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Autore: Aine Walsh    28/05/2012    0 recensioni
Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio.
Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento, almeno per me, l’asociale a vita.
* * *
Prometto che mi farò venire in mente una Presentazione migliore!
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NB: il capitolo è identico a quello postato in precedenza, con solo qualche piccola modifica (anche nel titolo, sì).
 

6° Capitolo
Starman

 

 «Quindi questo mitico ‘Matteo-barra-Jude’ verrà o non verrà stasera?».
A pancia in giù sul letto, continuavo a chiacchierare al telefono con la festeggiata del giorno, intanto che davo un’occhiata alle foto che avevo scattato negli ultimi giorni, specie quelle fatte al corso di fotografia.
«Te l’ho già detto, abbiamo parlato e mi ha detto di sì; perciò tranquillizzati, ci sarà e tu lo conoscerai» ripetei per la centesima volta nel giro di cinque giorni.
«Galeotta fu la casa e chi vi abitò, da quel giorno non ci separammo mai più avanti», imitò ridacchiando sulla riga di Dante.
Mi girai a pancia in su sul letto fissando il soffitto, in preda alle risate. «Tu sei pazza» commentai.
«Ti ringrazio infinitamente, darling».
«Da quando questo Inglese?».                                    
«Da quando Giak mi ha detto di trovare l’Inglese così cool».
Roteai gli occhi. Giacomo era quel tipo di ragazzo ‘sono-figo-e-lo-so-tutte-mi-cadono-ai-piedi’ per cui Irene correva dietro da quasi un anno. E cosa ne aveva ricevuto in cambio fino a quel momento? Solo delusioni. Avevo cercato di convincerla a gettare la spugna, ma era proprio irremovibile: quindi, alla fine e dopo lunghe riflessioni, decisi che sarei stata io quella a lasciar perdere. Mi dispiaceva solo vederla stare male, ma dopotutto sembrava che nella sofferenza trovasse una specie di godimento perverso e, se era contenta così, io non potevo farci più nulla.
«Sai, stasera ci sarà anche lui. Me l’ha detto personalmente» continuò, nonostante sapesse che l'informazione non mi interessasse per nulla.
«Oh» sospirai tanto per fare qualcosa.
«Oh? E’ tutto quello che hai da dire?».
«Se vuoi posso fingermi entusiasta» proposi.
«No, lascia perdere» sbuffò dall’altra parte del telefono.
«Dimmi un po’, - cambiai argomento - hai idea di cosa indossare?».
«Penso che metterò quel vestito nero, bianco e fucsia di cui ti parlavo l’altro giorno, quello monospalla. E tu?».
Lanciai uno sguardo all’armadio aperto davanti a me, sottosopra. «Non so. Forse i pantaloni neri e la camicia grigia, oppure potrei...».
«Nossignora! Vestito, come me!» reclamò.
«Vestito?» chiesi, come schifata.
«Sì, vestito. Quello blu, che ti sta benissimo».
Mi alzai dal letto e andai a sfilare l’abito dall’armadio, squadrandolo con attenzione.
Era bello, mi era sempre piaciuto: lungo quasi fino alle ginocchia, largo dalla vita in giù e con le spalle poco scoperte e le maniche a sbuffo, ma soprattutto, blu elettrico.
«Beh, se si tratta di questo allora potrei metterlo» decisi.
«Wonderful!» esclamò con la voce più alta di un tono.
«Irene?».
«Yes?».
«Smettila di parlare in Inglese, va bene?».
 
Quasi tre ore dopo ero già pronta, seduta sul divano in cucina a fare zapping fra i canali in televisione, in attesa che Matteo arrivasse.
Non passò molto prima che ricevetti un suo sms in cui mi diceva di poter scendere. Sorrisi fra me e me, mi alzai dal divano e andai alla finestra dove, una volta affacciatami, lo vidi dall'alto, in piedi accanto alla sua Micra. Dietro di me, mamma emise un verso inquisitorio.
«E quello chi è?» domandò incrociando le braccia al petto.
«Un amico» risposi riuscendo a nascondere il rossore che incominciava a tingermi le gote mentre mi infilavo gli stivaletti.
«Ed io lo conosco?».
«Non lo so, ma mi sembra di avertene parlato».
Non le diedi nemmeno il tempo di formulare un’altra domanda; misi il cappottino - che stavolta, diversamente dal suo predecessore, avrei cercato di non dimenticare -, presi la borsa, stampai un bacio sulla guancia della nonna prima e della mamma dopo, le salutai e mi chiusi la porta alle spalle.
Felice di non essere caduta giù per le scale rompendomi l’osso del collo, rimasi spiazzata quando non lo vidi; eppure doveva essere affianco all’auto. Mi avvicinai alla Micra, abbassandomi un po’ per vedere se fosse lì dentro.
«Bon soir» mi salutò. La sua voce veniva da dietro le mie spalle.
Mi voltai e lo trovai accanto al portone, con la schiena appoggiata al muro e il ginocchio destro in avanti, per via del piede anch’esso contro la parete. Un fotomodello, insomma.
Ancora una volta, mi chiesi d’istinto che interesse potesse avere uno come lui nello stare dietro ad una come me.
«Buenas noche. Che eleganza!» commentai riferendomi al suo abbigliamento.
«Volevo essere sicuro di non sfigurare al tuo fianco» ammiccò.
Un brivido mi corse lungo tutta la schiena, su e giù, quando mi si avvicinò e mi cinse la vita con il braccio destro, accompagnandomi fino allo sportello della sua auto. Riuscii a malapena a ringraziarlo per avermi aperto la portiera.
Decisi immediatamente di dovermi imporre un maggiore autocontrollo; non volevo affatto sembrare fredda e distaccata, desideravo solo evitare di arrossire e mormorare balbuzienti ringraziamenti troppo spesso.
Salì anche lui, mise in moto la macchina e partimmo.
«Destinazione?» domandò.
«Diciamo che è un tantino complicato arrivare a casa di Irene... Per adesso, vai dritto».
«Sissignora. - chinò appena il capo - Comunque, ti dispiacerebbe se accendessi la radio?» aggiunse poco dopo.
«Davvero me lo stai chiedendo?» replicai con un sorriso fra le labbra già pronto ad uscire fuori.
Parve rifletterci su. «No: avrei schiacciato quel tasto ugualmente» rispose con aria da furbo.
«Oh, quando si dice rispettare le volontà altrui! - scherzai - Gira a destra».
Voltò nella direzione indicata mentre le musica iniziava ad inondare l’abitacolo dell’auto.
Era una melodia dolce e lenta che dapprima - solo per pochissimi attimi - non riconobbi. La sorpresa arrivò quando le orecchie riuscirono a collegarsi al cervello per dire la loro.
«Tu! Cosa...? Lui! Cioè loro!» esclamai.
La musica dei Muse - specie se mi coglie di sorpresa come in quel caso - mi provocava stati di euforia assurdi.
Quando terminò di ridere, Jude riprese: «Beh, non sono così estraneo alla musica moderna e conoscevo qualche canzone dei Muse... Ok, in sintesi, diciamo che l’ho comprato per causa tua».
«Causa mia?» ripetei.
«Sì perché evidentemente sono bravi, visto che piacciono a te e che tu ascolti buona musica. Il secondo motivo, era per fare colpo».
Il fiume straripò e inondò la diga.
Rideva, quindi aveva fatto una battuta. E se aveva fatto una battuta, questa poteva anche essere falsa. E se era falsa, io potevo anche non interessargli.
Con le guance in fiamme - non tanto per quella specie di sillogismo che avevo tirato su in un attimo e che comprendeva troppi e se e poteva -  riuscì solo a dirgli: «Sinistra. La seconda a destra e poi di nuovo a sinistra».
Rimanemmo senza parlare, lasciando che le parole di United States Of Eurasia si facessero udire.
Evidentemente si era sentito stupido e aveva pensato che quella battuta fosse totalmente fuori luogo, data la mia risposta secca che non aveva nulla a che fare con ciò che aveva detto; e sbagliava perché, com’era naturale, l’errore era mio, che non avevo preso la cosa per il verso giusto, mandando tutto a rotoli.
«Non parli più?» domandai, fingendo che non fosse accaduto niente di male.
«Pensavo volessi ascoltare la canzone» rispose tranquillo.
«Sì, ma non voglio costringerti ad ascoltare qualcosa che non ti piace».
«Figurati. Però, visto che hai voglia di fare quattro chiacchiere, raccontami un po’ cosa hai fatto questa settimana».
Mi spostai una ciocca ribelle che negli ultimi giorni aveva preso il vizio di ricadermi sempre davanti ali occhi. «Niente di che: casa scuola, scuola casa».
«Originale» sorrise.
«Già. – sbuffai piano - E tu invece?».
«Lavoro e Playstation, tutto nella norma».
«Originale» commentai mentre voltavo il capo verso il finestrino, guardando fuori da questo, sulla strada illuminata dai pochi lampioni laterali.
«Ci siamo quasi, fermati al numero diciassette».
«Sissignora» ripeté scherzoso.
«Dai, smettila di chiamarmi così» gli spinsi leggermente il braccio.
«Sì... Signora».
La grande casa di Irene era tutta illuminata, come fosse stato giorno: chiunque avrebbe capito che ci fosse una festa in corso, lì dentro. Il vialetto davanti la villa era abbastanza affollato di macchine parcheggiate e dovemmo fare un paio di volte il giro dell’isolato prima di trovar posto.
Mentre ci avvicinavamo alla porta d’ingresso, la musica e le voci che provenivano dall’interno divenivano sempre più chiare.
«Caspita, deve esserci parecchia gente» osservò Matteo.
«Pare di sì. - mi fermai prima di suonare il campanello - Ehm... Forse potresti annoiarti... In tal caso, andremo via subito, non ci sono problemi...».
«Annoiarmi? E perché dovrei?» mi interruppe.
«Beh, perché quasi tutti gli invitati sono più piccoli e perché penso che saremo troppi». Feci attenzione a mimare le virgolette nel ‘piccoli’.
Non rispose a parole. Mi rivolse un mezzo sorriso di quelli che solo lui sapeva fare e che mi facevano sciogliere come la neve al sole, e si sporse in avanti verso di me, troppo improvvisamente e inaspettatamente.
Chiusi di scatto gli occhi e il mio cuore iniziò subito a palpitare compulsivamente, pensando cosa, credo sia chiaro.
Emisi un debole sospiro - non so se di sollievo o delusione - quando si ritrasse dopo aver schiacciato il tasto del campanello.
«Io non penso» rispose deciso.
In quel momento, come fosse stata lì ad guardarci dallo spioncino, Irene aprì la porta raggiante. Fece una strana espressione di curiosità e soddisfazione nel vedere Matteo.
«Ce l’avete fatta a venire: aspettavamo solo voi» disse rivolta a me.
«Colpa mia, - s’intromise Jude - Ria era già pronta quando sono arrivato a casa sua».
Se anche Ire avesse solo pensato di voler tentare a fare una battutina leggermente acida, l’intenzione svanì nel nulla al cospetto di un amichevole sorriso del ragazzo di fronte a lei.
«Non ci fai entrare?» domandai per sbloccarla dal suo stato di quasi ibernazione fulminea.
Annuì. «Certo» rispose facendosi da parte.
Le previsioni che io e l’Inglese avevamo fatto si erano avverate: c’erano veramente tanti invitati.
Intanto che Matteo veniva scortato dalla signora Angela, la madre di Irene, verso la grande stanza-armadio su per le scale, la mia migliore amica mi afferrò per un braccio e mi tirò a sé.
«Non mi avevi detto che era così» bisbigliò.
«Così come?».
«Così… Inglese! Così figo, insomma!». Essere Inglese, per Irene, era qualcosa di molto, molto, molto positivo, specie in quegli ultimi giorni.
«Sorpresa?» risi.
«Nemmeno un po’. Sei una bella ragazza e lui è un bel ragazzo, perciò era ovvio».
«Era ovvio cosa?».
«Che non si sarebbe lasciato sfuggire una come te, che domanda! - esclamò con fare evidente - Non so se ti sei vista, ma stasera sei stupenda».
Non approvavo, ma non volevo fare la paranoica e mi limitai a farle fare una giravolta su se stessa dicendole: «Mai quanto te. Buon compleanno, stupida».
«Ti voglio bene» sussurrò al mio orecchio mentre ci abbracciavamo.
«Anche io, lo sai».
«Ok, Matteo a ore dodici. Datti una mossa» comandò. Adesso il tono di voce la faceva apparire appena uscita da un film di guerra.
«Cosa?».
Ciò che avvenne dopo sembrò accadere a velocità duplicata; Irene si staccò dalle mie braccia con un largo sorrisone lasciando spazio al ragazzo che prese subito posto accanto a me, sfiorandomi delicatamente la mano.
«Vado a calmare quel gruppo di barbari che sta attentando alla cucina. Voi fate come se foste a casa vostra» proclamò la mora fasciata nel suo abitino aderente allontanandosi.
Rimanemmo in piedi, vicini, cercando ognuno un posto dove poterci sedere: impresa ardua dato che i due divani straboccavano gente e che non ci fossero più sedie disponibili.
L’immenso salone sembrava adesso essersi rimpicciolito nel corso di una sola notte, occupato da ragazzi e ragazze che chiacchieravano allegramente tra loro, guardando in cagnesco chiunque si avvicinasse per cercare un quadrato di stoffa contro cui potersi poggiare. Diversamente dalla festa di Sara, però, non tutti erano accoppiati e intenti a flirtare, e questo mi aiutava tantissimo nell’evitare di sentirmi quasi un’estranea - in fin dei conti, io e Matteo non ci ‘frequentavamo’, se quello voleva dire frequentarsi, da così tanto tempo.
Ad ogni modo riuscimmo a trovare più spazio fuori, nel grande terrazzo. Non era una serata particolarmente fredda, anzi, non tirava neppure un alito di vento; ma nonostante ciò gli invitati preferivano rimanere chiusi dentro. Ci accomodammo sul dondolo da giardino proprio sotto le stelle che, quella sera, si riuscivano a vedere molto meglio del solito.
Sin da bambina, ho sempre avuto una vera e propria passione per l’universo intero e per le stelle in particolar modo, tanto che ogni volta che la mamma mi trovava con il naso all’insù e lo sguardo vago degli occhi che fantasticavano l’alto della volta celeste si domandava il perché non mi avesse chiamata Stella.
Una volta, lo ricordo benissimo, espressi il desiderio di essere trasformata in uno di quegli astri lucenti mentre soffiavo sulle otto candeline della mia torta di compleanno.
«Hey Jude chiama Ragazza Stellare, rispondi Ragazza Stellare» scherzò il mio vicino.
«Cosa?» risi voltandomi nella sua direzione.
«Niente, ti vedevo parecchio assorta».
«Stavo solo pensando» mi giustificai.
«E scommetto che non puoi dirmi cosa ti passa per la testa».
«No, non è un segreto. - feci una piccola pausa - Quando ero piccola mio padre mi diceva che esiste un uomo che vive su nel cielo, fra le stelle, che vorrebbe scendere sulla Terra e venirci a trovare, ma che non lo fa perché teme di spaventarci. Pensavo che questa storia fosse tutta una sua invenzione, invece a tredici anni scoprii per caso che era una canzone di...».
«... David Bowie. - disse insieme a me - Simpatico tuo padre. E tu glielo hai detto?».
«No, ma ho diciassette anni, quindi magari già sa che ho smesso di crederci da qualche tempo. E poi, quando riesco a vederlo non parliamo molto del Duca Bianco».
Notai che mi guardò in modo interrogativo, probabilmente chiedendosi il senso di quell’ultima frase, dal momento che non avevo dato nessuna spiegazione.
«I miei genitori hanno divorziato sette anni fa, e da allora papà vive a Roma» aggiunsi.
«Oh, mi dispiace» mormorò.
La maggior parte della gente a cui lo avevo detto commentava meccanicamente, come se fosse un obbligo intristirsi per una condizione che io avevo ormai superato da anni, seppur con non poche difficoltà. Invece Matteo era sincero, realmente dispiaciuto: lo si capiva dal suo sussurro, dall’improvviso lampo che gli attraversò gli occhi, dal suo silenzio imbarazzato mentre gli dicevo che non era niente, che erano cose che capitavano e che era passata parecchia acqua sotto i ponti.
«Comunque, io e mamma riusciamo a cavarcela bene; d’altra parte, abbiamo anche la nonna con noi» provai a sviare il discorso.
«Sei figlia unica?».
«In teoria sì, in pratica no. Irene riempie quel vuoto, anche se lei ha già un fratello più piccolo».
Non lo sentii rispondere, perciò sollevai il capo dal mio vestito - di cui avevo cercato di stirare le piccole pieghe - e lo vidi con lo sguardo lontano, pensante.
«Mio fratello è un idiota, - commentò sarcastico - però penso che senza di lui sarebbe molto strano».
La mia risposta fu fermata in gola appena mi accorsi che la signora Angela ci stava facendo cenno di entrare, sorridendo dietro la grande finestra del soggiorno.
«E’ ora di cenare» sentenziò Matteo, alzatosi, tendendomi la mano.
Per un piccolissimo istante esitai, incerta se stringergliela o no: volevo evitare di fraintendere.
Ma poi sorrisi, la afferrai ed entrammo insieme, mischiandoci tra la folla per tutto il resto della serata. Serata che volò nel senso proprio del termine, tra balli, scherzi in gruppo, occhiate fugaci e involontarie, sorrisi, risate e karaoke - a proposito, Jude era tanto bello quanto stonato.
«Ammettilo» disse con aria da saccente Matteo mentre ci avvicinavamo alla sua auto.
«Ammettere… Che cosa?».
«Che ti sbagliavi».
«Riguardo la festa? - annuì e continuai - Va bene, avevi ragione. Pensavo che ti saresti annoiato un po’ di più, ma mi ha fatto piacere vedere che non è stato così e anche Irene ne è contenta».
«Siete simpatici, voi piccolini» sghignazzò.
«Ti odio quando dici così», alzai gli occhi al cielo, sorridendo.
Solo allora mi resi effettivamente conto del fatto che la mia mano fosse ancora e nuovamente stretta nella sua e una strana sensazione di benessere e felicità si impossessò di me. Era strano l’effetto che quel ragazzo riusciva a farmi: era vero, non avevo mai avuto una storia che potesse essere definita tale fino a quel momento, ma c’era stato qualcuno che mi aveva fatta sentire bene e più di una volta mi ero presa una cotta… Ma con Matteo era diverso, era tutto diverso. Ogni cosa, anche la più piccola e banale, sembrava unica e più bella se c’era lui di mezzo e la mia giornata cambiava radicalmente se ricevevo un sms da parte sua, anche solo per dirmi che quel pomeriggio non sarebbe stato a casa e che quindi avremmo dovuto posticipare la lezione di chitarra.
Come quel ragazzo riuscisse involontariamente a influenzare tanto la mia vita, fu una cosa che riuscii a spiegarmi solo abbastanza tempo dopo.
«Ria, dimmi un po’: tralasciando per un attimo la canzone e la storiella di tuo padre, secondo te esiste davvero l’Uomo delle Stelle?».
«Perché me lo chiedi?» domandai.
«Beh, perché… Vorrei sapere cosa ne pensi, ecco».
Mi sembrò un pizzico confuso e impacciato nell’affrontare quell’argomento, ma io non sapevo che cosa rispondergli e quindi, per prendere tempo, gli chiesi di espormi prima il suo punto di vista.
«Mi prenderesti per un folle» sorrise amaramente.
«Un folle non può dare del folle a un altro folle, no? Dio, che gioco di parole».
Rise, tirò un breve sospiro e cominciò. «Per me, l’Uomo delle Stelle esiste ed è qualcuno che sta lassù, ci guarda, ci sente e cerca di confortarci a modo suo quando sa che siamo tristi… E per farlo mette insieme le stelle più belle, per farci ricordare che non siamo mai soli, dopotutto».
Mentre parlava ebbi come l’impressione che si fosse in qualche modo intristito, che fosse troppo coinvolto da quel discorso, e avrei voluto chiedergli quale fosse la causa di quell’angoscia nel tono della sua voce, ma non ne ebbi il coraggio.
«Una sorta di angelo, perciò» osservai.
«Sì, potrebbe essere così. Tu credi negli angeli?».
«Sì» risposi leggermente confusa.
Non disse altro ed io, dal canto mio, preferii non continuare l’argomento.
 
Arrivammo sotto casa mia che era quasi l’una di notte e iniziavo a sentire tutta le pesantezza degli occhi che lottavano violentemente nel tentativo di chiudersi a causa della troppa stanchezza. Figurarsi che in un primo momento non avevo neppure capito che quello alla mia destra era il portone del palazzo dove abitavo.
«Non scendi?» chiese con dolcezza.
Mi girai e lo vidi sorridere a labbra chiuse. Un piccolo pensiero mi attraversò fulmineo la testa: riuscivo già a sapere che avrei sognato lui, quella notte.
Scossi la testa e il ciuffo ribelle mi ricadde sulla guancia, vicino l’occhio.
«Sì, hai ragione. - raccolsi la borsa poggiata accanto ai piedi indolenziti per via dei tacchi a cui non ero abituata - Buonanotte».
Chiusi la portiera e quasi sussultai nel vederlo magicamente materializzato al mio fianco.
«Devi sempre farmi prendere un colpo tu, eh?».
Rise. «Non posso farne a meno» sussurrò avvicinandomisi.
Pensai qualcosa del genere: “Non di nuovo”, ricordando la figuraccia davanti alla porta di casa di Irene.
Ci guardammo fissi negli occhi quanto bastò per far svanire tutta in una volta la sicurezza che ero riuscita a tirare fuori durante la festa.
«Comunque, mi sono divertito. Ho notato che mi diverto ogni volta che sono con te» mi spostò la ciocca, posandomela piano dietro l’orecchio.
Ero io che avevo iniziato a sognare ancora prima di stendermi sul letto o l’aveva detto sul serio?
«Anche io mi diverto quando sto con te; sei davvero molto simpatico e gentile, Ardenne» e irresistibilmente
bello, però non glielo dissi limitandomi solo a pensarlo.
Sorrise in un modo che non seppi definire, allontanandosi un po’ da me. «Va’ a casa adesso. Ci sentiamo domani».
Diedi ragione al mio cervello. Quella notte lo avrei sicuramente sognato… Se solo fossi riuscita a chiudere occhio.


 I'm at the payphone...

Non ho scuse, lo so. Non aggiorno da troppi mesi. E' una cosa avvilente.
Può bastare dirvi che sono stata seppellita dalla scuola e da troppi impegni in generale? Le giornate sono passate così velocemente in questi ultimi mesi che a volte mi è stato difficile pure ricordare cosa avessi fatto il giorno prima, giuro...
Comunque sia, il capitolo è in buona parte preso dall'ultimo che ho postato ("Someone like you" del 29/11/11) che ho però modificato e ho quindi dovuto cancellare...
Spero di aver fatto un buon lavoro... L'intenzione di completare la storia durante l'estate c'è e cercherò in tutti i modi di seguirla!

Ringrazio sempre tutte quelle povere anime pie che hanno la pazienza - e il coraggio - di leggere e recensire questa deprimente storia.
Un abbraccio,

A.






 
  
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