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Autore: RobTwili    08/05/2012    31 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Continuavo a camminare attorno al tavolo della mia cucina, indecisa se andare o meno a quella festa: speravo che la rimandassero, anche se era impossibile e improbabile, visto che continuavo a sentire risate e musica, al di là del pianerottolo.
Una parte di me, quella razionale, continuava a ripetersi che non voleva andare a quella festa; speravo con tutto il cuore che Aria non bussasse alla mia porta, così non avrei varcato l'uscio del 3B. L'altra... be', l'altra era curiosa da morire; curiosa di scoprire se le loro feste fossero come le avevo immaginate, una versione dei video di 50 Cent senza una piscina di contorno.
«Ok, non ci vado» decretai, togliendomi le scarpe: ero decisa, avrei indossato qualcosa di più comodo di quei jeans, come una tuta. Non potevo andare a quella festa, c’era Butterfly, c’erano tante persone che non conoscevo e soprattutto Ryan, che mi aveva invitata solo perché costretto da Dollar. Non era bello essere invitati perché obbligati, non mi sarei di certo lamentata per la musica troppo alta o per strani rumori. Mi sarei comportata da fantasma, come se il 3C fosse vuoto.
Quando cominciai a sfilarmi la maglia, camminando verso la mia camera, qualcuno bussò alla mia porta: mi fermai in mezzo al corridoio, la maglia mezza sfilata e il cuore che batteva all’impazzata.
Festa.
«Lexi, sono io apri». La voce di Aria che sghignazzava prima che qualcosa –o qualcuno –sbattesse contro la porta. «Sta fermo» ridacchiò, mentre mi avvicinavo all’entrata del mio appartamento, dopo essermi sistemata la maglia. Le avrei detto che non mi sentivo bene e che mi dispiaceva, ma non mi andava di rovinare la loro festa. «Lexi, che succede?» domandò lei, non appena aprii l’uscio.
Dollar, dietro di lei, teneva le mani intrecciate sulla sua pancia e il mento appoggiato alla sua spalla, ma quando mi vide, fece scivolare le sue mani sui fianchi di Aria, indietreggiando di un passo. «Doc, tutto bene?». C’era quasi una nota ansiosa nella sua voce, la stessa che avevo sentito in quella di Aria.
«Io… sì, cioè no… non sto molto bene, è meglio se non vengo alla festa» mentii, torturandomi le mani e tenendo lo sguardo basso. Improvvisamente i piedi di Aria e Dollar erano diventati molto più interessanti dei loro volti; forse perché ero sicura che così non avrebbero scoperto il mio bluff.
«Doc, che hai?». Dollar si avvicinò a me, superando Aria. Quel gesto mi fece sospirare sollevata, ero sicura che lui avrebbe creduto alla mia bugia, a differenza di Aria; lei infatti sembrava capire le persone solamente con uno sguardo, una qualità che mi incuriosiva e intimidiva allo stesso tempo.
«Doll, vai ad aiutare Ryan con le birre, ti raggiungiamo dopo». Aria spintonò Dollar fuori dal mio appartamento, guardandomi minacciosa. Indietreggiai istintivamente, sicura che avesse capito la mia bugia. Se fosse stato realmente così, non l’avrei passata liscia. L’espressione infuriata sul suo viso la stava dicendo tutta: ero nei guai. Dollar cercò di dire qualcosa, ma lei, senza lasciargli il tempo di spiegarsi, chiuse la porta del mio appartamento, voltandosi poi verso di me. «Cosa sarebbe questa stronzata che stai male? Adesso tu attraversi quello stupido pianerottolo e vieni di là a farmi compagnia, visto che non ho voglia di parlare con Butterfly che ha sempre le gambe aperte. Muoviti» ordinò, indicando la porta. Era arrabbiata, forse addirittura infuriata. Non riuscii a trattenermi e cominciai a ridere, irritandola ancora di più. «E non ridere o chiamo Sick che venga a prenderti a forza. Sai che con lui nessuno ti assicura di arrivare di là». Un ghigno sadico apparve sulle sue labbra piene, mentre si sistemava i lunghi capelli castani dietro la schiena.
«Aria, per favore… non voglio venire a quella festa. Sono davvero felice per te e Dollar, dico davvero, ma… ci sono Butterfly, le sue amiche, Ryan… non ho voglia di vedere tutta quella gente. Adesso mi cambio e guardo un bel film. Ma tu divertiti». La rassicurai anche con un sorriso, sperando che la smettesse di insistere. Mi sarebbe piaciuto andare a quella festa per lei e per Dollar, erano gli invitati che non sopportavo. Specialmente due, che avrei volentieri preso a pugni di nuovo.
«Stai scherzando? Tu manchi alla mia festa perché c’è Butterfly? Evitala, il suo cervello è così piccolo che a forza di andare su e giù si è perso. Muoviti, rimani con me e non rompi». Prese il mio polso, costringendomi a seguirla fuori di casa. Cercai di protestare, ma senza risultato. Mi ritrovai di fronte a Sick, che ghignava, soddisfatto di trovarsi davanti una me ammutolita.
«Benvenuta, Lexi. Mi casa es tu casa, e in casa tu giri nuda, no? Quindi, togliti pure tutti i vestiti». Ammiccò, facendomi ridere. Sick era sempre il solito, non perdeva mai l’occasione di provarci con me, nonostante i miei continui rifiuti. Aria però non mi lasciò il tempo di rispondergli, mi trascinò verso la parete delle foto, stupita di vedere la mia appesa lì con le altre.
«E questa? Chi ti ha dato il permesso di metterla qui?». Voleva rimanere seria, quasi arrabbiata, ma non ci riusciva; c’era un sorriso stampato sul suo viso che non se ne voleva andare. Guardai la mia foto ancora appesa alla parete di fianco a quella dei ragazzi e poi spostai lo sguardo su Aria, che non la smetteva di fissarmi in attesa di una risposta.
«Non l’ho messa io, mi credi così stupida? È stato Ryan, voleva fare l’idiota come sempre, naturalmente» sbottai, guardandomi attorno furtivamente per vedere se fosse nei paraggi: magari potevo prendere la foto e nasconderla prima che se ne accorgesse qualcuno. Ero sicura che Aria non avrebbe di certo obbiettato. Quando però, a pochi metri da noi, vidi Ryan, mi immobilizzai per la sorpresa: sul suo volto c’era un grande livido che dall’occhio arrivava fino al mento. Fortunatamente non sembrava che ci fosse sangue; non era un taglio, assomigliava di più a una botta.
«Cosa hai fatto?» domandai, avvicinandomi istintivamente a lui per controllare. Mi alzai in punta di piedi, appoggiando una mano sul suo petto per non perdere l’equilibrio; l’altra accarezzò la sua guancia con i polpastrelli, sfiorando la parte lesa per cercare di capire a cosa fosse dovuto quell’ematoma. «Come ti sei fatto male?» bisbigliai, alzando lo sguardo per controllare che non mi mentisse o si prendesse gioco di me come il suo solito.
«Il gatto della vecchia del piano di sotto». Ma il suo sguardo divertito e derisorio diceva altro, così come la sua bocca contratta in una smorfia sarcastica. Istintivamente reagii, schiacciando le mie dita sulla pelle arrossata, come una bambina in cerca di vendetta. Ryan indietreggiò sbottando un insulto e si portò una mano sulla guancia, per massaggiarsi dove lo avevo colpito.
Era un gesto infantile e da stupidi, ma volevo che la smettesse di prendermi in giro e mentirmi. Ero la loro vicina da più di un mese, li avevo curati e ricuciti, avevo salvato la vita a Sick, mi avevano vista ubriaca e delirante: era il momento di smetterla di trattarmi come una persona che non doveva sapere la verità. Soprattutto, non ero così stupida come credeva; riuscivo a capire quando mentiva e quando no.
Mi voltai, dandogli le spalle per tornare da Aria, che aveva osservato tutta la scena divertita. «Non dire niente, non ci provare» la ammonii, prima che potesse cominciare a dire che non dovevo rivolgermi a Ryan in quel modo perché lui era l’O.G. degli Eagles. Poteva essere chi voleva, ma qualcuno doveva assolutamente fargli capire che il mondo non ruotava attorno a lui e che non aveva il permesso di essere sempre così ironico con tutti.
Avevo quasi raggiunto la porta quando Butterfly entrò, seguita da un gruppo di papere come lei. Quello che però attirava la mia attenzione – distogliendola dal gruppo di ragazze – era il vistoso cerotto bianco che aveva sul naso; risaltava sul trucco scuro dei suoi occhi e mi invogliava a colpirla una seconda volta, ancora più forte.
«Guardate, la nanetta psicopatica». Cinque sguardi – quelli di Butterfly e le sue quattro amiche – si spostarono su di me, facendomi sentire per qualche istante in imbarazzo. Poi realizzai quello che Butterfly aveva detto e, pronta per andare a rompere definitivamente il suo naso, avanzai verso di lei.
«Lentiggini, frena l’istinto da boxeur» sogghignò Ryan, stringendomi un polso per fermarmi. Mi voltai, guardandolo con tutto l’odio che potevo trasmettergli: Butterfly mi aveva offesa e io dovevo incassare senza reagire? No, non funzionava proprio così; per alcuni aspetti del mio carattere ero ancora una bambina cocciuta, soprattutto quando la gente mi provocava.
«Hai sentito cosa ha detto?» sibilai, stringendo le mani a pugno perché volevo evitare di colpirlo in pieno viso, vista la botta che già aveva. Però forse… di sicuro gli avrebbe fatto molto più male di un colpo assestato in condizioni normali.
«Sì, e allora?» domandò, come se non fosse stata un’offesa. Sul suo volto si allargò un sorriso che sfociò presto in una risata: «ma è vero che sei una nanetta. E sulla parte della psicopatica… potrei anche concordare». Di nuovo quel sorriso: mi stava prendendo in giro. Se quella era l’anticipazione della serata, be’, non ci tenevo proprio a rimanere lì, per essere derisa davanti a tutti.
«Sei uno stronzo e, ah! Vaffanculo». Con poca eleganza alzai il dito medio, strattonando il mio braccio perché mi lasciasse il polso. Quando mi trovai Butterfly di fianco, fui quasi tentata di tirarle un nuovo pugno, ma avevo già dato abbastanza spettacolo e non volevo rovinare la festa a Dollar e Aria, avevo fatto anche troppo.
«Lexi, se esci da lì, non sei più mia amica, non ti parlo più». La voce di Aria sovrastava anche la musica e il chiacchiericcio. Mi fermai, immobile, con la mano sul pomello della porta, indecisa se aprire e finire un rapporto – che stava nascendo –  con una delle persone migliori che avessi incontrato lì, oppure rimanere da sola, senza nessuna ragazza con cui parlare o confidarmi.
Presi un respiro profondo, cercando di mettere in ordine le idee. Si trattava di fare una scelta, tra l’altro nemmeno difficile. Avevo bisogno di Aria lì, al Phoenix; avevo semplicemente bisogno di una persona che comprendesse la situazione e mi lasciasse sfogare. Spostai la mano dal pomello della porta, girandomi lentamente e trovando Aria davanti a me: sulle sue labbra c’era un sorriso soddisfatto, come se avesse sempre saputo che non sarei uscita da quella porta.
«Lasciali perdere e goditi la festa» mormorò, sorridendo di fianco a me. Annuii, evitando di guardare Butterfly o Ryan. Sentivo i loro sguardi addosso, ma forse, anzi, di sicuro, Aria aveva ragione: non dovevo prestare attenzione a loro ma divertirmi e basta. Forse era esattamente l’opposto di quello che stavano cercando di fare. Ero riuscita a smascherarli: Ryan e Butterfly non mi volevano a quella festa, ero un impiccio; proprio per quel motivo, sarei tornata a casa per ultima, anche se avessi dovuto assistere a qualche scena spiacevole.
Andai a sedermi su una sedia che avevano spostato di fianco ai divani vecchi e logori. C’erano anche un paio di poltrone che non avevo mai visto, come se tutta la festa si dovesse svolgere lì, davanti alla TV che, senza audio, continuava a trasmettere le immagini di un film porno. Quando riuscii a capire cosa stava succedendo, spostai lo sguardo dallo schermo, imbarazzata. Senza dubbio doveva essere una scelta di Sick, ma Butterfly e le sue amiche continuavano a guardare la TV con interesse, borbottando qualcosa e annuendo tra di loro. Mancava poco che prendessero appunti. Irritata dal loro comportamento, mi guardai attorno, cercando di capire chi fossero tutti i ragazzi che c’erano lì.
Riconoscevo Brandon, Sick, Paul e Josh, Lebo e Dollar, che continuava a pizzicare il sedere di Aria; lei non riusciva a smettere di ridere, cosa che faceva sembrare le sue minacce innocue. C’erano un paio di ragazzi che avevo visto più volte al Phoenix, ma, la cosa che mi stupiva di più, era vedere l’interesse con cui un paio di ragazzi che non avevo mai visto, guardavano la parete delle foto, criticandone due. Di sicuro si stavano facendo quattro risate, deridendo la foto che Ryan aveva preso alla stazione di polizia.
Mi avvicinai per intimargli di smetterla, anche se non li conoscevo, ma mi zittii, notando un particolare che prima – troppo presa dalla foga di andare contro Ryan –  non avevo notato: le foto segnaletiche di entrambi erano appese in fondo, sotto alle cornici bordate di nero raffiguranti Liam e Shake. Che fossero due nuovi Eagles? O semplicemente dei gonna-be? Loro potevano avere la foto assieme a quella di tutti gli Eagles o era un diritto che si acquisiva dopo la prova barbara dell’ascensore?
«Tu sei la loro vicina?». Uno dei due, il ragazzo con i capelli scuri e ricci, si voltò verso di me, dando una pacca alla schiena dell’amico perché lo imitasse. Sembravano intenzionati a parlare con me, anche se non ne avevo molta voglia. «Io sono Swift, lui è Ham» continuò il morettino, indicando poi l’amico biondo. Swift e Ham. I loro nomi mi facevano capire che erano già parte degli Eagles, visto che di sicuro quelli erano i cosiddetti “nomi da strada”.
«Lexi» bofonchiai, accennando un sorriso per non sembrare antipatica. In fin dei conti non era colpa loro se Butterfly quella stessa mattina mi aveva portato all’esasperazione, costringendomi a tirarle un pugno e a evitare una denuncia solo grazie a Ryan che aveva corrotto – non sapevo ancora come –  il poliziotto.
«Sei anche tu amica di Butterfly?» domandò il ragazzo biondo, ammiccando verso di me. Era partito con la frase sbagliata, visto che assomigliava terribilmente a qualche battuta di Sick, detta con quello strano tono. Meglio far capire subito che no, non ero collegata a Butterfly se non per l’odio che provavo per lei e no, nessuno di loro due mi piaceva.
«No. Non sono amica di Butterfly, e no, non mi interessate, così facciamo prima, senza che vi illudiate». Secca, acida e isterica. Sembravo quasi una zitella, ma non mi interessava nemmeno fare bella figura. Non era la serata giusta per una festa.
«Peccato» mormorò Ham, rabbuiandosi appena. Sentii una presenza dietro di me e mi voltai per controllare: era Sick, che prontamente si affiancò a noi, portando il suo braccio attorno alle mie spalle.
«Povera Lexi, tutti che ci provano con te, eh? Ma è perché sei da sola, in mezzo a tutti noi uomini. Sei come Puffetta, Lexi, quindi, datti da fare. Mi offro volontario per testarti». La sua mano scese pericolosamente dalla mia spalla, verso il mio seno, in un invito ancora più chiaro, nel caso non avessi capito quello che mi stava dicendo a voce.
«Cosa stai dicendo?» sbottai piccata, allontanando la sua mano con uno schiaffo e indietreggiando, perché non mi toccasse. I ragazzi dietro di me non riuscirono a trattenere una risata, come se la scena fosse divertente per loro: per me non lo era, assolutamente.
«Che sei come Puffetta, e sappiamo tutti come sono nati i puffi, su. Grande Capo, Puffetta... hanno puffato come James Deen e adesso si ritrovano con un sacco di puffi. Adesso andiamo in camera mia a puffare». Un nuovo ammiccamento che mi fece arrabbiare ancora di più: credevo di essere stata chiara con lui; non mi interessava e gli avevo intimato di smetterla. Era divertente all’inizio, ma quando cominciava ad allungare un po’ troppo le mani lo scherzo finiva.
«Puffetta almeno sapeva trombare e li soddisfaceva tutti. Qui mi sa che non è così Sick» ghignò Ryan a voce alta, facendo ridere tutti. «Più che Puffetta direi che è un… trottolino, qualcosa da abbracciare, tipo i peluche. Non fa tenerezza?». Mi sorrise, accendendosi una sigaretta, mentre rimaneva beatamente seduto sulla poltrona, a capo di quel cerchio.
L’avrei gentilmente mandato a quel paese di nuovo, ma non volevo dargli quella soddisfazione, visto che sapevo che il suo obiettivo principale era esattamente quello. Il mio sorriso finto sembrò soddisfarlo: il ghigno sul suo volto si allargò a dismisura, appena prima che si portasse la sigaretta alle labbra, per aspirare una nuova boccata di fumo. Per quello che mi importava, poteva rimanere tutta la sera a uccidersi in quel modo lento, accorciando la sua vita ogni volta che aspirava quella cosa puzzolente. Quando soffiò fuori il fumo mi accorsi però che era un po’ troppo denso e bianco per essere quello di una sigaretta. Di male in peggio.
«Idiota» mormorai tra me e me, andando a sedermi sulla sedia opposta alla sua poltrona, per rimanere il più distante possibile da lui. Non era lui il motivo per cui ero a quella festa, erano… Aria e Dollar, che continuavano a punzecchiarsi e baciarsi in mezzo alle persone, come se fossero stati da soli. Aria mi aveva fatto rimanere lì con una minaccia, poteva anche rimanere distante dalle labbra di Dollar per qualche secondo; giusto per scambiare qualche battuta anche con me, senza farmi sentire idiota e sola.
«Doll… Jack… smettila, dai, c’è Lexi» bofonchiò tra una risata e l’altra Aria, poggiando le mani sul petto di Dollar e allontanandolo un po’. Alzai gli occhi al cielo, sollevata: finalmente avrei parlato con qualcuno senza essere offesa o derisa. «Come va?» chiese, avvicinandosi a me, mentre Dollar raggiungeva Ham e Swift, impegnati in una conversazione che sembrava seria.
«Male, come vuoi che vada?» ammisi, senza rendermene veramente conto. Era così quando Aria parlava con me, riuscivo a confidarmi con lei prima ancora di realizzare cosa dicevo. La verità era che di lei mi fidavo e poche volte mi ero sbagliata con la prima impressione.
«Perché, che succede? Sai che puoi parlarne, no?». Spostò la sedia avvicinandola alla mia, per essere più vicina e capire meglio quello che volevo dirle. Presi un respiro profondo, spostandomi i capelli dietro alla schiena e massaggiandomi le tempie per cercare di calmare il mio mal di testa.
«Perché stamattina sono finita in prigione, mi hanno schedata e non ho avuto una denuncia solo perché Ryan ha corrotto il poliziotto non so nemmeno come. Ho dovuto pagare trecento dollari di cauzione per uscire e me ne rimangono meno di duecento: devo arrivare a fine mese e pagare l’affitto, ma non ho i soldi necessari per fare tutto e non so come fare. Mi sbatteranno fuori di casa, credo, e dove vado? Torno a casa dai miei con la coda tra le gambe, dicendo che non sono in grado di cavarmela da sola? È esattamente quello che volevo dimostrare, io… non so nemmeno più chi sono, non mi sono mai comportata così. È come se fossi un’altra persona: rispondo male, sono arrabbiata e irritata, la Lexi che viveva a Los Angeles aveva un sorriso e un abbraccio per tutti, era la prima che faceva festa e si divertiva nei limiti, ero responsabile e pensavo dieci volte prima di fare qualcosa. Guardami, sto diventando una teppista dopo nemmeno due mesi; sto diventando come… loro». Alzai la mano, indicando Ryan e Sick, davanti a noi. Stavano parlando di qualcosa di divertente, indicando la TV, che trasmetteva ancora il film porno.
Aria appoggiò la sua mano sulla mia, stringendola appena: «stai crescendo, Lexi. Qui non è come a Los Angeles, probabilmente quella ragazza non sarebbe sopravvissuta nemmeno una settimana qui. Maturi, cresci, cambi, succede a tutti, ad alcune persone prima di altre, ma non per questo devi sentirti strana. Forse stai semplicemente attraversando un periodo di transizione, ti stai mettendo alla prova. Perché non può essere questa Lexi, quella che tira pugni, quella vera? Forse hai sempre pensato troppo e hai bisogno di staccare, no?». Mi sorrise, un sorriso dolce che mi scaldò il cuore e che fece scivolare una lacrima lungo la mia guancia che asciugai subito con il dorso della mano. «e per la questione dei soldi non posso aiutarti, anche se lo vorrei. Ho l’affitto da pagare e John non dà lo stipendio ogni mese, sto cercando di mettere da parte qualcosina per un progetto futuro. Però, forse… io… mi avevano proposto un lavoro che non ho accettato, ma tu… se ne hai tanto bisogno. Pagano bene e si tratta di un paio d’ore» anticipò, abbassando ancora di più il tono della voce. Ero disposta a tutto, se mi avessero pagata abbastanza per riuscire a pagare l’affitto. Disposta a tutto nei limiti del possibile, logicamente.
«Di cosa si tratta?» chiesi, speranzosa e preoccupata allo stesso tempo. Perché Aria aveva rifiutato la proposta? C’era qualcosa di losco sotto o magari era qualcosa di indecente? Si trattava di girare qualche filmato porno? Perché se così fosse stato, mi sarei rifiutata anche io.
«Ecco… sono un paio di scatti per una marca di intimo. Foto che finiranno solo sui cataloghi che mettono dentro ai negozi, non foto pubblicitarie che compaiono nelle strade. Ho visto i completi, sono carini e belli, niente strane trasparenze o cose troppo spinte. Semplicemente non me la sono sentita perché mi è stato offerto quando lo zio è morto e c’era Dollar, quindi ho lasciato perdere, Ma se vuoi credo stiano ancora cercando una modella». Prese la sua borsa che aveva appoggiato sulla sedia e cominciò a frugare, fino a trovare il telefono.
«Aria, modella di intimo? Guardami». In un gesto stupido, con entrambe le mani, mi indicai il corpo: come potevo fare la modella io, che non avevo nemmeno una prima, che ero alta poco più di un metro e mezzo e che avevo la pancia anche troppo muscolosa a causa di tutti gli anni di surf? Sapevo che le modelle di intimo non avevano il mio fisico, inutile mentire.
«Sei perfetta, Lexi. Ti mettono un paio di tacchi, ti truccano e sarai perfetta. Credici. Questo è il numero, te lo invio». Digitò qualche altro tasto prima che sentissi il mio cellulare vibrare dentro alla tasca dei miei jeans. Ci avrei pensato, ma non ne ero sicura.
«Dov’è il mio piccolo e personale McFlurry?» sghignazzò Dollar, scompigliando i capelli di Aria che arrossì, pestandogli un piede.
«Sta zitto, idiota». Si alzò in piedi, dandogli un pugno scherzoso sullo stomaco, che lui ricambiò con un pizzicotto sui fianchi. In poco tempo passarono dai dispetti ai baci, rincorrendosi per l’ampia cucina, come se fossero stati due bambini. Forse lo erano davvero, in quei momenti: Aria e Dollar avevano sedici anni, ma sembrava che troppo spesso se ne dimenticassero, impegnati com’erano a vivere una vita al limite. Sembrava quasi che, assieme, accantonassero i problemi della vita, per rinchiudersi in una bolla dove c’erano solo loro. Non sapevo perché, ma ero invidiosa di quel loro modo di vivere.
Cominciai a guardare i ragazzi attorno a me: si stavano tutti divertendo; ridevano e scherzavano bevendo birra e facendo battute stupide. L’unica che, in quella sala, non parlava con nessuno ero io. Anche Butterfly, nonostante il cerotto sul naso pesto, si stava intrattenendo con Ryan e Lebo; più con Ryan a dire la verità, visto che era seduta di fianco a lui, sulla sua poltrona e senza farsi tanti problemi continuava ad accarezzargli la coscia, strusciando le sue unghie laccate sui suoi jeans. Ryan continuava a parlare con Lebo, senza muoversi: era il ritratto della tranquillità seduto su quella poltrona, con le braccia distese sui braccioli e la testa appoggiata allo schienale. D’un tratto spostò il suo sguardo su di me, senza smettere di parlare con Lebo; Butterfly seguì il suo esempio, lanciandomi un’occhiata divertita e strusciandosi ancora di più addosso a lui. Con un braccio circondò il collo di Ryan, avvicinando le labbra al suo orecchio e mormorandogli qualcosa che lo fece sghignazzare, mentre non la smetteva di fissarmi. L’altra mano di Butterfly scese sul suo petto, accarezzandolo con il palmo della mano, sempre più giù, fino ad arrivare alla cintura dei jeans; su e giù, in una carezza lenta e continua che divertiva Ryan. O forse, semplicemente, era lei a divertirlo, lei che continuava a strusciarsi al suo fianco, con la gamba che saliva sempre di più lungo la coscia di Ryan. Irritata da quello spettacolino porno dal vivo, sbuffando cercai qualcosa su cui concentrarmi: non volevo sentire lo sguardo di Ryan su di me mentre Butterfly lo accarezzava, solo per prendermi in giro.
«Che succede Lexi, sei gelosa?». C’era una nota divertita in quella voce che di solito era sempre seria. Guardai Brandon, sedutosi di fianco a me con una lattina di birra tra le mani. Sembrava rilassato: un sorriso sincero sulle labbra, uno di quelli che riusciva a raggiungere anche gli occhi.
«Io, gelosa? E di cosa, scusa?». Perché dovevo essere gelosa? Non avevo nessun motivo di essere gelosa. In più trovavo, molte volte, la gelosia sbagliata. Di solito ero felice per le altre persone, mai gelosa. Lì a Hunts Point, poi, non avevo nessun motivo per essere gelosa di qualcuno, assolutamente.
«Di Ryan e Butterfly? Vorresti incendiarli o mi sbaglio?» scherzò, porgendomi la lattina di birra perché potessi berne un po’. Gelosa di Butterfly e Ryan, io? Forse Brandon aveva bevuto un po’ troppo, visto che quella era la cosa più insensata che avesse detto da quando ero arrivata lì.
«Cosa? No, assolutamente». Bevvi un sorso di birra, rabbrividendo quando il liquido fresco scese in gola. «Non sono gelosa, sono solo… schifata, ecco. È una cosa ributtante vedere scene così, se devono fare qualcosa possono anche chiudersi in camera, non è che tutti sono interessati a quello che devono fare» risposi piccata, riportando lo sguardo su di loro. La situazione non era cambiata poi molto: Ryan stava parlando con Lebo, ma Butterfly non aveva smesso di accarezzarlo, anzi, gli dava anche dei baci sul collo.
«E ti fanno schifo solo Ryan e Butterfly?» continuò, quasi divertito. Cosa c’era di tanto divertente in quella scena? Io non riuscivo a vederlo, davvero. «Cioè, guardati attorno, Dollar e Aria credo si siano divisi solo per prendere fiato, Sick è sparito da non so nemmeno quanto in camera con la morettina e Titty e Lucy sono con i gemelli sul divano…». Indicava tutti nel momento in cui li citava. Certo, Sick se ne era andato con un sorriso divertito sulle labbra e la mano sul sedere della ragazza, ma Dollar e Aria non erano rimasti a baciarsi per tutta la sera: avevo parlato con loro e Aria era riuscita anche a darmi qualche consiglio. I gemelli e le due ragazze invece… sembrava stessero solo parlando, ma non volevo avvicinarmi a loro per controllare.
«Non capisci, è il modo di fare di Butterfly, vuole provocarmi perché così le tiro un nuovo pugno». Era quella la verità: lei voleva farmi cedere davanti a Ryan, ma non mi interessava poi molto se si strusciava addosso a lui o altro. Solo, poteva evitare di farlo davanti ad altre persone e a me, ecco.
«E ci sta riuscendo, vedo» scherzò di nuovo, prendendo la lattina dalle mie mani e bevendone un sorso. No, non ci stava riuscendo. Butterfly aveva già vinto una volta, non le avrei permesso di vincere di nuovo, soprattutto non lì, davanti a tutti. Mi guardai attorno: Dollar e Aria continuavano a ridacchiare e a farsi dispetti tra un bacio e l’altro, i due ragazzi nuovi – Ham e Swift – erano impegnati a parlare tra di loro, Lebo e Ryan anche, nonostante Butterfly cercasse in tutti i modi di distrarlo. Insomma, tutti erano impegnati a parlare con qualcuno, l’unica che rimaneva sempre da sola, tranne quando qualche animo gentile come Brandon si avvicinava, ero io.
«Forse è meglio se me ne torno a casa, non c’entro poi molto io, qui». Cercai di alzarmi, ma Brandon prese la mia mano, costringendomi a non alzarmi da quella sedia. Il sorriso divertito era sparito dalle sue labbra, lasciando spazio a un’espressione seria, che poco ricordava il suo ghigno di qualche istante prima.
«Rimani ancora un po’, devono ancora fare l’annuncio». Indicò con un gesto del capo Dollar, che si stava lisciando la maglia stropicciata, aiutato da Aria. Quel gesto mi fece sorridere, ricordandomi il vero motivo per cui ero lì, così, per non deludere Brandon, rinunciai al mio tentativo di andarmene.
«Io… io vorrei solo fare un annuncio, ecco. Sapete tutti perché siete qui, no?». Dollar prese la mano di Aria, attirandola verso di lui per abbracciarla. Quel gesto scatenò dei fischi da parte dei ragazzi, che risero, assieme a Dollar. «Insomma, dopo dieci anni vogliamo ufficializzare le cose, per questo stasera sono lieto di annunciarvi che Aria è la mia Signora, questo significa che nessuno di voi la può più toccare, o vi taglio a pezzettini. Ah, logicamente nemmeno lei può sfiorare neanche con un dito un uomo che non sia io, se la vedete fare una cosa del genere… ditelo a me che poi io la punirò. Mi sembra di aver detto tutto» concluse, riservando uno sguardo ad Aria, ancora imbarazzata. Le diede un bacio sulle labbra che si concluse non appena ricominciarono i fischi e le battute sceme. Cominciai ad applaudire assieme agli altri, divertita e commossa da quella che, a tutti gli effetti, sembrava una – strana – festa di fidanzamento.
«Devi fare il giuramento, Doll» gridò Ryan, senza alzarsi in piedi, rimanendo sempre con Butterfly spalmata addosso a lui.
«Oh cazzo» sbottò Dollar, guadagnandosi prima un pugno e poi un’occhiataccia da parte di Aria. Giuramento? Che giuramento? C’era un giuramento da fare in quella strana cerimonia? «Giuro solennemente di trattarti bene come il mio flag, e di cavalcarti tanto quanto la mia moto». La mano destra sul cuore e il braccio sinistro attorno alle spalle di Aria. Quando concluse la frase Ryan cominciò ad applaudire, seguito subito dopo da tutti gli altri. Sotto al rumore degli applausi, Dollar e Aria si scambiarono un nuovo, appassionato, bacio.
«Sei uno stronzo! Se non mi sbrigo a venire mi perdo anche il tuo fottuto giuramento! Perché non mi hai chiamato?» sbottò Sick. C’era una nota stonata nella scena, che no, non era di certo la sua frase, quanto il suo… abbigliamento: era nudo, completamente; aveva solo un cuscino grigio che usava per coprirsi lo stretto indispensabile. Aria non riuscì a trattenere una risata, guardandolo, e si nascose contro il petto di Dollar. «Che cazzo c’è da ridere? Sono corso qui quando ho sentito gli applausi. Siete degli stronzi». Diede le spalle ad Aria e Dollar, girandosi verso Ryan e gli altri ragazzi. Inevitabilmente, visto che aveva girato le spalle anche a me, scoppiai a ridere vedendo il sedere di Sick. Forse non era la visione del suo sedere ad essere così comica, quando il segno ancora rosso ed evidente di uno schiaffo.
«Sick, vai a vestirti» ordinò Ryan, senza smettere di ridere. «Sei ridicolo e in più hai una manata sul culo» concluse poi in modo poco fine, ma così divertente che non riuscii a non ridere, assieme agli altri presenti.
«Non capite niente, queste lenzuola sono di seta. Seta. Costano» precisò, indicando il cuscino e allontanandosi verso la sua stanza, senza aggiungere altro.
«Bene, se volete scusarci… Doll, Aria mi raccomando, festeggiate bene e non fate troppo rumore, visto che la mia stanza è di fianco alla vostra». Ryan si alzò dalla poltrona, avvicinandosi a Dollar e Aria. Mollò una pacca sulla spalla a Dollar e con un gesto strano e impacciato cercò di abbracciare Aria.
«Ryan, tanto se fanno rumore non li sentirai, te ne farò fare di più io» sghignazzò Butterfly, seguita subito dalle altre ragazze che erano lì, sedute sul divano con i gemelli. Quella battuta di pessimo gusto mi fece sbuffare schifata. Di nuovo, nel giro di poche ore, si era dimostrata come un’oca senza cervello, che pensava di essere simpatica ma era solamente volgare.
«Dopo questa perla, me ne vado» mormorai rivolta a Brandon, ancora seduto di fianco a me. Lo vidi sorridere appena, dopo avermi salutato con un gesto della mano. Camminai verso Dollar e Aria per salutarli prima di andarmene e, una volta raggiunti, capii che non sapevo che cosa dire. Dovevo fare le congratulazioni per il loro fidanzamento? Optai per la cosa meno stupida che avevo pensato. «Grazie per avermi invitata, sono davvero felice per voi». Sorrisi, abbracciando Aria che ricambiò la stretta; cercai di fare lo stesso gesto con Dollar, ma non ci riuscii, perché mi scompigliò i capelli, sorridendo.
«Grazie per essere qui, Doc» disse poi, abbracciandomi. Appena indietreggiai di un passo tornò a circondare le spalle di Aria con il suo braccio, come se avesse paura di non averla più al suo fianco.
Sorrisi un’ultima volta ai miei amici, rabbuiandomi quando notai lo sguardo soddisfatto che Butterfly stava rivolgendo a me – ne ero sicura – mentre con Ryan si chiudeva la porta del corridoio alle spalle.
 
«Ripetimi l’indirizzo, per favore» biascicai, tamburellando con il vassoio contro al tavolo per l’agitazione. Perché avevo accettato quel maledetto lavoro? Con che coraggio mi sarei presentata al fotografo credendo che avrebbero potuto scegliere me come testimonial per quella marca di intimo?
«Lexi, calmati, non c’è niente di male. Sono un paio di foto, tutto qui, sarai perfetta. E l’indirizzo lo sai, è quello studio a New York, in centro». Non mi stava aiutando, non in quel modo. Ricordarmi che il fotografo era a New York mi agitava ancora di più. Non ci sarei andata, avevo cambiato idea. Mi sarei inventata qualche strana scusa: un meteorite, il crollo del mio palazzo, un attacco alla metropolitana di New York. Tutte scuse plausibili, insomma.
«Ok, non ci vado più» decisi, appoggiando definitivamente il vassoio sul bancone del Phoenix e prendendo un respiro profondo. Non era poi una brutta idea, avrei rinunciato a mille dollari, in fin dei conti cos’erano? Solamente due mesi d’affitto pagati e anche dei risparmi per la spesa, niente di più o di meno. «No, ci vado, mi servono i soldi» piagnucolai, capendo che probabilmente sembravo una pazza squilibrata dalla doppia personalità.
«Lexi, mi fai paura. Smettila, tanto ci vai, perché ho già detto a John che devi uscire prima. E non può dire niente a me, adesso sono la Signora di Dollar». Concluse la frase con un sorriso soddisfatto, come se dire quella frase le desse un piacere indescrivibile, come se avesse sempre voluto dirla.
Non riuscii a trattenere una risata divertita dalla sua felicità e il mio sguardo si posò di nuovo su quel ragazzo all’angolo, che per tutto il mio turno mi aveva guardata; ero quasi convinta di averlo visto ammiccare un paio di volte, ma non lo conoscevo, non mi sembrava, almeno.
«Aria, chi è quel ragazzo che continua a guardarmi? È strabico o gli ho fatto qualcosa di male?» mormorai, dando le spalle al morettino e indicandolo senza che potesse vedermi. Aria cominciò a ridere, appoggiandosi al bancone per non cadere per terra, sembrava che avessi detto una barzelletta divertentissima. «Che c’è? Dovrei conoscerlo? È qualche nuovo acquisto degli Eagles? È un O.G. o qualcosa di simile?» mi allarmai, guardandomi attorno per capire se qualcuno avesse sentito che non sapevo chi era quel ragazzo. Aria rise ancora più forte, irritandomi maggiormente.
«Jack… Dollar mi ha raccontato che quando ci siamo ubriacate, hai cominciato a guardarlo, urlando che l’avresti sposato. Lui è Peter, abita nella strada dopo questa. Probabilmente non te ne sei mai accorta, ma viene spesso qui, e sembra che tu gli sia simpatica. O forse gli sei simpatica da quando ha sentito che volevi sposarlo» sghignazzò, deridendomi. Bene, non bastavano quelle maledette foto che dovevo fare nel pomeriggio per agitarmi, ora c’era anche un ragazzo a cui avevo dichiarato il mio amore ma che non ricordavo nemmeno di aver visto.
«Ma quanto ero ubriaca?» domandai, sbirciando verso il ragazzo, che non la smetteva di sorridere. Non era brutto, ma dubitavo seriamente di aver detto che l’avrei sposato. Dovevo aver bevuto davvero molto per dire una cosa del genere.
«Lexi, muoviti: vai a casa, fatti una doccia e poi corri a prendere la metro per andare a New York. Non fare tardi, sai che più o meno hai un’ora di strada». Aria mi slacciò il grembiule, spingendomi fuori dal Phoenix con un sorriso sulle labbra. Certo, lei era felice; tanto ero io quella che doveva rimanere mezza nuda davanti a una macchina fotografica per riuscire a pagare l’affitto.
Camminai velocemente verso casa, cercando di non pensare a quello che dovevo fare. Una doccia veloce e, in pochi minuti ero pronta per andare a prendere la metropolitana.
Scesi le scale sperando di non incontrare Ryan per non dare spiegazioni su quello che stavo per fare e sospirai sollevata quando mi chiusi il portone dello stabile alle spalle: ero riuscita a evitare tutti i ragazzi; questo significava non dover dare spiegazioni a nessuno. Quel lavoro sarebbe stato un segreto tra me e Aria, nessuno avrebbe mai saputo dell’esistenza di quelle foto e tutto si sarebbe risolto al meglio: i soldi erano quelli del lavoro al Phoenix.
Un quarto d’ora dopo, quando arrivai alla fermata della metropolitana, inorridii: c’erano delle persone raggruppate fuori dall’entrata, che borbottavano arrabbiate. Mi avvicinai a loro, cercando di capire cosa fosse successo. Riuscii a sentire poche parole, che bastarono perché il mio malumore aumentasse. «Ragazzo… lanciato sotto alla metropolitana. Morto… tutto bloccato». Perché qualcuno aveva scelto proprio quel giorno per lanciarsi sotto a un treno in corsa? Come sarei arrivata a New York? Impensabile prendere un autobus a quell’ora, o sarei arrivata in ritardo di un’ora; un taxi era troppo costoso e non avevo tutti quei risparmi. L’unica cosa da fare era… sì, quello di sicuro era il metodo più veloce per arrivare a New York.
Presi il telefono dalla borsa, componendo l’unico numero di cui mi fidavo. «Che c’è, Doc?». La voce di Dollar era quasi divertita, forse perché non si aspettava una mia chiamata. Ma non potevo di certo rivolgermi a Ryan; mi immaginavo le sue battute stupide sulla mancanza di tette o altro.
«Dollar, sei da solo o c’è qualcuno vicino a te?» domandai, ansiosa di sapere la risposta. Se ci fosse stato Ryan di certo avrebbe chiesto spiegazioni, visto che Dollar mi aveva chiamata Doc.
«Sono da solo, c’è qualche problema?». La voce improvvisamente seria, esattamente come faceva Ryan quando qualcosa risvegliava il suo lato quasi umano. Non riuscii a non sorridere, notando quella somiglianza. Quando però ricordai quello che stavo per chiedergli, il sorriso sparì subito dalle mie labbra.
«Ecco, io… ho un incontro di lavoro a New York, ma… un tizio si è lanciato sotto a un treno e adesso è tutto bloccato e io non ce la faccio ad arrivare in tempo. Puoi… potresti accompagnarmi tu, in moto? Però nessuno deve sapere nulla, per favore» implorai, sperando che mi ascoltasse. Ero sicura che Dollar avrebbe mantenuto il segreto, magari perché minacciato da Aria. Ma se l’avesse detto anche solo a Sick, non avrei avuto più pace, tutti i ragazzi l’avrebbero saputo e sarebbe stato impossibile scappare alle loro prese in giro.
«Arrivo subito» mormorò, prima di chiudere la chiamata. Speravo che si ricordasse di prendere il mio casco, ma non volevo chiamarlo ancora, così cominciai a camminare su e giù, cercando di scacciare l’ansia. Alcuni minuti dopo sentii il rombo di una moto, seguito subito dopo dal rumore di un clacson.
Corsi veloce verso Dollar, sorridendogli grata. Mi porse il casco, alzando la visiera del suo per parlarmi.
«Che succede Doc?» chiese, aspettando che chiudessi la sicura del mio casco. Cercai di non metterci molto, ma ogni volta non riuscivo ad agganciare il moschettone, così Dollar mi aiutò.
«Io… devo andare a fare un lavoro che mi ha consigliato Aria. Ma non importa… non voglio che tu sappia nulla altrimenti poi lo racconti agli altri. Lasciamo stare, mi basta che tu mi accompagni a New York» farfugliai, senza veramente dire qualcosa di senso compiuto. Dollar aspettò che salissi dietro di lui, prima che gli dettassi l’indirizzo del fotografo. Non sembrò capire chi ci fosse a quell’indirizzo, perché annuì, partendo subito sgommando.
Quando arrivammo davanti allo stabile, l’insegna del fotografo svettava sul bianco del muro, ma Dollar non sembrò farci caso quando frenò, spegnendo la moto. «Grazie per avermi accompagnato. E ti prego, non dirlo a nessuno. Sarà il nostro segreto, d’accordo?» supplicai, riporgendogli il mio casco, dopo essermelo tolto. Dollar si guardò attorno, probabilmente non capendo le mie parole. Quando il suo sguardo si posò sull’insegna d’orata, spalancò gli occhi sorpreso, tornando a guardarmi subito dopo.
«Fotografo? Hai accettato quel lavoro che Aria non ha voluto fare?». Non gli risposi, troppo imbarazzata. Probabilmente però, il mio silenzio gli fece capire che la sua intuizione era esatta, perché continuò, ancora più elettrizzato: «Cazzo. Perché ora? Be’, me le farai vedere, vero? No, cazzo. Non posso, Aria. Merda. Be’, le farai vedere a Sick, almeno?» domandò, combattuto. Era chiaro che una parte di lui voleva vedere le foto, l’altra invece si ricordava di Aria e della loro festa di fidanzamento di un paio di giorni prima. «Tu le dai a me che le faccio vedere a Sick, non sono per me, quindi non c’è niente di male se poi ci do un’occhiatina. No, forse c’è qualcosa di male. Ma se Aria non lo viene a sapere… e poi tu non sarai nuda, no? Ma tu conosci Aria e… no, non posso. Non me le farai vedere, vero? Le chiudi in una busta sigillata che io darò a Sick, poi tu le…». Dollar non la smetteva di parlare, non lasciandomi il tempo di ribattere. Così, per fermarlo, appoggiai la mia mano sul suo braccio, prendendo un respiro profondo per spiegare bene la situazione.
«Dollar, le foto non le vedrà nessuno, ok? Né tu o Sick, né Aria o non so chi. Nessuno saprà niente di questo servizio fotografico, come se non l’avessi fatto, ok?» conclusi, sistemandomi la borsa sulla spalla perché volevo entrare, per non arrivare in ritardo. Dollar si rabbuiò leggermente, come se fosse deluso, poi però annuì.
«In bocca al lupo, allora. Se hai bisogno per il ritorno chiamami pure. Ciao Doc». si abbassò la visiera del casco, agganciando il mio al manubrio e dando gas per accendere il motore. Pochi secondi dopo, Dollar, schivando un taxi giallo che stava arrivando, sparì sgommando per ritornare a casa.
Presi un respiro profondo, guardando di nuovo l’entrata del lussuoso stabile davanti a me. Ero a New York, non nel Bronx. Con un sorriso amaro cominciai a salire i gradini bianchi, ringraziando l’usciere che mi aprì il grande portone di legno e vetro per farmi entrare. Presi l’ascensore, salendo fino al quinto piano, esattamente come mi avevano detto per telefono; una volta arrivata davanti alla reception, sorrisi alla segretaria, presentandomi. «Buongiorno, sono Alexis Cooper, sono qui per quel servizio fotografico…» bofonchiai, con un filo di voce per l’imbarazzo. Quella ragazza era molto più portata di me per un servizio fotografico: fisico alto e slanciato, curve perfette, sorriso smagliante e capelli che ricadevano sulla sua schiena con onde setose. Che cosa ci facevo io, lì?
Mi condusse in una piccola stanza: sembrava un camerino, c’era una poltrona davanti a un grande specchio e, sedute su un divanetto nell’angolo, c’erano due ragazze che appena mi videro, smisero di parlare, raggiungendomi con un sorriso. Si presentarono, spiegandomi che erano le addette al trucco e ai capelli; mi fecero sedere sulla poltrona, cominciando a sistemarmi. Mi sentivo un’idiota mentre mi mettevano l’ombretto e arricciavano i miei capelli; era una tortura piacevole che sicuramente non avrebbe avuto un risultato perfetto. Dubitavo di risultare lontanamente attraente anche con un chilo di trucco sul viso e una quantità industriale di lacca per fissare i ricci.
«Scegli quello che vuoi per partire, tanto dovrai indossarli tutti e dieci» spiegò la ragazza che mi aveva truccata. Mi voltai per guardare i diversi completini intimi: quasi tutti erano composti da un bustino e un paio di culottes. Erano tutti molto belli, ma non ero ancora convinta che il mio fisico potesse far vedere la loro bellezza.
«Credo che sceglierò questo per primo» mormorai, indicando un bustino grigio, con dei fiocchetti neri. Le culottes erano dello stesso colore, ma terminavano con un po’ di pizzo. La ragazza sorrise, porgendomi anche un paio di calze a rete.
«Indossale sotto all’intimo, ti lasciamo fare da sola, quando hai finito di vestirti chiamaci pure per chiudere il corpetto dietro, non ti preoccupare». Mi sorrise quasi dolcemente, uscendo assieme all’altra assistente e lasciandomi da sola dentro a quel piccolo camerino.
Forza, dovevo solo farmi forza, potevo farcela. Guardai la mia immagine riflessa allo specchio: non mi riconoscevo nemmeno; il trucco scuro, i capelli con dei ricci curati e ordinati. Indossai velocemente le calze e gli slip, faticando un po’ con i gancetti del corpetto. Quando riuscii a chiudere anche l’ultimo gancio, mi guardai allo specchio di nuovo, sistemandomi i capelli dietro alla schiena. Sembravo la brutta copia di una modella di intimo, anzi, la copia menomata, visto che mi mancavano almeno un paio di taglie di seno. Aprii la porta con lo sguardo basso, troppo imbarazzata per guardare il volto delle due ragazze e capire che non era quello che cercavano per la campagna di intimo; ma il loro entusiasmo mi stupì, quando mi fecero indossare un paio di scarpe con i tacchi e completarono l’opera con alcuni braccialetti neri.
Scoprii che la ragazza che mi aveva acconciato era anche la fotografa e quella notizia riuscì a rilassarmi: mentre mi preparavano ero riuscita a parlare con loro tanto che mi sentivo meno in imbarazzo. E quando avevamo cominciato a fare le foto, una dopo l’altra, mi ero rilassata davanti all’obbiettivo; un cambio di intimo dopo l’altro ero riuscita anche a sorridere.
Sembrava tutto perfetto; quando indossai l’ultimo completo –u no nero bellissimo ma decisamente più audace degli altri, visto che copriva solo il seno e gli slip erano un perizoma sotto a un paio di culottes quasi trasparenti – capii che forse non era stata una brutta esperienza. Certo, continuavo a camminare da una stanza all’altra in tacchi, reggicalze e intimo sexy, ma sicura che nessuno avrebbe mai visto quelle foto, capii che in qualche modo quell’esperienza mi avrebbe fatta crescere. Avevo imparato che si riusciva sempre a cavarsela, in un modo o nell’altro. Bastava solo una gran forza di volontà.
Un colpo alla porta e delle urla improvvise. Mi guardai attorno, cercando di capire cosa stava succedendo in quella stanza: otto persone entrarono dalla porta, indossando un casco integrale scuro, che non faceva vedere i loro volti; agitavano delle pistole, senza veramente puntarle addosso a qualcuno. Spaventata indietreggiai, cercando di ripararmi da qualche parte, ma, dietro al divano chiaro non c’era spazio per nascondersi, per questo, quando uno di loro si avvicinò a me, puntandomi la pistola contro, cominciai a urlare, rannicchiandomi su me stessa perché non mi facesse del male. La sua mano strinse il mio braccio, costringendomi ad alzarmi. Nonostante tutto, però, la stretta non era ferrea, sembrava quasi che non volesse farmi veramente del male.
«Scusa Doc, ho dovuto». Doc. bastò quella parola per farmi capire tutto, perché solo una persona mi chiamava in quel modo. Abbassai lo sguardo, cercando di calmarmi per evitare che il mio cuore esplodesse per la paura, ma non ci riuscivo.
Capii subito chi di loro era Ryan, dal suo modo di camminare ma soprattutto dal suo muoversi sicuro in mezzo agli altri. Impugnava la pistola ad altezza uomo, puntandola contro alle due povere ragazze che cercavano di non urlare e piangere. Avrei voluto dirgli di smetterla, ma qualcosa mi fermava, come se fosse meglio non far capire che li conoscevo.
«La ragazza ha fatto le foto, quindi la pagherete. Domani i soldi saranno sul suo conto corrente» urlò, tenendo sempre la pistola puntata contro di loro. Con l’altra mano prese la macchina fotografica che avevano usato e la scaraventò a terra, distruggendola in tanti piccoli pezzi. Con la punta del piede spostò i pezzi, fino a trovare la memory card. Abbassò la pistola, sparando un colpo che mi fece gridare assieme alle due ragazze. «Dove sono le sue cose?» domandò alle ragazze, indicandomi. Mandy, quella che mi aveva truccato, singhiozzò che erano nel camerino dietro di noi. Vidi Ryan camminare fino all’altra stanza e uscire qualche secondo dopo con la mia borsa tra le mani. Non aveva ancora abbassato la pistola, e questo mi spaventava: temevo potesse sparare un nuovo colpo, stavolta magari contro le povere ragazze. «Se non ci sono i soldi entro due giorni, torneremo, e non provate a chiamare la polizia adesso, perché la ragazza viene con noi». A quelle parole Dollar strinse un po’ la presa del suo braccio attorno al mio collo, costringendomi a inclinare la schiena per non rimanere senza fiato.
«Appena usciamo ti libero» sussurrò piano, senza muoversi troppo per non far capire che stava parlando con me. Istintivamente portai le mie mani sul suo braccio, aggrappandomi per riuscire a respirare un po’ di più. Dollar indietreggiò, senza lasciare la presa sul mio collo fino a quando uno dei ragazzi chiuse la porta, una volta che tutti uscirono sul pianerottolo. «Scusa Doc» mormorò, prendendo un mio polso e costringendomi a seguirli giù per le scale, fino alla strada. Lì, dove qualche ora prima Dollar aveva posteggiato la sua moto, c’erano le moto di tutti i ragazzi.
«Muoviti, mettiti questa e andiamo a casa» sbottò Ryan porgendomi la felpa che indossava. Incrociai le braccia al petto, rimanendo ferma in mezzo alla strada. Poco mi importava se ero praticamente nuda, visto che non riuscivo ancora a capire perché fossero piombati dentro a quello studio fotografico. «Muoviti o giuro che mi incazzo» strillò, mettendomi il casco a forza senza nemmeno aspettare che indossassi la sua felpa. Mi agganciai il casco, puntando il tacco sul pedalino della moto di Ryan e cercando di salire nonostante il reggicalze mi infastidisse. Quando Ryan partì sgommando, portai una mano dietro alla schiena per incastrare la sua felpa sotto al mio sedere per non correre per tutta New York in perizoma.
Sentivo il vento fischiare nonostante il casco, le calze non riuscivano a ripararmi dal vento che continuava a colpire la pelle nuda delle cosce, costringendomi a stringere i denti per il dolore. Arrivammo al 198 di Whittier Street in meno di venti minuti, quasi metà del tempo che avevo impiegato quella mattina con Dollar. Ryan parcheggiò la moto davanti allo stabile, spegnendo il motore. Non aspettai nemmeno che scendesse, volevo solo andare dentro casa per togliermi quel ridicolo completo e farmi una doccia. Era stata una giornata speciale, come sempre rovinata da Ryan.
«Dove cazzo credevi di andare conciata in questo modo idiota?» sbottò, prendendo un mio polso e strattonandomi, perché non mi muovessi. Mi slacciai il casco, lanciandoglielo contro. Speravo di fargli male, ma Ryan, nonostante non avesse lasciato la sua prese su di me, riuscì ad afferrare il mio casco con l’altra mano. Non risposi, girandomi dall’altra parte perché sentivo gli occhi pungermi. Perché Ryan doveva sempre rovinare tutto quello che da sola stavo cercando di costruire? Cosa gli interessava se facevo un paio di foto in intimo – foto che tra l’altro nessuno avrebbe visto?
«Ryan… lasciala stare» mormorò Brandon, togliendosi il casco e scendendo dalla moto. Si mise al mio fianco, intimandogli di lasciarmi andare anche con lo sguardo. Ryan però non sembrava volerlo ascoltare: la sua presa non diminuì nemmeno quando cercai di ritirare il braccio.
«No, che cazzo credevi di fare, sentiamo?» chiese di nuovo, stringendo la mascella, nervoso. C’era una vena che pulsava nella sua fronte, come se fosse davvero arrabbiato. Tra i due, però, quella arrabbiata ero io: aveva rovinato una bella giornata, rischiavo di non essere nemmeno pagata perché aveva fatto lo stupido e in più continuavo a essere in intimo davanti a tutti loro.

«Volevo dei soldi, è così difficile da capire?» strillai, la voce stridula a causa delle lacrime che stavano per uscire. Perché John quel mese non mi aveva pagata, e mi servivano i soldi per l’affitto o mi avrebbero sbattuta fuori di casa. Ma non potevo dirlo a Ryan, o John sarebbe andato in mezzo ai casini, ed era l’ultima cosa che volevo fare.
«Soldi?». Sembrava scettico, come se quello che avevo detto non l’avesse convinto del tutto. La sua presa sul mio polso si fece un po’ meno salda, così riuscii a liberarmi per asciugarmi una lacrima che era scesa sulla mia guancia.
«Sì, cazzo. Volevo solo degli stupidi soldi per comprarmi qualcosa di nuovo» mentii, togliendomi la sua felpa e lanciandogliela contro, come se quel gesto potesse fargli capire che non mi serviva il suo aiuto, che sapevo benissimo cavarmela da sola. Non volevo niente di nuovo, ma Ryan non l’avrebbe mai saputo.
«Chiederli a noi era troppo difficile? Te li avremmo prestati» sbottò ironico, per farmi capire che c’era una soluzione migliore rispetto a qualche foto in intimo. Era esattamente quello il problema, anzi, uno dei tanti problemi. Volevo farcela da sola, con le mie forze. Non mi importava dei loro soldi.
«Quali mi avreste prestato? Quelli che avete rubato a qualcuno o quelli guadagnati vendendo armi e droga?» urlai, prendendo la borsa che aveva appoggiato alla moto, scendendo. Perché i loro soldi non li guadagnavano onestamente, e quello forse mi infastidiva ancora di più. «E non dovevate permettervi di entrare in quel modo in quello studio. Spaventare le persone in questo modo è da idioti, vi avrei sparato un colpo a testa. E tu…» minacciai, avvicinandomi a Dollar e puntandogli un dito contro, «non ti permettere mai più di giurare una cosa e poi fare l’esatto contrario» terminai con un singhiozzo, mentre la vista si appannava di nuovo perché nuove lacrime si preparavano a scendere sulle mie guance.
«Lexi, ha minacciato di togliermi il flag, non potevo. E sono pur sempre un Eagles, lo sai com’è l’aquila, no? È codarda e ha un comportamento cattivo, non ci comportiamo onestamente. Ha minacciato di togliermi la mia famiglia, senza flag non so nemmeno chi sono, cerca di capire» si scusò, mentre gli tiravo uno schiaffo. Speravo solo di essere riuscita a colpirgli la guancia, perché non riuscivo più a vedere il suo viso chiaramente.
Spalancai il portone, togliendomi le scarpe con il tacco per correre più veloce possibile verso il mio appartamento. Volevo rimanere da sola, forse mi sarebbe piaciuto avere Aria al mio fianco, non lo sapevo.
Mi sentivo delusa, amareggiata, felice… era come avere troppe emozioni che cercavano di manifestarsi senza riuscirci. Perché apprezzavo il loro sforzo di aiutarmi, ma non riuscivano a capire che in quel modo forse peggioravano la situazione.
Aprii la porta del mio appartamento e corsi verso il divano, lasciando che tutte le lacrime che avevo accumulato nell’ultima mezz’ora uscissero. Aria arrivò qualche minuto dopo, sorridendo per il mio strampalato abbigliamento e sedendosi al mio fianco; cercò di farmi ridere, imitando la voce di Dollar che l’aveva chiamata preoccupato, perché forse io mi ero arrabbiata con lui. Non riuscii a trattenere una risata tra le lacrime quando mi confidò che potevo picchiare Dollar in ogni momento, se mi faceva sentire bene.
Rimase con me tutta la sera, facendomi ridere con strani aneddoti e imitando Ryan mentre mangiava un pezzo delle pizze che avevamo ordinato. Se ne andò a notte fonda, dopo un paio di film comici che riuscirono a sollevarmi il morale, facendomi quasi dimenticare tutto quello che era successo. Quasi.

 
 
 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Prima cosa… il giuramento di Dollar per Aria è una rivisitazione di quello del matrimonio che c’è in SoA, che dice, testualmente “Prometto di trattarti bene come la mia giacca (riferito alla casacca che ha lo stesso valore del flag) e di cavalcarti come la mia moto”. L’ho adattato inserendo il flag, perché è una cosa che mi è sempre piaciuta.

Poi poi poi… Ham e Swift, ci sono già da un paio di settimane i loro volti nel gruppo, sono i nuovi acquisti degli Eagles, visto che li ho decimati.
Per quanto riguarda la seconda parte… è vero che il tragitto in moto/macchina da HP a NY è circa metà rispetto a quello in metropolitana, aggiungeteci poi che Ryan corre come uno scemo, quindi il quarto d’ora è assolutamente plausibile.
Per quanto riguarda il lavoro di Lexi… sono quasi sicura che ci voglia un curriculum e anche molta esperienza, e che non basta una telefonata per risolvere tutto… ma parliamo degli Eagles, che con i soldi corrompono chiunque.
Infine c’è la questione della OS Dollaria. Il MM ambientato dopo la festa. L’ho più o meno già anticipato nel gruppo, ma vorrei sapere in quante sareste interessate a leggerlo (si parla di un MM probabilmente rosso, che non aggiungerebbe comunque niente alla trama).
Il completino che indossa Lexi quando Ryan e gli altri fanno irruzione è quello nero, l’ultimo che ho fatto vedere nel gruppo, comunque posterò ancora la foto se qualcuno non l’ha vista.
Sono sicura di aver dimenticato una cosa, ma non mi ricordo… babbeh, la aggiungo nel gruppo quando mi ricordo, perdonatemi.
Come sempre ringrazio preferiti, seguiti, da ricordare, chi legge e chi recensisce. Aumentate sempre di più e non so mai come ringraziarvi!
Questo è il gruppo spoiler a cui potete chiedere l’iscrizione, se volete: Nerds’ corner.
Grazie ancora, alla prossima settimana (con un salto temporale che ci porta a ottobre).
Rob.
   
 
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