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Autore: RobTwili    28/05/2012    25 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Dopo la retata allo studio fotografico, mentre posavo per quel servizio di intimo, i miei rapporti con i ragazzi si erano un po’… raffreddati, soprattutto con uno di loro. Ryan non si era scusato –a differenza di Dollar –e io non mi ero di certo scomposta: parlavo con lui lo stretto indispensabile, se lo vedevo sul pianerottolo, al Phoenix o per strada lo salutavo, ma i nostri rapporti finivano lì. Non si faceva nemmeno più medicare le ferite, probabilmente perché il giorno dopo la loro intrusione nello studio di New York, avevo volontariamente fatto cadere sul suo piede una pentola, senza nemmeno scusarmi. Quando Aria mi aveva fatto notare che era stato un gesto infantile, avevo incassato il colpo, passando al punto numero due: l’indifferenza.
Tre mesi d’indifferenza, trascorsi lenti come se ogni minuto fosse stato un’ora; tre mesi che mi avevano fatto capire quanto bisogno avessi dei ragazzi e delle loro battute stupide, anche di quelle di Sick. Ma non volevo mollare; Ryan doveva ancora chiedere scusa per quel gesto e io non gli avrei parlato fino a quando non avesse pronunciato quelle cinque lettere.
«Sei peggio di una bambina Lexi» sbuffò Aria, rientrando al Phoenix dopo che Dollar e i ragazzi se ne erano andati. Si sistemò i capelli e il grembiule che Dollar le aveva spostato scherzosamente, poi cominciò a spinare una birra per Peter, il ragazzo che continuava a guardarmi con quel sorriso perenne sul volto. «Porta un paio di gin a quei due, li hanno ordinati dieci minuti fa; meglio non farli arrabbiare, è gente pericolosa, quella». Spostai lo sguardo seguendo quello di Aria, che saettò verso l’angolo più buio del locale.  Seduti al tavolo più nascosto del Phoenix c'erano due ragazzi mori, uno con gli occhi castani e l'altro con gli occhi azzurri. Continuavano a ordinare gin, nessun’altra bevanda; li avevo visti circa una settimana prima e mi avevano colpito, non solo per la bellezza del ragazzo con gli occhi azzurri, ma anche per il loro ordine: «Tanqueray liscio».
Riempii i bicchieri e glieli portai, poi, dopo aver visto Aria che mi chiamava divertita, la seguii dietro al bancone, posando il vassoio vuoto e pulendomi le mani sul piccolo grembiule bianco che indossavo.
«Che c’è?» domandai sospirando e appoggiandomi con la schiena al muro dietro di me. Dopo nove ore di turno lì al Phoenix speravo solo che l’ultima trascorresse il più veloce possibile così da poter andare a casa a guardare un film sul divano.
«Io… non dovrei dirtelo ma è così divertente che non resisto… Peter vuole invitarti a uscire per un appuntamento. Oddio che cosa divertente». Continuava a ridere, appoggiata al bancone; teneva una mano sul suo stomaco e l’altra la agitava davanti al viso, come se improvvisamente avesse caldo. Sgranai gli occhi alternando lo sguardo da Aria a Peter, che mi stava osservando, senza smettere di sorridere. Cosa? Un appuntamento? Lui, con me? No, non… no!
«Aria, spero sia uno scherzo. Sappi però che è di pessimo gusto» sbottai, per niente divertita dal suo deridermi. Possibile che dovesse mettere in mezzo quel povero ragazzo che era il nostro miglior cliente? Non poteva inventarsi qualche turno al Phoenix doppio o magari che John mi avrebbe trattenuto la paga un altro mese? Sembrava tutto divertente in confronto a quello scherzo stupido.
«Non sto scherzando Lexi, ti chiederà di uscire dopo, quando avrai finito il turno. Me l’ha appena detto. Vorrei esserci, quasi quasi chiamo Jack e gli dico che lo raggiungo a casa…» meditò, portandosi l’indice al mento, senza nessuna traccia di ilarità sul volto. Quello era troppo!
Mi allontanai da Aria prima che potesse dire altro, visto che mi stavo davvero infastidendo; cercai di servire tutti i clienti con in sorriso, fino a quando, dieci minuti prima della fine del mio turno, Aria mi salutò, uscendo dal Phoenix e salendo sulla moto di Dollar, che la stava aspettando fuori dal locale. Risciacquai gli ultimi bicchieri sporchi che avevo raccolto dai tavoli vuoti e, dopo aver appeso il grembiule nell’appendiabiti che c’era nel retro, indossai il giaccone pesante e uscii nel freddo della notte newyorkese, dopo aver salutato John, che stava finendo di sistemare la lavapiatti.
Cercavo di ripararmi da quell’aria per me gelida, velocizzavo anche il passo per poter arrivare a casa prima; da quando avevo cominciato a lavorare al Phoenix avevo imparato a non guardarmi mai alle spalle e a non prestare attenzione a nessuno. Quando uscivo, dopo il mio turno di lavoro, se non c’era Aria o qualcuno dei ragazzi, camminavo veloce verso Whittier Street, senza badare a voci che mi chiamavano o altro.
«Ciao» mormorò qualcuno, talmente vicino a me da terrorizzarmi. Gridai spaventata, indietreggiando di un passo e temendo che potesse essere qualcuno dei Misfitous pronto a farmi del male per la seconda volta. Dove diavolo era Ryan quando serviva? «Scusami, non volevo spaventarti». Il ragazzo si tolse il berretto di lana che indossava, rendendosi riconoscibile: era Peter, il ragazzo del bar, quello che mi guardava sempre con il sorriso.
«No, no. Non fa niente, non mi hai spaventata» mentii, tenendo la mano sopra al cuore e sperando che il battito rallentasse; non volevo morire d’infarto così giovane. Peter ridacchiò, sprofondando fino al naso nella sua sciarpa rossa e grigia per ripararsi dal freddo. Io invece spostai lo sguardo dai suoi occhi castani per tornare a guardare la strada davanti a me, come se dovessi concentrarmi per camminare dritta: in verità mi vergognavo a parlare con lui, da sola, visto che era la prima volta.
«Lexi, vero?» domandò, come se non conoscesse già la risposta. Lavoravo al Phoenix da quattro mesi e lui mi aveva vista praticamente ogni giorno, aveva sentito Aria e John, forse anche Dollar e i ragazzi chiamarmi, e ora mi chiedeva se era il mio nome? Annuii solamente, lanciandogli un’occhiata di traverso e accelerando ancora di più il passo. «Non sei di New York, vero? Si sente dall’accento, costa ovest, no?» azzardò, senza smettere di sorridere. Cominciavo a trovarlo… inquietante; le cose erano due: o era sempre di buonumore, oppure aveva il tetano. «Lasciami indovinare… California?». Puntò il suo indice verso di me, convinto di avere ragione. Annuii solamente, accennando a un debole sorriso perché mi sentivo in imbarazzo. Peter era di certo un ragazzo normale, ma stonava, quasi, in quell’ambiente così diverso dal mondo in cui per più di vent’anni avevo vissuto. «Sono bravo a capire da dove viene qualcuno e poi l’accento californiano è davvero carino, sai?». Peter si fermò all’improvviso sul marciapiede, stringendo appena il mio braccio e impedendomi di procedere. Mi voltai a guardarlo allarmata, ma quando vidi che il suo sorriso non se ne era andato, cercai di capire il perché di quel gesto. «Il semaforo, è rosso». Con un gesto del capo indicò un punto davanti a lui e istintivamente seguii il suo sguardo fino a quando incontrai la mano rossa illuminata.
«Oh… grazie» bofonchiai imbarazzata, nascondendo le mani dentro alla giacca pesante che indossavo. Non avevo nemmeno notato che era il semaforo prima dell’incrocio di Whittier Street, troppo impegnata a capire perché Peter continuasse a sorridere. Aspettammo il verde in silenzio, attraversando sulle strisce pedonali e svoltando verso Whittier Street subito dopo. «Io… sono arrivata» mormorai vergognosa, indicando il palazzo dietro di me. Non sapevo ancora perché Peter mi avesse accompagnata fino a casa, visto che Aria aveva detto che abitava poco distante dal Phoenix.
Peter prese un respiro profondo, prima di schiarirsi la voce : «So che sembrerò uno stupido, ma... vorresti uscire con me?». Mi immobilizzai, trattenendo il respiro e fissandomi sul suo sorriso che vacillò, quando non risposi. Peter improvvisamente diventò serio, dondolandosi da un piede all’altro e abbassando lo sguardo. Sapere di essere il motivo che aveva cancellato il suo sorriso mi intristiva, ma non sapevo come dirgli che non mi interessava uscire con lui.
«Peter, io…» mormorai, grattandomi una tempia, in imbarazzo. Come potevo rifiutare il suo invito senza ferirlo troppo? Sembrava un ragazzo davvero simpatico e con la testa sulle spalle, che sapeva come cominciare un discorso e intrattenere una conversazione.
«Oh, le voci sono vere? Sei la Signora di Ryan?». Era stupito, potevo notarlo dai suoi occhi sgranati e dalle sue sopracciglia aggrottate. Non sapevo se mettermi a ridere per la sua battuta o se esserne indignata. Perché tutti credevano che fossi la Signora di Ryan?
«Che cazzo ci fai qui?» sbottò una voce dietro di noi. Anche se l’avevo riconosciuta, sussultai perché non mi aspettavo di trovare Ryan lì, a quell’ora. Quando mi voltai per guardarlo, non riuscii a ribattere alla sua domanda idiota. Da quanto era che non guardavo Ryan in viso? Gli occhi arrossati e stanchi, il segno di un pugno di qualche giorno prima sulla guancia e la sigaretta stretta tra le labbra. Cercava di nascondere il suo viso indossando il cappuccio della felpa che aveva sotto alla giacca di pelle nera senza riuscirci; si notava comunque il filo di barba bionda e un ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla tempia, poco distante dal suo neo.
«Io… io l’ho solo accompagnata a casa, Ryan. Non ho fatto nulla, te lo giuro, io… non volevo dire che… cioè, ho solo chiesto e non era mia intenzione. Io… credo che andrò… ci vediamo» balbettò, cominciando a indietreggiare senza darci le spalle. Continuavo a guardare Peter camminare all’indietro, con le mani alzate in segno di resa; si muoveva lentamente, ma allo stesso tempo cercava di fare passi lunghi per andarsene il più in fretta possibile. Perché Peter aveva reagito in quel modo?
«Che gli hai fatto?» domandai, accusando Ryan che non si era minimamente scomposto per quella scena. Non aveva reagito avvicinandosi a Peter per chiarire il malinteso, per dirgli che non si doveva spaventare in quel modo; non aveva fatto niente, era rimasto in piedi lì, con la sigaretta tra le labbra e la sua solita espressione da schiaffi.
«Io? Niente lentiggini, mi sembra tu abbia visto che non gli ho fatto niente, no?». Sul suo volto si disegnò il solito ghigno; Ryan abbassò lo sguardo, gettando la sigaretta a terra e spegnendola con la punta della scarpa. No, doveva di sicuro aver fatto qualcosa, perché Peter aveva improvvisamente cambiato comportamento quando aveva visto Ryan.
«Cosa gli hai fatto?» ribattei, intestardendomi. Non mi sarei schiodata di lì fino a quando Ryan non avesse detto la verità riguardo Peter. Incrociai le braccia al petto, in attesa di una risposta che doveva arrivare, perché non mi sarei spostata da lì fino a quando non l’avessi avuta.
«State parlando di nuovo dopo tre mesi? Non deve nevicare proprio stanotte» si lamentò Dollar, sogghignando e stringendo di più il suo braccio attorno alle spalle di Aria. Lei cercò di non farsi vedere, ma notai il suo gomito che andava a colpire il fianco di Dollar, come se avesse detto qualcosa di male. «Che c’è? Ho solo chiesto se stanno parlando di nuovo dopo tre mesi, non ho detto altro» si giustificò, scrollando le spalle, senza accorgersi dello sguardo che gli aveva riservato Aria.
«No, non sto parlando con lui. Ho solo chiesto perché Peter se ne è andato via in quel modo» spiegai, battendo più volte il piede a terra a causa del nervosismo. Quello che mi infastidiva ancora di più era vedere Ryan lì, fermo e tranquillo, appoggiato al muro dello stabile e con le braccia incrociate al petto. Se solo avesse avuto la sigaretta tra le labbra sarebbe stato l’immagine della tranquillità.
«Ancora? Ti ho detto che non gli ho fatto niente. C’eri qui anche tu». Alla sua risposta sbuffai infastidita. No, doveva essere successo qualcosa prima che Peter mi accompagnasse a casa, non riuscivo a credere che non fosse successo niente. Una persona non cambiava di colpo umore e comportamento solo perché Ryan appariva dal nulla.
«Senti, Peter non è un malato di mente come te che cambia umore da un momento all’altro. Devi avergli fatto qualcosa, perché un secondo prima, quando mi ha invitata a uscire, era felice e tranquillo, poi sei arrivato tu e l’hai spaventato». Mi avvicinai a Ryan, cercando – inutilmente – di fronteggiarlo. Era diventato più alto in quei tre mesi o lo era sempre stato?
«Oddio! Allora te l’ha chiesto davvero? Cosa gli hai risposto? Ci uscirai assieme?». Aria saltellò verso di me, appoggiando le sue mani sulle mie spalle e scuotendomi, in attesa di una risposta. La guardai spaventata, alternando lo sguardo dal suo volto a quello di Dollar, che mi osservava con uno strano ghigno sulle labbra. Possibile che dovessi dire a tutti se avevo accettato o meno l’appuntamento con Peter? Soprattutto perché non ero riuscita a dargli una risposta, visto che Ryan era arrivato all’improvviso.
«Aria…» sibilai, ammonendola con lo sguardo. Non era né il luogo né il momento adatto per parlare di Peter. Magari al caldo, sul mio divano, davanti a una tazza di cioccolata fumante; ma non lì, nel freddo della notte newyorkese, con Dollar e Ryan a pochi passi da noi.
«Andiamo! Dimmi solo sì o no, il bacio me lo racconti dopo» ridacchiò, saltellando davanti a me. Bacio? Ma cosa stava dicendo? Perché mai avrei dovuto baciarlo? In fin dei conti non era successo niente, mi aveva solo chiesto di uscire.
«Aria! Non c’è stato nessun bacio e non gli ho nemmeno risposto» conclusi, piccata. Lei, Dollar e Ryan mi stavano tutti osservando interessati, come se il racconto del mio incontro fosse la trama di una soap-opera. In verità non c’era proprio nulla di divertente e soprattutto mi dispiaceva per Peter, che se ne era andato senza una risposta da parte mia.
«Perché non gli hai risposto? Era così contento di invitarti a uscire, perché non gli hai detto sì o no?» mi accusò, arrabbiandosi a tal punto da farmi paura. Indietreggiai istintivamente, appoggiando la schiena contro il muro che però si mosse. Mi voltai spaventata, trovando Ryan dietro e capendo subito che non mi ero appoggiata al muro, ma al suo petto.
«Perché è arrivato lui e Peter si è spaventato ed è scappato». Indicai Ryan, accusandolo di aver interrotto la conversazione. In verità non mi interessava poi molto, ma non mi dispiaceva che si sentisse un po’ in colpa – ammesso che Ryan fosse dotato di un cuore.
«Ryan, è sempre colpa tua! Non potevi arrivare un paio di minuti dopo? Devi sempre rovinare le scene romantiche da film, perché sono sicura che dopo il sì di Lexi, Peter si sarebbe avvinghiato a lei, intrappolandola contro il portone e dandole un bacio che sarebbe durato minuti interi. Oh, che romantico». Portò le mani sotto al mento, alzando gli occhi al cielo in un gesto che mi fece veramente paura. Aria sembrava convinta di quello che diceva.
«Tu sei fuori di testa» mormorai, prendendo le chiavi dalla tasca della mia giacca per aprire il portone. Sì, ne avevo appena avuto la conferma: Dollar stava portando Aria verso la pazzia, e mi dispiaceva; in fin dei conti sembrava una ragazza intelligente, una volta.
«Buon riposo Doc, e attenta agli intrusi» strillò criptico Dollar. Quando mi voltai per cercare di capire a cosa si riferisse, vidi Aria tirargli una gomitata sullo stomaco e Ryan scuotere la testa, come se avesse definitivamente perso le speranze. «Ho solo detto buon riposo» si giustificò Dollar, guardando prima Ryan e poi Aria che non la smetteva di lanciargli sguardi che lo avrebbero sicuramente incenerito.
Non volevo nemmeno sapere a cosa si riferissero; ero talmente stanca che l’unico desiderio era quello di distendermi sul divano per guardare un film e mangiare qualcosa al volo.
Quando mi chiusi la porta del mio appartamento alle spalle, sospirai stiracchiandomi: la schiena mi doleva e non sentivo più le gambe; mi serviva una doccia calda per sciogliere i muscoli tesi dalle ore di lavoro. Indossai la tuta e, dopo aver riscaldato nel microonde la pasta che avevo cucinato il giorno prima, mi sedetti sul divano accendendo la TV senza trattenere un  sospiro sollevato: quella sì che sarebbe stata una serata tranquilla, TV, film horror e patatine.
 
«Alexis?» bisbigliò qualcuno, accarezzandomi una guancia. Mi mossi appena, infastidita da quella carezza. Possibile che Edge dovesse fare sempre il cretino e svegliarmi con le mani ancora fredde per colpa dell’acqua dell’Oceano?
«Edge, dai» bofonchiai, rigirandomi sul mio letto e allungando il braccio per colpirlo. La mia mano però sbatté contro qualcosa di morbido: probabilmente mi ero addormentata sul divano, troppo stanca per il turno all’ospedale. O avevamo studiato fino a tardi?
«Lentiggini svegliati» sbottò una voce poco distante da me. Lentiggini? No, Edge non mi chiamava mai in quel modo. Per lui ero Alexis, o Lex, dipendeva se era o meno arrabbiato con me. Non c’era nessuno a Los Angeles che…
Mi alzai a sedere di scatto ricordando che no, non ero a Los Angeles; ero a Hunts Point, nel Bronx. Non ero nemmeno distesa a letto, visto che c’era la televisione accesa davanti a me e Ryan, Brandon, Aria e Dollar camminavano tranquillamente nel mio soggiorno, come se li avessi invitati a entrare.
«Che… che cosa ci fate qui? Che ore sono? Che succede?» balbettai confusa, guardando l’orologio al mio polso: le lancette segnavano le due. Avevo dormito una mattina intera, saltando addirittura il turno al Phoenix? Non mi sembrava di essere così stanca. Guardai i loro volti, notando che tutti, a fatica, si stavano trattenendo per non ridere davanti a me. «Che succede?» tornai a ripetere, preoccupata. Si era ferito qualcuno? Dov’erano Sick, Lebo, Paul,  Josh e i due ragazzi nuovi? Mi alzai, portandomi una mano alla fronte perché mi girava addirittura la testa.
«Lexi, devi cambiarti. Ti portiamo in un posto, d’accordo? Vestiti come Aria». Brandon sorrideva davanti a me, indicando Aria e il suo abbigliamento. Che c’era di diverso dal solito? Sembrava solo avere una felpa più pesante e il berretto di lana in testa. Spostai lo sguardo su Dollar, notando che, come sempre, sopra alla felpa aveva la sua giacca di pelle nera; un abbigliamento quasi uguale a quello di Ryan, che però non aveva la sciarpa nera e grigia come Dollar.

«Dove dobbiamo andare? Che succede?». Non mi sarei mossa da casa mia fino a quando non mi avessero spiegato la situazione; soprattutto perché, avevo notato guardando fuori dalla finestra, erano le due di notte. A quelle domande Ryan alzò gli occhi al soffitto, sedendosi sul mio divano e accendendosi una sigaretta; Brandon sorrise, scambiandosi con Aria uno sguardo d’intesa che mi fece temere il peggio.
«Andiamo Lexi, muoviti». Aria mi spinse verso la mia camera, senza aspettare che qualcuno mi spiegasse cosa stava succedendo, ma soprattutto senza che lei stessa lo facesse. «Dove hai messo la felpa che ti ho costretto a prendere?». Aprì il mio armadio, cominciando a rovistare tra i vari scomparti per trovare quello che stava cercando. «Eccola qui. Mettiti un’altra maglia pesante sotto e poi questa; un paio di jeans e delle sneakers comode per correre». Mi lanciò la felpa addosso e uscì dalla stanza senza darmi il tempo di chiedere ulteriori spiegazioni.
Dovevo indossare una felpa, una maglia pesante sotto, un paio di jeans e delle scarpe comode? Cosa dovevamo fare, una rapina? Sbuffando perché nessuno aveva spento la mia curiosità, mi vestii, seguendo le indicazioni di Aria. Uscii dalla camera camminando verso la cucina; mi sentivo una completa idiota: era una strana sensazione, per me, indossare vestiti così pesanti già a metà ottobre, visto che nemmeno a Natale, in California, le temperature scendevano sotto i quindici gradi.
«Tieni, mettiti anche questo, sarà freddo». Dollar mi porse un berretto di lana simile a quello di Aria; grigio scuro con un motivo disegnato sopra. Era carino, ma dubitavo fortemente che indossato da me risultasse sexy almeno la metà di come stava ad Aria. Nonostante tutto, decisa che non l’avrei indossato, accettai lo stesso quel dono, prendendo poi il giaccone appeso a qualche passo da me.
«Dove andiamo?» domandai di nuovo, sperando che mi dicessero dove mi avrebbero portata. In fin dei conti l’avrei scoperto in poco tempo, no? Anche perché, alle due di notte, non erano poi molti i posti lì nel Bronx che rimanevano aperti. Che fosse il compleanno di qualche Eagles, e avessero organizzato una festa  a sorpresa? Sapevo che Dollar e Aria festeggiavano il loro compleanno a maggio, ma di tutti gli altri –compreso Ryan – non ricordavo nessuna data.
«Prenditi il casco per bambini, lentiggini» sbottò Ryan, spegnendo la sigaretta sul pavimento del mio salotto. Quando mi sentì prendere un respiro, pronta a scoppiare per quello che aveva fatto, alzò lo sguardo, prendendo il filtro che aveva lasciato sul pavimento e alzandosi per gettarlo nelle immondizie. Lo ringraziai mentalmente per quel gesto, senza nemmeno perdere tempo a parlarci di nuovo: meno parlavo con Ryan più avrei mantenuto la mia salute mentale, avevo già parlato troppo quel pomeriggio.
«Ma andiamo in moto a quest’ora?  Con tutto questo freddo?» domandai, correndo per raggiungerli; quando ero andata in camera per prendere il casco erano usciti tutti e non mi avevano nemmeno aspettata. Ryan bussò  – nel suo modo stupido – alla porta del 3B per richiamare anche gli altri ragazzi e Sick, Lebo, i gemelli e gli ultimi due arrivati negli Eagles uscirono sul pianerottolo: indossavano tutti quanti una felpa scura e una giacca pesante sopra.
«Hei, Lexi! Sei pronta?» domandò Sick, ammiccando verso di me e portando il suo braccio attorno alle mie spalle. Forse lui era l’unico a cui potevo estorcere qualche informazione; speravo solo che il prezzo non fosse troppo alto, visto che con Sick non c’era mai da stare tranquilli.
«Sick… tu sai dove stiamo andando?» azzardai, alzando lo sguardo e sorridendogli. Speravo non si accorgesse del modo convulso in cui stavo stringendo le mie dita attorno al casco per l’imbarazzo. Non sapevo di certo fare la gatta morta, ma speravo che con Sick fosse sufficiente un sorriso.
«Ovvio». Un nuovo ammiccamento e il suo braccio si strinse appena di più alla mia spalla, avvicinandomi a lui. Bene, dovevo solo convincerlo a dirmi dove mi stavano portando, magari facendo gli occhi dolci. Ma potevo riuscirci?
«E non mi vuoi dire dove mi portate?». Mi sentivo una stupida. Come potevo anche solo pensare che sarei riuscita a farlo confessare sbattendo le palpebre più velocemente e sorridendo in modo forzato? Non avevo di certo il sex appeal di Butterfly o di qualsiasi altra ragazza che Sick aveva gentilmente ospitato in camera sua.
«Ci stai provando con me, Lexi? Perché se ti dico dove stiamo andando poi pretendo un regalo…». La sua mano scese lungo il mio braccio e istintivamente mi allontanai da lui di un passo. No, avrei scoperto dove stavamo andando in un altro modo, non di certo con qualche favore di natura… sessuale a Sick. «Che ti avevo detto, Ryan? Ci avrebbe provato ma si sarebbe arresa subito. Che delusione Lexi, nemmeno mi lasci toccarti una tetta» bofonchiò, fingendosi davvero offeso. Il suo sguardo triste, unito al gesto di diniego che fece con il capo fece ridere tutti, me compresa.
«Andiamo, sali in moto» ordinò Ryan, dando gas alla sua per accenderla. Pochi secondi dopo il piccolo garage fu invaso dal rombo delle moto dei ragazzi tanto da diventare quasi fastidioso. Indossai il casco, cercando di chiudere il moschettone il più in fretta possibile; fortunatamente ci riuscii al secondo tentativo. Con il casco addosso mi guardai attorno, in cerca di una moto su cui salire: Sick era fuori discussione, non mi fidavo di lui, soprattutto di notte; no. Sulla moto di Dollar c’era anche Aria, quindi non potevo salirci; guardai subito Brandon, ma sulle spalle aveva uno zaino di dimensioni non indifferenti, quindi non c’era posto nemmeno sulla sua moto. Sarei salita su una delle moto dei gemelli… se non avessero avuto uno zaino grande quanto quello di Brandon; ma cosa stavano trasportando, dei cadaveri?
Lebo… lui non mi stava molto simpatico, ma avrei fatto uno sforzo e sarei salita sulla sua moto – i due ragazzi nuovi non li conoscevo e non li avevo nemmeno presi in considerazione –, mi avvicinai così alla moto di Lebo, prima che Ryan parlasse: «Lentiggini, ti vuoi muovere o aspettiamo l’alba?». Il piede appoggiato a terra per sostenere la moto, la visiera del casco alzata per guardarmi e una nota d’impazienza nella voce. Dovevo davvero salire sulla sua moto?
Mi guardai attorno, sperando che all’improvviso spuntasse un fantasma di qualcuno, con uno spazio sufficiente perché potessi salire dietro. Niente, nessun fantasma, nessun nuovo Eagles che avesse dimostrato un po’ di buon senso o altro. Niente di niente, solo Ryan e la sua Ninja nera.
«Vai piano» sbottai salendo dietro di lui, dopo aver appoggiato la mano sul suo braccio per darmi la spinta così da evitare di cadere. Non aspettò nemmeno che afferrassi la sua giacca di pelle, partì sgommando, facendomi imprecare mentre mi aggrappavo con tutte le mie forze a lui; non potevo nemmeno pizzicarlo, non avrebbe sentito nulla con tutti quei vestiti!
Ryan sfrecciava con la sua moto lungo le strade deserte del Bronx, non riuscivo a capire dove ci stessimo dirigendo, visto che le indicazioni continuavano a segnalare che ci stavamo avvicinando a New York. Ma di sicuro quella non poteva essere la nostra destinazione, che cosa c’era a New York alle due e mezza di notte? Ero quasi sicura che i negozi fossero tutti chiusi, a meno che non volessero forzare qualche serratura per entrare di nascosto da qualche parte – ed ero sicura che gli Eagles fossero in grado di farlo.
Dopo un quarto d’ora di viaggio Ryan rallentò, posteggiando la moto in una piccola via laterale. Non conoscevo New York e nemmeno i nomi delle strade, ma ero sicura che fossimo abbastanza vicini al centro; si sentiva ancora il vociare di qualche gruppetto di ragazzi che camminava lungo la strada principale, ma soprattutto il tipico odore di New York che mi fece socchiudere gli occhi. New York odorava di pioggia, asfalto e fritto, l’odore di hot dog e hamburger che invadeva le strade era così caratteristico da essere difficile da dimenticare.
«Lentiggini ti vuoi muovere o credi che fosse tutto per fare un giro in moto?» ghignò Ryan, togliendosi il casco e appendendolo al manubrio della moto. Mi sentivo un’idiota, ma temevo che fosse uno scherzo e che Ryan ripartisse non appena avessi lasciato la presa sui suoi fianchi.
«Siamo arrivati? Sicuro?» domandai, probabilmente apparendo ancora più stupida, visto che tutti erano già scesi dalle loro moto e aspettavano me e Ryan. Aria cominciò a ridere, appoggiando la fronte contro il petto di Dollar per nascondersi, lui invece, esattamente come Brandon e Sick, non si preoccupò nemmeno di sembrare discreto, rise davanti a me, portandosi una mano allo stomaco. «Ok, scendo» mormorai, capendo che avevo appena fatto una figuraccia davanti a tutti.
«Bene, ragazzi, cappuccio calato in testa e colletti tirati su. Dobbiamo essere irriconoscibili. Aria, copriti bene, mi raccomando. Lentiggini, metti quella cosa in testa e non alzare mai il volto, ci sono le telecamere prima di entrare» ordinò, mentre i ragazzi si posizionavano meglio il cappuccio e Aria indossava il suo berretto di lana. Imitai i suoi gesti, sicura che l’effetto non fosse lo stesso. Odiavo i cappelli e i berretti perché non calzavano mai bene, mi sembrava che il mio viso assumesse sempre forme troppo rotonde, rendendomi simile a una palla da basket.
«Lentiggini, sei… sexy con quel coso in testa» sghignazzò Ryan, accendendosi una sigaretta. Vidi il suo sguardo illuminarsi grazie all’accendino e non potei non notare i suoi occhi che mi guardavano con quello sguardo di sfida che faceva sempre per prendermi in giro. «Sembri Spugna, quello di Peter Pan. Ti manca la stazza fisica e la maglia a righe, poi sei lui» concluse, facendo ridere tutti, tranne me.
«Senti, dacci un taglio, nemmeno tu sei... sexy con quel giubbotto di pelle e il cappuccio in testa, chi ti credi di essere, un divo del cinema? James Dean era ben altro» sbottai sperando di ferirlo. Si atteggiava sempre da figo, convinto che tutto il mondo fosse ai suoi piedi. Mi aspettavo che spegnesse la sigaretta a terra e la pestasse con forza, prima di avvicinarsi a me e puntarmi un dito contro, sibilandomi qualcosa; invece Ryan cominciò a ridere, appoggiandosi alla moto dietro di lui per non perdere l’equilibrio. Bene, la nottata si preannunciava uno spasso: avremmo fatto irruzione in qualche gioielleria, rubando tutti i diamanti di valore, poi, visto che di sicuro avrei sbagliato qualcosa, Ryan avrebbe urlato contro di me.
«Era bella questa, lentiggini. Ora muoviamoci, prima che torni la guardia» ordinò Ryan, spegnendo la sigaretta per terra e sistemandosi meglio il cappuccio in testa; sollevò il colletto della giacca di pelle e, seguito da Sick e Lebo, cominciò a camminare. Brandon era subito dietro di loro; avanzava in silenzio nonostante di fianco a lui ci fossero i due ragazzi nuovi.
«Su Doc, non dobbiamo mica tardare» scherzò Dollar, dandomi una leggera pacca sulla schiena e stampando un bacio sulla fronte di Aria. Sorrisi intenerita a quella scena; era incredibile quando Dollar cambiasse quando c’era Ryan che ordinava qualcosa rispetto a quando Aria era al suo fianco. Sembravano quasi due persone distinte e, era inutile dirlo, preferivo mille volte la seconda versione, quella che ricordava la loro vera età, che li rendeva quasi più… normali – se c’era della normalità lì, nel Bronx.
«Insomma, concordavo con Ryan, ma sta…». Brandon si fermò all’improvviso in mezzo al marciapiede; il suo gesto fu così inaspettato che lo investii. Non avevo nemmeno avuto il tempo di scansarmi. Tutti quanti, Ryan compreso, lo guardavamo, in attesa di capire che cosa gli stesse succedendo. Perché si era fermato? Cosa era successo? Non mi sembrava di aver visto qualcuno lì attorno, eccetto per quelle due ragazze che stavano camminando verso di noi.
«Oh cazzo, che ci fa qui?» domandò Aria a Dollar, indicando una delle due ragazze che si stavano avvicinando. Dollar fece spallucce, avvicinandosi di un passo a Ryan e Brandon ma lasciando uno spazio tra loro per Sick. Io guardai Aria, chiedendole con lo sguardo che cosa stesse succedendo. «La biondina è Irene, l’ex di Brandon, quella che l’ha lasciato spezzandogli il cuore, sinceramente non so nemmeno che ci faccia qui a quest’ora» mi spiegò a bassa voce; vedevo Ryan spostarsi sempre più vicino a Brandon, come se volesse sostenerlo anche fisicamente. Brandon aveva la schiena rigida e i muscoli delle spalle tesi, vedevo i suoi pugni chiusi e, ne ero sicura anche se non riuscivo a vedere il suo volto, stava serrando la mascella.
«Ciao, Brandy» esultò la ragazza con i capelli biondi, quando fu abbastanza vicina da riconoscerlo. Era bella, sicuramente; aveva due lunghe gambe e un fisico invidiabile, visibile perché era coperta solo da una giacca di jeans nonostante le temperature non fossero così elevate, a quell’ora di notte. I suoi grandi occhi azzurri risaltavano sul trucco scuro che contrastava con i suoi capelli biondo platino. Sì, riuscivo a capire perché avesse spezzato il suo cuore.
«Che cosa ci fai qui?» sibilò Brandon, stringendo più forte i pugni lungo i fianchi. Vidi Ryan guardarlo appena, nonostante non mi fossi spostata; assieme ad Aria ci eravamo fermate dietro di loro, lasciando che tutti gli Eagles al completo rimanessero l’uno di fianco all’altro.
«Come cosa ci faccio? Non posso fare un giro a New York di notte? Lo sai che la trovo romantica, no?». C’era uno strano ghigno sul suo volto angelico che stonava. Irene non mi sembrava la classica ragazza stronza – non come Butterfly, almeno – e sapere che era stata la fidanzata di Brandon confermava quella tesi: Brandon non era un ragazzo superficiale, non si sarebbe mai fermato solo alla sua bellezza.
«Perché sei qui?» domandò di nuovo lui. Era davvero arrabbiato, non l’avevo mai sentito parlare con quel tono di voce. Sembrava quasi… infuriato per averla trovata in un posto non sicuro per lei. Brandon sembrava protettivo verso Irene, nonostante lui stesso avesse ammesso che non erano più una coppia.
«Andiamo, Brandy, non ricominciare con la storia della gelosia, non siamo più una coppia». Irene si avvicinò, seguita dalla sua amica mora che non staccava gli occhi di dosso a Ryan; sembrava arrabbiata con lui, ma non ne capivo il motivo. Che fosse una sua ex fiamma? Magari Ryan l’aveva lasciata per Butterfly, o l’aveva lasciato lei perché gelosa? «Ciao Aria, è bello rivederti. Sapevo che non sareste riusciti a stare distanti per troppo tempo. E non so chi sia l’altra, presumo la Signora di qualcuno… Ryan direi, viste le voci che circolano…». Si sporse un po’ per guardarmi meglio e istintivamente nascosi il viso contro la sciarpa che portavo al collo ma nonostante il freddo sentii le mie gote arrossarsi per la vergogna. Volevo dirle che non ero la Signora di nessuno, tantomeno di Ryan, ma non ero io a dover parlare, non sapevo nemmeno se potevo farlo.
«Non è la mia Signora, è la nostra vicina» spiegò Ryan, piccato. Lo vidi drizzarsi, alzando il capo, dimostrando che lui non aveva di certo paura di Irene. In tutta risposta lei e la sua amica cominciarono a ridere, spostandosi di qualche passo, come se volessero andarsene. Ryan rimase fermo, non ordinava niente a nessuno, ed era quasi strano; sembrava aspettasse di vedere quello che Brandon avrebbe fatto per poi decidere.
«Dove stai andando?». Brandon si avvicinò di qualche passo a Irene e alla sua amica, senza smettere di stringere i pugni lungo i fianchi. A quella sua azione, tutti i ragazzi si spostarono appena, senza perdere di vista la scena, pronti a intervenire in qualsiasi caso. Irene fronteggiò Brandon: voleva far vedere che non aveva paura, si vedeva dal suo sguardo e dal suo modo di muoversi.
Io, però, non riuscivo a non notare che c’era una strana luce negli occhi di Irene, come se le facesse veramente piacere vedere che Brandon si preoccupava per lei. Magari, però, dipendeva dal fatto che non la conoscevo e non l’avevo mai vista. Non sapevo nemmeno perché si fossero lasciati.
«Vado a fare un giro con Michelle, c’è qualche problema? Io non credo, in fin dei conti non sono più la tua Signora, quindi andate a Lower Plaza e divertitevi». Non aspettò nemmeno che Brandon ribattesse qualcosa, cominciò a camminare, superandolo, senza nemmeno salutare nessuno. Lower Plaza? Che posto era Lower Plaza? E perché sembrava sapere dove saremmo andati?
«Dai Brandon, lascia perdere, andiamo a scaricare i nervi e non ci pensi, ok?». Ryan gli diede una pacca sulla spalla, come se volesse consolarlo. Scherzosamente lo colpì con un pugno al fianco, simulando una lotta a cui Brandon, però, non rispose: aveva lo sguardo fisso davanti a lui, guardava Irene che si allontanava senza nemmeno voltarsi per guardarlo.
«Aria… ma che è successo tra Brandon e Irene?» domandai, dimenticandomi di chiederle che ci fosse a Lower Plaza. In quel momento mi interessava di più capire perché Irene avesse lasciato Brandon e che cosa fosse successo durante la loro storia; in più ero curiosa di capire se Irene fosse davvero stronza come sembrava.
«Be’, ecco… Brandon è, lui è un ragazzo abbastanza premuroso, forse un po’ troppo. Irene è uno spirito libero, le piace viaggiare, sperimentare posti e cose nuove e lui era decisamente troppo… protettivo con lei. Due opposti troppo opposti, io li ho sempre chiamati così. Se entrambi fossero un po’ meno testardi e si adattassero l’uno alle esigenze dell’altro probabilmente sarebbero perfetti, ma Brandon è abituato a essere deciso, forse perché tiene sempre testa a Ryan e ormai è così. Irene… lei voleva Brandon più per lei e meno per Ryan, e questo non lo devi fare. Non puoi cambiare un Eagles, non è così che funziona. O lo accetti per com’è, con la sua vita che è la gang, oppure non ti sforzi nemmeno di provare a stare con lui. Credi sia facile stare con Jack? No, non lo è, ma so che lo amo al punto tale da non poter stare senza di lui e sono sicura che soffrirò, ma non ci voglio pensare, ho imparato a vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, ed è così che devo fare». Aria parlava piano, mi aveva costretto a rallentare il passo, distaccandomi dai ragazzi perché non potessero sentire quello che mi diceva. Involontariamente mi soffermai a guardare il suo viso: gli occhi castani e grandi e i suoi capelli ondulati che ricadevano sulle spalle e sulla schiena. Aria non poteva avere sedici anni, non riuscivo a vedere in lei quella spensieratezza caratteristica; era sempre controllata, pensava troppo da adulta. Un po’ mi faceva pena, mi chiedevo quando avesse provato la gioia e la spensieratezza degli anni più belli, quelli in cui ti senti invincibile e credi di essere il re del mondo, quelli in cui ti senti il capo del liceo solo perché sei all’ultimo anno e sai che potrai ridere quando appenderanno il nerd più sfigato del primo anno alla statua di Nettuno, nel parcheggio del liceo.
«Non sbirciare Doc» sogghignò Dollar, coprendo i miei occhi con le sue mani. Sussultai spaventata perché, persa tra i miei pensieri, non mi ero accorta di lui. «Non preoccuparti, Aria ti dirà quando stiamo per ucciderti» scherzò poi, spingendomi appena perché continuassi a camminare. Non riuscivo nemmeno a capire dove fossimo; l’ultima immagine che ricordavo, prima che Aria rapisse la mia attenzione con la storia di Brandon e Irene, era qualche via in centro a New York.
«Dove stiamo andando? Dai, ditemi dove stiamo andando» mi lamentai come una bambina, cercando di togliere le mani di Dollar dal mio viso. Volevo capire dove fossimo, anche se, speravo, ormai eravamo vicini alla nostra meta. Mi divincolai, sentendo le dita di Dollar scivolare dai miei occhi e mentalmente esultai: alla fine il cervello vince sui muscoli, almeno così pensavo.
«Benvenuta a Lower Plaza, lentiggini» mormorò Ryan, e io capii di essermi liberata da Dollar non perché era riuscito a trattenermi, ma perché eravamo arrivati. Guardai prima Dollar, poi Ryan, quasi timorosa di quello che potevo vedere; poi, dopo aver preso un respiro profondo, spostai lo sguardo davanti a me, rimanendo completamente senza parole.
Era… era esattamente come l’avevo sempre immaginato e  visto alla TV, solo… solo più vuoto. Non c’erano tutte le persone che pattinavano nella grande Promenade adibita a pista di pattinaggio sul ghiaccio, non c’era nemmeno il grande albero di Natale che avevo sempre voluto vedere dal vivo. Il Rockefeller Center era deserto, le uniche persone che c’erano eravamo noi. Senza nemmeno accorgermene avanzai di un passo, sistemandomi il berretto di lana che indossavo per guardare meglio quello spettacolo davanti a me: le luci erano quasi tutte spente, la pista era illuminata solo per quattro deboli fari posti ai lati, il ghiaccio –potevo vederlo anche da quella distanza – era perfetto, nessuno ci aveva pattinato sopra.
«È semplicemente una favola» mormorai, portandomi una mano davanti alle labbra e lasciando che quella lacrima sfuggisse dal mio occhio, bagnandomi la guancia. Avevo sempre sognato di pattinare sul ghiaccio, soprattutto a New York; il Rockefeller Center era uno dei motivi per cui avevo scelto proprio quella città per trasferirmi, l’avevo ripetuto ad Aria all’infinito. «Grazie» sussurrai, asciugandomi la lacrima che non aveva smesso di scendere e sorridendo ad Aria grata. Ero sicura che fosse lei ad aver spronato i ragazzi affinché mi portassero lì, con loro.
«Non dire grazie, facci vedere le tette piuttosto, su! Via tutti quegli strati di stoffa e fammi vedere le tue munizioni». Sick si sfregò le mani, facendomi ridere. Brandon, di fianco a lui, gli tirò uno schiaffo sulla nuca per rimproverarlo, ma non riuscii a smettere di ridere, forse anche per spezzare la tensione e l’imbarazzo.
«Certo che, cazzo Sick, sei l’unico idiota che deve sempre fare battute idiote. Questa, lentiggini, è una nostra tradizione. La notte prima dell’apertura della pista di pattinaggio veniamo qui e la inauguriamo a modo nostro. Aria è stata ammessa solo un paio di anni fa, poi non è più venuta per dei motivi che tutti sappiamo. Quest’anno, visto il grande ritorno della Signora, abbiamo invitato anche te che hai scassato le palle a tutti con questa pista di pattinaggio. Ora sarebbe davvero divertente scoprire che in verità non hai mai pattinato» sogghignò Ryan, facendomi arrossire imbarazzata. In effetti sì, era vero, non avevo mai pattinato sul ghiaccio in vita mia, solamente perché a Los Angeles non era mai sufficientemente freddo per andare a pattinare o perché ero impegnata con gli esami.
«Io… so fare surf». Evitare la domanda parlando di altro non era una tecnica efficace, visto che tutti i ragazzi si erano messi a ridere, guardandomi. Si era capito tanto che non sapevo come si pattinava sul ghiaccio?
«Dai Lexi, prendi i pattini che ti insegno come si fa. Non è difficile, se ci riesce anche Jack allora possono farlo tutti» scherzò Aria, porgendomi un paio di pattini. Come faceva a sapere il mio numero? Perché di solito per i pattini serviva il numero di scarpe, no? Improvvisamente ricordai che, un paio di settimane prima, Aria mi aveva chiesto che numero portassi, inventandosi una scusa stupida perché le prestassi un paio di scarpe. «Lo so, sono un genio. Ora indossa questi e stringili bene, altrimenti poi ti faranno male le caviglie». Indossai i pattini che mi aveva allungato, attenta a non tagliarmi con le lame e poi, lentamente perché non mi sentivo al sicuro, mi alzai in piedi. Ero in equilibrio precario, anche la più piccola folata di vento mi avrebbe di sicuro fatto cadere, ne ero sicura. «Lexi, non sembri molto stabile. Ryan, dalle una mano per arrivare in pista o si romperà una gamba». Cosa? Perché? Perché aveva attirato l’attenzione di tutti su di me, soprattutto quella di Ryan?
«Ce la faccio da sola» sbottai offesa, oscillando pericolosamente avanti e indietro dopo aver fatto un passo verso la distesa di ghiaccio che in quel momento sembrava distante molto più dell’ultima volta che avevo controllato, qualche istante prima. Ryan si avvicinò a me, camminando con quei cosi ai piedi come se fossero scarpe; potevo vedere il suo ghigno soddisfatto, mentre mi dondolavo sempre meno stabile. «Ho detto che ce la faccio» ribattei, agitando le braccia perché il secondo passo aveva spostato decisamente troppo il mio baricentro, facendomi perdere l’equilibrio.
«Senti lentiggini, sono le tre di notte, tra due ore cominceranno a venire qui le persone e non mi sembra il caso che ci vedano perché tu non sai camminare con un paio di pattini addosso. Andiamo». Si avvicinò troppo velocemente a me tanto che non riuscii a reagire in tempo. In pochi istanti Ryan mi prese sottobraccio, sollevandomi da terra; muovendosi come se non fossi affatto un peso camminava a passo sicuro verso la pista, già occupata da Brandon, Sick, Lebo e i gemelli che pattinavano a destra e a sinistra con un’agilità di cui, di sicuro, non ero padrona. «Riesci a stare in equilibrio qui o dobbiamo pagare un istruttore?» domandò ironicamente, appoggiandomi al ghiaccio – molto più scivoloso di quanto penassi –sotto di me. Istintivamente mi aggrappai alla sua giacca di pelle, cercando di capire quanto dovessi muovermi per non cadere e per avanzare. «Cazzo lentiggini, non sai nemmeno stare in piedi?». Di nuovo il sorriso di scherno e quella luce nei suoi occhi che c’era solo quando mi prendeva in giro.
«Scusa se questi cosi hanno due coltelli sotto e io non so muovermi. Mi arrangio, comunque, non serve che stai qui con me». Anche perché più mi prendeva in giro più mi innervosivo, aumentando la mia incapacità di rimanere in piedi sui pattini.
«Sinceramente sei tu quella aggrappata al mio giubbotto». Il suo sguardo canzonatorio si spostò dal mio volto alle mie mani, aggrappate alla sua giacca come se fosse l’unica ancora di salvezza. Istintivamente, come se mi fossi bruciata, lasciai la presa, ritirando le mani e portandole lungo i fianchi. Meno toccavo Ryan, meglio era. «D’accordo lentiggini». Alzò le mani, indietreggiando senza smettere di guardarmi. Gli avrei fatto vedere di che pasta era fatta una californiana! Se anche Ryan era in grado di pattinare, ci sarei riuscita anche io.
Alzai un piede, portandolo avanti e appoggiandolo sul ghiaccio: tacco e punta, come camminare. Probabilmente però, non si pattinava così, perché due secondi dopo mi ritrovai seduta sul ghiaccio, sentendo un dolore indescrivibile al sedere. «Merda» sibilai, guardandomi subito attorno e sperando che nessuno avesse visto il mio ruzzolone a terra. Speranza vana: Ryan e tutti gli altri avevano lo sguardo puntato su di me, come se ci fosse un faro che mi illuminava. «Sto bene. Faccio da sola» strillai, prima che qualcuno si avvicinasse a me per aiutarmi, da buon samaritano. Stavo già facendo la figura dell’idiota, se mi avessero anche aiutata ad alzarmi sarebbe stato peggio. Puntai le mani per terra, rabbrividendo perché il freddo del ghiaccio superava anche la stoffa dei guanti: più cercavo di rialzarmi e più cadevo, ritrovandomi sempre a terra. «Merda» sbottai di nuovo, puntando i pattini sul ghiaccio e rialzandomi lentamente fino a mettermi in posizione eretta; soddisfatta di come fossi riuscita a rialzarmi da sola, mi strofinai le mani sul corpo per togliermi il ghiaccio dai pantaloni e dalla giacca.
«Tutto bene, Lexi?» domandò Brandon, avvicinandosi a me tranquillamente, come se non stesse camminando con due lame sotto ai piedi. Appoggiò la sua mano sul mio gomito, spingendomi dolcemente in avanti, senza costringermi ad alzare i piedi per muovermi. «Aspetta che ti insegno come si fa. Tu sta ferma, ti spingo io. Aria, vieni a darmi una mano» gridò poi, per farsi sentire da Aria, che stava pattinando con Dollar dall’altra parte della pista. Nell’ora successiva imparai a pattinare: non era poi così difficile nel momento in cui capivi che non dovevi appoggiare il piede con un movimento di tacco-punta, come se dovessi camminare. Brandon e Aria erano stati due maestri eccezionali e riuscivo a fare due giri della pista a velocità sostenuta senza mai fermarmi. Il mio sogno si era avverato: stavo pattinando al Rockefeller Center, a New York; e, cosa che non avrei mai immaginato, lo stavo facendo alle quattro di mattina, con la pista vuota.
«Brandon, muoviti. Facciamo una gara». Ryan, a pochi passi da me e Brandon, gli lanciò un bastone, senza nemmeno avvertirlo. Per fortuna i riflessi di Brandon erano migliori dei miei, perché prese il bastone al volo, senza farlo toccare a terra. «Scegliti la squadra, parti tu». Non riuscivo a capire a che gara si riferisse Ryan, non fino a quando Brandon cominciò a giocherellare con il bastone ricurvo sul ghiaccio e Dollar gli lanciò il puck. Hockey, volevano giocare a hockey.
«Ryan, è tardi…» si giustificò Brandon, guardando l’orologio che aveva al polso. Ryan, davanti a lui, imitò un pollo, facendogli capire che era una scusa perché aveva paura di perdere. Brandon si arrabbiò, chiamando a gran voce «Paul» che si avvicinò, frenando appena in tempo per non investire Brandon.
«Sick». Ryan aspettò che lo raggiungesse, poi entrambi guardarono Brandon, aspettando che scegliesse il secondo ragazzo.
«Lebo, Ham e Swift. Tieniti Dollar e Josh, dai» concesse Brandon. Erano in numero dispari, ma, siccome nessuno si era lamentato, sembrava che le squadre fossero comunque equilibrate. «Le signore non le facciamo giocare, o rischiamo di spezzarle in due. Potete mettervi fuori dal campo, così non vi investiamo, se volete fare il tifo per noi…» scherzò poi Brandon, portandosi una mano al pizzetto e massaggiandoselo.
Aria mi trascinò fuori dalla pista, bofonchiando che quando giocavano a hockey diventavano degli uomini primitivi e che era meglio stare loro alla larga. Quando cominciarono a giocare capii quello che Aria aveva cercato di dirmi e la ringraziai più volte per avermi salvato la vita, facendomi uscire dalla pista: sembravano davvero degli animali, urlavano, si insultavano, si gettavano contro alle balaustre della pista e cercavano di rubarsi il puck a vicenda. Nemmeno ai campionati mondiali avevo visto una partita così… avvincente.
«Così Dollar, cazzo! Devo farti diventare io un uomo? Spingili a terra» urlò Ryan, incitando Dollar affinché si avvicinasse alla porta, scartando Lebo e Swift che lo seguivano. Dollar riuscì a lanciare il dischetto di gomma in porta, segnando il punto della vittoria. Vidi Ryan correre verso di lui, lanciare il bastone per terra e colpire con un paio di pugni scherzosi la spalla di Dollar. Josh e Sick continuavano a deridere i ragazzi dell’altra squadra, come se il distacco fosse stato di molti punti, e non di uno solo.
«Bravo Jack» esultò Aria, pattinando verso di lui e baciandolo. Subito i ragazzi cominciarono a fischiare e a spintonare scherzosamente Dollar, intimandogli di prendersi una camera. Aria cominciò a ridere, abbracciando subito dopo il suo ragazzo, per nascondere l’imbarazzo creato dalle battute dei suoi amici.
«Sono quasi le cinque, è meglio se ce ne andiamo, tra un po’ cominciano ad arrivare le guardie» spiegò Ryan, pattinando verso l’uscita, seguito dai ragazzi. Vedevo i loro sguardi felici, nonostante non potessero rimanere lì di più. Alla fine, ancora una volta, avevo avuto la conferma che sotto la scorza dura c’erano delle persone normali; magari non avevano un grande cuore, non sapevano dire la cosa giusta al momento giusto, ma erano ragazzi normali, ragazzi che si divertivano pattinando sul ghiaccio e giocando a hockey, poco mi importava che lo facessero illegalmente, perché niente poteva essere migliore dei sorrisi che c’erano sui loro volti.

 
 
 
 
 
Grazie ancora, alla prossima settimana.
Concludevo così l’otto maggio. Mi scuso immensamente per il ritardo, ma non lo so, alcuni capitoli mi risultano più difficili di altri da scrivere, come se non bastasse poi il tempo con l’avvicinarsi della sessione d’esami scarseggia sempre di più.
Questo capitolo… dunque, per quanto riguarda Lower Plaza, è vero che la pista di ghiaccio la costruiscono in questa Promenade, cioè, si trova dentro al Rockefeller Center, ma il nome esatto della piazza in cui si trova è appunto Lower Plaza. Altra cosa… ottobre. Sì, non me lo sono inventata, l’apertura del palaghiaccio a Lower Plaza è da ottobre ad aprile, dalle nove a mezzanotte (per questo ho fatto in modo che gli Eagles entrassero in piena notte). Per quanto riguarda la non presenza di sicurezza/telecamere/gorilla vestiti di nero e armi-minuti… non ci credo molto, ma sono sicura che gli Eagles possono corrompere tutti. Nel caso questo non fosse possibile… vi prego di perdonare la piccola licenza poetica.
Ah sì, da idiota quale sono ho messo ben 2 riferimenti a due mie storie passate, come se volessi creare un piccolo filo conduttore tra tutte. Cosa da poco, solo piccole informazioni, se qualcuno le trova… be’, complimenti! :D
Irene… lei è un personaggio nuovo, era comparsa solo nei ricordi di Brandon. Si può dire che volutamente non ho spiegato tutto bene e ho lasciato intendere diverse cose per confondervi (ma guarda un po’, uh? :D).
Poi, per chi non avesse visto questa OS che ho pubblicato dopo l’ultimo capitolo: Be the one è un MM rosso su Aria e Dollar, ambientato dopo la festa dello scorso capitolo.
Come sempre ringrazio chi aggiunge la storia tra i preferiti, i seguiti e quelle da ricordare, siete un numero incredibile! Ringrazio anche le tantissime persone che hanno commentato lo scorso capitolo, grazie di cuore.
Ultima  cosa, ma non per questo meno importante: ringrazio Ale (alias TheCarnival) per i bellissimi video che mi ha sfornato (due stavolta, indice che ci ho messo davvero troppo ad aggiornare). Il primo è Be the one, che racconta la storia di Dollar e Aria. Guardatelo e commuovetevi, per favore. Il secondo è Titanium, un video tutto dedicato a Lexi e alla sua storia che mi piace davvero un sacchissimo.
Ora, e giuro che è l’ultima cosa (se non siete tutte addormentate) come sempre vi lascio il link del gruppo spoiler, dove ci sono le immagini dei protagonisti e dove trovate un sacco di spoiler di settimana in settimana. L’iscrizione costa solo 5€ e il contributo giornaliero è di 0.00009€. No, cretinate a parte, è tutto gratis e se volete venire a farvi rompere le scatole: Nerds’ corner.
A presto (spero la prossima settimana).
Rob.

 

   
 
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