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Autore: RobTwili    27/04/2012    23 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Camminavo lentamente verso il supermercato a causa del mal di testa. Per la fretta di uscire e fare la spesa mi ero dimenticata di prendere un paio di aspirine per cercare di ridurre il dolore. Entrai, superando le porte scorrevoli, mentre la testa mi lanciava segnali di cedimento. Le mie tempie pulsavano e non bastò appoggiarmi al carrello. Che dovevo comprare? Mi ero dimenticata. Ma che idiota; che avevo nella testa il giorno prima da indurmi a una sbronza colossale? Non ricordavo più gli effetti devastanti della mattina dopo una sbronza? Ad arricchire il tutto c’era stato il risveglio nella camera da letto di Ryan, la sua presa in giro e quella dei ragazzi.
Persa nei pensieri, cominciai a riempire il carrello con tutto ciò che mi capitava sottomano, senza fare attenzione a ciò che buttavo dentro: patatine, salatini, bibite gasate, acqua… quando mi trovai davanti agli scaffali con i vari tipi di pasta, cercai di concentrarmi, guardando le varie forme per decidere quale prendere: ero davvero fissata per determinati tipi di pasta, odiavo quelli dalle forme piccole, che rischiavano di farmi soffocare.
«Vai anche a fargli la spesa? Sei tipo la loro mammina?». Riconobbi subito quella voce, nonostante l’avessi sentita solo un paio di volte. Forse non era il tono di voce che ricordavo così bene, ma il disprezzo che c’era quando parlava con me.
«Butterfly» sospirai. Tra le mani rigiravo un pacco gigante di spacchetti. «Posso sapere almeno il tuo vero nome?». Mi convinsi di non volerle lanciare in testa una confezione da un kg. Non sarebbe bastato. E poi… con quel dopo sbronza che mi ritrovavo la voglia di litigare con lei era scesa sotto zero.
«Che cazzo te ne frega? Sono Butterfly e di certo non voglio diventare la tua migliore amica. Se mi stai leccando i piedi perché non riesci a soddisfarli non sono fatti miei, impara a scopare prima di decidere di voler essere la Signora di qualcuno». C’era davvero tanto disprezzo nelle sue parole, e potevo capirla: mi vedeva come quella che le aveva rubato il posto, ma non era di certo così. Io non avevo quel tipo di rapporto con i ragazzi e non mi interessava nemmeno essere la Signora di qualcuno. Ero la loro vicina, quella che prendevano in giro quando si ubriacava e che aiutavano a trovare lavoro. Ma di certo non ero né una loro Signora, né una… sgualdrina, tanto per non offenderla.
«Davvero, io sono sicura che la tua idea di quello che faccio sia sbagliata. Non sto cercando di diventare la Signora di nessuno e tantomeno voglio portarmeli a letto, sono solo gentili con me, dico sul serio». Le riservai un simpatico sorriso, pur sapendo quanto in realtà non mi piacesse per niente. Non era simpatica come Aria, non era nemmeno lontanamente sopportabile. Ma avevo deciso di non litigare e quindi mi sarei attenuta strettamente a quell’intenzione.
«Senti, non prendermi per il culo, nanetta. So esattamente quello che fai, credi che io sia così stupida da non capire che trombi con ogni singolo ragazzo? Dico davvero, dacci un taglio, non sono ancora così cretina» sbottò, spintonandomi con entrambe le mani. Rischiai di finire addosso allo scompartimento della pasta.
Ok, ora era chiaro. Stava cercando di farmi arrabbiare. Ma io non avrei mai urlato contro di lei, non in un luogo pubblico, davanti a tutta quella gente. Ero sicura che sarebbe andata da Ryan a piangere e urlare che io l’avevo offesa solo con l’intenzione di farsi consolare. Be’ si sbagliava di grosso se pensava che fossi così stupida da non capirlo. Non sarei caduta in quella trappola.
«Davvero Butterfly, hai frainteso». Mi voltai, fingendo indifferenza. Mi sollevai in punta di piedi per rimettere a posto il pacco quando lei mi spinse ancora facendomi perdere l’equilibrio. Fui tentata di voltarmi e lanciarle la confezione addosso. Soffocai l’istinto e riuscii a tenere a bada la parte di me che voleva spaccarle la faccia.
«Certo, immagino. Anche loro hanno frainteso, no? Puoi anche dirmi con chi sei stata, sai?». Possibile che non le entrasse in testa? Io non volevo andare a letto con nessuno degli Eagles. Ero esasperata, non sapevo più in che lingua dirle la verità. Il fatto che fossi gentile con loro non era sinonimo di scopate multiple. Che rabbia!
«Con nessuno, davvero». Stavo lottando duramente contro me stessa: darle uno schiaffo con il pacco di pasta o limitarmi a tirarle i capelli? Questo era un vero dramma. Ora sì che comprendevo il dubbio amletico.
«Dimmi, sei riuscita a farli godere o no? E spero che tu menta, perché non puoi fingere di non venire assieme a loro». Si appoggiò al mio carrello con i gomiti, senza smettere di guardarmi con quel suo sorriso –probabilmente – finto come il suo seno.
«Butterfly, davvero, non è più un gioco divertente, comincio a stancarmi. Come ti ho già detto non sono andata con nessuno e non voglio parlare di queste cose». Mi allontanai, dirigendomi verso i condimenti, che cominciai a guardare con molta attenzione. Non volevo commettere un omicidio in un supermercato! Ma lei non voleva demordere. La ritrovai appena dietro le mie spalle. Santa pazienza!
«E allora ammettilo, sei solo una puttana che non sa nemmeno fare il suo lavoro» sussurrò al mio orecchio, con un ghigno che mi diede i nervi. Scattai, ancora prima di rendermene conto,  e mi mossi fulminea. Non si levarono urla attorno a noi, nessuno sembrava aver fatto caso alla mia reazione.
Quando capii quello che avevo fatto, era troppo tardi: Butterfly, davanti a me, continuava a tenersi le mani davanti al naso, mentre le sue dita si sporcavano di rosso. C’era del sangue che continuava a colare anche a terra. Come se non fosse stato sufficiente, Butterfly, con un ghigno soddisfatto che riuscivo a vedere solo io, cominciò a strillare, attirando l’attenzione di tutti su di noi. «È pazza! Avete visto? Mi ha tirato un pugno all’improvviso, le ho solo suggerito di prendere quella marca» urlò, indicando un tubetto posto sullo scaffale dietro di me. Cominciai a guardarmi attorno, spaesata: tutti borbottavano, indicandomi, mentre Butterfly fingeva di piangere per il dolore al naso.
Che cosa avevo fatto? Che stava succedendo? Non era stato come con Ryan, una blanda imitazione di pugno. Assomigliava più a quello che mi aveva raccontato Dollar: una scarica di adrenalina che non riuscivi a controllare. Se non fosse stato per il dolore alle nocche che continuavano a pulsare, non mi sarei nemmeno resa conto della forza che avevo usato; doveva essere stata tanta però, perché il suo naso continuava a sanguinare copiosamente, di certo perché rotto.
«Fammi controllare» mormorai, avvicinandomi a lei. Volevo solo vedere se il suo naso era rotto o meno, altrimenti, con un nuovo pugno, avrei completato l’opera. No, non mi sentivo in colpa, ma non ero così stupida da dare spettacolo di nuovo, con un secondo colpo.
«Allontanatela, è pazza» gridò di nuovo. Mi tenevano ferma per le braccia, in modo da non farmi avvicinare a lei. Assurdo! C’era un poliziotto accanto a me, era lui a strattonarmi per evitare che io mi muovessi.
«Sono un medico, controllo solo se ha il naso rotto» mi giustificai, incredula. Mi stava davvero trattenendo perché avevo dato un pugno a Butterfly? Ma nessuno aveva sentito la sua offesa? Evidentemente no, visto che tutte le persone lì attorno continuavano a consolarla, porgendole fazzoletti e rassicurandola.
«Mike, portala dentro, è pazza» piagnucolò Butterfly, indicandomi di nuovo. Gli sguardi di tutti i presenti si spostarono su di me, mentre rimanevo ferma, intrappolata da quel poliziotto.

«Butterfly, dovresti seguirmi anche tu in centrale, vuoi fare una denuncia?» chiese il ragazzo, senza lasciare la presa sul mio braccio. Sul serio? Dovevo andare in centrale?
«No, io… lei… non… mi ha offesa» cercai di giustificarmi, cominciando a temere che mi arrestassero davvero. Lei mi aveva dato della puttana e io avevo reagito d’istinto; in modo sbagliato, certo, ma non potevano arrestarmi, era legittima difesa.
«L’hai offesa, Butterfly?». Sembrava quasi una domanda retorica, posta in modo ironico, come se Mike –come l’aveva chiamato Butterfly – si stesse prendendo gioco di me. Qualcuno sogghignò alla domanda del poliziotto, ma io non capivo perché ridessero.
«Certo che no, Mike, come potrei averla offesa? Come ho già detto le ho consigliato di prendere un’altra marca di sugo». Sembrava che il sangue continuasse a uscire dal suo naso e questo mi fece pensare che fosse veramente rotto. Cercai di parlare, ma Mike il poliziotto non mi ascoltò nemmeno, troppo impegnato ad annuire alle parole di Butterfly, finte come il suo seno.
«Andiamo in centrale, preparo tutte le carte e poi fai la denuncia, ok?». Si stava incamminando verso l’uscita, costringendomi a seguirlo; la folla di curiosi, dietro di noi, sembrava ancora più interessata alla scena. Quando Mike aprì lo sportello posteriore dell’auto della polizia per farmi salire, vidi che c’era un gruppetto di persone radunato fuori dal supermercato, sul marciapiede.
Come aveva fatto il poliziotto ad arrivare così presto? Sembrava quasi ci fosse già, e fosse corso lì attirato dalle urla di Butterfly, come… come se lei avesse saputo che lui era lì.
Quando salì in auto, mettendosi al posto di guida, il poliziotto mi guardò quasi ghignando, prima di scuotere il capo quasi rassegnato. «Ti sei messa contro la ragazza sbagliata, tesoro» mormorò a bassa voce, tanto che non ero nemmeno sicura avesse detto quelle esatte parole. Guidò per alcuni minuti, fino a quando, dopo un paio d’incroci, parcheggiò la macchina davanti a un grande edificio color ocra. Sopra alla porta principale c’era una scritta che mi fece sbarrare gli occhi per la sorpresa, o forse, semplicemente, mi risvegliò; capii improvvisamente dove mi trovavo e quello che stava per accadere.
NYPD's 41st Precinct: era la stazione di polizia.
Io, Alexis Cooper che non ero nemmeno mai stata fermata per eccesso di velocità, stavo per essere… arrestata per rissa? Per cosa mi avrebbero arrestata?
«Andiamo» sbottò il ragazzo in divisa, aprendo lo sportello perché potessi uscire dall’auto. Continuavo a tenere lo sguardo basso; sentivo le guance in fiamme a causa della vergogna che provavo. Quando entrammo dentro alla centrale, infatti, gli sguardi di tutti i presenti si spostarono su di me; potevo sentirli, incuriositi e forse divertiti. «Ha litigato con la ragazza sbagliata» sogghignò Mike, al mio fianco, senza smettere di stringere il mio braccio, come se avesse paura di una mia eventuale fuga. Mi condusse in una piccola stanza, chiudendosi la porta alle spalle. «Sei già schedata?» domandò, stupendomi. No, come potevo essere schedata, io che non avevo mai fatto nulla nella mia vita? Feci un gesto di diniego con il capo, lasciando che continuasse a spiegare quello che stava succedendo. «Prima ti faccio la foto segnaletica e dopo prendo le impronte. Mettiti lì». Indicò la parete dietro di me e mi guardai attorno, confusa e spaventata. Era così simile allo sfondo delle foto di Ryan e dei ragazzi che cominciai a tremare, spaventata. Sarei finita in prigione?
«Lei mi ha offesa, per questo ho tirato il pugno. So… so di aver sbagliato, ma per favore, non mi arresti». Cercavo di non comportarmi come una bambina, mi mordevo il labbro per non mettermi a piangere, visto che di sicuro non era un modo maturo di reagire.
«Dopo la deposizione, ora girati di lato». Si posizionò dietro la fotocamera, aspettando che mi mettessi di lato per la foto segnaletica. Non riuscivo ancora a crederci, stavo per essere arrestata perché avevo tirato un pugno a una ragazza in un supermercato. Se solo Soph ed Edge l’avessero saputo mi avrebbero derisa per giorni, io che mi fermavo a ogni semaforo appena scattava il giallo. «Girati verso di me». Non riuscii a trattenere una risata isterica, guardando i numeri di fianco a me. Non sfioravo nemmeno i 5’2’’. Quando Mike alzò lo sguardo dall’obbiettivo per cercare di capire perché stessi ridendo, soffocai le risa con un colpo di tosse, tornando subito seria, come la situazione richiedeva.
In verità era tutto surreale, quasi come se fossi nel set di un film.
«Devo prendere le impronte digitali per schedarti». Posò davanti a me un foglio che sicuramente avrebbe compilato; in fondo c’erano dieci caselline vuote: lì avrei dovuto lasciare le mie impronte digitali. Mise l’inchiostro su ogni polpastrello, indicandomi di apporre il timbro delle mie dita nelle apposite caselline. Quando finii di timbrare, mi guardai le mani: i polpastrelli sporchi di blu, le mie foto segnaletiche poco distante e un modulo con i miei dati da riempire. Sembravo una criminale, esattamente come Ryan e tutti gli Eagles. Ma che cosa mi era successo?
«Devi darmi i tuoi dati, poi potrai chiamare un avvocato o chi vuoi, dobbiamo vedere se Butterfly vuole o meno sporgere denuncia, poi potrai pagare la cauzione o pregare perché il tuo avvocato conosca le persone giuste». Avvocato? Non avevo mai avuto un avvocato nemmeno a Los Angeles, come potevo a New York? In che guaio mi ero cacciata? Perché avevo reagito così istintivamente? Ma soprattutto, da quando sapevo dare pugni così forti? Nemmeno contro il fianco di Ryan avevo messo tutta quella forza.
«Io…» mormorai, prendendo un respiro profondo prima di cominciare a dire le mie generalità, «Alexis Alice Kate Cooper. Sono nata il ventisette aprile del millenovecento ottantanove a Los Angeles, in California». Aspettai che l’agente completasse la scheda per le altre mie generalità, poi, dopo aver risposto a tutte le sue domande, tirai un sospiro di sollievo, come se fosse stato difficile rispondere. Forse lo era stato davvero. Io continuavo a non voler ricordare Los Angeles, e quello non era il modo giusto per farlo.
«Mentre aspettiamo che Butterfly ritorni dall’ospedale per fare la sua deposizione, vuoi chiamare il tuo avvocato?». Avvocato? No, come potevo chiamarlo? Non avevo di certo nessun avvocato lì a Hunts Point. L’unica, le uniche, persone che conoscevo erano Ryan e i ragazzi. Loro, però, probabilmente ne conoscevano qualcuno di bravo, se nonostante tutta la droga, le risse e gli omicidi, erano ancora liberi. Annuii, senza specificare che non avrei chiamato il mio avvocato; in fin dei conti, nei film non facevano sempre vedere che si aveva diritto a una telefonata? Composi quel numero sapendo che me ne sarei pentita subito dopo. Chissà quanto mi avrebbe presa in giro, sapendo che ero stata arrestata; ma in quel momento non mi importava, volevo solamente uscire dalla centrale e tornare a casa. Dopo qualche squillo, rispose, ma ricordai che probabilmente non sapeva il numero della centrale – se non era privato – quindi forse era meglio che gli dicessi subito chi ero. «Ciao Ryan». Un sussurro che di sicuro non era nemmeno riuscito a udire.
«Che c'è, lentiggini? Ti sei persa?». Il suo solito tono ironico e, ne ero sicura anche se non potevo vederlo, stava sorridendo. Prima ancora di sapere perché lo avessi chiamato, mi stava prendendo in giro.
«Ryan... potresti venire... a prendermi?» mormorai, tenendo lo sguardo basso e sentendo le gote in fiamme.  Non avevo nemmeno il coraggio di dire dove mi trovavo. Alzai lo sguardo per controllare il poliziotto di fianco a me: mi stava guardando spazientito, come se la telefonata non gli facesse poi molto piacere.

«Che succede?». Il tono di voce di Ryan cambiò all’improvviso, diventando serio. Mi sembrava quasi di sentirlo preoccupato, ma di certo ci doveva essere la linea disturbata. Ryan non era mai preoccupato, nemmeno quando, probabilmente, aveva una pistola puntata alla tempia.
«Ecco, sono… sono al 41st Precinct. Se potessi portare anche un avvocato sarebbe meglio» bofonchiai prima di attaccare senza aspettare nemmeno una sua risposta. Sapevo che si sarebbe messo a ridere e mi avrebbe presa in giro, ed era l’ultima cosa che volevo.
«Mentre aspetti il tuo avvocato ti porto in cella, così magari evitiamo di dare pugni alle persone, eh?». La mano dell’agente si strinse attorno al mio braccio, costringendomi ad alzarmi da quella scomoda sedia di acciaio. In cella, mi avrebbe davvero portato in cella? Sarei stata in prigione fino all’arrivo di Ryan? Speravo solo che arrivasse il più presto possibile, perché non potevo rimanere a lungo in quel posto.
«Muoviti… muoviti…» ripetevo quasi come una cantilena, continuando a camminare su e giù, in quella piccola cella gialla. C’era un letto – grande per me –  con una coperta grigia, un lavandino e un solo water. Niente doccia o altro; come potevano vivere così i carcerati? O forse, in quella piccola cella non vivevano i veri e propri carcerati, ma quelli che, come me, avevano per sbaglio tirato un pugno dopo essere stati offesi.
«Un sorriso per la stampa» ghignò una voce. Appena mi volta verso l’uscita, per guardare chi aveva parlato, sentii il suono di una fotocamera e il flash. Ryan, assieme a Brandon e Dollar, continuava a sghignazzare, rimanendo appoggiato alle sbarre.
«Ryan» sospirai, sollevata perché finalmente sarei uscita da quella cella. Mi avvicinai alla porta in ferro, stringendo le sbarre tra le dita. «Ti prego, tirami fuori di qui, è stata lei a provocarmi, te lo giuro». Le dita che spasmodicamente si stringevano attorno al ferro freddo e Ryan, Brandon e Dollar dietro le sbarre. Ah, no, ero io quella che stava dentro.
«Che è successo, Doc?». Dollar faticava a mantenersi serio, le sue labbra continuavano a curvarsi all’insù, in un sorriso divertito e naturale che mi infastidiva ancora di più. La scena, per loro, doveva essere davvero divertente: tutti e tre sorridevano. Forse perché, per una volta, non erano loro quelli dentro alla cella.
«Ero al supermercato e Butterfly si è avvicinata; ho capito che voleva farmi arrabbiare e ho cercato di non prestarle attenzione, ma poi mi ha dato della…». Mi sentivo in imbarazzo a ripetere quello che lei aveva detto a me, ma se non l’avessi fatto, probabilmente mi avrebbero davvero arrestata. Istintivamente portai le dita alle tempie massaggiandole: avevo ancora mal di testa per la sbornia della sera prima e tutto quello stress non mi faceva di certo bene. «… mi ha detto che sono una puttana che non sa fare il suo lavoro, così senza nemmeno accorgermene le ho tirato un pugno, ma non l’ho fatto volontariamente, lo giuro». Speravo che almeno loro mi credessero, perché se così non fosse stato, non avevo nessuna possibilità con l’agente di polizia.
«Le hai tirato un pugno? Come è stato?». Dollar sembrava quasi fiero di me, perché si avvicinò di un passo alle sbarre di ferro, appoggiando la fronte contro la grata, senza smettere di sorridere. Istintivamente guardai la mia mano, per vedere i danni: con tutto quello che era successo non mi ero nemmeno resa conto che, se avevo tirato un pugno, di certo qualche traccia sarebbe rimasta. Le prime due nocche erano rosso scuro, tanto che, quando provai a sfiorarle sussultai per il dolore.
«Non eri mai stata schedata?» ghignò Ryan. Quando alzai lo sguardo per capire a cosa si riferisse, notai che stava insistentemente guardando le mie mani. Ricordai che le dita avevano ancora l’inchiostro che l’agente aveva usato per prelevarmi le impronte digitali e portai le mani dietro alla schiena, nascondendole ai loro sguardi. «Non ci credo. Non eri nemmeno mai stata schedata? Ma che cazzo hai fatto fino a ora, bevuto Pepsi e preso il sole? Hai ventidue anni e non sei nemmeno mai stata al fresco per un paio d’ore. Che delusione, lentiggini. Dovevi venire nel Bronx per essere schedata». Si finse dispiaciuto, scuotendo il capo, come se gli avessi appena dato uno dei dispiaceri più grandi della sua vita.
«Smettila. Voglio uscire da qui, non voglio che Butterfly sporga denuncia, non mi piace rimanere in questa cella». Mi guardai attorno: quelle pareti gialle mi rendevano quasi claustrofobica, mi mancava il respiro.
«Butterfly vuole sporgere denuncia? È gelosa, non ci posso credere» sbottò divertito Ryan, allontanandosi per raggiungere Mike, poco distante da noi.
Brandon e Dollar continuavano a rimanere in silenzio, guardandomi sempre con quel sorriso sulle labbra che non se ne voleva andare. Cercai di non fare caso a loro, concentrandomi su Ryan che stava discutendo con l’agente: sembrava gesticolare un po’ troppo, indicando prima la cella nella quale mi trovavo e poi la porta d’uscita della centrale. Il poliziotto, dopo qualche minuto sospirò annuendo: sembrava che quel gesto gli costasse un grande sforzo.
«Si torna in libertà» sogghignò Dollar, facendo un passo indietro dopo Brandon, che incrociò le braccia al petto, soddisfatto. Non capii a cosa si riferisse fino a quando Mike, sospirando, infilò la chiave nella serratura della grata davanti a me, aprendola.
«Come fai a lasciarla dentro? Guardala, ha tipo lo sguardo di un cucciolo di lama bianco spaventato, non si può, deve rimanere in libertà». Ryan sembrava davvero divertito, visto che continuava a fare battutine stupide. Se solo non fossi stata dentro alla cella di una centrale di polizia, gli avrei tirato un pugno ancora più forte di quello che avevo dato a Butterfly. Questa volta non avrei mirato al suo fianco, visto che era ricoperto da ferro, avrei mirato in basso, dove, ne ero sicura, avrebbe sentito molto dolore. «Lentiggini, Mike ti fa uscire, ma devi pagare la cauzione». Aveva negoziato? E Butterfly, avrebbe sporto denuncia lo stesso?
«E per la denuncia di Butterfly?». Esitavo a uscire da quella cella, come spaventata da quello che sarebbe successo. Magari il giorno dopo sarei dovuta tornare dentro perché Butterfly mi aveva denunciata.
«Non ti denuncerà, ci parlo io. Paga la cauzione a Mike e la storia si conclude qui». Ryan sembrava quasi ansioso di andarsene da quel posto, visto che si tastò le tasche, in cerca del pacchetto di sigarette; se ne portò una alle labbra, accendendola e inspirando a pieni polmoni. No, forse semplicemente era ansioso di fumare e non gli interessava niente altro.
«Ma, come può essere che Butt…» cominciai a dire, prima che Ryan sbuffasse infastidito, spegnendo la sigaretta sul muro e gettandola a terra, nonostante l’avesse appena accesa.
«Lentiggini smettila di rompere le palle, paga quella fottuta cauzione e usciamo di qui». Strinse la sua mano attorno al mio braccio, strattonandomi perché uscissi dalla cella e seguissi Mike che si stava dirigendo verso l’entrata. Cauzione, dovevo solo pagare la cauzione, con quali soldi? Quelli destinati all’affitto, certo. Ma come sarei arrivata a fine mese, se John non mi avesse pagata nonostante il lavoro al Phoenix?
Mi avvicinai a Mike in silenzio, aspettando di sentire la somma che gli dovevo. «Sono trecento dollari» disse infine, attendendo che pagassi quella somma.
«Tre… trecento dollari?» biascicai, rischiando di soffocare con la mia stessa saliva. Trecento dollari per essere rimasta dentro a una piccola cella per nemmeno un’ora? O trecento dollari perché avrebbe insabbiato tutta la faccenda?
«Sì, erano cinquecento, ma visto che sei la Signora di Ryan e tutto quanto…». Mike gesticolava molto mentre parlava. Era il tipico comportamento delle persone che non si sentivano a proprio agio, forse perché Ryan era a pochi metri da noi o forse perché…
«Cosa? No, non sono la Signora di nessuno, sono la loro vicina» cercai di spiegare, inutilmente: l’agente cominciò a ridere, tamburellando con le dita sulla scrivania scura davanti a lui, in attesa che pagassi il mio conto. Perché nessuno mi credeva quando dicevo che non ero la Signora di nessuno?
«Sì, sì, certo. In ogni caso devi pagarmi ora». Non la smetteva di tamburellare con le dita sulla scrivania, tanto che quel gesto cominciava seriamente a darmi sui nervi. Possibile che dovesse continuare con quel ticchettio fastidioso?

«Io… ho solo cento dollari. Scusi…». Mi avvicinai a Ryan e ai ragazzi, sperando che avessero soldi a sufficienza per pagare la cauzione. Glieli avrei restituiti una volta tornati a casa, non volevo di certo avere debiti con loro, soprattutto perché avevo visto con i miei occhi cosa facevano per arrivare a fine mese. «Ryan, io… io ho solo cento dollari, me ne servono altri duecento. Potresti… potreste prestarmeli, appena arriviamo a casa vi prometto che ve li restituisco subito» mormorai, torturandomi le mani per l’imbarazzo di quella situazione. Io stavo chiedendo un prestito a loro.
«Ne ho cento. Brandon, Doll, arrivate a cinquanta testoni in due?» domandò, prendendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans e porgendomi cento dollari. Brandon e Dollar lo imitarono, allungando cinquanta dollari a testa. Li ringraziai imbarazzata e tornai a consegnare i soldi all’agente, che non si era perso un mio gesto, come se temesse una mia possibile fuga.
«Ecco…». Appoggiai i soldi sul legno scuro, aspettando che smettesse di ticchettare le dita e li prendesse, per contarli. Il suo volto si curvò in uno strano ghigno, mentre raccoglieva i soldi, arrotolandoli e nascondendoli dentro alla tasca interna della sua uniforme scura.
«Bene, Cooper. Immagino che ci rivedremo ancora in giro, no?» ammiccò verso di me, intrecciando le sue mani dietro alla nuca e portando i talloni ad appoggiarsi alla scrivania, sgombra da carte. Sembrava quasi che si stesse prendendo gioco di me, che sapesse qualcosa che io non sapevo. Per questo lo salutai ringraziandolo con parole sconnesse, per tornare subito dopo dai ragazzi.
«Torno subito, devo prendere una cosa». Di nuovo quel ghigno sul volto di Ryan; era decisamente divertito mentre si allontanava da noi, dirigendosi verso la scrivania dell’agente. Parlò con lui per qualche minuto fino a quando non riuscì a convincere il poliziotto che, dopo un sospiro, gli porse un pezzo di carta che Ryan prontamente nascose nella tasca posteriore dei pantaloni. «Andiamo a casa» sogghignò, raggiungendoci.
Mentre uscivamo dalla centrale nessuno di noi parlava: io continuavo a guardare i miei piedi, troppo imbarazzata da quello che era successo per dire davvero qualcosa; Ryan fischiettava allegro, calcando un sassolino. Brandon e Dollar, davanti a noi, avanzavano silenziosi verso le moto, posteggiate pochi metri fuori dalla stazione di polizia.
«Tieni lentiggini». Feci appena a tempo a girarmi verso di lui che qualcosa di nero e grande mi colpì allo stomaco. Quando abbassai lo sguardo, notai che Ryan teneva un casco tra le mani; casco che non era grande come quello che avevo usato qualche giorno prima, per andare a Coney Island. «Misura Baby. Dovrebbe entrarci la tua testolina così da… dura». Mi stava prendendo in giro, riuscivo a capirlo anche dal suo ammiccare verso di me. Indossò il suo casco, mettendosi a cavallo della moto e dando gas per accendere il motore. Quando mi vide con il casco tra le mani, indecisa su cosa fare, si alzò la visiera scura, parlando a voce alta per farsi sentire anche sopra al rombo della moto. «Lentiggini? Vuoi tornare dentro o sali?». Era una domanda retorica, certo, ma involontariamente mi voltai per guardare la centrale di polizia, dietro di me. «Ti vuoi muovere?» sbottò, spazientito. Me lo fece capire anche dando un nuovo colpo di gas alla moto. Portai le mani sulla cinghietta del mio casco, cercando di aprirla con scarsi risultati: stavo tremando e non riuscivo ad aprire il moschettone. «Dammi qui» sbuffò, prendendo il casco dalle mie mani e aprendo la cinghietta in pochi secondi. Me lo fece indossare a forza, dandomi un pugno perché la mia testa entrasse, poi, ridendo, chiuse la cinghietta, tornando a poggiare le mani sul manubrio. «Sali o devo prenderti in braccio?». Tutto purché la smettesse di prendermi in giro. Mi sostenni sulle sue spalle, facendo forza con il piede sul pedale e salendo sulla moto subito dopo. Volevo dirgli di non correre oltre i limiti di velocità, ma Ryan partì sgommando e l’unica cosa che riuscii a fare fu aggrapparmi più forte a lui, circondandogli il busto con entrambe le braccia.
Quando arrivammo davanti a casa, qualche minuto dopo, Ryan rallentò fino a fermarsi; aspettò che Dollar scendesse dalla sua moto per aprire il portone del garage e poi entrò, parcheggiando la moto dopo quella di Brandon e Dollar: la prima vicino all’uscita, esattamente nello stesso posto della settimana prima, quando eravamo andati a Coney Island.
Per evitare che Ryan cominciasse a ridere di me di nuovo, scesi dalla moto, dandogli le spalle per cercare di togliere il casco; fortunatamente ci riuscii: la fibbia si aprì al primo tentativo, tanto che, dopo essermi sfilata il casco, guardai Ryan. Non sapevo nemmeno dove appoggiarlo.
«Tienilo tu, tanto di quella misura non va bene a nessuno» liquidò la faccenda, scendendo dalla moto e sfilandosi il casco a sua volta. Lo appoggiò al manubrio, portandosi poi una mano tra i capelli e scompigliandoli. Non sapevo che dire, perché in qualche modo mi sembrava un regalo. No, mi sbagliavo, era un regalo vero e proprio, solo per me.
Cercai di ringraziarlo, ma Ryan, subito dopo Brandon e Dollar, si incamminò verso le scale, per uscire dal garage senza aspettarmi. Corsi per riuscire a raggiungerli, ma, una volta giunta al pianerottolo del terzo piano, ricordai che dovevo loro duecento dollari. Si richiusero la porta del 3B alle spalle, come se nemmeno fossi dietro di loro.
«Arrivo subito» strillai, perché potessero sentirmi. Presi le chiavi di casa dalla borsa, aprendo la porta con urgenza; dopo aver appoggiato il casco sopra alla tavola, corsi in bagno a prendere parte degli ultimi risparmi che mi erano rimasti. Con i duecento dollari che dovevo dare ai ragazzi me ne rimanevano meno di cento, non sarei mai riuscita a pagare l’affitto. Ma non volevo e non potevo permettermi di avere un debito così grande con i miei vicini.
Bussai alla loro porta con insistenza, fino a quando Sick non venne ad aprire. «Ehi Lexi! Che piacere vederti. Un piacere quasi indescrivibile, vorrei farti sentire quanto mi piace vederti, soprattutto ora che sei una dura». Ammiccò, senza spostarsi dall’uscio. Non riuscivo a entrare e nemmeno a vedere dentro il salone; non se Sick rimaneva fermo.
«Scusa, posso entrare?» mormorai, indicando come una stupida la stanza dietro di lui. Per tutta risposta Sick cominciò a ridacchiare, spostandosi e facendo un goffo inchino. Brandon e Dollar erano seduti sui divani: stavano fumando; Paul e Josh invece, erano di fianco a Ryan, davanti alla parete delle foto. Tutti e tre stavano ridendo, come se ci fosse stato qualcosa di divertente da vedere.
«Grazie per avermi prestato i soldi, prima» spiegai, porgendo cinquanta dollari a Dollar e altrettanti a Brandon. Risposero al mio grazie con un ghigno guardando Ryan divertiti.
«Non trovate che sia il posto giusto?» domandò Ryan, guardando la parete davanti a lui, soddisfatto. Quando fui abbastanza vicina da vedere cosa attirasse l’attenzione di tutti, spalancai gli occhi, stupita, arrabbiata e sorpresa: c’era la mia foto segnaletica appesa al muro, di fianco alle foto di tutti i ragazzi. La mia foto, quella che un’ora prima Mike, l’agente di polizia, mi aveva scattato. Ecco cosa Ryan aveva preso, dopo aver costretto il ragazzo a consegnarglielo!
«Toglila subito. Ridammi quella… cosa» sbottai, avvicinandomi al muro per prendere la foto. Non volevo che nessuno la vedesse, era una cosa davvero vergognosa. La gente non doveva nemmeno sapere che io ero stata schedata e avevo evitato una denuncia solo perché Ryan aveva contrattato con la polizia, no.
«Ehi, lentiggini! Calma, su. O vuoi tirare un pugno anche a me?» scherzò, senza smettere di ghignare. Ah, per lui era divertente, un motivo in più per deridermi, no? Ecco perché non aveva detto niente alla centrale, perché voleva aspettare di essere a casa, davanti a tutti i suoi amici.
«Dammela» sibilai, cercando di sembrare minacciosa. Il mio tentativo di intimidirli non funzionò, visto che Ryan e i gemelli cominciarono a ridere, portandosi le mani sullo stomaco. Bene, come al solito ero lo zimbello di tutti, il loro personale giullare di corte che li faceva divertire. «Tieniti i tuoi soldi». Gli lanciai i cento dollari addosso, avanzando velocemente verso la porta, per uscire da quell’appartamento. Non ci sarei più entrata, non quando lui era in quella casa, perché cominciavo seriamente a odiare lui e il suo continuo prendermi in giro, era stressante.
Avevo quasi raggiunto la maniglia della porta, quando qualcosa si strinse attorno al mio polso, fermandomi. ‎«Stasera c'è una festa, se senti casino non farci caso» spiegò Ryan, stringendo di più la sua mano. Festa, certo. Una festa, come avevo fatto a non pensarci? Probabilmente era una festa per festeggiare Butterfly e il suo stupido tentativo di lasciarmi al fresco, come dicevano loro. O forse perché non ero riuscita a romperle il naso, chi poteva saperlo.
«Festeggiate Butterfly?» domandai ironica, strattonando il braccio perché lo lasciasse. Ryan si rabbuiò per qualche istante, rimanendo immobile a fissarmi, senza però dire nulla.
«Ryan, perché non facciamo venire anche lei?». Dollar lo affiancò, dandogli un colpo sulla spalla e riscuotendolo dai suoi pensieri. Ryan prese un respiro profondo, lasciando il mio polso e prendendo una sigaretta dal pacchetto che teneva sempre nella tasca posteriore dei jeans.

Ci pensò per qualche secondo e, dopo aver aspirato una boccata di fumo, disse:  «Non è una Eagles e nemmeno una Signora. Non è nemmeno una troietta». Certo, dimenticavo che le loro feste erano esclusive, solo per chi faceva parte degli Eagles. No, anche di Butterfly, che li soddisfaceva come una buona samaritana. Stavo per dire che non mi interessava di certo partecipare a una festa che aveva come protagonista principale Miss Silicone, quando Dollar mi stupì, parlando di nuovo.
«Ma ad Aria farebbe piacere, avrà qualcuno con cui parlare, sai che odia Butterfly e tutte le sue amiche». Aria, ci sarebbe stata Aria. Perché? Cosa le permetteva di essere presente a una delle loro feste esclusive? Forse perché era una loro amica e dopo tutta la storia di JC volevano cercare di consolarla?

«Non mi interessa una festa con Butterfly al centro dell’attenzione». Incrociai le braccia sotto al seno, ponendo in quella frase tutto il mio odio per quella ragazza. Se, in tutti i modi, avevo cercato di capirla e esserle amica, dopo quello che aveva fatto al supermercato non potevo più sopportarla.
«La festa è per Aria, è la mia Signora» spiegò Dollar. Nel suo sorriso c’era una nota divertita, il suo sguardo era fiero di dare quella notizia e gli occhi brillavano per la felicità. Non riuscivo a vedere Dollar, uno degli Hard-Cores degli Eagles, vedevo solo un ragazzo, felice di dire a tutti che aveva una nuova fidanzata.
«Dollar, sono così felice per voi» esultai, abbracciandolo di slancio. Ero contenta per lui, per Aria, per loro. Perché li avevo visti interagire poco, ma al funerale il discorso di Dollar e il modo in cui l’aveva confortata mi aveva fatto sperare in un loro avvicinamento.
«Alzi la mano chi vorrebbe essere al mio posto in questo momento. Sick, la mano» scherzò Dollar, rispondendo al mio abbraccio. Gli diedi un pugno scherzoso sul braccio, allontanandomi di un passo da lui, mentre, con sguardo solenne proclamava: «Doc, mi dispiace ma non ci proverò più con te, ora sono un uomo impegnato». Ridacchiai assieme a Sick, Brandon e i gemelli, mentre Ryan spegneva la sigaretta contro la porta a pochi passi da noi.
«Aria verrà a chiamarti quando arriva. Non romperai le palle a nessuno ed eviterai di romperle a Butterfly, altrimenti questa  volta non me ne frega niente, rimani in prigione e ti becchi una denuncia. E adesso vattene, che devo parlare con loro». Ryan e i suoi proverbiali modi gentili, delle volte rasentava quasi il ridicolo. Volevo uscire da quella casa con classe, sbottando un «Vaffanculo», ma sarebbe stato come abbassarmi ai livelli di Ryan, quindi semplicemente uscii senza dire nulla. E non gli avrei di certo parlato nemmeno quella sera, anche se mi aveva invitata a quella stupida festa.

 
 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Scusate per il ritardo di questo capitolo ma ho avuto problemi nella scrittura.
Prima di tutto: Don’t hurt me again. È una OS Dollar e Aria, ambientata tra questo capitolo e il precedente, per chi volesse leggerla…
Poi, vorrei dire che non sono esperta di giustizia americana e non so se si può essere schedati solo per un pugno, quindi quella scena prendetela con le pinze. C’è da dire che sapendo che la polizia è sul libro paga degli Eagles, è possibile che possano arrestare qualcuno che li ha in qualche modo ‘intaccati’. Insomma, qui in Italia si è schedati solo per casi gravi, da quello che mi è stato detto, ma in America sappiamo che funziona in modo diverso.
Ringrazio come sempre quelli che aggiungono la storia tra preferiti, seguiti e da ricordare, tutte le persone che mi aggiungono tra gli autori preferiti e chi commenta. Grazie mille, davvero.
Spero di poter regalare un capitolo migliore di questo al più presto, per la prossima settimana, insomma, ma come sempre darò tutte le indicazioni sul gruppo di FB: Nerds’ corner.
Rob.
   
 
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