lui non c’entrava nulla, ma nessuno gli ha creduto. Nemmeno io ci credo. Ti ha chiesto l’indirizzo?» continuò, cominciando a lavare qualche boccale di birra sporco, per liberare un po’ il lavandino.
L’indirizzo? Sì, John mi aveva chiesto l’indirizzo ma… no, mi rifiutavo di credere che fosse stato John a conciare casa mia come una discarica e che mi avesse preso i soldi. John era rimasto tutto il giorno al locale  e non si era allontanato. Come poteva essere stato lui? Perché mi odiava così tanto da rubare ed entrare in casa mia?
«Sì, lui… lui mi ha chiesto l’indirizzo, ma…» balbettai, confusa da quello che Aria mi aveva fatto notare. Mi interruppe subito con un gesto della mano: John in arrivo. Il viso tirato, due occhiaie profonde e flaccide; doveva essere stanco e parecchio teso. Nonostante l’aria da viscido, non riuscivo a convincermi che lui fosse collegato alla messa a soqquadro del mio appartamento.
«Mi dispiace per quello che ti è successo, ti hanno rubato tanti soldi?» si informò, cercando di dimostrarsi gentile. Quel comportamento sembrava costargli un grosso sforzo, perché continuava a tamponarsi la fronte sudata, guardandosi attorno in modo nervoso.
E se Aria avesse avuto ragione? Se fosse stato davvero lui a entrare in casa mia?
«Sì, mi hanno rubato tutti i risparmi» mentii, cercando di sembrare molto più arrabbiata e triste di quanto non fossi. Non dovevo ricordare Coney Island, o avrei cominciato a ridere come un’idiota.
«Quanto avevi?» si informò John. Quanta premura da parte sua! Ero stata assunta il giorno prima, ma sembrava che fossi una sua amica di vecchia data. Un comportamento decisamente opposto rispetto a quello del giorno prima. Sembrava quasi dispiaciuto per me, un po’ troppo dispiaciuto.
«Cinquecento dollari che mi servivano per pagare l’affitto il prossimo mese». Che era le verità, o quasi: avevo ancora da parte cinquecento dollari, ma, se John non mi avesse pagato come aveva già annunciato, non sarei riuscita nemmeno a racimolare qualche dollaro per la spesa.
«Speriamo di riuscire a pagare tutti questo mese» tagliò corto lui, allontanandosi subito da me e Aria, senza aggiungere altro. Di sicuro John era un personaggio strano; personaggio che forse avrei imparato a conoscere. Aria mi lanciò un’occhiata ammonitrice intimandomi di non fiatare.
Così, passai le dieci ore successive a spinare birre offrendole ai clienti mezzi ubriachi che ridevano quando non riuscivano a mandare nemmeno una palla in buca, durante una partita a biliardo. Avevo imparato a riconoscere qualche volto e qualche nome, urlato troppo spesso tra un’imprecazione e l’altra: c’era Nick con Bradley, c’era Tony con Steve. Tutti ragazzi che sembravano divertirsi davanti a un biliardo e una birra. Ma c’erano anche i due uomini che avevo visto il giorno prima, quelli che avevano parlato con John e poi se ne erano andati. Loro non sembravano socievoli come gli altri ragazzi, anzi: rimanevano a un tavolo da soli, parlando a bassa voce e interrompendo il discorso ogni volta che qualcuno si avvicinava a loro o passava di fianco.
Aria era stata chiara e e io mi trovavo d’accordo con lei. Al Phoenix c’era una sola regola: non fare domande, sorridi e porgi il boccale di birra. Ed era esattamente quello che avevo fatto: mi ero dimostrata socievole e felice, nonostante tutto quello che mi era successo.
«John, sono le sette, posso tornare a casa?» domandai, avvicinandomi a lui, mentre mi pulivo le mani sul grembiule bianco. John stava pulendo con uno straccio un tavolino sporco di birra e sigarette mezze fumate, tanto che non mi guardò nemmeno.
«Ci vediamo dopodomani. Ciao» sbottò, stupendomi. Dopodomani? Feci qualche calcolo mentale. Quattro luglio. Ma il quattro luglio credevo che il locale rimanesse aperto.  Il giorno dei fuochi d’artificio sarebbe stato deleterio chiudere il locale. Perché quindi non dovevo andare a lavorare?
«Domani il locale rimarrà chiuso?». Ero stupita, e si poteva capire anche dalla mia domanda. John smise di strofinare il panno lurido contro il legno e si rivolse verso di me: finalmente un po’ d’attenzione!
«No, domani hai il giorno libero, per questa settimana». Tornò a fare quello che stava facendo, ignorandomi.  Avevo capito il concetto; il discorso per lui poteva dirsi concluso. Sembrava che, per una volta, gli interessasse davvero la pulizia di quel tavolo. Io però, ero convinta che fosse solo uno stupido pretesto per non parlarmi.
«Oh, be’… grazie. A dopodomani, allora» mormorai felice, allontanandomi da lui per andare a salutare Aria: stava sistemando gli scatoloni vuoti nel retro. Era così concentrata in quello che stava facendo che, quando parlai, gridò spaventata.
«Aria, io domani non ci sono, John ha detto che per questa settimana ho la giornata libera. Non so perché, ma va benissimo» esultai. Felice, la abbracciai di slancio, stupendola non poco. La sentii ridacchiare infatti, un po’ impacciata dal mio gesto forse troppo avventato, ma rispose alla stretta.
«Non è ancora così scemo. Divertiti domani» mormorò, una nota triste nella voce che cercò di mascherare con un sorriso che non riuscì a raggiungere i suoi grandi occhi castani. Sembrava volesse dirmi qualcosa, ma continuò a guardarmi in silenzio, forse aspettando che fossi io a parlare per poi andarmene.
«Buona giornata anche a te, ci vediamo». La abbracciai di nuovo, prima di scappare fuori da quel locale ancora con il grembiule addosso. Quando svoltai l’incrocio e lo notai, dovetti tornare indietro per toglierlo. Rientrai dentro al locale e trovai John a guardarmi confuso e spaventato, come se avesse paura di me; così, per fargli capire perché ero tornata, sventolai il grembiule, sicura che con tutta la confusione che c’era non mi avrebbe sentita parlare, se l’avessi fatto. Capì subito perché fossi ritornata al locale e fece un mezzo sorriso, ritornando poi a parlare con i due ragazzi che rimanevano sempre a quel tavolo all’angolo da soli.
Uscii dal Phoenix con un sorriso e una strana sensazione; come se non avessi dovuto tornare indietro. Una cosa stupida, certo, a cui evitai di prestare attenzione perché sapevo che se ci avessi pensato troppo mi sarei intestardita. Per questo, quando svoltai l’incrocio di Whittier Street e Randall Ave, mi stupii di trovare Ryan e Brandon parlare con qualcuno. Stavo quasi per chiamarli, quando, guardando meglio davanti a me, mi accorsi che Ryan teneva il ragazzo sollevato da terra con una mano, mentre con l’altra puntava qualcosa contro il suo collo. Qualcosa che risplendeva, sotto la luce del lampione.
Rimasi in mezzo al marciapiede immobile, paralizzata dalla paura. Ryan, lo stesso che faceva l’idiota quando mi vedeva, aveva un coltello –o qualcosa di simile –puntato alla gola di un uomo; Brandon invece, che di solito era sempre così calmo e rispettoso, caricò il braccio, dando un pugno sullo stomaco al ragazzo. Perché si stavano comportando così? Che cosa aveva fatto per essere picchiato in quel modo?
Nonostante la scena fosse davvero spaventosa, non riuscivo a muovermi, paralizzata com’ero dalla paura. Continuavano a tenerlo sollevato da terra, tirandogli pugni sullo stomaco, come se fosse stato un sacco da boxe.
Brandon, all’improvviso, guardò verso di me, fermando il braccio una manciata di centimetri prima dello stomaco di quello sconosciuto. Mi sembrò quasi di vederlo dire qualcosa a Ryan, visto che anche lui si girò subito a guardare verso di me, per poi portare velocemente la mano con l’arma in tasca. Si avvicinò al volto del ragazzo, mormorandogli qualcosa prima di spingerlo con forza a terra, tirandogli un calcio subito dopo.
«Ehi, lentiggini» ghignò Ryan, avvicinandosi a me, assieme a Brandon. Non badò al ragazzo che si rialzò e corse via, tenendosi una mano sullo stomaco. Si stavano avvicinando sempre di più, Ryan con il cappuccio della felpa scura calato in testa e una sigaretta accesa tra le labbra.
«Non, non toccarmi» mormorai, indietreggiando di un passo e trovandomi con le spalle al muro. Ero in trappola, senza una via d’uscita. Ryan e Brandon erano davanti a me, con un sorriso stampato sui loro volti. Sembrava che non fosse successo nulla, non si erano accorti che avevo visto quello che avevano fatto a quel povero ragazzo? E se avessero picchiato anche me? Se mi avessero uccisa? Nessuno sapeva che ero lì, sarei semplicemente risultata dispersa, magari si sarebbe sparsa la voce che ero in vacanza e nessuno mi avrebbe cercata.
«Lexi, non è come sembra» cercò di spiegare Brandon, avvicinandosi cautamente a me: probabilmente non voleva spaventarmi, visto che teneva anche le mani alzate, per farmi vedere che non aveva armi con sé. Non ci stava riuscendo, però: ero terrorizzata, li avevo appena visti aggredire un uomo innocente e fingevano che non fosse successo nulla. Sì, Ryan mi aveva detto che aveva ucciso, ma vederlo con i miei occhi, mentre lo faceva, era decisamente spaventoso.
«Avete aggredito un uomo» urlai, sentendo le lacrime pungermi gli occhi per uscire. Perché stavo reagendo in quel modo idiota e stupido? Perché mi sentivo… delusa, come se in qualche modo avessi sempre accantonato l’idea di quanto fosse pericoloso Ryan. Averlo visto con i miei occhi, aver notato quanto Brandon fosse minaccioso, rendeva tutto reale, troppo. Talmente reale che cominciavo a spaventarmi sul serio. Ero da sola, in una strada deserta, con due teppisti.
«Ci ha preso in giro, gli serviva una lezione. Ma l’hai visto anche tu, è vivo, no?». Di nuovo quel ghigno che sembrava renderlo felice. Ryan era la tranquillità fatta a persona mentre si avvicinava a me, spegnendo la sigaretta ormai quasi finita.
Socchiusi gli occhi, cercando di non esplodere lì, davanti a loro. Volevo tornare a casa, rintanarmi in un posto sicuro che non mi ricordasse dov’ero capitata. Volevo staccare la spina dal Bronx e da tutto quello che mi era successo da quando ci avevo messo piede per la prima volta.
«Lexi, va tutto bene, siamo noi». Brandon fece un altro passo in avanti, intrappolandomi ancora di più contro il muro. In trappola, ecco com’ero, e non potevo scappare, non con Brandon davanti a me, che si avvicinava lentamente. Ma soprattutto non ce la potevo fare, con le lacrime che cominciavano a scendere lungo le mie guance.
«Non toccarmi» biascicai, portandomi un braccio davanti al volto, per non doverlo guardare di nuovo. Mi avrebbe ferita, ne ero sicura; per questo mi raggomitolai ancora di più, cercando di farmi più piccola, come se avessi potuto scomparire. All’improvviso, però, qualcosa di grande e caldo mi avvolse, sfiorandomi la schiena in una carezza.
«Va tutto bene Lexi, calmati». La voce di Brandon assieme alle sue forti braccia che mi circondavano la schiena mi fece cedere. Non c’era più nessun muro, non c’era la bugia di essere forte e non c’era nemmeno la voglia di fingere.
Tutto quello che mi era successo nel mese precedente all’improvviso mi si riversò addosso, facendomi piangere: l’aggressione, avere come vicini una gang pericolosa, aver conosciuto due ragazzi e sapere che erano morti, John e il suo trattarmi come se fossi una schiava a lavoro e soprattutto i ladri in casa mia. Mi aggrappai alla sua maglia, stringendo la stoffa tra le dita, incapace di fermarmi: ero scoppiata e non mi interessava quello che potevano pensare di me, se volevano prendermi in giro potevano farlo; non avevo la forza di fermarmi, lasciavo solamente che le lacrime scorressero sulle mie guance, sentendomi un po’ più leggera ogni volta che una goccia salata scivolava lungo il mio zigomo.
Eppure, nonostante Ryan fosse, di sicuro, lì vicino, non sentii nessuna battuta da parte sua; l’unica cosa che riuscivo a udire era la voce di Brandon unita alle sue carezze. Cercava di calmarmi, mi ripeteva che non era successo niente e che tutti stavano bene. Ma non era vero: io non stavo bene, io ero da sola, lì, in un territorio sconosciuto in mezzo a persone pericolose. Non avevo nessuno e forse, anche se odiavo ammetterlo, sentivo davvero la mancanza di casa.
«Non fatemi del male» borbottai, tra un singhiozzo e l’altro, stringendo sempre di più la sua maglia. Era la mia àncora, l’unico appiglio alla verità, al sapere che non mi sarebbe successo nulla, che non gli sarebbe successo nulla. Perché, e forse questo dimostrava quanto io fossi malata, non volevo che i ragazzi si ferissero o, peggio, morissero.
«Stai scherzando, Lexi? Non ti faremo mai del male, e se qualcuno ti sfiorerà anche sono con un dito lo uccidiamo, vero, Ryan?». Sentire la sua voce ovattata dalla maglia, perché avevo il capo appoggiato al suo petto, mi fece sorridere tra le lacrime: sembrava avere una voce ancora più profonda del solito.
«Sì» sbottò Ryan, in risposta alla domanda di Brandon. Sì, avrebbero ucciso per me? Era questo che stavano cercando di dire? Perché ero quasi sicura che non fosse un modo di dire, sarebbero stati in grado di farlo davvero.
«Sentito? L’ha detto anche Ryan. Ora non mi imbrattare più la maglia di lacrime, che si sgualcisce e poi le donne non mi guardano». La battuta di Brandon mi fece ridere così tanto che mi allontanai da lui, tornando ad appoggiare la schiena al muro dietro di me, mentre mi strofinavo una guancia con il palmo della mano per asciugarla. «Andiamo a casa, Lexi». Circondò le mie spalle con un braccio, accompagnandomi verso casa, senza forzare il mio passo.
Non parlò e lo stesso fece Ryan; non era uno di quei silenzi imbarazzanti, in cui nessuno sapeva bene cosa dire, semplicemente avevamo già detto tutto. Quando venivo scossa da un singhiozzo, il braccio di Brandon mi stringeva un po’ di più a lui, ricordandomi che non ero sola, che potevo sempre contare su di lui.
«Buonanotte Lexi. Mi raccomando, domani mattina sveglia all’alba, Coney Island ci aspetta». Alla sua battuta, Brandon aggiunse un occhiolino che mi fece sorridere di nuovo, mentre chiudevo la porta di casa con il catenaccio, perché nessuno potesse entrare. Anche un doppio giro di chiave mi avrebbe tenuta più al sicuro.
Lanciai la borsa sul divano, togliendomi scarpe, maglia e pantaloni mentre camminavo verso il bagno: mi serviva una doccia per calmarmi e ritrovare la lucidità. Quello che però mi stupì, fu il vedere un particolare nuovo nel mio bagno. Lì, dove fino alla sera prima c’era la mia tenda rosa con due tavole da surf che si incrociavano, vedevo una tenda bianca, con disegnata sopra l’ombra di un uomo che faceva surf. Convinta che fosse solo un’allucinazione, mi avvicinai, sfiorando la tela ruvida con i polpastrelli. No, non era un’allucinazione, c’era davvero, e probabilmente era un regalo dei ragazzi. Volevo andare a ringraziarli, ma ero in intimo e, nonostante tre di loro mi avessero visto nuda, non mi sembrava proprio il caso di dare spettacolo. L'avrei fatto il giorno dopo, non appena li avessi visti. Non sapevo se fosse grazie a Ryan, Brandon o Dollar, ma li avrei ringraziati tutti, indistintamente.
Dopo essermi lasciata cullare e aver rilassato i muscoli grazie all’acqua calda e al vapore che si era creato nel piccolo bagno, andai subito in camera mia, addormentandomi poco dopo, stremata.
 
Quando mi svegliai, quella mattina, capii subito che sarebbe stata una giornata indimenticabile: il sole splendeva e illuminava la mia stanza, entrando dalla finestra che avevo lasciato socchiusa la sera prima e producendo dei giochi di colore sui muri della stanza.
Mi misi a sedere, stiracchiando i muscoli della schiena e sorridendo come una stupida: era il quattro luglio, e sarei andata a Coney Island con i ragazzi. Non pensavo più a quello che era successo la sera prima, era come se con quel pianto mi fossi definitivamente sfogata e liberata di tutti i miei pensieri: volevo solo godermi una giornata di vacanza.
Mi alzai, correndo in bagno per risciacquarmi il viso e indossare il mio costume preferito: quello nero con i pallini colorati, che usavo sempre quando facevo surf. Tornata in camera, aprii l’armadio per cercare qualcosa da mettermi ma lo trovai vuoto. Giusto, avevo lavato tutti i miei vestiti due giorni prima e non li avevo stirati per mancanza di tempo. Corsi in cucina, prendendo un paio di pantaloncini e un top nero, e li indossai assieme a un paio di scarpe di tela che non avevo mai messo da quando ero arrivata a New York.
Presi la borsa mettendoci dentro un telo da spiaggia e una bottiglietta d’acqua e, dopo aver chiuso la porta di casa alle mie spalle, bussai insistentemente appena sotto alla targhetta 3B.
«Che cazzo succede?» sbottò Ryan, aprendo la porta solo con un paio di boxer neri addosso. Rimasi a guardarlo sorpresa, soffermandomi sul suo fianco che aveva un grosso ematoma scuro all’altezza della costa incrinata. Per non fare la figura della stupida, tornai a guardarlo, scoprendo uno sguardo decisamente assonnato.
«Andiamo?» proposi, stringendo un po’ di più il manico della borsa che tenevo tra le mani. Perché non erano ancora pronti? Brandon era stato chiaro: all’alba saremmo partiti. Be’, eravamo anche in ritardo rispetto alla loro tabella di marcia.
«Che cazzo di ore sono?» grugnì, avvicinandosi al divano e distendendosi, con un sonoro sbuffo, sopra. Non si preoccupò nemmeno di essere praticamente quasi nudo davanti a me, si portò solamente un braccio davanti agli occhi, infastidito dalla luce della stanza.
«Sono le sette e mezza. Siamo in ritardo, ho guardato gli orari della metro per arrivare a Coney Island e ce n’è una che parte tra venti minuti, se ti sbrighi a preparati ce la facciamo a prenderla». Una bambina la mattina di Natale, ecco cosa sembravo in quel momento.
Ryan spostò il braccio, alzando appena il capo per guardarmi confuso e infuriato: «Le sette e mezza? Tu mi hai svegliato alle sette e mezza? Che cazzo passa per la tua testolina bacata per svegliarmi prima che si svegli anche il primo gufo?». Alla sua domanda, posta in quel tono così serio, non riuscii a non ridere. I gufi erano animali notturni e di certo dormivano di mattina.
«Ryan, i gufi dormono di giorno. E comunque è perché la metro sarà piena di gente, e io voglio andare subito in spiaggia». Possibile che non capisse la mia urgenza? Volevo assolutamente arrivare a Coney Island al più presto, per questo continuavo a chiedermi perché rimanesse lì, disteso su divano in una posa che di elegante non aveva nulla, in boxer.
«Metro? No, lentiggini, non andiamo in metro, se non vuoi arrivare domani mattina» ghignò, mettendosi a sedere per guardarmi divertito dal mio sguardo confuso. «Io guido».
Macchina? Saremmo andati a Coney Island in macchina? Ma non era più veloce andare in metropolitana? E poi, dove avremmo parcheggiato, lì? Non ci ero mai stata, ma ero sicura che non ci fosse una zona adibita a parcheggio.
«Ciao Doc» esordì Dollar, entrando in cucina con una canottiera bianca attillata e un costume nero. Riuscivo a vedere le sue braccia e i suoi pettorali fasciati dalla stoffa bianca. Dollar sembrava più… muscoloso del solito; certo, niente a che vedere con le braccia di Ryan, però.
Stavo quasi per salutarlo, quando Sick e Brandon ci raggiunsero: Sick aveva una polo blu, coordinata a  un paio di pantaloncini dello stesso colore. Brandon invece indossava una maglia bianca, scollata a v, con un costume blu, a righe bianche e rosse sui fianchi. Sembravano dei normali ragazzi che andavano al mare, tranne Sick, che aveva la fasciatura che spuntava da sotto il costume. Lo sapeva che non poteva fare il bagno, vero?
«Ryan, andiamo su, va a prepararti» lo punzecchiò Brandon, dandogli delle pacche sulla spalla per infastidirlo. Ryan sbuffò, guardando irritato la mano di Brandon, poi, come se l’amico non gli avesse appena chiesto di andare a prepararsi, appoggiò il capo sullo schienale del divano, chiudendo gli occhi.
«Quando siete tutti pronti chiamatemi. Mancano Lebo, Paul e Josh. E poi, perché cazzo siete tutti in piedi a quest’ora?». Era stupito, si poteva capire nonostante parlasse con gli occhi chiusi e avesse la voce distorta per la strana posizione in cui aveva piegato il collo.
«Perché ci alziamo sempre a quest’ora. Sei tu quello che stanotte non ha dormito, perché dovevi organizzare tutto per…». Dollar fu interrotto da Brandon, che gli tirò un pugno sulla spalla per farlo stare zitto. Organizzarsi? Doveva organizzare cosa? Stavo quasi per chiederlo, quando anche i tre ritardatari entrarono in cucina, facendomi ridere. Lebo indossava una maglia rossa con una tartaruga stampata sopra e un paio di pantaloncini grigi; i gemelli invece erano vestiti allo stesso modo: maglia verde e pantaloncini neri. Tutti e tre mi salutarono con un cenno del capo, al quale risposi con un sorriso.
«Ryan, alza il culo dal divano e vai a vestirti» brontolò Brandon, facendomi ridere. Non riuscivo a capire perché, ma sembrava l’unico a non temere Ryan, o meglio, era l’unico che si permetteva di prenderlo in giro senza essere fulminato dall’ironia del biondo.
«Che palle. Dovevamo andare oggi pomeriggio» si lamentò, alzandosi dal divano e camminando lentamente verso il corridoio. Lo fece con calma, tanto che senza accorgermene, seguii con lo sguardo la sua colonna vertebrale, soffermandomi sulle sue spalle larghe, ricoperte dalle ali dell’aquila che aveva gli artigli saldi sul ramo che sfumava appena sopra l’elastico dei boxer. Ryan aveva un bel fisico, certo, anche le sue gambe erano muscolose e lunghe e, a differenza di quelle di molti ragazzi, erano dritte, senza assumere strane forme curve.
«Siediti Lexi, sono quasi sicuro che ci metterà come minimo mezz’ora. È peggio delle donne. Se nel frattempo vuoi intrattenerti con me, possiamo guardare qualche film…». La battuta di Sick mi terrorizzò e divertì allo stesso tempo. Mi sedetti sul divano, di fianco a lui, appoggiando la mia borsa per terra. Non avevo però intenzione di guardare qualche film con lui, sicura che non sarebbe di certo stata una commedia romantica o un thriller. «Guarderai un film con me?» esultò, allungandosi verso il tavolino per prendere il PC che c’era sopra.
«No, no Sick. Ti ringrazio per l’offerta, ma declino il film e qualsiasi altra cosa tu voglia fare» ridacchiai, incapace di nascondere la mia felicità. Era il quattro luglio, e io l’avrei passato con qualcuno che, in qualche strano e perverso modo, si preoccupava per me.
«Andiamo». Ryan entrò in salotto con un paio di occhiali da sole, una canottiera a righe bianche e nere e un costume nero. Le sue braccia muscolose e tatuate erano scoperte e non riuscii a trattenermi, fermandomi a guardarle. «Lentiggini? Ti vuoi muovere?» sbottò, agitando la mano davanti al mio viso, mentre arrossivo imbarazzata. Perché poi dovevo esserlo, visto che mi ero solo soffermata a guardare i suoi tatuaggi?
«Sì, andiamo. Le macchine?» domandai, schiarendomi la voce, mentre prendevo la mia borsa per uscire da quell’appartamento sperando  che nessuno vedesse quanto ero arrossita. Ero in compagnia di sette ragazzi che sembravano avere un fisico da modelli, e, nonostante non fossimo ancora arrivati in spiaggia, erano già mezzi svestiti.
Sentii qualcuno ridacchiare dietro di me, mentre scendevo le scale di fianco a Brandon, subito dopo Ryan e Sick, che zoppicava ancora. Stavo quasi per uscire dallo stabile, quando la mano di Brandon sfiorò il mio braccio, attirando la mia attenzione perché li seguissi, attraverso una porta che non avevo nemmeno mai notato, nascosta com’era nel sottoscala.
«Andiamo, scegli la donna da cavalcare» ghignò Ryan, fermo davanti a me tanto da impedirmi di vedere qualcosa di diverso dalla sua schiena enorme.
«Cosa?» biascicai, strozzandomi con la mia saliva, per quella battuta davvero volgare. Come si permetteva di parlarmi in quel modo? Ero una donna, dannazione! Se fosse stato Sick l’avrei sicuramente scusato, ma Ryan… lui mi stava dando della lesbica? «Oh» mormorai, zittendo il mio flusso di pensieri, quando si spostò, mostrandomi le moto che erano parcheggiate nel piccolo garage. Erano tante e… grandi. Davvero grandi. Dubitavo di riuscire a salirci senza un aiuto.
«Scegli la moto che vuoi guidare, lentiggini. Cazzo, ma parlo una lingua che nessuno capisce?». Ryan era esasperato, si capì anche dal gesto che fece, guardando i ragazzi e allargando le braccia. Ma non era di certo colpa mia, se parlava con strani doppi sensi fraintendibili. Poi, realizzai quello che mi aveva appena detto: dovevo scegliere la moto da guidare?
«Io non so guidare la moto». Credeva davvero che fossi in grado di rimanere in equilibrio su un ammasso di metallo che era cento volte il mio peso?
«Scherzi?». A parlare, stupendomi, fu Dollar, che si avvicinò a me, piegandosi leggermente per guardarmi bene in viso. «Perché non sai guidare una moto? Butterfly sa farlo, dovresti imparare». Butterfly, certo, lei sapeva di sicuro cavalcare una moto, e forse non solo quella. Ero talmente irritata dal fatto che Dollar mi avesse paragonata a Butterfly che rischiavo addirittura di risultare volgare.
«Oh, scusate se non so cavalcare una moto come la vostra Butterfly, vorrà dire che andrò da sola, a piedi» conclusi, sistemandomi la canottierina nera con un gesto seccato, tanto che la borsa urtò contro la moto più vicina. Qualcuno dietro di me trattenne il respiro, come se avessi fatto qualcosa di male.
«Dai, sali dietro a qualcuno di noi, su» propose Brandon, appoggiandomi una mano sulla schiena per accompagnarmi verso le moto. Sì, avrei volentieri fatto il viaggio con Brandon o Dollar, con Sick mi sarei un po’ spaventata, ma non volevo assolutamente rimanere in moto con Ryan, no.
«Sali con me, Lexi» mi pregò Sick, portandosi una mano al cuore e tendendo l’altra verso di me. Inorridii, spaventata: non volevo dirgli in modo brusco che non avrei viaggiato con lui perché mi faceva paura.
«Dai Doc, io sono prudente» ammiccò Dollar, facendomi ridere. Stavo quasi per avvicinarmi a lui, quando Ryan prese la parola.
«Facciamo così, lentiggini: scegli la moto che ti piace di più e viaggerai su quella, che ne dici?». Nonostante il ghigno –che era comunque sempre presente –Ryan sembrava serio, così annuii, soddisfatta.
Dovevo solo giocare d’astuzia, evitando di scegliere la sua moto o quella di Sick; anche fare il viaggio assieme a Josh o Paul non mi sembrava una buona idea, forse perché non avevo parlato molto con loro, ma era sempre meglio passare un’ora seduta dietro di loro, che non con Ryan.
«D’accordo» mormorai sovrappensiero, cominciando a camminare tra le moto. Ero sicura che sarei riuscita a trovare qualche particolare per capire a chi appartenessero, ma sembrava non essere così: ogni moto era senza adesivi o scritte, c’erano solo ammaccature e graffi.
«Su, lentiggini, non abbiamo tutta la giornata» sghignazzò Ryan, quando mi avvicinai alla moto più in fondo. Ecco, mi sentivo un genio! Ryan era tipo il loro capo, quello che camminava davanti a tutti e che si faceva avanti per difendere gli altri; quindi, visto che le moto avevano tutte il muso rivolto verso il muro, la sua doveva essere quella che avevo appena finito di guardare. Quella che, quindi, non avrei scelto.
Mi avvicinai alla saracinesca di uscita del garage e guardai la prima moto, tutta nera, con aria soddisfatta.
«Questa» esultai, indicandola. C’era una scritta argentata in corsivo su un fianco: Ninja. Sì, quella doveva essere la moto di Dollar, un po’ lo rispecchiava: scura e semplice, sembrava addirittura potente.
«Bene, datele un casco» ordinò Ryan indossandone uno integrale a sua volta e cominciando a fare lo slalom tra le moto. Perché si stava pericolosamente avvicinando all’ultima, quella di fianco a me?
Perché non era andato dalla parte opposta, verso la prima che era entrata in garage?
«Forza, sali, lentiggini». Al consiglio di Ryan inorridii, indietreggiando di un passo, senza pensare che dietro di me c’era il portone del garage. Ryan salì sulla moto nera, confermando la mia paura. Quindi… dovevo andare in moto con Ryan? Ma come era possibile dopo tutti i miei calcoli sulla posizione e su come erano entrate in quel garage?
«Non è la tua moto» mi intestardii, come una bambina. No, mi rifiutavo di credere che fosse davvero la sua moto. Perché non poteva essere quella blu, la sua? O magari quella grigia, tutte, ma non quella nera che avevo scelto.
«Certo che è la mia, è una Ninja. E ora sali, muoviti, che ti serve una scaletta» mi derise, quando Dollar mi porse un casco integrale, decisamente grande per me. Lo rigirai tra le mani insicura se accettare o meno, poi, fingendo che non mi interessasse veramente fare il viaggio con Ryan, lo indossai, causando uno scoppio di risa generali perché era decisamente più grande rispetto al mio capo. «Tieniti quello per oggi, non ne abbiamo uno taglia bambino». Sembrava quasi soddisfatto di vedermi con quel coso nero in testa. Chissà quanto dovevo apparire ridicola, quasi una cosa sproporzionata, vista la grandezza. «Andiamo, centauro» ghignò, nuovamente, lasciando un pugno sul mio casco tanto che rimbombò tutto, facendomi vacillare.
«Idiota» strillai, alzando la visiera scura per mostrargli quanto fossi arrabbiata. Quel gesto però sembrò causare la sua ilarità, visto che si portò una mano sullo stomaco, cominciando a ridere più forte. Oh bene, ero così divertente con il casco? Mi avvicinai alla moto, arrampicandomi sul pedalino del passeggero e salendo dietro Ryan, evitando di toccare la sua schiena e soprattutto senza circondargli il busto con le braccia. Meno mi appoggiavo al suo corpo meglio era.
Ryan si girò, per controllare che fossi salita, poi, come se la scena fosse stata divertente, cominciò a ridere di nuovo. Quel suo comportamento mi dava i nervi. «La moto non si è minimamente mossa, volerà via» sogghignò, dando gas per accenderla. Sussultai spaventata, non più tanto sicura che correre in moto fosse una buona idea; non con Ryan, almeno. «Dovrei ammanettarla, altrimenti vola via». Il suo tono di voce era alto, probabilmente perché voleva farsi sentire dai ragazzi anche sopra il rombo del motore. Dubitavo che ci riuscisse, visto che era quasi assordante.
«Oh, Lexi! Ammanettati a me, ammanettiamoci» strillò Sick, avvicinandosi a noi e prendendo una mia mano. Se la portò sopra al cuore, piegandosi sulle ginocchia in uno strano inchino. Quel gesto mi fece ridere, tanto da non riuscire a trattenermi e mi appoggiai alla schiena di Ryan per non cadere dalla moto.
«Muovetevi, idioti» ordinò Ryan, dando gas per uscire dal garage. Istintivamente, per non rischiare di cadere, circondai il suo busto con le mie braccia, aggrappandomi alla sua canottiera e stringendo la stoffa tra i pugni. Sarei morta, ne ero sicura.
«Corri piano». Nemmeno per favore, sì, ma non mi interessava essere cortese, non quando mi trovavo seduta su una moto enorme, dietro a Ryan che non era poi molto più piccolo della moto. Non rispose, lo sentii solamente ghignare, prima che, accelerando in modo esagerato, partisse sgommando.
Era inutile continuare a tirargli pugni sullo stomaco perché rallentasse, visto che ogni volta che lo colpivo il suo piede sinistro si muoveva, cambiando marcia: lo faceva volutamente, io gli chiedevo di rallentare e lui accelerava.
Bene, non mi sarei più lamentata, ma di certo il viaggio di ritorno non l’avrei fatto seduta su quella moto.
A un certo punto Brandon si affiancò a noi, sollevando la visiera scura del casco nero e ammiccando verso Ryan. Sentii la sua schiena scossa da una risata, e, prima ancora di capire quello che stava succedendo, il braccio di Ryan si strinse attorno alle mie mani, mentre accelerava, cercando di raggiungere Brandon, che ci aveva superato.
«Idiota» urlai, come se avesse potuto davvero sentirmi. Cercai di avvicinarmi di più a lui, schiacciandomi contro la sua schiena e rendendo più salda la mia presa. Per ripicca, gli pizzicai un fianco, sperando che capisse di rallentare, ma Ryan, in risposta, si girò per guardarmi, non prestando più attenzione alla strada.
Le orecchie che fischiavano e la sensazione che la testa potesse staccarsi dal corpo, le braccia che mi dolevano perché sembrava che fossero tagliate da milioni di lame, quando in verità era solo il vento. Preferivo cento volte un viaggio in metropolitana, al chiuso e al sicuro.
Avevo controllato, e che il tempo per arrivare da Hunts Point a Coney Island era di circa quaranta minuti, eppure, nonostante quel viaggio in moto potesse essere paragonato all’inferno, ci fermammo venti minuti dopo.
Ryan si tolse il casco dopo aver spento la moto e cominciò a ghignare guardando Brandon che, sceso dalla moto, continuava a sorreggersi con le mani sulle gambe per il troppo ridere. Una scena divertente, per loro! Dovevano solo aspettare che ritornassi ad avere l’uso delle gambe e delle braccia, e poi mi sarei fatta sentire.
«Lentiggini, puoi scendere, non stiamo più correndo. Certo, se vuoi rimanere aggrappata a me è un’altra cosa, ma almeno lascia che mi alzi da qui» sogghignò, mentre ritiravo le mie braccia, come se mi fossi ustionata all’improvviso.
No! Non volevo proprio rimanere aggrappata a lui.
Quel mio gesto fulmineo li fece ridere tutti, solo che con il casco che scendeva sui miei occhi non riuscivo a vederci bene, così cercai di slacciarlo, senza riuscirci.
«Sta ferma» sbottò Ryan, portando le sue mani sotto al mio mento e armeggiando con la chiusura del casco. «Oh cazzo, si è rotto». Lo sentii tirare in due direzioni opposte, senza che però il moschettone si aprisse.
«Cosa?» strillai, già in preda a una crisi di panico. Dove sarei andata con un casco di chissà quante taglie più grande di me addosso? Cosa avrebbe detto la gente? E dovevo andare al pronto soccorso o dai pompieri? Chi sapeva aprire un casco? No, calmi, forse serviva solo una forbice per tagliare la fibbia.
Un nuovo scoppio di risa e le dita di Ryan a muoversi ancora, poi un “clic”. «Sei salva». Sentii finalmente il mio capo libero dal casco e Ryan che cercava di nascondere quel ghigno, davanti a me.
«Stronzo» sbottai, capendo che mi aveva presa in giro e che non si era mai rotta la chiusura del casco. Indignata, scesi dalla moto cercando di non inciampare e riuscendoci. Quando appoggiai i piedi per terra sospirai sollevata, cercando di riscaldarmi le braccia e le gambe, ancora insensibili per la corsa in moto.
«Andiamo! E muoviti Lexi! È una spiaggia per nudisti, non puoi entrare con il costume» spiegò Sick, serio, mentre si toglieva la maglia.
Spiaggia per nudisti? Mi avevano portato in una spiaggia per nudisti? Spaventata mi guardai attorno, notando però che tutte le persone indossavano il costume.
«Sei un idiota, Sick». Non riuscii nemmeno a trattenere una risata, per quel suo strano modo di fare. Credeva davvero che mi denudassi? Anche se fosse stata una spiaggia per nudisti non mi sarei di certo tolta il costume, il problema era che, sicuramente, loro l’avrebbero fatto.
«Ci ho provato, mi sarebbe piaciuto vederti nuda» ammiccò, causando una nuova risata generale. Gli sarebbe piaciuto vedermi nuda, ma avevo già dato anche troppo, visto che tre di loro si erano introdotti in casa mia, entrando nel mio bagno mentre mi facevo la doccia.
«Noi l’abbiamo vista nuda» esultò Dollar, affiancandosi a me. Cercai di tirargli un pugno sullo stomaco per farlo smettere di parlare, ma mi bloccò la mano dietro la schiena, immobilizzandomi e portando una mano davanti alle mie labbra perché non potessi parlare. Continuavo a scalciare, sperando che mi liberasse o che qualcuno degli altri ragazzi lo facesse, ma naturalmente nessuno intervenne. «Ricordi ieri mattina, quando siamo andati a casa sua perché non sapevamo dove fosse? Quello che non ti ho mai detto è che era in bagno, così siamo entrati e…e abbiamo visto la Doc nuda». Dollar sembrava così soddisfatto di quella piccola rivincita su Sick che mi innervosii ancora di più, scalcando con maggiore forza e cercando di pizzicargli il braccio con la mano che non era riuscito a intrappolare.
«Cosa? Perché? Perché io non ci sono mai quando c'è la possibilità di vedere una pornostar nuda dal vivo? Anche io voglio» piagnucolò Sick, imbronciandosi mentre si appoggiava alla moto dietro di lui. Sembrava davvero un bambino geloso di qualcosa tanto che cominciai a ridere, muovendomi tra le braccia di Dollar.

«E ti dirò di più, Sick» continuò Dollar, punzecchiandolo e rendendolo ancora più curioso. Mi immobilizzai, temendo una strana confessione. Non sapevo a cosa Dollar stesse pensando, ma ne ero davvero spaventata. Che cosa passava per quella mente malata?
«Cosa? Cosa? C'è qualche piercing nascosto o qualche tatuaggio dalle forme strane oltre a quello che si vede?». Lo sguardo di Sick si posò sul mio fianco, lì, dove c’era il mio piccolo tatuaggio con il surfista. Istintivamente smisi di pizzicare Dollar, portando la mano a sistemarmi la canottiera con un gesto arrabbiato. Erano come due bambini: si provocavano a vicenda, sapendo l’uno i punti deboli dell’altro. E non mi dava fastidio, se non ero io l’argomento centrale.
«No, la Doc, lì sotto, è tutta... tutta... tutta...» iniziò Dollar, prima che caricassi il gomito con tutta la forza che avevo e lo piantassi sul suo stomaco. L’effetto però non era quello che avevo immaginato, visto che Dollar riuscì a scansarsi, terminando la frase con un urlo che riuscirono a sentire, probabilmente, anche tutti quelli in mare: «depilata».

Tutti quanti cominciarono a ridere, tranne Sick, che mi guardò, sorpreso e quasi emozionato: «ti prego, per favore, imboschiamoci da qualche parte solo io e te, sono bravo e conosco un sacco di posizioni, sai?». Unì anche le mani in preghiera, mentre Dollar lasciava la presa sul mio volto e sulla mia mano, facendomi tornare libera di muovermi e parlare.
«Sentite, andiamo in spiaggia, visto che si sta riempiendo e poi fate tutte le richieste che volete per trombarvela» borbottò Ryan, prendendo in malo modo la mia borsa appoggiata alla sua moto e porgendomela.
Ryan si incamminò verso la spiaggia, seguito subito dopo da Brandon, Sick e i gemelli. Dollar era di fianco a me, con uno strano sorriso soddisfatto sulle labbra.
«Non parlarmi nemmeno, non provarci» mormorai arrabbiata con lui per quello che prima aveva detto a Sick. Possibile che avesse dovuto dire quello che aveva visto mentre mi facevo la doccia?
«Dai Doc… era uno scherzo» cercò di sdrammatizzare, dandomi dei leggeri colpetti sul fianco con il suo gomito. No, non mi sarei arresa così facilmente, non funzionava così con Alexis Cooper.
«Sei fortunato solo perché sono alta metà di te e non ti stenderei nemmeno con un pugno». Se fosse stato un po’ più piccolo e meno muscoloso l’avrei volentieri picchiato. Era una questione di rispetto: io non avevo detto a nessuno quello che era successo con la malattia che pensava di aver preso da Butterfly, perché doveva fare l’idiota con Sick, vantandosi di avermi vista nuda?
«Se vuoi ti insegno come si fa a pugni». Era una specie di trattato di pace? Voleva che non fossi più arrabbiata con lui? Be’, non ci stava riuscendo. Appoggiai la mia borsa sulla sabbia, togliendomi le scarpe di tela e affondando con i piedi nella sabbia fresca, non ancora scaldata dal sole del mattino; istintivamente chiusi gli occhi, inspirando a fondo: casa. Ero a casa.
Riaprii gli occhi, rendendomi conto che c’era un sorriso spontaneo sulle mie labbra, un sorriso che non mi ero nemmeno accorta di avere: era l’effetto del mare, del profumo di salsedine e della sensazione della sabbia sotto ai piedi. Coney Island sembrava un laghetto, la spiaggia non era piccola ma affollata, nonostante fossero solamente le nove di mattina; era diversa, molto, da quello che mi ero immaginata, ma non si poteva dire che non fosse suggestiva, con l’enorme ruota panoramica –il Wonder Wheel –alle sue spalle.
Quando guardai i ragazzi, li trovai già tutti a petto nudo, intenti a sogghignare, osservandomi. Mi guardai, convinta che ci fosse qualcosa che non andava in me: non c’era niente di fuori posto o sbagliato, semplicemente, tra tutti, ero l’unica con addosso i vestiti.
«Spogliati Lexi, su». Sick si sfregò le mani, facendomi ridere. Ero tranquilla, perché, con tutte quelle persone non mi avrebbe di sicuro fatto nulla di male, soprattutto perché i ragazzi mi avrebbero difesa, speravo. «Se vuoi posso farlo io» tentò di nuovo, facendo un passo verso di me. Sick voleva spogliarmi, era così contento di farlo che si dimenticò di me quando una ragazza mora, con un seno molto vistoso, gli passò accanto, sorridendogli.
Mi abbassai i pantaloncini, ripiegandoli e riponendoli dentro alla borsa, poi, sperando che nessuno di loro prestasse troppa attenzione ai miei gesti, mi sfilai il top, rimanendo solamente con il costume.
«Una tavola da surf. Poteva anche non mettersi il pezzo sopra. Sai, lentiggini, credo che a forza di fare surf le tue tette si siano trasferite sulla tavola». Alla battuta di Ryan strinsi i pugni lungo i fianchi, arrabbiata. Sì, Dollar doveva assolutamente insegnarmi come si tirava un pugno.
«Non è vero, a me piace. È tutta piccola, se avesse due tette come quelle di Butterfly farebbe schifo». Secondo una strana logica, quello di Dollar doveva essere un complimento, ma non mi interessava poi molto quello che pensavano di me. Quello era il mio corpo, io ci convivevo da ventidue anni e mi piaceva.
«A te piace tutto in generale, Doll. Vado a farmi un bagno» sibilò Ryan, incamminandosi verso il mare, senza aggiungere altro. Be’, se io dovevo rimanere senza il pezzo sopra del costume perché non avevo tette, Ryan doveva indossare sempre la maglietta, visto che la sua schiena, ricoperta da tatuaggi e cicatrici, non era un bel vedere. E no, non mi interessavano i quintali di muscoli che aveva.
«Lexi, vuoi andare a fare un bagno o ti insegno come si tira un pugno? O vuoi rotolarti con me nella sabbia?». La proposta di Dollar mi scosse dai miei pensieri su Ryan e gli risposi senza nessun dubbio: sapevo quello che mi interessava più di tutto.
«Insegnami a tirare un pugno. Vado dopo a farmi il bagno e non mi rotolerò mai nella sabbia con te». Così avevo risposto alle sue domande in modo chiaro, senza che ci potessero essere dei dubbi. Speravo che Dollar potesse smetterla di provarci con me, anche se, sentirmi in qualche modo contesa tra lui e Sick era piacevole. Lo era sempre, anche quando –come in quel caso –sapevi che lo facevano per scherzare.
«D’accordo, allora, prima di tutto: schiena dritta, devi colpire le mie mani». Portò le braccia in avanti, tenendole tese perché non si ferisse il petto con il contraccolpo del mio pugno.
Sul serio, voleva che lo ferissi? No, non potevo farlo, se gli avessi fatto male? Era pur sempre Dollar, un bambino, nonostante fosse due volte me, in altezza e anche larghezza.
«No, se poi ti faccio male?» mormorai, non prestando troppa attenzione a Ryan che si era seduto di fianco a Sick, scrollandosi l’acqua dai capelli bagnati. Sentii i ragazzi ridere dietro di me, come se avessi detto qualcosa di divertente. Mi voltai a guardarli, ma nessuno di loro fiatò: continuavano a scrutarmi, come se fossi un gallo in attesa di combattere. Ma non ero di certo quello più forte, anche se potevo ferire. Lanciai un’altra occhiata a Dollar, esitando con il pugno alto perché non volevo colpirlo.
«Forza! Colpiscimi, fammi sentire quanto male fanno quei piccoli pugnetti» ridacchiò Dollar, muovendo le sue grandi mani davanti a me, per incitarmi a colpirlo. Più lo guardavo e meno mi convincevo di quello che stavo facendo. Lì, in spiaggia, davanti a tutti, io, alta poco più di un metro e mezzo, combattevo a suon di pugni con un ragazzo di sedici anni, sfregiato sul volto.
«Ti ferirò. E se dovessi romperti una costola?» tentai, sperando che si decidesse ad abbassare quelle braccia. La mia idea era proprio stupida. Perché mi ero intestardita per imparare a dare un pugno?
«Andiamo! Fammi male»‎ ribatté. Non aveva nessuna intenzione di abbandonare il nostro ring, costruito dai ragazzi che si erano seduti a cerchio attorno a noi.

Picchiarlo, dovevo picchiare Dollar, tirargli un pugno sul palmo della mano, per la precisione. Insomma, non era così difficile farlo, no? Bastava caricare il braccio, stringere bene la mano tenendo il pollice in fuori e poi colpire. Facile, come bere un bicchiere d’acqua.
Socchiusi gli occhi, prendendo un respiro profondo e stringendo ancora di più le nocche, poi, senza guardare, colpii la mano di Dollar. Rilasciando l’aria che avevo trattenuto per la paura guardai il volto di Dollar, convinta di averlo ferito. Lui però, al contrario di tutto quello che mi ero immaginata, stava trattenendo malamente una risata, divertito dalla situazione.
«Non è male, Doc. C’è l’istinto, devi un po’ migliorare la tecnica e avere meno paura di far male. Quando dai un pugno lo fai perché le mani ti prudono e sai che quella è la cosa giusta da fare, capisci? Non devi avere paura, perché di sicuro, anche se ti ferirai, l’altro sarà sempre messo peggio. Ma ci riproveremo». Appoggiò la sua mano sulla mia spalla, per darmi coraggio.
Cosa? Non l’avevo nemmeno ferito? Non aveva sentito tutta la mia forza scontrarsi contro la sua mano? Credevo di aver esagerato e lui mi diceva che non aveva sentito nulla?
«Ma… ma non hai sentito nulla?» balbettai, delusa dal suo essere così tranquillo e spensierato. Come poteva non aver sentito nulla? Ero piccola, ok, ma i muscoli c’erano e li avevo usati bene.
«Come fa ad aver sentito qualcosa? Andiamo, sarebbe come dire che senti il moscerino che si schianta contro la visiera del casco, lentiggini. Non si sentirà mai niente» sogghignò Ryan, alzandosi in piedi per prendere qualcosa dai suoi jeans, non molto distante da me.
E improvvisamente lo sentii: esattamente come Dollar l’aveva descritto, un desiderio di colpire qualcuno tanto che le mani prudevano. Strinsi ancora di più le nocche, facendole sbiancare e, dopo averlo raggiunto, aspettai che ritornasse in posizione eretta e puntai dritta davanti a me: al suo stomaco.
«Porca vacca che male» sbottai, ritirando subito la mano e circondandola con l’altra. Dove diavolo l’avevo colpito, su una corazza di ferro? Cominciai a saltellare per il dolore, senza badare alle risate di Ryan, davanti a me.
«Ryan, però sei uno stronzo» mormorò Brandon, alzandosi e avvicinandosi a me. Prese la mia mano tra le sue, aprendo le mie dita per controllare. Non c’erano ossa rotte, di questo ne ero certa, ma avevo preso una bella botta. Contro cosa diavolo avevo tirato il pugno?
«Non ho fatto niente, andiamo ragazzi» si giustificò Ryan, allargando le braccia, come se volesse sottolineare che non aveva niente da nascondere e che era colpa mia.

Mi intestardii, come una bambina. Un po’ per la figuraccia che mi aveva fatto fare e un po’ perché ero sicura che volontariamente mi avesse fatto sbattere contro qualcosa di duro perché mi ferissi, così mugolai: «Mi hai fatto male. L'hai fatto volontariamente». Tornai a guardare la mia mano con le nocche rosse; magari sarebbero diventate viola, e dove sarei andata con una mano conciata peggio di un boxeur?
«Ma no che non l’ho fatto apposta, lentiggini. Sei tu che hai le ossa come quelle dei bambini. Non stavo nemmeno trattenendo il respiro o altro, mi hai totalmente colto di sorpresa, altrimenti ti saresti ferita molto di più». Oh sì, ecco. Era così bello per lui farmi sentire una nullità? Ci godeva così tanto? Le mie mani volevano tirargli un nuovo pugno, ma ero sicura che non fosse una buona idea, se volevo rimanere con le ossa intere, così, con uno sbuffo, cominciai a muovere le dita, prima che qualcosa arrivato da dietro di me, mi sollevasse da terra facendomi urlare.
«Ambulanza, ferito grave. Codice rosso. Dobbiamo controllare una possibile frattura di una mano» continuava a strillare Dollar, sollevandomi da terra solo con un braccio attorno alla mia vita.
Si stava pericolosamente avvicinando all’acqua, ma ridere mi portava via tutte le energie tanto che non riuscivo nemmeno a dirgli di fermarsi.
«Doll, mettimi giù» urlai, quando i miei piedi toccarono l’acqua fredda dell’oceano. «Dollar» ripetei, accorgendomi che non si fermava, ma anzi, che continuava ad avanzare pericolosamente verso il largo. «Dollar mettimi giù».
Non appena terminai la frase sentii una risata di Dollar e di qualche altro ragazzo, ma non vidi nulla, perché mi ritrovai sott’acqua, completamente sommersa. Quello stupido mi aveva lanciata come se fossi un sacco di patate ma me l’avrebbe pagata. Mi misi in piedi, trovandomi con l’acqua a metà busto e mi preparai ad attaccare: l’acqua era il mio ambiente naturale e Dollar l’avrebbe capito.
Con un gesto secco mi legai i capelli bagnati e ghignai, rivolta verso di lui: «Sei pronto alla guerra, Dollar?». Probabilmente per lui non ero minacciosa, ma non sapeva cosa ero in grado di fare. Avevo passato vent’anni della mia vita a lottare contro ragazzi che erano il doppio di me, e non ero mai stata sconfitta in nessun corpo a corpo durante una battaglia d’acqua.
«Aspetta che chiamo i rinforzi». Dollar si voltò verso la riva, dandomi le spalle, e fischiò, facendo un gesto con la mano ai ragazzi: gli aveva appena suggerito di raggiungerci.
Oh, bene! Uno contro uno, li avrei stesi tutti.
Ryan, Brandon, Paul, Josh e Lebo però non avevano un’aria serena, sembrava stessero andando in battaglia.
«Uno contro uno vi demolirò» sghignazzai, strofinandomi le mani e sistemandomi il pezzo sopra del costume perché non si spostasse.
«Uno contro uno? No, lentiggini, non hai capito chi comanda». Quella frase, uscita dalle labbra di Ryan, fu l’ultimo suono che riuscii a distinguere, prima che una cascata di acqua mi investisse in pieno.
Tutti e sei si erano coalizzati per annegarmi, e a nulla erano valse le mie suppliche, anche sotto forma di urla. Nessun bagnante si era avvicinato a noi per aiutarmi. Non sapevo se fosse perché i ragazzi potevano spaventare o perché la scena era divertente da guardare; ma, quando uscimmo da quel bagno, non sentivo più la schiena, martoriata dai loro getti d’acqua.
«Siete davvero degli stupidi. Sei contro una. Donna oltretutto» sbottai, arrotolandomi il telo da mare attorno alle spalle, mentre mi sedevo di fianco a Sick, che aveva guardato tutta la scena divertito.
«Stai scherzando? Abbiamo avuto pietà di te solo perché Sick era infortunato, altrimenti non saresti sopravvissuta al nostro attacco». Brandon prese posto vicino a me, passandosi una mano tra i capelli bagnati e scompigliandoli ancora di più. Notai subito l’aquila disegnata all’interno del suo braccio, sotto alla spalla sinistra. Non era grande nemmeno la metà di quella che Ryan aveva tatuata sopra al cuore, ma per qualche strana ragione me la ricordava.
Chissà perché tutti avevano un tatuaggio dell’aquila, che fosse qualche tradizione della banda?
«Brandon, posso chiederti una cosa?». Non sapevo con che coraggio gli avrei posto quella domanda, forse era solo curiosità.
Mi guardò per qualche secondo, indeciso, poi, con lo sguardo, cercò il consenso di Ryan. Quel gesto mi riportò alla mente una domanda che spesso mi ero posta, una domanda che forse era meglio rispetto a quella del tatuaggio. Alla non risposta di Brandon –che interpretai come un via libera –presi un respiro profondo e tanto coraggio.
«Che cos’è Ryan? Perché tutti quanti fate quello che lui dice e non lo contraddite mai?». Ecco, l’avevo chiesto, finalmente. Dopo mesi, speravo che Brandon fosse in grado di darmi una risposta, una vera risposta, senza mezze verità o complete bugie.
«Ryan è il nostro O.G.» spiegò Brandon, a bassa voce. Sembrava che mi avesse rivelato un segreto inconfessabile, ma non riuscivo a capire a cosa si riferisse.
O.G., che cosa poteva significare? Cercavo di associare quelle iniziali a qualcosa che potesse c’entrare con gli Eagles, ma non mi veniva in mente nulla, e di certo, ogni mia supposizione sarebbe stata sbagliata, quindi era meglio chiedere.
«Cioè?» bisbigliai, temendo che qualcuno potesse sentire quello di cui stavamo parlando. Lo strano comportamento di Brandon mi faceva reagire di conseguenza: sguardi circospetti per controllare che non ci fossero persone in ascolto e tono di voce basso.
«Cioè Original Gangster. Sono il capo degli Eagles. Hai paura adesso, lentiggini?». Sussultai spaventata; non avevo notato che Ryan si era seduto di fianco a me, cominciando a parlare. Mi voltai verso di lui, concentrandomi su quello che aveva detto. Original Gangster.
Avevo sempre associato i Gangster alla Mafia, ma quindi le bande c’entravano qualcosa? E che significato aveva essere l’O.G. degli Eagles?
«E quindi? Cosa fai per essere un O.G.? Che differenza c’è tra te e… Brandon? O Dollar?». Che avessero dei ‘gradi’ diversi? Forse Ryan poteva dare ordini a tutti, ma qualcuno aveva più potere di lui?
«L’O.G. è il capo, non c’è nessuno sopra di me. Io posso comandare a tutti e loro devono rispettarmi. Io ho deciso i loro gradi, Brandon è il vice, quindi ha quasi la mia importanza, poi c’è Sick che è Sergente. Il resto è come se fossero… soldati? Non riesco a spiegarti. Non lo faccio perché non mi piace, ma dovrei decidere i nomi da strada dei ragazzi, l’ho fatto solo con Sick e Dollar, ma perché fa parte del loro carattere. I nomi da strada servono per dargli una nuova identità, perché possano capire che gli Eagles sono la loro nuova famiglia e perché i Misfitous e la gente capiscano che fanno parte degli Eagles a tutti gli effetti e non sono solo gonna-be; una volta che entri negli Eagles non puoi più uscirne, a meno che…» si interruppe, smettendo di fare disegni astratti sulla sabbia per guardarmi. Non si poteva uscire dagli Eagles a meno che? Qual era l’unica via per uscire da una banda?
«Cosa?» mormorai, come se non volessi veramente sentire la risposta. Perché Ryan si era interrotto proprio in quel momento, come se non volesse farmi sapere la verità?
Abbassò di nuovo lo sguardo, tornando a guardare la sabbia tra i suoi piedi; poi, dopo un sospiro, riprese a parlare con lo stesso tono basso e calmo: «a meno che non muoia l’O.G., solo in quel caso il singolo elemento può decidere se rimanere nella banda o uscirne per sempre. Però due dei nostri ci hanno tradito, erano in combutta con i Misfitous e appena ce ne siamo accorti li abbiamo sistemati, per questo, tra le nostre foto, ce ne sono un paio al contrario. I traditori non meritano di avere la stessa importanza. I traditori non meritano nemmeno di portare il flag con loro. Il flag è la nostra bandiera, il modo in cui ci facciamo riconoscere quando siamo nel nostro territorio. Solo gli Hard-Cores hanno il flag e non lo usiamo ovunque. Non consegniamo nemmeno il flag a ogni nuovo entrato, ci vuole tempo per fidarsi dei nuovi. Molti entrano negli Eagles solo per protezione, perché hanno paura di noi, altri lo fanno per farsi vedere, e non li sopporto. Gli Eagles sono una famiglia, sono la mia vita. Mi fanno girare i coglioni i bambinetti che vogliono entrare perché hanno paura di me. Per questo noi reclutiamo solamente quelli che hanno almeno sedici anni. I Misfitous sono diversi, loro fanno come gli altri: se ne fregano e li arruolano quando hanno quattordici anni solo per fare numero. Ma non mi interessa il numero, non mi interessa vincere uno scontro con loro, voglio che i miei sappiano perché lo fanno e devono essere convinti. Un Eagles è per sempre, non puoi decidere di andartene perché non vuoi derubare qualcuno. Sai quello che fai quando entri in una banda: devi rubare, uccidere, sparare. Non puoi fermarti a guardare chi stai uccidendo, o non te lo dimenticherai mai. Un Eagles uccide quando non ha scelta e ruba solo quando sa che può farlo, se un Eagles uccide un innocente non lo fa volutamente, capita. Le armi sono pericolose, sì. La droga è qualcosa di sporco, ma non me ne fotte un cazzo. Io so quello che è meglio per gli Eagles e faccio così, nei limiti del possibile e sperando che nessuno venga ucciso, succede sempre; può succedere sempre, anche quando il tuo topo è un Maya. Loro sono quelli che viaggiano con i soldi, sono la preda migliore perché non hanno documenti e non andranno mai dalla polizia a denunciarti; e noi lo sappiamo, tutti lo sanno. Ma gli Eagles sono i più forti, tutti ci temono». Non avevo mai sentito Ryan fare un discorso più lungo e serio di quello. Niente ironia, niente battutine idiote o frasi messe in mezzo per prendermi in giro, mi aveva solamente raccontato la verità nuda e cruda, quella che io gli avevo chiesto. In qualche modo era quasi strano sentirlo parlare degli Eagles, perché, mentre ne parlava, sentivo un tono orgoglioso nella sua voce, come se ne fosse direttamente responsabile.
«Quando sono nati gli Eagles?». Era una domanda lecita, la mia. Dopo tutto quello che mi aveva raccontato non poteva di certo pensare di aver placato la mia curiosità, anzi, era l’esatto contrario.
«Vuoi la versione lunga o quella corta?». Per qualche istante, sul suo volto, tornò quel ghigno che sparì subito, sommerso da quello sguardo fiero, quello che nasceva quando parlava della sua vita, della sua banda.
«Voglio capire». Avevo tempo e sapevo che anche loro si erano presi una giornata di ‘vacanza’ dalla loro strana attività. Speravo che, come lo era stato fino a quel momento, Ryan rimanesse serio e mi spiegasse tutto quello che volevo sapere, perché, sembrava quasi… interessante, visto dai suoi occhi.
«Quasi vent’anni fa c’era un bambino pestifero, marinava la scuola e non ascoltava mai suo zio –viveva con lui perché i suoi genitori avevano deciso di andarsene e lasciarlo da solo per girare il modo –così, questo bambino, ascoltava le vecchie storie dei meccanici che lavoravano dal suo vicino. Ne era così affascinato che ogni mattina, al posto di andare a scuola, correva nell’officina e si sistemava dentro al cofano vuoto di una vecchia Mustang nera, seminascosto. Sapeva che tutti riuscivano a vederlo, ma quello era il suo nascondiglio. Suo, e del suo amico. L’altro piccolo diavolo che lo seguiva e incitava in tutto. Così ci sono cresciuti, con queste storie. Vecchie leggende del ghetto, quando tutto il Bronx era colmo di bande che si trasferivano qui dalla California. In quegli anni, gli operai di quell’officina si lamentavano, perché c’erano sempre meno gang che sapevano fare il loro lavoro. C’era poca protezione. Non si sentiva più parlare di gang come i Fordham Aggies o dei Fordham Baldies. Non c’erano nemmeno più gli Shamrocks, una gang irlandese che si era trasferita qui, terrorizzando tutti tra gli anni cinquanta e sessanta. Non si sentiva più nei corridoi delle scuole, studenti urlare The Baldies were coming, non c’era nemmeno più l’intervento della polizia. Non c’erano più i biglietti da visita dei Baldies, che rasavano le teste di quelli che incontravano. Non c’erano i Ducky Boys o altre gang, più nulla. Tutto era in sordina per quel fottuto finto trattato che era stato fatto quasi dieci anni prima. E quei due ragazzi non riuscivano a capire perché non ci fosse più niente di tutte quelle storie per colpa dell’Hoe Avenue Peace Meeting. Tu lentiggini, naturalmente non sai di cosa sto parlando, ma il trattato di pace dell’Hoe Avenue è un’assemblea avvenuta il sette dicembre del settantuno qui, nel Bronx. L’avevano indetta perché ci fosse una pace tra le gang, dopo la morte dell’O.G. dei Ghetto Brothers, un uomo che si chiamava Black Benjie. Inutile dire che non c’era stata nessuna pace, solo una negoziazione delle strade perché ci fossero meno vittime. Questo incontro si svolse al Boys Club, sulla Hoe Avenue; c’erano dozzine di gang e anche poliziotti, per placare gli animi in caso di rissa, visto che erano presenti le più importanti gang, come Black Pearls, Savage Skulls, Turbans, Young Sinners, Royal Javelins, Dutchmen, Magnificent Seven, Dirty Dozens, Liberated Panthers, Black Spades, Seven Immortals, Latin Spades, Peacemakers ma soprattutto i Ghetto Brothers. Te l’ho già detto, no? Loro volevano la pace per rivendicare il capo, un ragazzo di venticinque anni; quello che però non ho menzionato prima, è il motivo della sua morte: stava cercando di dividere due gang che volevano combattere. Un fottuto modo del cazzo per morire, non trovi? Un fottuto trattato di pace dove presidenti e vicepresidenti erano seduti in cerchio su sedie di pelle, dietro di loro le rispettive bande e le mogli ad aspettarli fuori al freddo. C’erano solo due donne dentro la palestra del Boys Club: le presidenti delle uniche due gang femminili; Alley Cats e Savage Sisters. Però non erano sedute sul primo cerchio, assieme a tutti i presidenti e vice, erano appena dietro, assieme ai soldati. Così si è concluso quel trattato di pace, dove tutti, per una decina d’anni, hanno deciso di rallentare con le risse da strada. Meno morti, meno sospetti da parte della polizia. Per questo quei due ragazzi hanno deciso di riportare alto il valore di quello che facevano i loro antenati: combattere contro altre gang per avere un determinato territorio. Così, a quattordici anni, hanno formato la loro gang, hanno usato un fazzoletto rosso per simboleggiare il sangue di chi sarebbe morto e hanno deciso che l’unica regola era quella di essere americani. Solo degli Stati Uniti. E sono nati gli Eagles, hanno cominciato a reclutare ragazzi, si sono allenati, e in pochi mesi tutti parlavano degli Eagles. Ma non può esserci solo una banda, no? Se ce ne fosse solo una così forte da dominare tutto non sarebbe nemmeno divertente. Come fai a scippare qualcuno, se poi sai che è sotto la tua protezione? Come puoi sparare a un fratello che la pensa come te? Un paio di mesi dopo sono nati i Misfitous, che all’epoca erano i Misfit Promiscous. Che nome da coglioni, tra l’altro. Poi, non si sa chi, ha deciso di unirlo, perché potessero sembrare più cattivi. Alcuni dicono che noi siamo i discendenti dei Ducks, altri che i Misfitous lo sono dei Socials, detti Socs. La verità è che Eagles e Misfitous sono nati per rendere omaggio a tutte le gang del passato. E poi, un membro dopo l’altro, siamo arrivati agli Eagles che vedi qui attorno a noi». Non aveva mai smesso di parlare, mai. Si era quasi dimenticato della mia attenzione su di lui, impegnato com’era a giocherellare con la sabbia, come se le sue mani fossero una clessidra. Ryan si era dimenticato di me, sopraffatto dai ricordi. Ma quando lui era diventato il presidente degli Eagles? Come era morto il primo? E quanti presidenti c’erano stati prima di Ryan?
«Come si chiamava il primo presidente?». Ryan ne aveva parlato quasi come se l’avesse conosciuto; magari era suo padre o qualcuno che conosceva. La sua reazione mi stupì: mi guardò per qualche secondo immobile, per poi cominciare a ridere così forte da portarsi una mano sulla pancia. Che avevo detto di così comico?
«Lentiggini, delle volte sei così… stupida» sbottò, dandomi una pacca sulla spalla e alzandosi per raggiungere Sick e i gemelli, a qualche metro da noi. Mi lasciò lì da sola, mentre cercavo di capire perché la mia domanda l’avesse fatto ridere così tanto.
«Che cosa gli hai detto di così divertente?» sogghignò Brandon, prendendo il posto di Ryan di fianco a me e togliendosi la sabbia che gli sporcava le ginocchia. Mi guardò, sorridendo tranquillo, come se sapesse quello che mi aveva raccontato Ryan. Che l’avesse sentito, nonostante il tono basso? O forse, visto che Brandon era il suo vice, si erano messi d’accordo prima?
«Gli ho chiesto qual è il nome del primo presidente degli Eagles, quello che si nascondeva con il suo amico dentro al cofano vuoto della vecchia Mustang. Era suo padre o…». Idiota, ecco cos’ero. Ryan aveva pienamente ragione. Lui era il primo presidente degli Eagles e Brandon il suo amico, quello che l’aveva sempre appoggiato in tutto.
«Ora hai capito?» domandò, sempre di buonumore. Sembrava davvero rilassato lì, seduto su quel tronco, in riva all’oceano, mentre il sole lo colpiva in pieno viso, costringendolo a portare un paio di occhiali da sole che nascondevano i suoi occhi azzurri.
«Sì. Ma c’è una cosa che Ryan non mi ha spiegato. E visto che tu sei il suo vice… mi chiedevo: che cosa sono le Signore?». Mi ero fatta un’idea, ma preferivo saperlo da Brandon, così da capire bene a cosa si riferisse chi mi chiamava in quel modo.
«Le Signore sono le fidanzate o le mogli. Le ragazze di un componente. Quasi tutte le gang quando fanno le feste si divertono, ci sono ragazze come Butterfly che sono pronte a soddisfarci. Però, se uno ha una Signora, non la tradisce, capisci? Se qualcuno di noi avesse una Signora e noi vedessimo che la sta tradendo, dovremmo allontanarlo dagli Eagles. Non puoi trombare con una puttana, se hai una Signora che ti aspetta a casa, qualche lavoretto di bocca, ma è il massimo che puoi fare, capisci? C’è rispetto per le nostre Signore e non puoi tradirle. Forse per te anche questo è tradire, ma… è come se fosse un modo per sfogarsi» concluse, imbarazzato. Sembrava si fosse reso conto dopo dei termini che aveva usato; lui, che era sempre così serio e posato sembrava quasi aver preso la strana malattia di Sick.
«E nessuno di voi ha una Signora, o l’ha mai avuta?». In fin dei conti Butterfly parlava come se andasse a letto con tutti loro, e non avevo mai visto donne entrare o uscire dal loro appartamento: esclusa Butterfly, ovviamente.
«Adesso no, però ce ne sono state. Ma dovresti capire anche tu che non è così facile essere la Signora di uno di una gang. So che nei Misfitous Mike ha una Signora da un paio d’anni, è una ragazza che lavora in un negozio a New York, Kristin o una cosa così. Ma non si parla con le Signore delle altre gang, perché poi riferiscono. Non sono importanti come un Hard-cores, ma ti tengono per le palle, capisci? Hanno il potere». Quella sua strana affermazione mi fece ridere. Si stava davvero sforzando di non essere volgare, ma ogni tanto, quando si immergeva nel discorso, gli scappava qualche termine poco fine.
«E chi degli Eagles ha avuto una Signora?». Non sapevo davvero chi di loro fosse il tipo da avere una ragazza. Ryan, forse? Non me lo immaginavo di certo mentre portava cioccolatini o fiori a San Valentino. Nemmeno Sick era quel tipo.
«Sick. Ha avuto una Signora per un paio di mesi, era perso per lei o meglio, per le sue tette. A lei non è mai interessato molto di lui, diciamo che si divertivano assieme, e si sentiva, credimi. Poi lei è scappata in Italia e si è sposata con il ragazzo di sempre. Era anche simpatica, ma non nominarla a Sick, altrimenti comincia a raccontarti la storia, e credimi che va nei particolari delle loro sessioni… porno. Non nominare mai, mai, il nome di Claire con lui vicino, d’accordo?» sussurrò, guardando verso Sick che continuava a ridere, sorseggiando una birra. Annuii convinta, senza smettere di ridere all’immagine di Sick innamorato. «E poi Dollar. Sono convinto che è ancora innamorato di lei, ma non lo ammetterà mai. Dollar fa tanto il forte, ma lo sappiamo tutti che ha sedici anni, e lo sanno anche i suoi ormoni ogni volta che si avvicina a lei. Ci è cresciuto assieme, insomma. Infine, l’ultimo che ha avuto una Signora, per ben tre anni, sono stato io. Ma mi ha lasciato, quindi, perdonami, ma al momento non sono interessato a storie serie con te, Lexi». Ammiccò, facendomi ridere. Apprezzavo la sua sincerità e sapevo anche che era una battuta. Io non ero interessata a Brandon, non ero interessata a nessuno di loro, in verità.
Però, sapere che alcuni di loro, nonostante la vita tra pistole, risse, droga e morte, fossero dei ragazzi normali, con la voglia di costruirsi una famiglia, me li faceva amare ancora di più.
Non era un amore carnale, era come se fossero degli amici, come se dovessi proteggerli. Una cosa stupida, visto che in teoria, guardando la stazza fisica, era il contrario.
Ryan richiamò Brandon di fianco a lui per accendere il fuoco, e dopo essermi alzata per sgranchirmi le gambe, mi avvicinai a loro, sedendomi di fianco a Dollar che pensò fosse una buona idea circondarmi le spalle con un suo braccio.
«Così stai più calda, con quella canottierina prenderai freddo». La sua giustificazione era talmente stupida e infantile che liquidai la faccenda con una battuta. In verità, un paio d’ore dopo, il braccio di Dollar mi serviva davvero come coperta. Mi ero dimenticata di portarmi una felpa, cosa che i ragazzi avevano. Dollar aveva insistito tanto per prestarmi la sua, ma con la scusa di essere abituata alle feste in spiaggia e il fuoco a scaldarmi, riuscii a non accettare. Non volevo che si ammalasse per colpa mia, mi sarei sentita in colpa.
Ridacchiai, sentendo la battuta idiota di Sick riguardo una ragazza che ci aveva provato con lui –senza successo, perché era brutta – quando il cellulare di Ryan squillò, attirando l’attenzione di tutti che si zittirono.
«Che c’è?» sbottò Ryan, portandosi il ricevitore all’orecchio. Nessuno gli staccava gli occhi di dosso, in attesa di capire chi l’avesse disturbato. L’espressione di Ryan mutò all’improvviso: il sorriso che aveva fino a qualche istante prima svanì, lasciando spazio a una sorpresa iniziale che si tramutò in rabbia e forse in qualche altra emozione. «Dove sei?» domandò di nuovo, alzandosi in piedi e spegnendo il fuoco davanti a noi ricoprendolo con delle pedate di sabbia. «Dove cazzo lo stanno portando?» strillò, facendomi sussultare spaventata. Ryan sembrava fuori di sé: tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla, si slacciò la felpa, chiudendo subito dopo la chiamata con un ringhio.
I ragazzi erano già tutti in piedi, con i rispettivi caschi in mano, pronti a partire nonostante non sapessero di cosa si trattasse. «Cosa succede?» domandò Brandon, a voce di tutti.
«JC. Aria mi ha chiamato, stava andando a salutarlo finito il turno al Phoenix e quando è arrivata in officina l’ha trovato per terra. Gli hanno sparato su un fianco e ha un punto rosso disegnato sulla fronte. Sono stati loro, cazzo. Perché siamo stati così stupidi? Perché cazzo siamo venuti al mare? Lo sanno che veniamo qui ogni anno, perché prendersela proprio con JC, cazzo? Non è nemmeno un Hard-Cores, non sarà arrivato alla sua pistola, porca puttana». Ryan indossò il casco, tendendomi l’altro perché seguissi il suo esempio. Nessuno parlava, nessuno osava contraddirlo, anche perché, ne ero convinta, sarebbe stato stupido farlo. Era furioso, molto più di quando erano morti Liam e Shake. Ma, mi sembrava di aver capito che JC fosse ancora vivo. «Tieni, mettiti questa». Mi porse la felpa che si era levato qualche minuto prima, perché la indossassi.
«Ryan, tienila tu» mormorai, sicura che lui avrebbe sentito molto più freddo di me, visto che il suo corpo, durante il viaggio in moto, mi avrebbe riparata dal vento freddo della notte newyorkese.
«Indossa questa fottuta felpa prima che ti faccia seriamente del male». La strattonò, lanciandomela quasi addosso. Forse non dovevo più contraddirlo, non era il momento e di certo non stava scherzando. Chiusi velocemente la zip, cercando di arrotolare le maniche decisamente troppo lunghe. «Adesso ti porto a casa e poi noi andiamo al St. Barnabas, Aria ci aspetta lì. Voglio arrivare prima che sia troppo tardi, Aria ha detto che ha perso troppo sangue». Aria era in ospedale con JC? Perché?
«Voglio venire in ospedale con voi, vorrei stare con Aria». Probabilmente Ryan mi avrebbe uccisa. Questa idea mi terrorizzò al punto che cercai di raggomitolarmi su me stessa, mentre mi sistemavo sulla sua moto.
Mi aspettavo una nuova sfuriata che non arrivò: Brandon gli appoggiò la mano sulla spalla, attirando la sua attenzione. Quando Ryan lo guardò, cercò di respirare profondamente, fermandosi.
«Aria ne avrà bisogno e se non la portiamo a casa arriveremo prima» suggerì Brandon. Quell’idea sembrò convincere Ryan che, annuendo, salì in moto, dando gas per accenderla.
Il viaggio di ritorno non era paragonabile a quello dell’andata. Se, quella mattina, Ryan faceva l’idiota correndo, in quel momento non si rendeva nemmeno conto della velocità a cui ci muovevamo: il vento che fischiava anche se avevo il casco, l’aria che mi feriva come se fossero stati dei coltelli sulle gambe e la mano di Ryan appoggiata alle mie, che stringeva la presa, come se avesse paura che potessi volare via.
Ero appiattita contro di lui, cercando di scaldarlo; sapevo di non riuscirci, ma cercavo di abbracciarlo il più forte possibile, anche per non essere catapultata via dalla moto. Non sarebbe mai successo con la presa salda delle dita di Ryan attorno ai miei polsi.
Quando, quasi un quarto d’ora dopo, arrivammo davanti al Pronto Soccorso del St. Barnabas, i motori delle moto dei ragazzi si spensero contemporaneamente. Ryan lasciò la presa sulle mie mani, mettendo il cavalletto alla moto e scendendo subito dopo. Si allontanò, seguito da Brandon e dagli altri, senza nemmeno aspettarmi, tanto che, dopo essere scesa dalla moto con qualche problema, cominciai a correre per raggiungerli. Quando ci riuscii, avevano appena parlato con l’infermiera all’accettazione, che indicò un corridoio alle sue spalle.
Ryan, Brandon e Dollar davanti, Sick e i gemelli dietro e io per ultima.
Dollar aprì la porta, ansioso forse più di Ryan di sapere come stesse JC, ma, quando entrai anche io, rimasi pietrificata dalla scena: Aria, stretta tra le braccia di Dollar che la cullava, stava piangendo; i suoi singhiozzi erano gli unici rumori che si sentivano.
«Mi dispiace così tanto, Aria» mormorò Dollar, accarezzandole la schiena lentamente.
JC non ce l’aveva fatta, così aveva singhiozzato Aria, senza smettere di piangere tra le braccia di Dollar. Quando lui la accompagnò fuori per farle prendere una boccata d’aria, un silenzio quasi doloroso calò dentro alla sala, fino a quando, in lontananza, sentii il rumore dei fuochi d’artificio del quattro luglio: la gente festeggiava l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, noi, invece, eravamo in un corridoio d’ospedale, sconvolti dalla morte di JC.
Non c’era assolutamente niente da festeggiare, e il rumore di quei botti cominciava a innervosirmi: diventava sempre più forte e più frequente, entrandomi dentro e confondendomi.
Socchiusi gli occhi, cercando di calmare il mio respiro e, nel momento in cui li riaprii, il rumore dei fuochi d’artificio cessò: un silenzio sordo, che mi terrorizzò, di nuovo.

 
 
 
 
Se c’è qualcuno ancora sveglio, vi prego, battete un colpo! :D
Siete sveglie e pronte? Perché dopo un capitolo lungo il doppio, ci sono anche le note!
Duuuunque, prima di tutto, se siete arrivate fin qui, vi ringrazio, vuol dire che qualcosina-ina di gang vi interessa (o forse vi interessa il morto? Mah). In ogni caso, ci terrei a specificare delle cose, per essere precisi e per ricordarvi, come sempre, che non invento e tantomeno copio da qualche telefilm o altro.
Dunque, prima di tutto partiamo dallo scoppio di Lexi: non era preventivato, nel senso che non l’avevo mai pensato, poi, mentre scrivevo, mi sono messa a piangere con lei, perché in qualche modo mi sembrava ne avesse bisogno e forse è questo il motivo per cui, il giorno dopo, affronta tutto con più serenità. È come se si fosse liberata di tutte le emozioni che ha incamerato da quando è arrivata e fosse pronta a ricominciare di nuovo. Una cosa è certa: si è resa conto di quello che è successo, però, anche se sembra un comportamento strano, non riesce a staccarsi da Brandon, perché deve rimanere aggrappata alla realtà.
Per quanto riguarda la parte storica, la storia dell’OG, dei nomi da strada, della morte del capo (che è l’unico modo per uscire dalla gang) e dei Maya che portano i soldi e vengono derubati perché non hanno documenti e quindi non possono denunciare nessuno alla polizia… è tutta vera. L’ho trovata scritta in più saggi e interviste, e siccome mi sembrava carina, ho deciso di metterla. Spero che dopo la precisazione che Ryan è l’OG degli Eagles, sia chiaro il perché hanno quel rapporto con lui: non è paura, semplicemente rispetto per il loro capo. E da qui nasce anche la differenza di comportamento tra gli Eagles e Brandon. Lui, oltre a essere il vice e avere quindi più potere rispetto agli altri, è sempre stato amico di Ryan, un po’ come se fosse un po’ OG anche lui, ecco. Ah sì, in SoA tutti hanno un grado, pensavo questa cosa fosse inventata, ma alla fine non lo è, semplicemente, il loro ‘Presidente’ è l’OG delle gang di NY, ecco. Per il resto è uguale, tranne la differenza di alcuni nomi (da Gonna Be a Prospect).
L’Hoe Avenue Peace Meeting è avvenuto sul serio e tutto quello che ho scritto a riguardo è vero; il nome delle gang, le due gang di ragazze che, pur essendo ammesse non avevano il privilegio di rimanere sedute nella prima fila assieme a tutti gli altri presidenti, le mogli che attendevano fuori… tutto vero, anche la parte dell’OG dei Ghetto Brothers che è stato assassinato perché cercava di fermare una rissa tra due gang. Questo perché lui era per la pace tra le gang, e cercava di convertire tutti (da questa idea i GB avevano cercato di convertire le gang con l’Hoe Avenue Peace Meeting. Cosa che non è successa, come ho scritto).
Cosa è inventato? La storia degli Eagles, naturalmente. Da quando Ryan entra in gioco tutto è falso, anche perché, nonostante io vi abbia detto che Eagles e Misfitous sono basati su Bloods e Cribs, questi non sono delle gang nate per riportare alto l’onore delle gang. Dopo l’HAPM tutte le gang hanno continuato con il loro lavoro, con la nascita di altre gang.
Ancora una volta, il concetto di Signora l’ho preso da Sons of Anarchy, dove succede esattamente quello: non puoi tradirla con un rapporto completo perché gli altri ragazzi possono anche escluderti dalla banda. Diciamo che, in qualche modo, ha un senso. Se pensiamo che sono circondati da ragazze… espansive (chiamiamole così) che cercano in tutti i modi di diventare Signore (per la protezione, il potere e la fama che si ha con questo ruolo), capiamo che per un uomo non è facile resistere. Sarebbe come vivere perennemente in un video di 50 cent senza poter muovere un muscolo. Quindi, chi non ha Signora è libero di muoversi anche troppo, chi invece ce l’ha, deve stare attento a quello che muove. Rapporto completo: esclusione dalla gang e in ogni caso si dice alla Signora che l’uomo l’ha tradita. C’è tanto rispetto per le donne, dico davvero.
Ultima cosa, poi giuro che ho finito: il punto rosso che JC ha in fronte è il biglietto da visita dei Misfitous. Quello degli Eagles non l’ho volutamente mai nemmeno menzionato, perché fino a questo momento non vi interessava. Perché un punto rosso? Perché non ho trovato di meglio. Ahahha, no, seriamente: avevo pensato a qualcosa che potesse ricordare il fatto che sono emarginati, che sono di tante etnie e l’unica cosa che aveva un senso, forse, era un punto rosso che simboleggia l’unione di diversi tipi di sangue, di diverse etnie, ecco.
Volevo qualcosa di ‘significativo’ un po’ come i Baldies (quelli di the Baldies were coming) che rasavano le teste come biglietto da visita. Un codice, ecco: testa rasata? Hai incontrato i Baldies.
In SoA, ad esempio, loro lasciano la A cerchiata (simbolo degli Anarchici), e un’altra banda lascia la croce uncinata, per farvi capire che questa cosa non è inventata né da me, né tantomeno da Sutter.
La morte di JC… diciamo che è un avvenimento importante, perché, visto che lui non è un Hard cores, ma semplicemente un Associates, è come se i Misfitous avessero aperto una sfida. Ma mi fermo qui, per non spoilerare troppo, suvvia!
Detto questo, credo davvero di aver sforato anche con le note (c’è un limite per le note?) e quindi, come sempre, ringrazio preferiti, seguiti, da ricordare, chi ha anche il coraggio di inserirmi tra gli autori (che non è una parola che mi descrive) preferiti, chi legge e chi commenta. Non so mai come ringraziarvi davvero, perché siete sempre tantissimi!
Infine, come sempre, vi ricordo che potete trovarmi qui: NERDS’ CORNER. È il gruppo spoiler, dove, tra l’altro, ho già inserito i volti dei due nuovi Gonna-Be degli Eagles. Vi ricordo che iscrivervi è gratis e non c’è tassa, sapete però, che se lo fate è a vostro rischio e pericolo, perché rompo le palle spesso.
Chiudo davvero, stavolta.
Grazie ancora, se siete sveglie e vive.
Rob.

 

   
 
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