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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    29/04/2012    1 recensioni
"Povero te, povero chi
Non crede alla Madre Del Sole
A mezzogiorno, in primavera ed estate
Fuori c’è la Madre Del Sole"
(Tazenda)
Non aveva viso, non aveva occhi, ma mi vedeva e si spostava con me.
Mi seguiva.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA TRAPPOLA DEL SOLE



http://www.youtube.com/watch?v=pvbaf7n3JYE

Ero nata in città, e la città era il mio mondo.
Amavo guardare fuori dalla finestra stando in punta di piedi e osservare i tetti, i muri giallo chiaro e gli squarci di cielo azzurro tra le tegole. Spesso aprivo la finestra per farmi accarezzare dall’aria tiepida o respirare la brezza frizzante, e ascoltavo i rumori, sempre gli stessi ma dei quali mai mi stancavo: passi di persone sotto al portico, voci di gente nelle case, acciottolio di stoviglie, cani e uccelli… ma il suono più forte e impregnante di tutti era il silenzio. Variava da stagione a stagione, e sempre a seconda del periodo dell’anno variavano il suo colore e il suo odore.
Io e i miei genitori vivevamo in un appartamento piccolo ma che a noi garbava, io avevo la mia stanza con il mio letto e tutti i miei giocattoli, l’armadio con i vestiti e tanti scatoloni contenenti libri che avrei letto in futuro. Impilando questi scatoloni l’uno sull’altro riuscivo a sporgermi dalla finestra e guardare fuori
Il nostro appartamento era piccolo, chiaro e disordinato. I muri erano dipinti di bianco e di azzurro chiaro e l’arredamento era moderno e semplice. I pavimenti erano in legno in modo da non essere mai troppo freddi, perché adoravo girare scalza. Avremmo potuto permetterci un appartamento più grande, ma i miei dicevano che avremmo traslocato quando sarei cresciuta e avrei avuto bisogno di più spazio, e a me andava bene restare in quella casa ancora per anni. Adoravo quella piccola abitazione perché c’erano molte finestre e soprattutto perché era situata in una zona silenziosa della città. In quel luogo anche le strade erano strette. Si trattava di strade irregolari e non sempre asfaltate, che dopo ogni temporale si riempivano di pozzanghere in cui si rifletteva il cielo. Era un continuo alternarsi di vicoli e piazzette, sembrava che le case si sovrapponessero l’una con l’altra. Queste avevano i muri o giallo crema o rosso mattone e i tetti ricoperti di tegole, come lo erano tutti quelli della mia città; frequenti erano i cortili e i balconcini, i portici stretti e gli archi che portavano alle piazze. Il colori di sfondo erano il giallo crema dei muri, il grigio delle strade e l’azzurro del cielo. Ovviamente, il cielo non era sempre azzurro: alcune giornate nuvolose lo tingevano di un bianco ovattato, e di notte era blu intenso. Ma se dovevo pensare al cielo sopra quelle case dai colori caldi e quelle strade malandate, mi veniva sempre in mente un celeste intenso con qualche straccio bianco di nuvola qua e là, e ovviamente il sole, accecante come al solito.
Il Sole, già.
Il mio periodo preferito della giornata era da mezzogiorno alle tre e mezza del pomeriggio: la luce e il cielo in tutto il loro fulgore, l’oro e l’azzurro, gli stessi colori dei miei capelli e dei miei occhi.

Una mattina di giugno me ne stavo in piedi sulla mia pila di scatoloni a guardare la strada e il cielo, i vetri spalancati, respirando a pieni polmoni l’aria calda e assaporandone l’odore, ascoltando i rumori e immaginandomi i colori. Al balconcino di una delle finestre della casa di fronte c’era qualcuno che proprio come me sembrava starsi godendo l’aria di giugno. Era una figura vestita di bianco, anzi, ricoperta da un manto bianchissimo che le nascondeva l’intero corpo: gambe, braccia, mani, testa e viso. Sul volto, però, aveva fissata una maschera nera, seria e inespressiva. Sul momento non capii se si trattasse di una persona o di un pupazzo, ma capii che era un essere vivente quando alzò un braccio come per salutarmi. Feci lo stesso, profondamente a disagio: io non riuscivo a vedere il volto e gli occhi di quella persona, ma evidentemente lei vedeva i miei. Cominciai a sentire freddo e a tremare, chiusi immediatamente la finestra e tirai le tende, poi corsi in camera da mia madre chiamandola a gran voce, ma non ottenni risposta alcuna. Sentii dei rumori provenienti dalla cucina e dedussi che stava già preparando da mangiare. Per raggiungere la cucina dovetti passare accanto alla piccola finestra del corridoio, dalla quale entrava in casa una scia di luce.
Quel finestrino era situato esattamente dall’altra parte della casa rispetto alla finestra di camera mia, e dava sulla scalinata del cortile interno. Vi buttai un’occhiata distratta e notai una macchia bianca sui gradini, proprio al centro di una chiazza di luce. Osservai con più attenzione e mi resi conto che non era una macchia, era una persona ricoperta da un velo con una maschera nera sul viso, e mi stava salutando.
Non aveva viso, non aveva occhi, ma mi vedeva e si spostava con me.
Mi seguiva.
Guardai ancora: la figura si stava avvicinando. Arretrai stando sempre nel raggio di sole, ormai in preda al terrore. La creatura tese le braccia verso di me finché non poggiò due mani velate sul vetro del finestrino. I rumori in cucina si affievolirono fino a spegnersi, così come tutti gli altri suoni che sentivo: il canto degli uccelli, i miei passi… sentivo solo il mio cuore impazzito. Le mani della creatura sfondarono il vetro mandandolo in frantumi e io non sentii il rumore dello schianto, né quello delle mie grida quanto le sue dita mi afferrarono per i capelli, sollevandomi e trascinandomi fuori dal finestrino con una forza sovrumana.
Il silenzio restava mentre la creatura mi trascinava facendomi strisciare per terra, camminando soltanto nei punti in cui arrivava la luce del sole. Proprio il Sole, più accecante che mai. Lui, che mi guardava dall’alto mentre venivo portata via, io che lo amavo tanto, e non muoveva un dito per salvarmi, anzi, era proprio sulle zone illuminate da lui che il mostro camminava. Ben presto mi resi conto che la luce formava una vera e propria strada dai margini ben definiti, ma prima di cercare di capire dove portava e dove sarei quindi andata a finire i miei sensi sprofondarono in un’universo bianco e accecante, troppo forte per essere sopportato.






   
 
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