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Autore: Absteria    20/04/2012    5 recensioni
Avete provato ad immaginare che cosa succede dopo l'ultima puntata di Ris Roma 2?
Be', io sì, e questo è il risultato! Long nata dalla mia perversa immaginazione e dall'impazienza di aspettare che la prossima serie vada in onda!
Buona lettura!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Ciao a tutti!
Scusatemi per il tremendo ritardo, spero che vorrete perdonarmi... Purtroppo tra impegni vari è venuto meno il tempo per la scrittura, scusatemi, davvero, credo che la vergogna mi stia divorando... Quindi, meglio non pensarci e andare avanti!
Un grandissimo grazie a coloro che hanno recensito il secondo capitolo (ludoNy, Axen, Clappy e Mixi_), che hanno messo la storia tra le seguite (8giusy8, Axen, Clappy, Dubhe92, ludoNy e Twenties Girl) e un ringraziamento immenso a Breastroke e  Lisbeth17, che hanno messo la storia tra le preferite. 
Ora vi lascio alla lettura, avete aspettato anche troppo! 
Spero che il capitolo vi piaccia, l'ho scritto di getto, quindi non sarà un granché...
Buona lettura! :D
Absteria


***



Lunedì, 11 Luglio 2011. Ore 6:45 A.M. Villa al mare del Capitano Ghirelli. Roma.

 
Traccia 1 – Chop Suey, System of a Down.
Fu questa la rumorosa ed efficacie sveglia del Capitano Ghirelli.
Orlando ormai era diventato praticamente un fantasma: passava quasi tutte le sere a casa della Brancato, ma quando dormiva a casa di Ghiro – il che avveniva quasi ogni domenica e solo  occasionalmente di settimana – si faceva letteralmente sentire.
A Ghiro non dispiacevano le canzoni che ascoltava il suo coinquilino invisibile, ma odiava due cose: essere svegliato e che qualcun altro gli rubasse il posto di dj in casa propria.
Spaparanzato, come al solito, sul letto a due piazze della propria camera da letto, Daniele Ghirelli si svegliò di soprassalto disturbato dal frastuono della musica che, più efficacie di una doccia fredda, lo fece resuscitare da quella morte apparente in cui era piombato qualche ora prima.
“Orlando!”, urlò con la voce impastata dal sonno, “la musica!”
“Come?”, rispose quello fingendo di non capire, “non ti piace la musica?”
“La musica, Orlando! Spegni la musica!”
Questa volta invece gli lanciò un messaggio abbastanza chiaro: “ti alzi e la spegni da solo”, ovvero: ti devi svegliare immediatamente.
“Ma perché me lo sono messo in casa questo?”, si chiese il Capitano, ma non riuscì nemmeno a sentirsi a causa della musica; ripeteva quella frase praticamente ogni volta che Orlando metteva piede nella sua villa al mare. Ma in fondo gli voleva bene.
Capendo che il suo amico non avrebbe mai spento la musica e che, finita quella traccia, ne sarebbero partite altre che con tutte le probabilità sarebbero state decisamente più chiassose, il padrone di casa ormai rassegnato abbandonò il letto e spense lo stereo facendo un grande regalo alle proprie orecchie.
“Almeno il caffè lo hai preparato?”
“Certamente, Capitano”, rispose Orlando dalla verandina fuori dalla stanza del Ghiro, dove era intento a fare colazione.
“Ah, ecco, almeno questo...”, il Capitano Ghirelli parlava ancora tra se e se mentre si sedeva fuori al tavolino anche lui per fare colazione; poi, rivolto all'amico Tenente, aggiunse a voce alta: “ma da quand'è che sei così mattiniero? E' prestissimo: non sono nemmeno le sette...”
“Ma tu lo sai a che ora suona la sveglia di Lucia?”, chiese lui cercando di nascondere l'orgoglio per lo spirito responsabile da buon Capitano del R.I.S. della propria ragazza.
“No, a che ora?”
“Alle sei e un quarto”, disse Serra scandendo bene ogni parola.
A Ghiro il caffè andò di traverso. “Cosa? Alle sei e un quarto?!”, ripeté con un tono di voce a metà tra il sorpreso e lo scioccato. “Ma quella è pazza.”
“No, è il Capitano”, la giustificò Orlando, “e tu dovresti prendere esempio da lei.”
“Che cosa?! Tu sei matto...”, cominciò a blaterare, “io! Prendere esempio da lei, arrivare presto la mattina, io?! Tu non ci stai più con la testa...”
“Sì, certo”, rispose lui senza pensarci troppo, tanto per accontentarlo. Era evidente che l'amico si fosse svegliato male, ed era proprio quella la questione che più gli premeva discutere ma, per la prima volta, non sapeva se sarebbe stato meglio parlarne subito o aspettare ancora un po'. Poi gli tornarono in mente le parole che Lucia gli aveva detto la mattina prima: 'sono un tantino in ansia per Daniele, da un po' non mi sembra più lo stesso, sai che cosa gli succede?', gli aveva chiesto con voce tremula ed una piccolissima ruga sulla fronte, proprio in corrispondenza del naso; non aveva saputo risponderle, anche se si era posto lui stesso quella domanda qualche giorno prima; ora era arrivato il momento di fare un bel discorsetto con il proprio migliore amico.
“Senti, Ghiro, sai che di me ti puoi fidare, giusto?”, gli chiese con cautela non appena ebbe finito di addentare una fetta biscottata con del burro spalmato sopra.
Daniele esitò un momento: non capiva dove l'amico volesse andare a parare con quel discorso; poi, con espressione dubbiosa, rispose “sì, certo Orlando”, la voce tutto sommato sembrava sincera.
“Allora cosa aspetti a parlare?”, incalzò obbligandolo a guardarlo negli occhi.
“A parlare? E di che?”, non era finzione, Daniele era veramente confuso dalle parole del coinquilino.
“Di te, di quello che ti sta succedendo. Quante volte te lo devo dire? Fa male tenersi tutto dentro. Lucia ed io siamo preoccupati per te...”, poi si interruppe notando l'espressione di Ghiro, confusa e sorpresa allo stesso tempo, “...o pensavi che non ce ne fossimo accorti?”
“Be', sinceramente sì, ero convinto che non vi foste accorti di nulla”, rispose. Si era sentito abbandonato durante quell'ultimo periodo, perché credeva che i suoi amici più cari non si fossero accorti completamente di quello che gli passava per la testa. Era un sollievo scoprire che in realtà non era così, ma ora si trovava anche in un bel pasticcio: come avrebbe fatto a spiegare tutto ai due quando nemmeno lui sapeva bene che cosa gli stesse accadendo.
“Ghiro”, disse con voce un po' delusa, un po' incoraggiante, un po' sorpresa e con un pizzico di rimprovero, “ma certo che ce ne siamo accorti: noi siamo i tuoi amici, ci siamo sempre per te, lo sai. E' solo che pensavamo che ti servisse un po' di tempo e che poi ti sarebbe passato tutto o che ce ne avresti parlato. Non pensavamo che ti saresti chiuso in te stesso in questo modo; rischi di esplodere se vai ancora avanti così.”
“Sì, forse hai ragione: la situazione mi è un po' sfuggita di mano”, disse con sguardo basso; non si vergognava di parlare di se con lui, si vergognava di aver pensato che lui non si fosse accorto di niente o, peggio, di aver pensato che non gliene fosse importato niente. Anche perché sapeva che, anche se Orlando non glie l'avrebbe mai detto, questa era una cosa che lo feriva e lo offendeva. “Possiamo parlarne in un altro momento, però: rischiamo di fare tardi al R.I.S.”, si salvò così, per quella volta, ma non avrebbe retto a lungo: prima o poi avrebbe dovuto parlare con i suoi amici.
“Ghiro”, lo richiamò il Tenente.
“E Dai, Orlando! Non ho mica detto 'no', ho detto soltanto 'in un altro momento'”, insistette Ghirelli.
“Va bene, Capitano”, si arrese, “ma bada che non me ne dimentico!”, lo avvertì, e la sua espressione confermava in qualche modo ciò che dicevano le parole.
“Tranquillo, ne riparliamo”, lo rassicurò Daniele, “parola di boy scout”, disse ed entrambi sorrisero. “Ora però, se permetti, mi vado a sciacquare la faccia: ho promesso a Lucia che oggi mi avrebbe trovato riposato, e non è mia intenzione non mantenere la parola.”
“Come desidera, Capitano”, lo sfotté Orlando. “Ci vediamo alla macchina tra venti minuti”, disse infine, e sparì verso la cucina prima ancora che Daniele potesse avere il tempo di alzarsi dalla sedia.
 
 
 
Ore 7:00 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
Nonostante fossero trascorse solo un paio d'ore dal sole sorgente e i passeri sugli alberi della caserma avessero appena cominciato a cantare, Lucia Brancato era già seduta sulla sua comoda poltrona nera, davanti alla scrivania del proprio ufficio al R.I.S. a smistare carte e documenti. Odiava dover risolvere le questioni burocratiche, era noioso; ma lei era il Capitano, e sapeva bene che questo non significava soltanto portare tre stelline sul petto o dare ordini a destra e a manca: essere il Capitano comportava grosse responsabilità...e qualche firma sui documenti per ferie, licenze e libere uscite. Mentre tutti fuggivano dalle città per andare in vacanza, solamente lei ed i suoi uomini,  eccetto Bartolomeo, che dopo la cattura di Mario Pugliese si era sposato ed aveva preso una licenza di tre giorni per la luna di miele e Ghiro che era andato a trovare Selvaggia a Londra, non avevano ancora preso nemmeno un giorno di ferie. Colpa del Lupo, ovviamente.  E questa era l'ennesima dimostrazione di quanto i suoi collaboratori tenessero a lei; come diceva Orlando: avrebbero sacrificato la loro stessa vita per salvare la sua, ed in qualche modo Lucia sapeva che era la verità; si fidava di loro ciecamente, e se un tempo il Tenente Serra era stato un'incognita, ora costituiva il suo punto più fermo. Inoltre anche lei non avrebbe esitato a sacrificare la propria vita per salvarne una qualsiasi di un membro della sua squadra, sopratutto se si fosse trattato del Tenente Serra. Era questo il bello di lavorare in gruppo; all'interno della sua squadra ormai non c'erano più semplici colleghi, erano tutti amici e per alcuni, come per Daniele, lei stessa aveva sviluppato un amore fraterno, per altri invece una forte amicizia, un profondo rispetto, o ancora un amore un po' meno fraterno...
Mentre compiva meccanicamente i gesti di timbrare e firmare, lo squillo del cellulare interruppe il filo dei suoi pensieri. Guardò il nome sul display: Mag. Rambaudi. A quanto pare anche lui si svegliava presto la mattina.
“Capitano Brancato”, rispose.
“Buongiorno Capitano, scusi per l'ora...”
“Non si preoccupi, sono già in ufficio. Mi dica pure.”
“Ha chiamato la centrale: hanno ritrovato il cadavere di una donna accoltellata al numero 22 di via Cavour. Serve qualcuno dei suoi uomini sul posto.”
“Certo, ne mando subito un paio”, acconsentì efficientemente il Capitano, “arrivederci Maggiore, e buona giornata.”
“A lei, Capitano. Arrivederci”, la salutò e chiuse la conversazione.
Il Capitano Brancato sapeva già chi chiamare. Compose in fretta il numero sulla tastiera del cellulare: lo conosceva a memoria.
Il destinatario della chiamata rispose al primo squillo.
“Pronto, amore!”, disse, Orlando era felice di sentirla. Ghiro, accanto a lui sul sedile della macchina, alzò gli occhi al cielo: detestava le sdolcinatezze.
“Ciao Orlando, stavi dormendo? Mi rendo conto che sono solo le sette e mezza e magari...”
“Ma no, che dici?”, la rassicurò lui, “sono già in macchina, stavo per mettere in moto per venire al R.I.S. proprio in questo momento”, le spiegò e poi, sorridendo, aggiunse: “inoltre penso che tu mi abbia contagiato l'abitudine a svegliarmi presto.”
“Purtroppo è così!”, urlò lamentandosi Ghiro per farsi sentire anche da Lucia.
“Vedo che sei in compagnia”, constatò il Capitano sentendo la voce del suo migliore amico dall'altra parte. “Di' a Daniele che gli mando un bacio.”
“Certo tesoro.” Ghiro sbuffò: un'evidente reazione alla parola 'tesoro'.
Mentre riordinava i documenti già firmati, Lucia sentì chiaramente Orlando che mandava i suoi saluti a Daniele e poi, più meno distintamente il suo tono scocciato mentre diceva al Tenente di ricambiare.
“Ricambia”, le comunicò il compagno.
“Grazie”, disse sorridendo. “Ora però veniamo al dunque: ha chiamato Rambaudi, ha detto che è stato ritrovato il cadavere di una donna accoltellata in via Cavour, numero 26.”
“Non c'è problema: andiamo io e Daniele”, rispose subito con spirito di iniziativa.
“No, preferisco che andiate tu, Bart ed Emiliano, Daniele lo voglio qui al R.I.S., gli devo parlare.”
“Va bene, allora io vado direttamente lì e Ghiro prende la moto e viene da te in ufficio. Ci vediamo dopo.”
“A dopo”, disse Lucia ricambiando il saluto, poi riattaccò.
Avvisati anche il Tenente Dossena ed il Sottotenente Cecchi, il Capitano tornò ad occuparsi delle sue tanto amate firme sulle licenze.
 
 
 
Ore 8:27 A.M. Via Cavour, 26. Roma.
 
Sasso arrivò come sempre in anticipo sul luogo del delitto. Il cadavere si trovava in cucina, l'aveva trovato uno dei figli della vittima, la signorina Raimondi, prima di uscire per andare a lavorare, aveva avvertito il fratello che viveva anche lui con la madre e poi insieme avevano chiamato un'ambulanza ed i Carabinieri. Sembravano entrambi disperati per la perdita della madre.
Pochi minuti dopo la territoriale, gli uomini del Capitano Brancato, a breve distanza di tempo l'uno dall'altro, onorarono con la loro presenza la scena del crimine.
Il primo ad arrivare fu Serra che, dopo aver posteggiato con una manovra perfetta, uscì dalla macchina con sguardo fiero, deciso e sicuro di sé; più che un Carabiniere sembrava un agente segreto. Per ingannare il tempo nell'attesa degli altri due colleghi cominciò a fare quattro chiacchiere con i figli della signorina Raimondi.
Dieci minuti dopo il Tenente Bartolomeo Dossena, con gli occhi chiari coperti da un paio di occhiali da sole, scese dalla macchina con la sua solita aria da 'bello e impossibile'. Solo un minuscolo dettaglio, ma non per questo trascurabile, lo smentiva rovinandogli l'immagine: un piccolo anello d'oro bianco posto sull'anulare della mano sinistra, brillava alla luce del sole, irradiando lucentezza come se volesse farsi notare. La fede di matrimonio, la perfetta concretizzazione del proprio amore per la sua Eleonora.
Non passarono nemmeno sessanta secondi dall'arrivo di Bartolomeo, che un'altra automobile, sicuramente più modesta, occupò l'ultimo posto rimasto davanti il portone di casa Raimondi. Con le sue consuete occhiaie, dallo sportello anteriore sinistro sbucò Emiliano Cecchi che, nonostante la stagione pienamente estiva, indossava il solito giubbotto in pelle marrone.
Mancava solo il medico legale, ma gli investigatori, una volta al completo, decisero di cominciare comunque a fotografare e repertare gli oggetti sulla scena del crimine e ad esaminarne le condizioni.
“La porta di casa non è stata forzata”, constatò il Tenente Serra.
“Buono”, commentò Sasso, “questo restringe il campo: vuol dire che la vittima conosceva l'assassino e l'ha fatto entrare.”
“Sì, Sasso, lo sappiamo....”
“E l'ho capito, scusa!”, esclamò offeso, “era solo per farti capire che stavo attento pure io. E comunque, se ti interessa saperlo, Giovanni, uno dei figli della Raimondi, dice di essere stato svegliato dal suono del campanello alle sette meno venti; dice di aver controllato l'orario e di essere tornato a dormire, e dato che l'altro figlio, Alessio, sostiene di non aver sentito niente e di non essere mai uscito dalla stanza fino al momento del ritrovamento, la porta la deve avere aperta lei.”
“Questo è interessante, Sasso, grazie”, gli rispose il Tenente Serra sorridendogli, come per tentare di farsi perdonare.
“Prego”, rispose il Tenente Sasso ancora un po' offeso per ciò che Orlando aveva detto poco prima.
Mentre Orlando e Fabrizio controllavano l'ingresso, nella stanza accanto (la cucina) Bart ed Emiliano repertavano tutti gli oggetti interessanti. Bart trovò un coltello appena lavato nel lavandino; bastò un semplice esame con il luminol per etichettarlo come arma del delitto. Purtroppo però sopra non c'erano impronte. Milo nel frattempo fotografava ogni singolo schizzo di sangue con l'intenzione di utilizzare il B.P.A. per stabilire orientativamente l'altezza dell'assassino una volta  in laboratorio. Purtroppo sul pavimento non c'era nessuna impronta, e sul cadavere e sui vestiti di Silvia Raimondi non albergava alcuna traccia organica dell'assassino.
Quando ognuno ebbe finito la propria parte di lavoro, si ritrovarono tutti nella camera da letto della  vittima. Dopo che si furono accertati che nemmeno lì ci fossero tracce che non ci dovevano essere, cominciarono la loro riunione.
A turno, ognuno riferì ciò che aveva trovato; a cominciare da Orlando.
“La porta d'ingresso non è stata forzata, ma non ci sono impronte sulla maniglia, né dalla parte esterna né da quella interna. L'assassino deve aver indossato dei guanti.”
“Nemmeno io ho trovato impronte sulla maniglia della porta in cucina”, intervenne Emiliano, “ed inoltre ho notato che la vittima c'aveva le presine, quelle che si usano per cucinare. Questo spiega perché non ci sono nemmeno le sue di impronte: non ne ha lasciate e quelle che c'erano le deve aver cancellate passandoci sopra le mani coperte dalle presine.”
“Chi ha fatto le foto?”, chiese il Tenente Serra.
“Io”, si fece avanti Milo, “gli schizzi di sangue almeno c'erano, appena arrivo in laboratorio inserisco i dati nel B.P.A.”
“Perfetto. Bart?”
“Io ho trovato l'arma del delitto”, disse, e la mostrò da dentro la busta di plastica dove era stata inserita durante il repertamento, “è un semplice coltello da cucina, l'ho trovato nel lavandino dove era stato appena lavato. Anche qui niente impronte. Ma Carnacina?”
“Buongiorno a tutti”, disse una voce alle loro spalle. Si voltarono in sincrono e scorsero lui, Mimmo Carnacina, appoggiato allo stipite della porta che ricambiava loro lo sguardo un po' compiaciuto di averli colti di sorpresa. “Aspettavo il momento giusto per la mia apparizione”, disse semplicemente.
“Parli del diavolo...”, commentò tra sé e sé Bart sottovoce. 
“Buongiorno Carnaci'”, disse Emiliano rispondendo al saluto.
“Hai già esaminato il cadavere? “, chiese interessato Bartolomeo.
“E me lo chiami cadavere quello?”, chiese ironicamente il medico legale, “quella è morta da un'ora al massimo!”
“Carnacina...”, lo esortò Orlando.
“Sì, l'ho esaminato. La donna è stata letteralmente pugnalata alle spalle: presenta un solo colpo inferto alla schiena, al lato sinistro esattamente all'altezza del cuore; è morta immediatamente.”
“E l'arma del delitto....”
“Sì, i contorni della ferita coincidono perfettamente con il tipo di lama del coltello repertato dal nostro caro Bartolomeo”, rispose a Serra prima ancora che finisse di porre la domanda; poi si rivolse a Dossena: “e se quello è sporco di sangue mi sa che hai fatto centro.”
Bartolomeo annuì.
“Bene, non penso che vi serva altro, per il momento. Tolgo il disturbo”, disse. Si voltò ed uscì dalla stanza mimando un cenno di saluto con le mani.
“Arrivederci”, ricambiarono gli investigatori, quasi tutti nello stesso momento.
Dopo l'uscita di Carnacina, la riunione riprese. Fu ancora Orlando che, nonostante fossero parigrado, batteva Bartolomeo per anzianità di servizio, a prendere in mano la situazione.
“Mi sembra che abbiamo fatto il punto della situazione. C'è altro?”, chiese.
“'Un me pare, no”, rispose Milo dopo averci pensato due secondi.
“Purtroppo no”, sospirò Bart un po' scoraggiato.
“Nemmeno io ho altro in mano, purtroppo”, disse infine il Tenente Serra, “va be', andiamo al laboratorio; magari lì riusciamo a mettere insieme qualcosa”, azzardò; era molto speranzoso, ma per niente fiducioso.
“Vado a recuperare Sasso e andiamo”, assentì Bart. “Gli dico di portare in caserma anche i figli della signorina Raimondi per la deposizione.”
“Buona idea”, commentò Orlando: “per il momento è l'unica 'pista' che abbiamo.”
Detto questo riposero tutta la strumentazione nelle apposite valigette nere da lavoro, caricarono i reperti sulle auto e lasciarono il numero 22 di via Cavour scortati dalle gazzelle che trasportavano Sasso ed i due quasi testimoni.
Prossima destinazione: Raggruppamento Investigazioni Scientifiche.
 
 
 
Ore 11:14 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
Quando aveva visto arrivare i colleghi in trasferta, Lucia convocò subito tutti i membri della propria squadra nel suo ufficio per il primo briefing della giornata: voleva subito essere informata sull'assassinio in casa Raimondi ed informare i propri collaboratori su un fatto altrettanto importante.
“Cominciamo?”, esordì, quando finalmente furono tutti presenti.
Ognuno di loro annuì con convinzione.
“Allora, Bartolomeo, cosa abbiamo?”
“Una donna accoltellata...”, disse, e proseguì mettendo tutta la squadra al corrente dei fatti.
Non appena il Tenente Dossena ebbe finito di relazionare tutto il lavoro già svolto e precisato e concordato quello da svolgere, Lucia decise che era arrivato il momento di mettere tutti quanti al corrente della situazione sul Lupo, nota, fino ad allora, solamente a lei ed al Capitano Ghirelli.
“Ragazzi, prima che vi mettiate al lavoro, c'è una cosa di cui mi preme informarvi”, iniziò con cautela il discorso.
“Ci sono novità su Mario Pugliese?”, chiese Orlando speranzoso.
“Non proprio”, rispose secco il Capitano Ghirelli.
“No”, confermò Lucia, “è proprio questo il punto: non c'è nulla di nuovo e noi con quello che abbiamo possiamo fare ben poco, quindi...”
“Quindi ci arrendiamo?”, chiese ancora Orlando con un certo disappunto. Sia Lucia che Daniele si voltarono di scatto verso di lui, con una strana luce negli occhi. Più che una luce forse era una scintilla; una pericolosa scintilla che avrebbe dovuto mettere in guardia il Tenente.
“No”, rispose ancora Lucia punta nell'orgoglio, aggressiva come tigre che difende i propri piccoli, “no che non ci arrendiamo!”, piuttosto che arrendersi e dargliela vinta avrebbe preferito continuare a brancolare nel buio.
“Quello che Lucia vuole dire è che per ora lasciamo fare alla territoriale, tutto qui”, spiegò Daniele con toni più pacati.
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
“Questo non vuol dire arrendersi”, precisò Lucia, forse più per se stessa che i suoi interlocutori.
“No, assolutamente no”, confermò Ghiro. Era serio, ma la reazione dell'amica e collega aveva messo a dura prova il suo autocontrollo da Capitano; se avesse potuto, sarebbe scoppiato a ridere abbandonando qualsiasi forma di contegno che fingesse di possedere.
“Quindi siamo a posto, no?”, chiese Bart un po' incerto, “insomma, voglio dire, non c'è nulla che possiamo fare per trovarlo, per cui... Va be'”, disse accorgendosi che era meglio lasciar stare quel punto, “io vado a controllare le fotografie del luogo del delitto a casa Raimondi, se non avete nulla in contrario.”
“Assolutamente Bart, vai pure”, acconsentì il Capitano Brancato, “andate tutti. Non poter fare una cosa non è assolutamente un buon motivo per non portare a termine quelle che si possono fare.”
Evidentemente il non poter agire di persona per tentare di fermare Mario Pugliese la turbava, ma ancora di più la turbava il fatto che la sua squadra se ne accorgesse. Per fortuna la conoscevano tutti quanti abbastanza bene, quindi non esitarono a togliere il disturbo; nemmeno Orlando; lui forse più di tutti sapeva che era meglio lasciarla sola con se stessa per un po' in certe situazioni: se avesse voluto si sarebbe sfogata con lui la sera stessa.
Ad uno ad uno, quindi, il gruppo di Lucia si dileguò disperdendosi nei meandri del laboratorio. Soltanto Bianca esitava incerta sulla porta, sembrava abbastanza combattuta, sperava forse che la risposta al suo dilemma le arrivasse dal cielo: parlare adesso o lasciarla sola?
Per fortuna Lucia le venne in aiuto: “Sì, Bianca, dimmi pure”, la esortò con fare incoraggiante.
“Io avrei preso la mia decisione, Capitano”, le comunicò. “Vado via, torno al N.O.E.”
“Capisco, allora questo sarà il tuo ultimo giorno al R.I.S.?”, chiese Lucia; appariva fredda e distaccata, ma in realtà le dispiaceva un po' che Bianca avesse preso questa decisione. Però sapeva anche che in fondo era un bene per la squadra: avere un elemento così era come non averlo affatto.
“Penso proprio di si”, rispose Bianca, anche lei era abbastanza dispiaciuta di lasciare quel lavoro: a parte quel piccolissimo incidente con Milo si era trovata davvero bene con quella squadra.
“Allora chiudi in bellezza, su!”, la incitò la Brancato sorridendo. “A lavoro, forza!”
“Agli ordini, Capitano”, rispose il Sottotenente sorridendo suo malgrado.
Il Capitano firmò la richiesta di dimissioni, la ripose nelle mani della diretta interessata e la congedò continuando a sorriderle.
Quando fu di nuovo in procinto di andarsene, Bianca si arrestò di nuovo sulla soglia. “Capitano, io... Be', se lei è d'accordo preferirei non parlarne al resto del gruppo.”
“Non ho nulla in contrario, Bianca, ma il Capitano Ghirelli dovrà controfirmare la tua domanda, per cui...”
“Certo, ci penserò io stessa a parlarne con Ghirelli, ma preferirei comunque non dire nulla agli altri”, ribadì. Entrambe in quella stanza sapevano che in realtà 'gli altri' voleva dire Emiliano.
“Come preferisci”, acconsentì.
“Grazie Capitano”, disse e, finalmente, lasciò la stanza.
Non appena la porta fu chiusa il Capitano sospirò: Bianca stava proprio scappando.
 
 
 
Ore 11:39 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Ghirelli.
 
“Oh, Ghire'! Che stai a fa'?”, quasi gridò Emiliano per farsi sentire dal Capitano che, con le cuffie e la musica ad alto volume nelle orecchie, se ne stava quieto nel suo ufficio. La voce del Sottotenente lo tirò fuori dal vortice dei propri pensieri.
“Cecchi, che cosa vuoi?”, si lamentò lanciandogli un'occhiata freddante.
“No, io niente”, rispose cauto, tentando di non peggiorare la propria situazione.
“E allora perché mi stai disturbando?” chiese Ghiro con una finta tranquillità; in realtà era soltanto scocciato.
“No è che dato che non stai facendo niente, magari potresti anche veni' di là ad aiutarme co' er B.P.A.”, propose lui, ancora cauto.
“Cecchi, ti sembra che io non stia facendo niente?”, chiese il Ghiro con voce minacciosa.
“No”, si affrettò a rispondere Milo, “per carità, certo che no, però...”
“Però cosa, Cecchi?”
“E dai, Ghire', e famme 'sto favore!”, insistette il Sottotenente.
Proprio in quel momento il telefono di Ghiro squillò.
“Capitano Ghirelli, R.I.S. di Roma”, rispose lanciando ad Emiliano certe occhiate false alla 'pazienza, è andata così'. Milo, dal canto suo, continuava a guardarlo male.
“No, non ho altro da fare”, disse all'interlocutore dall'altro lato del telefono. Lo sguardo di Milo si fece più tagliente.
“Arrivo subito”, disse infine e mise giù la cornetta.
Si alzò dalla scrivania disordinata lasciando tutto com'era; compreso Emiliano che ancora continuava a fissarlo con uno sguardo velenoso.
“Come vedi, Cecchi, ho altro da fare, disse. E sparì dalla porta lasciando deluso il povero Sottotenente.
 
“Eccomi qui”, disse entrando nell'ufficio del Capitano Brancato, la quale lo aveva appena convocato.
Lucia sorrise non appena lo vide comparire sulla porta; ormai era diventato un gesto automatico.
“Vieni”, gli disse; si alzò e si andò a sedere sul divanetto nero posto sulla parete sud della stanza.
Ghiro ebbe immediatamente una sorta di deja vu: lui e Lucia che parlavano su quello stesso divano, era stato al massimo un paio di mesi prima, Ghiro se lo ricordava ancora; erano faccia a faccia con Lupo e Scimmia, in un tempo in cui ancora non conoscevano le loro vere identità, erano stati faccia a faccia con tutta la Banda, vicini come mai erano riusciti ad essere e se li erano fatti scappare. Tigre aveva puntato la pistola contro Lucia, lei pensava che sarebbe stata la sua fine, e invece niente. Non c'era niente di male ad aver paura, le aveva detto Daniele, ma lei non aveva avuto paura, era quello il punto.
Ora però non si trattava più di Lucia, Ghiro lo sapeva; lei non amava parlare di sé, e non lo faceva mai di sua spontanea volontà, quindi se lo aveva chiamato era per parlare di lui.
“Devi dirmi qualcosa?”, chiese innocentemente dopo essersi seduto accanto a lei sul divano. Dopo la chiacchierata con Orlando avvenuta la mattina stessa, il Capitano Ghirelli aveva già qualche ipotesi sull'argomento della discussione.
“A dire la verità speravo che tu volessi dire qualcosa a me”, disse Lucia scoprendo subito le carte in tavola.
“Ah, ed a proposito di cosa?”, chiese Ghiro, sempre con aria innocente. Nell'affrontare questo tipo di discorsi, non la guardava mai negli occhi quando parlava; solamente quando la ascoltava; sia che si trattasse di lei che di lui.
“Dai Daniele, sai di cosa sto parlando. Che cosa ti sta succedendo?”, andò dritta al punto, come al solito. Si era stancata della sua aria da finto tonto.
“Ma niente, Lucia, che mi deve succedere?”, chiese sarcastico, “è solo che mi scoccia un po' il fatto che Lupo sia scappato, tutto qui.”
“Mi dispiace, ma non me la bevo. Guardami”, disse poi prendendo un piglio più deciso, “tu non sei più tu; e da prima che il Lupo scappasse. Vuoi dirmi come stai?”
A questo punto si arrese. Aveva capito che non sarebbe uscito da quella stanza se prima non avesse  parlato seriamente con Lucia.
“Non avevo più uno scopo”, confessò a mezza voce, come si confessa un reato. Non l'aveva mai detto a nessuno. L'espressione di Lucia si fece immediatamente comprensiva, una piccola ruga fece capolino sulla sua fronte pallida, testimone della preoccupazione che la avvolgeva in quel momento.
“Tu sai che, dopo la cattura della Banda, io ho chiamato Marcella per darle la notizia, no?” Lucia annuì.
“Ecco, poi sono partito, sono andato a Londra, da Selvaggia, ti ricordi? Dovevo dare la notizia anche a lei.” Lucia annuì una seconda volta.
“Penso che sia stato lì che è cominciato tutto.”
“Quando hai rivisto Selvaggia?”, tentò il Capitano Brancato.
“No”, rispose deciso il Ghiro, “dopo, quando sono tornato qui. Non avevo più nulla da fare. Ho guardato quel che era rimasto della mia vita ed ho trovato solamente una vecchia casa sulla spiaggia. Nient'altro che un logoro ammasso di mattoni sporchi.”
“Ma...”
“Ma cosa, Lucia?”, disse alzando sensibilmente la voce; Lucia, accanto a lui, si immobilizzò. “Scusa”, si pentì poi, accorgendosi del tono brutale che le aveva riservato, “ti ho mai parlato di una certa Veronica?”, le chiese più calmo.
“No”, rispose debolmente lei.
“Era, anzi, è una psicologa specializzata in sette, l'ho conosciuta a Parma quando lavoravamo al caso della Setta degli Eletti”, cominciò, poi aspettò un secondo. “Mi sono innamorato di lei”, dichiarò
Lucia rimase a bocca aperta, sorpresa. Stavolta fu Ghiro ad annuire.
“Innamorato bene, tra l'altro”, continuò. “era incinta, sai?”, le chiese con un sorriso amaro sul volto; parlare di quel periodo della propria vita gli faceva sempre lo stesso effetto, un po' di dolore non ancora patito tornava sempre, puntuale, a tormentarlo. L'espressione di Lucia ora, oltre la sorpresa, tradiva un po' di curiosità; ma non era curiosità morbosa, era una curiosità diversa, interessata, una curiosità inquieta, quasi tormentata. Sì, Lucia sembrava tormentata, come Daniele.
“Non so nemmeno se il bambino fosse mio: un pazzo, uno della Setta, un certo Adler, le aveva praticato l'inseminazione artificiale, quindi... Ma avevamo deciso di tenerlo comunque, l'avremmo cresciuto come se fosse stato nostro, ed in un certo senso lo sarebbe stato davvero”, sussurrò il Ghiro guardando in alto, sicuro delle parole che affermava.
Ci fu un secondo di silenzio. A Lucia riusciva difficile immaginare quel Daniele. Era completamente diverso da quello che aveva conosciuto lei, ma non per questo, pensò, meno autentico.
“E poi...?”, Lucia lo esortò atona a proseguire, l'istinto le diceva che il seguito non sarebbe stato esattamente un favola da 'e vissero tutti felici e contenti'.
“E poi è finito tutto, così come era iniziato”, disse semplicemente sbattendo le palpebre, spostando lo sguardo dal soffitto al pavimento.
“Il primo ad andarsene fu proprio lui, il bambino”, spiegò. “Era un normalissimo pomeriggio, io stavo uscendo dal lavoro e lei mi doveva venire a prendere al laboratorio, con la moto. E invece è successo che un idiota al telefono le è andato addosso con la macchina”, deglutì, “è così che lo ha perso.”
Lucia strinse gli occhi e le labbra, cercò la mano di Daniele per stringerla nella propria. La trovò sulle sue ginocchia, stretta in un pugno distruttore; la aprì e la avvolse nella sua, accarezzandone dolcemente il dorso.
“Da quel momento in poi le cose tra noi non fecero altro che peggiorare... E adesso non so nemmeno che fine abbia fatto”, continuò il Ghiro con un po' di rammarico.”Sai chi c'era in quel momento con me? Chi mi ha aiutato a superarlo?”
“Flavia”, rispose sicura Lucia con un sorriso.
“Già”, anche Ghiro adesso sorrideva. “Quando mi hai chiamato dicendo che mi offrivi questo posto qui a Roma sei stata la mia salvezza: non ce la facevo più a rimanere a Parma”, confessò.
“Ancora una volta devi ringraziare Flavia, è stata lei a segnalarti quando ero alla disperata ricerca di  un perito informatico”, precisò Lucia. “E probabilmente quella di convocarti qui è stata una delle migliori decisioni che io abbia mai preso”, disse sicura e convinta di ciò che stava affermando. Daniele ignorò l'ultima parte del discorso.
“Vedi? Flavia. Flavia era lì quando non sapevo cosa fare, quando ho perso Veronica, quando volevo mollare... Ci pensava sempre lei a tirarmi su il morale, era una costante della mia vita, ed ora che lei non c'è io...”
“Ti senti perso, vuoto, come se la tua vita non avesse più alcun senso, come se svegliarti la mattina e vedere la luce del sole sia una colpa e dormire senza sognare uno stupido premio per essere sopravvissuto a qualcosa per la quale in realtà eri destinato a morire. Ti senti ingrato verso la vita e responsabile davanti alla morte. Ti senti un ibrido a metà tra i vivi e i morti, tra dove sei e dove pensi di dover essere. Un errore del caso, fortunato per te, fatale per qualcun altro”, concluse Lucia per lui, con sguardo distante anni luce dalla realtà. Ghiro la guardava sorpreso.
“Ci sono passata dopo la morte di Alex”, spiegò l'amica, sempre con sguardo lontano; era incredibile che, senza nemmeno aver guardato il volto del suo amico, avesse indovinato l'espressione sbalordita che vi era dipinta, “ma ora sono di nuovo felice”, disse sorridendo, voltandosi verso Daniele, “con Orlando ho ricominciato da capo, mi ha aiutata a superare Alex e adesso siamo felici insieme.”
“Ma io non voglio dimenticarmi di Flavia”, protestò Daniele.
“Non devi farlo, mai; non dovrai mai dimenticarti di lei”, lo rassicurò Lucia, “ma devi andare avanti e accettare che lei è morta e che tu non puoi farci niente, non hai mai potuto farci niente, nemmeno quando era ancora viva.”
“Ma io... Insomma, io non ero capace di fare praticamente niente senza di lei nemmeno quando era viva, come faccio a superare la sua morte da solo?”
“Daniele tu non sei solo”, gli disse Lucia guardandolo negli occhi. “Non sarai mai solo. Ci siamo io e Orlando, Emiliano, e Bart ti vuole bene, anche se non ha un modo di dimostrarlo esattamente normale”, disse con una risatina. Bartolomeo faceva tanto il gradasso, ma in realtà aveva un cuore d'oro.
Ghiro ci pensò su un attimo; poi, finalmente, parlò: “Lucia, tu sei la mia migliore amica, lo sai vero?”
Il colore verde degli occhi del Capitano Brancato divenne liquido per un momento, un velo d'acqua salata si frappose fra la palpebra e la pupilla di entrambi. Le parole di Ghiro l'avevano fatta commuovere; nessuno gliele aveva mai dette prima.
Di slancio, inaspettatamente, lo abbracciò e lo tenne stretto a sé; con gli occhi chiusi, sorrideva. Erano rari gesti così avventati e palesemente affettuosi da parte sua, anche verso Orlando; Ghiro avrebbe dovuto fare tesoro di quell'abbraccio.
Sorpreso, un po' frastornato, ma sicuramente felice ricambiò l'abbraccio della sua più cara amica, stringendola anche lui altrettanto forte.
“Mi sembra tutto molto poetico, ragazzi, ma non vi sembra di esagerare?”
Il Tenente Serra aveva proferito quelle parole nel momento più inadatto possibile. Era entrato nell'ufficio del Capitano senza bussare né chiedere permesso e adesso era lì, in piedi davanti ai suoi diretti superiori e li fissava calmo, con le braccia incrociate sul petto ed un sorriso sincero stampato sul volto.
“Sta' zitto”, si lamentò Lucia che, resasi conto anche lei del gesto bello quanto raro che stava compiendo abbracciando Daniele, non voleva in alcun modo e per nessun motivo vedersi rovinato quel meraviglioso momento. Orlando ridacchiò, ma rispettò il volere del proprio Capitano.
Qualche secondo ancora, poi i due finalmente si staccarono. Il primo a parlare fu Ghiro.
“Grazie, ad entrambi. Per quello che fate per me”, disse ed aveva un'aria seria, tanto seria che forse in tutta la sua vita l'aveva avuta solo due o tre volte, oltre questa. Lucia ancora sorrideva, un po' commossa, un po' imbarazzata.
“Non c'è bisogno di ringraziare, Capitano”, rispose Orlando, l'unico, forse, che non aveva ancora perso l'uso della parola, “lo sai che tutto quello che facciamo lo facciamo con piacere e, soprattutto, perché ti vogliamo bene.”
Dopo aver sorriso ad Orlando, essersi alzato, avergli dato la mano ed aver abbracciato anche lui velocemente, lo sguardo di Ghiro corse nuovamente a Lucia che era rimasta sola sul suo divanetto nero.
“Lucia!”, esclamo Daniele sorpreso, “stai piangendo?”
Colta sul fatto di strofinare leggermente gli occhi le palpebre e le guance nel tentativo di eliminare le piccole gocce salate (quasi fossero nocive), alla Brancato non rimaneva che un'unica opzione, la più odiosa e falsa: negare l'evidenza.
“No, certo che no! E' solo che uno dei tuoi ricci mi ha punto l'occhio quando ti ho abbracciato, tutto qui”, rispose arrampicandosi palesemente sugli specchi.
“Mmm”, commentò Ghiro, “'uno dei tuoi ricci mi ha punto l'occhio quando ti ho abbracciato'. Ti sembra una spiegazione plausibile?”, chiese poi rivolgendosi ad Orlando.
“Certo, come no; plausibilissima”, rispose lui trattenendo a stento una risata. Poi, a voce più bassa, rivolto solo al Ghiro, aggiunse: “che ti dicevo qualche settimana fa? Anche lei ha il suo lato tenero.”
“La smettete di prendermi in giro voi due?”, pregò Lucia infastidita, che pure non aveva sentito ciò che Orlando aveva detto sussurrando.
“Agli ordini, Capitano”, la schernì ancora quest'ultimo; lei lo guardò male, Ghiro soffocò una risata per non offenderla ulteriormente. Ciononostante, meno di due secondi dopo, tutti e tre, a cominciare proprio da Lucia, stavano già ridendo a crepapelle.
Ci fu ancora qualche scambio di battute, qualche riso e qualche lamento, ma anche qualche altra confessione di paura, di bisogno e di affetto; poi tutti e tre tornarono ordinatamente al proprio lavoro. Avrebbero conservato per sempre il ricordo di quel giorno, di quei pochi minuti passati insieme nell'ufficio di Lucia durante i quali erano ritornati bambini; non già perché i loro discorsi fossero ingenui o puerili, ma perché la sincerità, la libertà e la spensieratezza che caratterizzavano quelle risa e quelle confessioni potevano scaturire solamente da animi buoni e leali come quelli dei più piccoli. Soltanto le loro carte d'identità avevano qualche riserbo in proposito, ma quella era tutta un'altra storia.
 
 
 
Ore 3:01 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Dall'esame effettuato con il B.P.A., l'unica cosa che Milo era riuscito a stabilire era che l'assassino era alto non più di un metro e settantacinque, ma che doveva avere un'altezza assolutamente superiore al metro e sessantacinque; il che scagionava solo uno dei due fratelli, che era alto poco più di un metro e ottanta, ma non l'altro, il minore, imprigionato nel suo inchiodante metro e sessantanove.
E' da loro, dai fratelli Raimondi, che partirono le indagini. Bartolomeo li interrogava separatamente, mentre Orlando li osservava da dietro il lo specchio-vetro della sala interrogatori con occhi attenti ed esperti, Sasso assisteva dall'interno. La versione dei fatti raccontata in quel momento non era differente da quella che Alessio, il primogenito, aveva già raccontato a Sasso la mattina stessa.
“Allora?”, chiese Bart uscendo dalla stanza.
“Sono sinceri, nessuno dei due ha ucciso la madre; ma sono più che sicuro che nascondono qualcosa”, rispose Orlando convinto di ciò che diceva.
“Quindi mentono?”, chiese Dossena leggermente confuso.
“No, non proprio. Sono sinceri, ma ad un certo punto... zac! Adoperano una specie di taglia e cuci all'interno della storia: non mentono, loro semplicemente omettono una parte di quello che è accaduto in quella casa”, chiarì Orlando metodico.
“E se è vero che non l'hanno uccisa loro, probabilmente allora sanno chi è l'assassino”, concluse Bartolomeo chiedendosi il perché del silenzio dei due fratelli.
“Sì, è probabile”, assentì Serra, “ma se non hanno ancora parlato non parleranno: devono avere degli interessi davvero importanti per tacere il nome dell'assassino della propria madre.”
IL Tenente Dossena sarebbe volentieri rimasto ad ipotizzare la natura di quei curiosi interessi, ma fu distratto da una figura piuttosto bassa e leggermente stempiata che aveva varcato in quel momento la soglia del laboratorio: l'immancabile flemmatico dottor Carnacina.
“Senti, io vado dal nostro ospite”, disse accennando con la testa in direzione dell'ingresso dove sostava tranquillo il medico legale, “tu vai a parlare con Sasso, vedi se ce la fa a trattenerli in qualche modo: dobbiamo prendere tempo per scoprire che cosa nascondono.”
Orlando annuì e si diresse in sala interrogatori per parlare in privato con il collega della territoriale, Bartolomeo invece raggiunse Carnacina all'ingresso.
“Allora, Dottore, come andiamo?”, chiese amichevolmente.
“Non c'è male, direi; grazie dell'interessamento.”
“Novità sulla signorina Raimondi?”
“Novità? Non proprio”, dichiarò il medico, “piuttosto ho delle conferme”, proseguì.
“Spara”, lo esortò il Carabiniere.
“La morte è stata causata davvero da quella ferita da arma da taglio che aveva sulla schiena, l'unica tra l'altro. Però posso dirti che la coltellata è stata inferta con molta violenza, quindi probabilmente è stato un uomo.”
Seppur con altri mezzi, gli uomini del R.I.S. erano giunti alle medesime conclusioni.
“Grazie, Carnacina. C'è altro?”
“In effetti, sì”, affermò a sorpresa il medico. “Ho trovato questa sulla bocca della vittima”, disse estraendo dalla tasca una fialetta in vetro.
“Che cos'è?”, chiese interessato il Tenente.
“Saliva”, rispose Carnacina compiaciuto. “A giudicare dalla concentrazione nella quale era presente, mi sentirei di escludere che sia della vittima: sembra più uno sputo, probabilmente qua dentro è racchiuso il DNA del vostro assassino.”
Gli occhi di Bart si illuminarono. “Grande, Carnacina! Grazie mille.”
“Dovere, Tenente”, rispose ancora una volta il medico legale; purtroppo però il suo interlocutore era già sparito.
 
“Ho parlato con Carnacina: qui abbiamo il DNA del nostro assassino”, dichiarò entusiasta il Tenente Dossena, che nel frattempo aveva raggiunto Orlando davanti alla sala interrogatori.
“Bingo!”, commentò il collega, “Speriamo solo che non sia incensurato.”
“Già”, concordò Bartolomeo, “Sasso che dice?”
“Dice che con quello che abbiamo anzi, che non abbiamo non può trattenerli.”
“Non può richiedere nemmeno una custodia cautelare?”, insistette Dossena.
“Nemmeno”, confermò Serra sconfitto.
“Possiamo almeno pedinarli?”, tentò Bartolomeo ancora speranzoso.
“Ho già chiesto, ma il magistrato non ci autorizza”, sembrava che non ci fosse proprio speranza. “Va be', almeno chiediamo loro un campione di DNA e speriamo che vogliano darcelo volontariamente.”
“Ma scusa, non erano sinceri?”, chiese Bart nuovamente confuso.
“Sì, ma non abbiamo altro in mano che la loro testimonianza. Non si sa mai”,ribatté Orlando.
“Va bene, io intanto vado ad analizzare questa”, disse mostrando la fialetta contenente la saliva.
“Ci vediamo dopo”, lo salutò Orlando imboccando a il corridoio a destra.
“A dopo”, replicò Bartolomeo. La sua strada era più lunga: in fondo, poi a sinistra.
 
 
 
Ore 4:19 P.M. Via Gioberti, Roma.
 
Un uomo sulla cinquantina alto, robusto, dai corti capelli brizzolati, camminava tranquillo per la strada. Non si era accorto che qualcuno, da lontano, lo stava seguendo.
Erano due ragazzi, entrambi biondi con gli occhi castani, entrambi non potevano avere più di venticinque anni; a giudicare dalla forte somiglianza dovevano essere fratelli. Entrambi stringevano in mano due pesanti mazze da baseball.
L'uomo continuava a camminare con passo leggero, i due continuavano a seguirlo con gli occhi animati da una luce particolarmente inquietante. Dopo pochi minuti e qualche svolta a destra, l'uomo giunse finalmente alla propria destinazione: una portineria abbastanza grande e, a giudicare dall'aspetto, anche piuttosto antica; non c'era portiere. L'uomo si fermò ad estrarre le chiavi del portone con i vetri scuri dalla tasca e i due ragazzi, poco più indietro, ne approfittarono per ridurre il distacco, ormai gli erano praticamente alle costole. La chiave girava lentamente nella serratura; le mazze da baseball sfregavano dolcemente sulle mani dei rispettivi possessori.
Il portone si aprì.
L'uomo entrò lasciando che la porta si richiudesse da sola dietro di sé; continuò a camminare, salendo le scale, aspettando un frastuono che non poteva arrivare. Una converse nera taglia 43 aveva bloccato prontamente la chiusura dell'uscio, permettendo al suo proprietario ed al suo complice di introdursi nel condomino; accostata la porta per non fare rumore, si apprestarono a salire le scale, seguendo quell'uomo come un leone affamato farebbe con la sua gazzella.
L'inseguito fermò davanti all'ascensore: era il momento. Il ragazzo con le converse nere, quello che poteva passare per il più giovane tra i due, tamburellò sulla sua spalla destra. L'uomo si girò; ebbe appena una frazione di secondo per riconoscere i suoi pedinatori, poi le mazze si alzarono: era la fine.
 
 
 
Ore 4:27 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
I fratelli Alessio e Giovanni Raimondi avevano fortunatamente acconsentito a lasciare in laboratorio un campione ciascuno del proprio DNA, che Orlando aveva finito di analizzare proprio in quel preciso istante; ora avrebbe dovuto portare le due sequenze di DNA da Bartolomeo perché le confrontasse con quelle dell'assassino.
Così, tanto per togliersi il pensiero, continuava a ripetersi in mente; non voleva nemmeno pensare all'eventualità che avesse sbagliato a giudicare innocenti i due fratelli, o avrebbe cominciato a dubitare seriamente di se stesso.
Arrivato alla postazione del collega, lo trovò in piedi con le braccia conserte intento a fissare il monitor del computer, si avvicinò: i volti di centinaia di pregiudicati si susseguivano sul monitor a grande velocità durante il confronto con l'archivio dell'A.F.I.S. Alla fine delle immagini, una scritta rossa lampeggiò sullo schermo: 'NO MATCH'. Dossena sbuffò.
“Bene”, disse invece Orlando tentando di distrarre il collega, “ora proviamo con questi”, e mentre parlava uscì dal taschino del camice una piccola pen drive contenente i DNA dei figli della Raimondi.
“Buona idea”, commentò Bart che non ci teneva a perdersi d'animo, “ci vorrà solo un secondo.”
E un secondo passò, e un'altra scritta, identica alla prima, prese a lampeggiare sullo schermo. Del computer.
“Hai provato a vedere se la saliva è della vittima?”, chiese allora Orlando, ancora  meno fiducioso di come era arrivato in quella stanza.
“Certo, è la prima cosa che ho controllato”, confermò Dossena.
“ Allora mi sa proprio che dobbiamo riconvocare i fratelli Raimondi: devono dirci chi poteva avercela con la madre, visto che dalle indagini di Sasso non è risultato niente di rilevante.”
“Sì, lo penso anche io. Vado a chiamare Sasso...”
“Non ce n'è bisogno”, disse una voce inconfondibile alle loro spalle prima che Bart potesse muovere un solo passo. Fabrizio Sasso sostava immobile sulla porta, a giudicare dalla faccia portava brutte notizie.
“Ah, ciao Sasso”, esclamò il Tenente Serra, “arrivi al momento giusto, cercavamo te per prelevare i figli della signorina Raimondi.”
“Li stanno già portando qui: un testimone li ha visti mentre aggredivano un uomo con delle mazze da baseball”, comunicò calmo ai due Carabinieri della scientifica.
“Alla faccia dei due fratellini innocenti”, commentò Bartolomeo.
“Ecco che cosa nascondevano. Scommettiamo che il DNA del poveretto che hanno picchiato coincide magicamente con quello del nostro assassino?”, propose Serra ironicamente. Bart annuiva.
“A proposito, lui chi è? E come sta?”, chiese quindi Dossena rivolgendosi a Sasso.
“Si chiama Emanuele Cervi, cinquantaquattro anni, commercialista. Era il compagno della vittima...”
“Quindi è morto?”, interruppe Orlando.
“No, è in ospedale in gravi condizioni, lo stanno operando proprio adesso. Dico 'era' perché i due si erano lasciati qualche mese fa”, concluse finalmente Sasso. “Ecco i fratelli Raimondi”, disse poi indicando verso l'ingresso del laboratorio, “ci devono spiegare un po' di cose”, proclamò, e cominciò a dirigersi in sala interrogatori.
 
Alessio e Giovanni Raimondi, rispettivamente di anni venti e diciotto, entrarono ordinatamente a testa bassa nella sala interrogatori della caserma S. D'acquisto di Roma. Questa volta sarebbero stati interrogati insieme.
Fuori dalla stanza, attraverso la pellicola riflettente, il testimone li guardava e diceva ad Emiliano e Orlando che sì, erano proprio loro quelli che avevano picchiato il signor Cervi. All'interno Bartolomeo conduceva l'interrogatorio.
“Allora, parlate voi e ci dite cosa è successo senza farci perdere tempo o dobbiamo estorcervi le parole di bocca?”
“Emanuele era il compagno di nostra madre”, iniziò il più piccolo dei due, “ lei lo aveva lasciato circa due mesi fa, ma lui non voleva rassegnarsi e continuava a insistere, voleva convincerla a tornare con lui.”
“Quindi veniva spesso a casa vostra?”
“Abbastanza, sì”, stavolta fu Alessio a parlare.
“Stamattina cosa è successo?”, domandò Sasso.
“Stamattina l'ho sentito bussare alla porta, ho guardato l'orario e mi sono rimesso a dormire, come vi ho detto prima. Solo che poi mi sono svegliato ancora perché sentivo mia madre che litigava con Emanuele e allora mi sono alzato per farli smettere, ma quando sono arrivato in cucina ho trovato mia madre a terra che perdeva sangue ed Emanuele che sciacquava un coltello nel lavandino”, rispose con voce piatta.
“E perché non ce l'hai detto subito?”
“Perché volevamo vederlo morto”, intervenne l'altro.
“Quando ho visto... quello che ho visto, ho subito chiamato un'ambulanza ed Emanuele è scappato, poi ho svegliato Giovanni e abbiamo chiamato i Carabinieri, ma prima che arrivaste avevamo deciso che ci saremmo fatti giustizia da soli.”
Il telefono di Sasso squillò. Dopo una telefonata breve e concitata il Tenente tornò a sedersi al proprio posto.
“Volevate la vendetta, Raimondi? Ci siete riusciti”, annunciò Sasso. “Era l'ospedale: Cervi non ce l'ha fatta, quindi vuoi due siete colpevoli di omicidio, premeditato per giunta”, sentenziò.
“Portateli via”, ordinò infine Bartolomeo rassegnato.
Alessio e Giovanni si alzarono elegantemente dalle rispettive sedie e si consegnarono alle guardie a testa alta, guardando avanti con gli occhi di chi non conosce il rimorso.
Orlando, fuori dalla stanza, sospirò. Un'altra famiglia distrutta, pensava, e l'unica innocente era stata la prima a morire; ma chissà, forse è proprio per questo che era rimasta innocente.
 
 
 
Ore 7:36 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
La giornata volgeva ormai al termine, i rapporti sui vari casi erano già tutti sulla scrivania, l'ultimo briefing della giornata era concluso; rimaneva ancora poco meno di mezz'ora di servizio e  nel giro di un'ora il sole sarebbe tramontato e la luna avrebbe preso il suo posto nel cielo.
Il Capitano Lucia Brancato sedeva tranquilla sulla propria sedia di pelle nera. Aveva finalmente finito di firmare documenti per quel giorno e, dato che la territoriale non aveva novità su Mario Pugliese, adesso si stava semplicemente godendo un po' di tranquillità dondolando sulla sedia. Quel movimento lento e costante le ricordava tanto i tempi del liceo, quando il pomeriggio, stanca di studiare, si allontanava un poco dai libri e dalla scrivania in legno e cominciava a dondolare in quello stesso modo in una sedia molto simile a quella del suo attuale posto di lavoro.
Ricordava che a quei tempi avrebbe voluto fare l'insegnante, non sapeva bene perché. Poi era arrivata al terzo anno, e lì era cominciata la fisica; le era piaciuta molto la fisica, tanto da averne fatto il suo indirizzo di studi all'università. Una volta laureata, suo fratello Guido (allora Tenente), le fece sapere di un concorso per giovani fisici che avevano l'opportunità di diventare ufficiali nell'Arma dei Carabinieri; il suo sogno di diventare insegnate aveva avuto vita alquanto breve.
Il concorso prevedeva che venissero presi solamente coloro che, tra test scritti e psicoattitudinali, si fossero piazzati nei primi cinque posti. Fu così che Lucia iniziò la sua carriera come Sottotenente al R.I.S. di Roma.
Ricordava ancora i suoi primi mesi da Carabiniere, quando la sera andava a cena a casa di suo fratello Guido e sua moglie e sparlavano i colleghi; era un modo per abituarsi a quel tipo di lavoro, a prendere le distanze. Ricordava ancora la prima volta che aveva visto un cadavere: era rimasta paralizzata a fissarlo per circa due minuti pensando a quali fossero i suoi sogni da vivo, le sue ambizioni, le cose che era abituato a fare... La aveva aiutata proprio suo fratello Guido, che era lì per seguire anche lui l'indagine, a superare lo shock.
Dopo quattro anni Lucia era già diventata Tenente, e qualche anno dopo arrivò la promozione a Capitano da parte del Generale Abrami, che le offrì l'opportunità di creare un gruppo tutto suo: così nacque la squadra del Capitano Lucia Brancato.
Ogni tanto Guido le mancava ancora, ma non si sentiva più così sola come dopo i primi tempi dalla morte di Alex. E come avrebbe potuto? Ora aveva Daniele... e aveva Orlando.
A riscuoterla da questi pensieri ci pensarono due leggeri colpetti alla porta; era l'ormai ex Sottotenente Bianca Proietti.
“Avanti, Bianca”, disse Lucia a voce alta, invitandola ad entrare.
“Io starei andando, Capitano e...”
Il Capitano non le diede nemmeno il tempo di finire la frase: sapeva già cosa stava per dire, ed anche lei ci teneva a salutarla; infatti era già in piedi di fronte a lei dall'altra parte della scrivania. Senza dire niente l'abbracciò, e quando si staccarono le accarezzò una guancia dicendole soltanto “buona fortuna”.
Dopo un breve sorriso, Bianca uscì da quell'ufficio, passò velocemente attraverso il laboratorio e si fermò un secondo davanti alla porta scorrevole. Le immagini di quell'anno passato al R.I.S. si susseguirono una dopo l'altra nella sua mente; alla fine, una lacrima le bagnò il volto.
Si voltò indietro e trovò il suo Capitano che dall'ufficio la guardava mentre usciva dal R.I.S. per l'ultima volta.; ancora oggi le piace pensare che in quel momento Lucia Brancato le stesse sorridendo. Si voltò ancora una volta, l'ultima volta, e sparì dietro il muro passando davanti al piantone.
Il suo ultimo pensiero fu rivolto a Milo. Lì le loro strade si dividevano.
 
 
 
Ore 8:00 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Ghirelli.
 
Immersi nel totale disordine dell'ufficio del Capitano Ghirelli, Ghiro e Orlando, tra risate e battutine, non si erano nemmeno resi conto che l'orologio segnasse le otto in punto, ovvero l'ora in cui staccavano dal lavoro di lunedì.
A ricordarglielo ci pensò la provvidenziale Lucia, che irruppe nell'ufficio di Daniele armata già di borsa e soprabito.
“Ragazzi, che ci fate ancora qui? Per oggi abbiamo finito”, annunciò sorridendo.
“Davvero?”, chiesero in coro i due colleghi. Lucia annuì.
“Finalmente”, si sfogò Ghiro, “non c'era più niente da fare!”
“Eh, già”, concordò Serra.
“Allora, ragazzi, io vado a casa”, disse Ghirelli, “ci vediamo domani.”
“Non se ne parla”, lo contraddisse lei, “oggi pizza tutti e tre insieme”, propose. Era strano vedere Lucia organizzare serate fuori casa con altra gente, era come un'altra Lucia: quella che aveva imparato ad amare senza aver paura di mostrarsi fragile.
Orlando si disse subito d'accordo: gli piaceva l'idea del Capitano.
“Pizza? Stasera?”, chiese sorpreso il Ghiro, “ma domani si lavora!”
“E dai! Ti prometto che finiamo presto”, insistette Lucia come una bambina, “Daniele, ti prego! Offre Orlando”, aggiunse poi per convincerlo.
“Che cosa?”, chiese Serra sentendosi chiamato in causa. “Vi ricordo che qui dentro io sono quello che guadagna di meno, Capitani”, disse calcando particolarmente la voce sull'ultima parola. Sia Daniele che Lucia scoppiarono a ridere a quell'affermazione, non perché non fosse vera, ma perché in quel contesto, proferita con quel tono di voce era risultata comica. E poi perché erano sicuri che Orlando stesse scherzando.
“Va bene, accetto”, disse infine il Ghiro, “ma Orlando ha ragione, dividiamo io e te”, aggiunse rivolgendosi a Lucia.
“Ci sto”, approvò subito lei.
“No, ora sono io che dico che non se ne parla”, protestò il Tenente mentre si apprestavano ad uscire dal R.I.S., “io stavo scherzando; mi fate sembrare avaro se dite così. Offro io!”
“No, davvero Orlando al massimo dividiamo io e te...”, continuava ancora l'instancabile Ghiro. Ed andarono avanti così per tutto il tempo fino a che non arrivarono al parcheggio della caserma.
Il verdetto? Esclusa forzatamente Lucia, avrebbe pagato il conto chi dei due fosse stato più veloce nell'estrarre il portafogli. A quella condizione, Ghiro non avrebbe avuto speranze.
 
 
 
Ore 11:44 P.M. Casa del Sottotenente Cecchi. Roma.
 
Giù al portoncino Emiliano e Giada si scambiarono un ultimo bacio prima di rientrare in casa, dove li aspettavano i genitori di lei e la loro splendida bambina; insomma, la fine della loro pace da piccioncini.
Avevano passato la serata fuori casa: i genitori di Giada avevano assicurato che potevano occuparsi loro di Marica per quella sera, e così lei aveva pensato di prenotare una cenetta romantica in un ristorantino per sé e per Milo. Anche lui aveva gradito, e non aveva pensato a Bianca nemmeno una volta per tutta la serata: si stava davvero riinnamorando della propria moglie, sebbene quello che era successo con la collega non si potesse più cancellare.
Persino sua moglie si era accorta che qualcosa era cambiato negli ultimi tempi: Milo era più presente, più ben disposto nei suoi confronti e anche in quelli di Marica. Sembrava quasi che fossero ritornati ai tempi del liceo, quando nessuno dei due avrebbe saputo cavarsela senza l'aiuto ed il sostegno dell'altro; erano ritornati ad essere una coppia indivisibile, proprio come allora.
Ma una volta giunti la porta di casa, un problema di gran lunga maggiore che la vicinanza della famiglia provvedette a rompere quel tanto cercato idillio.
Giada si immobilizzò davanti alla porta, non riusciva nemmeno più a parlare; l'unica cosa che sembrava rimasta in grado di fare era fissare, con movimenti alterni, ora la serratura della porta, ora il volto di suo marito. Il suo primo pensiero corse immediatamente alla figlia, poi ai genitori; la sua espressione era il frutto di un perfetto cocktail di sorpresa, sconforto, paura e rabbia.
La porta di casa loro era stata forzata.
Quanto ad Emiliano, stava a lui mantenere la calma. E infatti non la perse.
Sentiva dei rumori provenire dall'interno: forse i ladri non avevano ancora lasciato l'appartamento; in quel momento, Milo ringraziò la propria fissazione di andare in giro armato anche quando non era in servizio. Dopo aver fatto segnale di fare silenzio e di non muoversi a Giada, estrasse la pistola ed entrò furtivamente in casa propria.
Il salone d'ingresso era completamente al buio; con un colpo sicuro della mano sinistra, Milo premette l'interruttore, mentre con la mano destra continuava a tenere la pistola puntata contro il nulla. La stanza, finalmente illuminata, risultava vuota ed in perfetto ordine: i ladri non dovevano aver toccato nulla in quel punto della casa.
Forse per effetto della luce accesa, il rumore che il Sottotenente aveva avvertito primo di entrare in casa aumentò di frequenza ed intensità: Emiliano avrebbe dovuto sbrigarsi a trovare i ladri, prima che questi trovassero lui. Un colpo più forte degli altri gli consentì di individuarne la fonte, il frastuono proveniva dalla cucina.
Emiliano attraversò velocemente il salone finché non si trovò davanti la porta socchiusa della cucina, lì la luce era accesa. Doveva fare irruzione.
Uno, due, tre.
“Fermi, Carabinieri!”, urlò spalancando la porta con una spallata. Ma la scena che gli si presentò innanzi agli occhi non era certo quella che si sarebbe aspettato di vedere.
I genitori di Giada, legati e imbavagliati, si dimenavano sulle sedie di legno cercando di liberarsi. Non appena udirono il grido di Milo e lo videro spuntare davanti a sé smisero immediatamente di muoversi, intimiditi dalla pistola.
Il Carabiniere, riconosciuti gli autori dei rumori sospetti, mise giù l'arma e si precipitò a slegarli.
“Claudia! Gino! Ch'è successo? Marica dov'è?”, chiese agitato.
“Se ne sono andati da meno di mezz'ora”, disse la suocera cercando di farsi capire nonostante il respiro accelerato. “Erano in due, mi sembravano stranieri.”
“Marica, dov'è Marica?”, insistette Emiliano.
“L'hanno... l'hanno portata via”, rispose Gino con voce rotta dalla disperazione, “non abbiamo potuto fare niente.”
Dopo aver sentito quelle parole, dopo averne realizzato il significato, tutti i buoni propositi di rimanere lucido furono resi vani. Emiliano barcollò un momento, poi rumori, odori,  luci e colori si ridussero ad un mucchio di percezioni indistinte. Forse era stato tutto un brutto sogno.
 

   
 
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