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Autore: RobTwili    11/06/2012    27 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Los Angeles, 1949.
Era strano essere la figlia di un gangster, soprattutto quando ti costringeva ad andare a tutte le feste dove lui stringeva alleanze e dove io dovevo rimanere seduta a tavola, a sentire cosa si raccontavano di armi, guerra tra gang e altro. Non mi interessava nulla, nemmeno di quella festa o di tutti quei signori che mi guardavano, sorridendomi. Sapevo che cercavano di rendersi affascinanti ai miei occhi, ma ricordavo cosa mio padre mi aveva detto: «Ricordati, Alexis, nessuno di loro cerca veramente di conquistarti, lo fanno solo per avvicinarsi a me». Anche perché, se qualcuno di loro ci avesse veramente provato, non avrei ceduto: nessuno sembrava abbastanza attraente da catturare la mia attenzione, tanto che, ancora una volta, ero convinta di aver indossato quel vestito rosso per nulla.
«Vado a prendere qualcosa da bere al bar, scusatemi» mormorai a mia madre, alzandomi dal tavolo e facendo attenzione allo strascico del mio vestito. Sapevo – perché mi era già successo in passato – che i vestiti che usavo durante quelle cene erano una trappola mortale: era facile pestarli e si incastravano dappertutto.
«Un Shirley Temple» borbottai al cameriere, sperando che avesse visto a quale tavolo ero seduta. Avere come padre il gangster più famoso di Los Angeles non era poi così male, la maggior parte delle volte, soprattutto quando – anche se non era quello il caso – potevi bere tutti gli alcolici che ti piacevano. Presi il mio drink, cominciando a sorseggiarlo e tenendo la schiena appoggiata al bancone: attorno a mio padre c’erano sei uomini che continuavano ad annuire a ogni sua parola convincendomi sempre di più che non lo ascoltassero nemmeno, impegnati com’erano a farsi accettare nella sua gang. Ma lui era più furbo di loro, i suoi amici avevano già indagato su tutti, scoprendo che tra di loro si nascondeva anche un poliziotto.
«Una Signorina come lei tutta sola in un bar? Non è una buona idea». Istintivamente mi voltai per capire a chi appartenesse quella voce: un ragazzo biondo era appoggiato al bancone di fianco a me; stava sorseggiando del whiskey, muovendo il bicchiere in circolo. Lui non sembrava come tutti gli altri uomini, non guardava nemmeno mio padre, troppo impegnato a osservare l’alone che l’alcol lasciava sul vetro del bicchiere.
«So cavarmela da sola» sbottai, offesa dalla sua battutina. Perché non era una buona idea che fossi lì, da sola, a prendere un drink? Il locale era affollato e, nel remoto caso in cui qualcuno si fosse avvicinato a me per ferirmi, c’erano almeno quaranta persone pronte a sacrificare la loro vita per me, solo per fare un piacere a mio padre. Istintivamente lo guardai: era impegnato in un discorso che sembrava più divertente del solito, c’era uno strano sorriso nei suoi occhi, quella luce che sapevo si accendeva solo quando le sue idee diventavano particolarmente sadiche. Chissà che cosa stava pensando.
«Lei sa cavarsela da sola? Potrei sapere il suo nome?». Uno strano ghigno sul volto del ragazzo biondo seduto di fianco a me mi costrinse ad abbassare lo sguardo; mi concessi qualche secondo per ammirare il fiore bianco che spiccava sull’ocra del vestito che indossava. Quel giovane era bello e sapeva conquistare con il suo ammiccare e i suoi movimenti studiati.
«Perché non mi dite prima come vi chiamate?». Era una boccata d’aria fresca tra tutti gli uomini che cercavano di conquistarmi; quel giovane era ironico, affascinante e misterioso, il perfetto connubio che sapeva attirare la mia attenzione in modo diverso dal solito. Il ragazzo sorrise, guardandomi di sottecchi, poi, dopo aver alzato lo sguardo per puntare i suoi occhi azzurri nei miei, respirò profondamente.
«Ryan, mi chiamo Ryan. Ora mi piacerebbe sapere davvero il vostro nome, vorrei conoscervi». Nessun cognome, non voleva nemmeno che sapessi come si chiamava. Forse, per una volta, non gli interessava mio padre, forse ero io il motivo di quell’interesse.
«Alexis». Un sorriso sincero senza abbassare lo sguardo. Non mi interessava che non fosse educazione, perché mia madre mi aveva insegnato che non dovevo mai guardare negli occhi gli estranei; Ryan non era un estraneo e non guardare in quei suoi meravigliosi occhi azzurri sarebbe stato un peccato mortale, più grave di uccidere un uomo.
«Alexis, che cosa ci fate qui, tutta sola, in un posto così poco sicuro? Non potete rischiare di ferirvi, dovreste andarvene da questo posto. Posso accompagnarvi?» propose, senza smettere di sorridere con quel suo strano ghigno. Un brivido mi attraversò la schiena quando il mio sguardo si incatenò al suo. Ryan mi avrebbe portata via da lì, via da mio padre, da quelle feste a cui ero obbligata ad andare, dalla malavita e dai morti. Da tutto.
«Mi porterà via da tutto questo?» chiesi, appoggiando il bicchiere sul bancone di legno dietro di me e avvicinandomi a lui, dopo aver alzato lo strascico rosso del vestito che indossavo. Ryan alzò il volto stupito, mantenendo un ghigno divertito sulle sue labbra. Sembrava quasi che mi stesse prendendo in giro, eppure non riuscivo a non trovarlo attraente.
«No Signorina, sinceramente volevo solo portarla a letto». Continuava a muovere il bicchiere in circolo, senza prestargli veramente attenzione. I suoi occhi erano incatenati ai miei, probabilmente mi scrutava in attesa di una risposta. Eppure, quel suo modo diretto di dire le cose mi piaceva, decisamente. Non era facile incontrare giovani che non avevano paura di dire quello che pensavano, ma forse era solo perché non sapeva chi ero, forse, una volta saputo il mio cognome, sarebbe scappato o avrebbe cominciato a parlare con mio padre, come tutti.
«Lo vede quello seduto al tavolo, laggiù? È mio padre, e la ucciderà se saprà che mi ha anche solo sfiorata». Più chiara di così non potevo esserlo, se non conosceva mio padre, il più famoso gangster di Los Angeles, ricercato da tutta la polizia, allora probabilmente era una spia.
«Mi piace il pericolo, e sono sicuro che ne vale la pena, anche solo per un bacio. Vorrei solo andarmene da questa sala, con te». La sua mano volontariamente sfiorava il mio braccio nudo, causandomi milioni di brividi che forse erano nati anche dopo aver sentito la sua voce che, sensuale, aveva abbattuto tutti i confini tra di noi, nonostante fossimo circondati da persone che potevano sentirci. Questa situazione, ai limiti del consentito e della decenza, mi diede la forza di alzarmi, camminando verso l’uscita del locale. Mi voltai appena, sorridendo a Ryan per assicurarmi che mi stesse guardando; quando notai il suo sguardo sorpreso e sogghignai divertita, svoltando definitivamente l’angolo della sala e sparendo dalla sua visuale.
Dovevo solo attendere qualche secondo, sperando che mi raggiungesse per poi nasconderci in qualche…
«Dove stai scappando?». Una presenza dietro di me, il petto di qualcuno appoggiato alla mia schiena. Ryan. Nonostante non potessi vederlo sapevo che era lui, riconoscevo la sua voce e il suo fiato caldo che solleticava il mio collo, tanto che, istintivamente mi voltai, circondandogli il collo con le braccia e alzandomi in punta di piedi per poter raggiungere le sue labbra. «Potrebbero vederci» sussurrò, abbassando lo sguardo per guardare la mia bocca, a pochi centimetri dalla sua; cercò di deglutire, aspettando una mia risposta.
«Mio padre verrà comunque a saperlo entro due minuti, è meglio non allontanarsi, così non perdiamo tempo». Con ancora l’ombra di un sorriso sulle mie labbra, mi avvicinai a lui, annullando le distanze e baciandolo. Lasciai che le sue labbra giocassero con le mie mentre facevo scorrere le mie mani tra i suoi capelli. Ryan mi strinse a lui, sollevandomi da terra di qualche centimetro e accarezzando la mia schiena da sopra la stoffa leggera del vestito.
«Lexi? Lexi?». Qualcuno che chiamava il mio nome, costringendomi, inevitabilmente, ad abbandonare le morbide labbra di Ryan che avevano sfiorato e accarezzato le mie. Cercai di guardarmi attorno, ma non riuscivo a vedere chiaramente dov’ero, come se il locale attorno a me stesse scomparendo, diventando sempre più buio; assomigliava a un tunnel dove sentivo un martellare continuo diventare sempre più forte. «Lexi, siamo noi, abbiamo bisogno di te». Ancora una volta qualcuno che mi chiamava, ma cosa stava succedendo? «Lexi, per favore, svegliati, non voglio sfondare la porta». Mugugnai infastidita perché il rumore era sempre più insistente e fastidioso e, arrabbiata, mi misi a sedere di scatto, aprendo gli occhi.
«Oddio» bofonchiai, capendo quello che era appena successo e portandomi le mani tra i capelli, tirandone qualche ciocca per la frustrazione. «No». Negare l’evidenza, era così che si faceva, no? Che cosa mi aveva suggerito il mio cervello quando aveva creato quel sogno? Ma soprattutto, perché mi ero trasformata nella protagonista del film di gangster che avevo visto la sera prima? Dovevo smetterla di guardare quei film, sapendo che i miei vicini facevano parte di una gang, soprattutto perché il protagonista maschile del mio sogno era… cazzo, avevo baciato Ryan. Come era possibile una cosa del genere? Perché mi ero sognata di baciarlo?
«Lexi, svegliati». Brandon, riuscivo a riconoscere la sua voce nonostante la distanza. Mi alzai dal letto di corsa, temendo che fosse successo qualcosa di male e andai velocemente all’ingresso, spalancando la porta: Brandon, davanti a Ryan e Dollar, si teneva una mano sulla fronte, ma notai subito il piccolo taglio che c’era; non sembrava niente di preoccupante, comunque. Appoggiato allo stipite della porta, Ryan fumava una sigaretta, come se non avesse avuto un labbro rotto e gonfio. Quello che però mi preoccupava più di tutti era Dollar, con un occhio pesto e lo zigomo gonfio. «Abbiamo bisogno di te…» spiegò Brandon, aspettando che mi scansassi per farli entrare.
«Che cosa vi è successo?» domandai, guardando i loro volti uno ad uno. Riuscii a scorgere – dietro alla figura imponente di Ryan –Sick; aveva una mano fasciata e camminava nervosamente su e giù, sul pianerottolo. Di sicuro c’era stata una rissa. «Sono stati i Misfitous?» strillai per farmi sentire, andando subito in camera per prendere l’occorrente per medicarli. Era da qualche settimana che non tornavano a casa conciati così male, con ferite vistose e tagli.
«No, i bambini dell’asilo. Chi cazzo vuoi che sia stato, lentiggini?» sbottò Ryan, spegnendo la sigaretta sul muro e lanciandola dietro di lui, sul pianerottolo. Si chiuse la porta di casa alle spalle, dopo che tutti i ragazzi erano entrati. «Guarda la mano di Sick che è quella messa peggio». Con un gesto del capo Ryan indicò Sick, che continuava a camminare in modo nervoso, senza fermarsi.
«Sick, siediti qui e fammi vedere» mormorai, spostando una sedia per poter vedere meglio la sua ferita. Quando si tolse la benda –che scoprii essere una maglietta arrotolata –dalla mano, mi fermai, indecisa se mettermi a ridere o mandarlo a quel paese: c’era un piccolo taglio sul palmo della sua mano, tra il pollice e l’indice. Non era più grande di un paio di centimetri e non sembrava nemmeno troppo profondo, nonostante fosse ricoperto di sangue che gli aveva sporcato tutta la mano.
«Dimmi che non perderò la mano» piagnucolò Sick senza nemmeno controllare la situazione. «Sento che è una brutta ferita, lo so che è brutta, ma ti prego, dimmi che riuscirò a usarla ancora. È la mia mano destra, non posso perderla, non so usare la sinistra, ti prego». Era davvero preoccupato e questo rendeva la situazione ancora più divertente: non aveva notato quanto fosse piccolo quel taglio, talmente piccolo da non dover nemmeno essere cucito, bastava semplicemente un cerotto.
«Sick, non vorrei davvero…». Non riuscii a terminare la frase, interrotta da Sick che si portò la mano sinistra tra i capelli, in preda a una crisi di panico. Ryan, Brandon e Dollar non parlavano nemmeno, concentrati com’erano a guardare la scena.
«Cazzo, la mia mano destra. Come farò a sparare, a fumare, a farmi una se…». Questa volta fu il mio turno, capii quello che stava per dire e volendo evitare una battuta di pessimo gusto urlai il suo nome talmente forte che la mia voce sovrastò la sua. «Scusate se sono preoccupato per la mia mano. Dovrai amputarmela? Forse era meglio se rimanevo senza gamba, cazzo» sbottò poi, non pensando di controllare la ferita per accertarsi che non era niente di grave.
«Sick, è un taglietto talmente piccolo che non devo nemmeno metterti dei punti» spiegai, prendendo la sua mano tra le mie per fargli vedere a cosa mi riferivo. Sentii i ragazzi ridere senza ritegno per la stupidità di Sick che abbassò lo sguardo, imbarazzato. «Aspetta, ti disinfetto e poi vedi che non è niente di grave, ok?». Bagnai un batuffolo di cotone con il disinfettante e, attenta a non premere troppo sul taglio – perché non volevo fargli male – cominciai a togliere il sangue raffermo. Non riuscivo a smettere di sorridere, guardando il volto di Sick che si faceva sempre più sorpreso a mano a mano che pulivo la ferita, scoprendo quel piccolo taglio di un paio di centimetri.
«Perché cazzo fa così male se è piccolo? Credevo fosse enorme, con tutto quel sangue che c’era» si lamentò, sussultando appena, quando strofinai il taglio con il cotone. «Brucia» piagnucolò poi, cominciando a muoversi nervoso. Sick sembrava davvero un bambino, lo sembrava così tanto che socchiusi gli occhi, ricordando Luke, il mio primo paziente. Era un bambino arrivato all’emergenza con una spina piantata sul ginocchio; due grandi occhi azzurri sommersi dalle lacrime che avevano smesso di scendere solo quando l’avevo tranquillizzato, regalandogli un lecca-lecca. Ero sicura che Sick non si sarebbe accontentato di una caramella, però.
Applicai un cerotto, attenta a non peggiorare il suo taglio, poi, soddisfatta del mio lavoro, alzai lo sguardo, togliendomi i guanti sporchi. «Stai attento a non fare infezione, tienilo pulito, ma ti controllo comunque nei prossimi giorni». Applicai, per sicurezza, un cerotto più grande, sicura che Sick non sarebbe riuscito a eseguire i miei ordini.
«Lexi, quando vuoi, la porta della mia camera è aperta e il mio letto è sempre libero per te». Sapevo che ere lo strano modo di Sick di dirmi grazie, per questo sorrisi, indossando un paio di guanti nuovi, in attesa di vedere cosa fosse successo agli altri. Se in quei cinque mesi avevo imparato qualcosa – nonostante per tre non avessi parlato con quasi nessuno di loro – era il turno di Dollar, forse Brandon. Ryan però, come sempre, si sarebbe fatto curare per ultimo.
«Doc… ho solo preso un pugno, davvero. Non c’è bisogno che mi curi, metto un po’ di ghiaccio quando arrivo a casa e poi mi passa» borbottò, mentre sfioravo la pelle del suo viso per capire quanto fosse grave la botta. Non mi preoccupava quella sullo zigomo, sapevo quanto fosse stato fortunato a non esserselo rotto, era quella vicino all’occhio che mi agitava: se ci fosse stata qualche commozione celebrale? Forse era meglio tenerlo sotto controllo per qualche ora, solo per assicurarmi che non fosse niente di grave.
«Dollar, è meglio se rimani qui per qualche ora, non vorrei che avessi una commozione» spiegai, finendo di spalmargli la crema sul livido nero che gli ricopriva lo zigomo. Lo vidi alzarsi, irrequieto, portandosi una mano sull’occhio che gli doleva e massaggiarlo; scuoteva la testa per dire che no, non era d’accordo con quello che gli avevo detto.
«Io vado. Aria non si sente bene da ieri mattina e sono un po’ preoccupato. All’improvviso cambia e dice di stare bene, ma non le credo. Ryan, posso andare? Non sto male e se dovesse succedermi qualcosa dico ad Aria di chiamare subito». Aria non si sentiva bene? Che cosa le era successo e perché non me ne aveva parlato? L’avevo vista quel giorno al Phoenix, durante il turno, ma non mi sembrava non si sentisse bene, era solare e rilassata come sempre.
«Vai, fammi sapere come sta». Ryan gli aveva dato il permesso di andarsene, quindi, per quanto potessi insistere per farlo rimanere lì con me, ero sicura che Dollar sarebbe andato subito da Aria. In fin dei conti avrei fatto anche io come lui; speravo solo che non avesse niente di male, povera Aria.
«Certo. Doc, grazie per la visita gratuita» salutò Dollar, uscendo velocemente dal mio appartamento dopo aver preso il cellulare che aveva appoggiato sul tavolo, prima che lo visitassi. Quando Dollar chiuse la porta, lo fece con un tonfo talmente rumoroso che probabilmente riuscì a svegliare anche la signora che abitava al piano inferiore.
«Fammi vedere quel taglio, Brandon». Indicai la sedia davanti a me con un gesto del capo, e, mentre aspettavo che Brandon si sedesse, spruzzai un po’ di disinfettante su un batuffolo di cotone pulito. Quando osservai il suo taglio, involontariamente sorrisi, capendo che non mi ero sbagliata quando, appena erano entrati, avevo notato che non era grave. «Non servono punti nemmeno a te, basta solo questo cerotto perché il taglio cicatrizzi più in fretta. Sei stato fortunato» mormorai, pulendogli la fronte con gesti meccanici e applicando subito dopo il cerotto. C’era un piccolo dettaglio che non avevo notato fino a quel momento: le mie mani non tremavano più. Non era come quando, appena arrivata a Hunts Point, ogni volta che dovevo applicare anche solo un cerotto cominciavo a tremare, ero rilassata, tranquilla. Non c’era nessun tipo di pressione o altro, solo io che facevo una delle cose che sapevo fare meglio. «Fatto» mormorai, spostandomi di un passo indietro e controllando la sua fronte: sembrava che fosse tutto apposto, non si vedeva nemmeno il disinfettante che avevo applicato sotto al cerotto bianco.
Brandon mi ringraziò con un sorriso, alzandosi dalla sedia e lasciando il posto a Ryan, che, dopo qualche secondo di indecisione, si avvicinò a me, sedendosi con un sonoro sbuffo per farmi capire che era lì contro la sua volontà.
I miei occhi si abbassarono sul suo labbro rotto e involontariamente il tubetto di disinfettante che tenevo in mano mi scivolò per terra. Labbra, le sue labbra. Io dovevo medicare le stesse labbra che avevo baciato nel mio sogno? No, non potevo. Era… non era una cosa che potevo fare, soprattutto perché nel mio sogno ero stata io a baciarlo; chissà cos’altro avrei fatto, se non fossi stata interrotta dal loro arrivo.
«Che cazzo succede, lentiggini?» sbottò Ryan, piegandosi per prendere il flaconcino caduto. Quando me lo porse sfiorai con le dita la sua mano, ritirandola subito come se mi fossi ustionata. Avevo baciato Ryan, in sogno. Ora dovevo medicargli proprio le labbra, le sue labbra. «Ma stai bene?» domandò, aggrottando le sopracciglia, confuso. Alzai lo sguardo, incontrando il suo e peggiorando la situazione.
«Oddio» mormorai, dando le spalle ai ragazzi e concentrandomi sulla goccia che stava cadendo dal lavandino della cucina. Respirai profondamente, cercando di calmarmi. Nessuno di loro sapeva quello che avevo sognato e non l’avrebbero mai saputo; bastava comportarsi naturalmente, come avevo sempre fatto: odiare Ryan era il modo giusto per uscire da quella situazione imbarazzante.
«Secondo una che mi sono trombato un paio di volte, quando una ragazza si comporta in questo modo è perché ha sognato che ti scopava» spiegò Sick, facendomi inorridire. Come diamine aveva fatto a indovinare cosa era successo proprio lui, che non aveva mai guardato un film che potesse vedere anche un bambino? Mi sarei aspettata la verità da Brandon, forse Dollar, ma non proprio da lui.
«Cosa dici?» urlai, difendendomi. Non volevo far capire che aveva ragione e soprattutto dargli la soddisfazione di avermi smascherata. Quel sogno era stato un colpo basso, non mi era nemmeno mai successa una cosa del genere e non doveva più succedere. D’accordo, Ryan era carino, ma basta. Probabilmente il mio cervello aveva associato i suoi tratti a quelli del protagonista di quel film gangster che avevo guardato, anche perché mi era piaciuto. La mia mente aveva semplicemente sommato quei due fattori.
«Dubito che lentiggini abbia degli impulsi. Non ha nemmeno le tette, figuriamoci se sogna di trombarmi» sghignazzò Ryan, innervosendomi. Mi dispiaceva per lui, ma sì, avevo degli impulsi anche io e no, non gliel’avrei mai detto, non ne volevo nemmeno discutere. Cominciai a strofinare il cotone sul suo labbro con forza, cercando di fargli male così magari avrebbe smesso di prendermi in giro. Vidi Ryan sussultare per il dolore, ma non mi diede la soddisfazione di lamentarsi a voce.
«Perché tu dici che è una di quelle bigotte che non si schioda dal missionario? No, io sono convinto che Lexi ci sa fare. Non dimentichiamoci del detto, guarda quanto è piccola». Sick concluse il suo discorso percorrendo – nonostante la distanza di qualche metro – il mio corpo con la sua mano per far notare la differenza d’altezza tra me e loro. Era sempre tanto gentile quando qualcuno mi spiegava che no, non ero alta come loro, ma poco più della metà.
«La volete smettere?» domandai, controllando la ferita sul labbro di Ryan, senza pensare a quello che avevo sognato poco prima. Era sempre e solo Ryan il mio vicino stronzo; niente di più. Ryan non riuscì a trattenersi e cominciò a sghignazzare talmente forte che smisi di medicarlo per qualche secondo, visto che si dondolava sulla sedia. Io non riuscivo proprio a capire che cosa ci fosse di divertente, ma una cosa era chiara: tutti quei pugni avevano fatto seriamente male al suo cervello che non connetteva più.
«Io sono ancora convinto che Stoya – la chiamavo così perché aveva gli stessi suoi piercing – aveva ragione e che abbia sognato di trombarti. Me lo dici Lexi? L’hai fatto anche con me? Come sono andato? Ero bravo, eh?». Sick si avvicinò curioso, aspettando una mia risposta che non sarebbe di certo arrivata. Finii di medicare Ryan senza nemmeno badare alle domande di Sick e, quando mi levai i guanti gettandoli nel cestino, sentii distintamente una pacca sulla spalla di Sick, da parte di Ryan; stava cercando di consolarlo per la mia non risposta alla sua domanda.
«Grazie Lexi, ci vediamo domani». Brandon. Perché di tutti quanti lui era l’unico con un po’ di buon senso, l’unico che sapeva ringraziare e dire la parola giusta al momento giusto. Forse Brandon era l’unico Eagles dotato di cervello. Sì, doveva per forza essere quello il motivo.
«Figurati Brandon, quando hai bisogno sono qui». Sottolineai volontariamente il verbo, facendo capire che mi stavo rivolgendo solo a lui. Ryan e Sick, come se non c’entrassero nulla in tutto quel discorso, uscirono subito dopo Brandon, lasciandomi nel mio appartamento da sola, con tutta la tavola sommersa da cotone sporco e confezioni vuote di cerotti. Sistemai tutto in poco tempo, andando in bagno a lavarmi le mani e rinfrescandomi, prima di tornare a letto. «Ora, cervello, evita di continuare quel sogno. È tardi e domani mattina devo andare al Phoenix».
 
Fortunatamente il mio cervello mi ascoltò, visto che sognai solamente di cavalcare un paio di onde buone, di fianco a Edge che mi prendeva in giro perché secondo lui ero scarsa. Quando quella mattina mi svegliai, capii di avere una strana sensazione, di sicuro infondata; almeno fino a quando al Phoenix scoprii che Aria non c’era. Le mandai un messaggio chiedendole spiegazioni, stava male per lo stesso motivo del giorno precedente? Rispose con un messaggio che mi preoccupò ancora di più: «Indigestione, probabilmente. Scusami davvero Lexi, non volevo farti fare il turno doppio, ma non ce la faccio ad alzarmi dal pavimento del bagno. Sono un paio di mattine che non sto bene, ma oggi è peggio del solito». Preoccupata, avvisai che sarei passata da lei dopo lavoro, per  controllare cosa le era successo.
Quel turno al Phoenix mi era sembrato più lungo del solito, senza Aria a farmi ridere o senza le battute di Dollar che la prendeva in giro non c’era niente per cui valesse la pena di lavorare lì. Nemmeno Peter, che aveva capito il mio rifiuto al suo appuntamento di un mese prima; non ero stata chiara, mi ero limitata a una risposta confusa, in cui gli spiegavo che non era il momento più adatto per me per impegnarmi. Si era limitato a sorridere, senza perdere le speranze. L’avevo silenziosamente ringraziato per la sua gentilezza e poi ero tornata a servirgli le birre con meno imbarazzo.
Bussai alla porta dell’appartamento di Aria preoccupata e senza fiato per la corsa che avevo fatto per raggiungerla. Mi aspettavo che aprisse la porta quasi strisciando, con due occhiaie profonde e i segni evidenti di qualche malattia; invece era bellissima e perfetta come sempre. Mi aveva raccontato una bugia?
«Perché sei venuta Lexi? Ti ho detto che stavo bene. È stata la pizza con i peperoni che Jack ha preso l’altro giorno, credo ci fosse qualcosa di avariato. Mi ha fatto male ieri mattina e oggi, ma poi mi passa. Solo che sai com’è Jack, non voleva che andassi al Phoenix perché era qui quando ho vomitato» concluse, sedendosi sul divano e incrociando le braccia al petto. Il medico che era in me raccolse tutti i sintomi che aveva elencato, facendone una diagnosi che non portava a niente di buono; almeno, ero sicura che per Aria non fosse niente di troppo bello, in quel momento.
«Aria… non è che sei incinta?» domandai, sperando di non sconvolgerla troppo. Non volevo farmi i fatti suoi, ma le nausee mattutine e gli sbalzi d’umore che mi aveva descritto Dollar mi facevano pensare solo a quello. Spalancò gli occhi, spaventata, poi, involontariamente, la sua mano andò a posarsi sulla sua pancia piatta.
«Cosa? No, non è possibile prendo la… cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo. Porca vacca, cazzo. No, non posso essere incinta». Aria si portò le mani tra i capelli, raggomitolandosi su se stessa, come una bambina impaurita. «Cazzo, io ho sempre preso la pillola, il mese scorso ho smesso e abituata com’ero non ci ho più pensato. Cazzo, cazzo, cazzo. No, non voglio essere incinta». Si alzò dal divano, camminando nervosamente attorno al tappeto, nel suo piccolo salotto.
«Aria, calmati, non è nemmeno detto che tu sia incinta, è solo una mia supposizione. Devi fare un test di gravidanza e in ogni caso se è così, sei ancora all’inizio, non preoccuparti». Mi alzai raggiungendola per abbracciarla; mi faceva tenerezza, per la prima volta riuscivo a scorgere la sua fragilità, non nascosta dalla forza che la contraddistingueva sempre. Aria era spaventata e non aveva nessuno a cui appoggiarsi.
«Come faccio a calmarmi? Se sono incinta cosa faccio? Devo abortire, non voglio un bambino, non sono pronta per avere un bambino, Jack non vorrebbe un bambino. No, perché capitano tutte a me Lexi, perché?». Aria cominciò a piangere, abbracciandomi. Sentivo il suo corpo scosso dai singhiozzi e non riuscivo a calmarla, nonostante continuassi ad accarezzarle la schiena, dolcemente.
«Aria» mormorai, avvicinandomi al divano e aiutandola a sedersi, «non pensare subito al peggio, non è detto che tu sia incinta e poi non voglio più sentirti dire che non sei pronta per avere un bambino. Tu non hai sedici anni, sei una delle persone più mature che io abbia mai conosciuto e forse anche la più preparata. Ti ricordo che sei cresciuta in mezzo a bambini: Dollar, Ryan, Brandon e Sick… non sono bambini? È più facile crescerne uno. E credo che prima di decidere dovresti parlarne anche con Dollar, quando sarai sicura. Ma è solo la mia opinione». Non volevo forzarla a prendere una decisione che le avrebbe cambiato la vita per sempre, ma Aria non doveva pensare solo a lei, ma anche a Dollar e soprattutto alla vita che – con molta probabilità – portava dentro di lei.
Cominciò a ridere tra i singhiozzi per la mia battuta sui ragazzi e si sollevò dalla mia spalla, asciugandosi le lacrime che erano scese sulle sue guance. «Però io lo vedrei Jack come papà, sarebbe così stupido vederlo mentre fa ridere suo figlio» mormorò, abbassando lo sguardo e sfiorandosi il ventre con i polpastrelli, come se avesse paura di far del male a qualcuno. «Come faccio a saperlo? Dovevo avere il ciclo due settimane fa, ma non ci ho fatto caso, cosa devo fare? Voglio essere sicura prima di parlarne con Jack, non voglio allarmarlo per niente. Magari si arrabbia e mi dice che non mi ama più. E se scappasse?». Era terrorizzata, riuscivo a vederlo nonostante le lacrime che scendevano lungo le sue guance, si notava dalla sua mano che in modo convulso stringeva le mie, come se cercasse conforto.
«Aria, calmati. Domani mattina vai a prendere un test, così vedi, poi per sicurezza fai gli esami del sangue, così non ci saranno più dubbi. Se sei incinta comincerai a pensare a cosa dire a Dollar, e assieme deciderete cosa fare, non agitarti adesso per niente, dai». Cercai di sorriderle per tranquillizzarla, ma capivo che non doveva essere facile per lei. Si era trovata catapultata in una situazione molto più grande di tutto quello che le era successo fino a quel momento; in più, non riusciva a credere che Dollar potesse appoggiare qualsiasi sua scelta. Ero sicura che fosse perché semplicemente non capiva quanto fosse grande l’amore di Dollar per lei; si vedeva, anche un cieco avrebbe visto il modo in cui la proteggeva da tutti, per qualsiasi cosa.
«D’accordo, ma tu vieni con me, non è vero? Domani quando facciamo quel… il test tu stai con me, per favore» mi supplicò, asciugandosi le nuove lacrime che le avevano bagnato le guance. Come potevo dirle che no, non sarei stata con lei? Aria aveva bisogno di un’amica, di qualcuno che le rimanesse accanto in quel momento strano, non mi sarei mai rifiutata di fare una cosa simile, soprattutto perché ci tenevo a lei e sapevo quanto avesse bisogno di sostegno: non poteva contare su una famiglia, visto che la sua famiglia erano gli Eagles. L’avrei supportata e consigliata, come una sorella maggiore, perché vedevo Aria come la sorellina che non avevo mai avuto, qualcosa da proteggere. Era stupido, perché Aria sotto molti aspetti era più matura di me, ma in quel momento era così spaventata che sembrava una bambina.
«Lo guardiamo assieme domani, ok?» mormorai, accarezzandole di nuovo la schiena durante quell’abbraccio che voleva consolarla. Sentii il suo capo muoversi: annuiva per dirmi che sì, l’avremmo fatto insieme.
E successe esattamente così: le stringevo la mano aspettando che passassero i minuti, sperando silenziosamente che il risultato di quel test fosse negativo. Era il giorno del Ringraziamento, erano le sette di mattina e Aria non si preoccupava nemmeno del tacchino da cuocere, come era giusto che fosse.
«Lexi… guarda tu» mormorò stringendo ancora più forte la mia mano tra le sue; rischiava di rompermi le ossa, ma non me la sentivo di dirle nulla, era davvero agitata e preoccupata. Avanzai di un passo, respirando a fondo e sperando con tutta me stessa che il risultato fosse negativo, ancora una volta. Quando arrivai davanti alla tazza con quel piccolo bastoncino dentro, socchiusi gli occhi per qualche secondo. «Allora?» domandò Aria, dietro di me. Forse credeva che avessi già visto se era positivo o negativo, ma non era così.
«Adesso guardo» spiegai, avvicinandomi e prendendo il test in mano. Il respiro mi si strozzò in gola, leggendo il risultato. «È… è positivo Aria». Istintivamente mi voltai, guardandola: socchiuse gli occhi lentamente, lasciando che una lacrima silenziosa scivolasse lungo la sua guancia. Nessun gemito, nessun urlo, un silenzio che riuscì a spezzarmi il cuore. «Non è ancora detto che sia vero, farai gli esami del sangue per essere sicura, questi cosi sbagliano alcune volte, magari è anche perché sei stressata e comunque non è detto che…». Mille scuse a cui sapevo non avrebbe creduto. Eppure mi sentivo in dovere di farlo, di darle un’ultima speranza.
«Lexi… lascia stare, davvero. Non parliamone con nessuno, non voglio rovinare il Ringraziamento ai ragazzi. Ne parlerò con Jack solo quando sarò sicura, nel frattempo, ti prego, non dirlo a nessuno. Adesso aiutami a preparare la cena, deve essere tutto perfetto». Cominciò a prendere gli ingredienti per riempire il grosso tacchino che aveva comprato il giorno prima e senza più pensare al test di gravidanza, chiacchierammo di John e del Phoenix e di Peter che non aveva più provato espressamente a chiedermi di uscire; Aria continuava a farfugliare che aveva una sua teoria, ma che me ne avrebbe parlato al momento opportuno. Quando l’avevo minacciata con un coltello da carne, chiedendole a cosa si stesse riferendo, contrattaccò lanciandomi addosso una cucchiaiata di ripieno del tacchino, centrandomi in pieno viso.
Ci trovarono così i ragazzi, quando arrivarono quel pomeriggio: Aria con un cucchiaio in mano, io con il volto sporco di ripieno e con il coltello da carne come arma.
«Che cazzo sta succedendo dentro a questa cucina?» sbottò Ryan, togliendo la pistola dalla cinta dei pantaloni e appoggiandola sopra al mobile d’ingresso. Quel gesto – che non avevo mai notato – mi fece sbarrare gli occhi per la sorpresa. Ryan portava sempre una pistola con sé o era solo un caso? Cercò di rilassare i muscoli del collo, girando lentamente il capo e poi, senza attendere una risposta da parte mia o di Aria, andò a sedersi sul suo divano con uno sbuffo.
«Che state preparando di buono, oltre al tacchino?» domandò curioso Dollar, avvicinandosi ad Aria e abbracciandola, dopo aver fatto scorrere le sue mani sulla sua pancia. Quel gesto involontario di Dollar mi fece sorridere, come se sapesse il segreto di Aria che, ne ero sicura, avrebbe scoperto presto. «Mi fai assaggiare qualcosina?» piagnucolò, baciandole il collo e scendendo verso la sua spalla. Sentii un sospiro di Aria e ridacchiai, incapace di trattenermi.

«Jack, allontanati subito, tu e quelle tue manacce sudice! Non ti voglio vicino al tacchino, tu mi servi solo per controllare la cottura, visto che Lexi non sa nemmeno come si cucina la carne. E io che confidavo in lei» sbuffò Aria, fingendosi offesa dalla notizia che le avevo dato quella mattina, mentre cercavamo di non pensare al risultato del test. Aria spintonò Dollar scherzosamente, allontanandolo dal ripieno che avevamo preparato fino a quel momento.
«Perché non sai cucinare la carne, Lexi?» domandò incuriosito Sick. Mugugnai rassegnata, sapendo che lui era l’ultima persona a dovermi fare quella domanda. Conoscendo Sick e la sua fissa, di sicuro avrebbe cominciato a fare battutine inutili, e lì, davanti a tutti, mi avrebbe fatta vergognare di nuovo.
Per evitare di arrossire imbarazzata davanti a tutti, aprii il frigo, fingendo di cercare qualcosa, poi, con un rantolo perché speravo che non mi sentisse, mugugnai: «Perché sono vegetariana». Sentii distintamente il rumore di qualcosa di metallico che cadeva a terra – come un coltello –e , quando mi voltai per controllare, trovai Sick con le mani a mezz’aria e gli occhi sbarrati per la sorpresa.
«Sei vegetariana e non me l’hai mai detto? Sei vegetariana e non sei mai voluta venire in camera mia? Dobbiamo rimediare subito. Vegetariana. Cioè, tu hai una ceretta integrale e sei vegetariana. È un invito, capisci?». Si avvicinò a me, abbracciandomi all’improvviso, felice per quella notizia e impedendomi di spostarmi o sottrarmi da quell’abbraccio. «Lexi, sei la donna della mia vita. Sposami, ti prego; facciamo tanti figli, proviamoci se non li vuoi. Farò tutto quello che vorrai se tu farai tutto quello che vorrò». Gli occhi di Sick brillavano per la felicità. Aveva un’espressione talmente comica sul suo viso che non riuscii a trattenermi, cominciando a ridere assieme agli altri.
Tra una risata e l’altra infornammo il tacchino; Dollar era l’addetto alla cottura, controllava che non si seccasse troppo, rigirandolo nella grande teglia e bagnandolo con il sugo; sembrava davvero un cuoco, se non fosse stato per quelle due ridicole mollettine che Aria gli aveva messo in testa, perché continuava a lamentarsi che aveva i capelli troppo lunghi.
Quando il cuoco informò che la cena era pronta, io e Aria facemmo accomodare i ragazzi nei posti che avevamo assegnato loro: io mi sarei seduta tra Brandon e Aria, che aveva Dollar alla sua sinistra. Tutti in cerchio, tutti gli Eagles assieme, con la Signora di Dollar. Mi sentivo fuori luogo, nonostante Aria mi avesse ripetuto per tutta la mattina che non ero un’estranea. Riuscivo a vedere i ragazzi tranquilli e felici, durante quella festa che per loro significava molto, quasi come fosse qualcosa che li rispecchiava; e forse era proprio così, perché non li avevo mai visti tutti e nove – con i due ultimi arrivati – in piedi davanti a una tavola imbandita, mentre Brandon farfugliava qualche parola di ringraziamento per gli Eagles e Ryan affettava il tacchino. Era esattamente come stare in famiglia, come vedere papà che tagliava il tacchino, mettendolo nel piatto di mamma e nel mio –  anche se sapeva che non l’avrei mangiato. C’era qualcosa di più però, un legame più forte tra di loro che andava oltre un legame di sangue, era addirittura più forte: il rispetto che l’uno provava per l’altro, la lealtà tra di loro, la sicurezza che ognuno si sarebbe ferito pur proteggere l’altro.
Alzai il mio bicchiere pieno di succo –per non far insospettire i ragazzi, visto che Aria non poteva bere alcol – e sorrisi; i brindisi erano davvero assurdi, soprattutto quelli di Sick. Avevo imparato ad accettarli però; erano unici, tutti loro. Per questo non riuscii a cancellare quel sorriso nemmeno quando Ryan – per fare l’idiota mentre brindavamo – mi guardò ghignando, prima di ammiccare, dando una pacca sulla spalla a Brandon, di fianco a lui.
 


Stavolta sono stata brava e non ci ho messo venti giorni! :)
Scherzi a parte, mi scuso nuovamente per il ritardo, ma davvero la sessione d’esami è alle porte e non ho il tempo materiale per scrivere. Cioè, scriverei di notte, ma ogni tanto il mio cervello chiede venia perché vuole riposare, quindi evito di farlo e scrivo un piccolo pezzettino alla volta.
Prima di tutto: quando ho detto che ci sarebbe stato il bacio (spoiler che ho messo nel gruppo) non mentivo, come potete vedere. Il bacio c’è stato.
Seconda cosa… la prima parte, ovvero tutto il sogno di Lexi è il trailer di Gangster Squad, il nuovo film di Ryan. Lexi diventa Emma Stone che nel film è la compagna di Sean Penn, mentre qui è la figlia del gangster. Tutto quello che ho scritto è frutto della mia fantasia e non c’entra con il film, l’unica cosa (oltre all’ambientazione) presa dal trailer è la frase “Mi porterai via da tutto questo?” “Veramente volevo solo portarti a letto”. E, preciso e sottolineo, come Ryan dice BED non lo dice nessuno.
Comuuuunque, per la seconda parte… Aria. Ecco, questa cosa credo non se la aspettasse nessuno (vi prego, ora non cominciate a dire “io sì”, che il mio ego si affloscia). Una sorpresa, su! Ora bisogna vedere cosa decide lei e cosa decidono gli altri, vi ricordo però che il prossimo capitolo subirà un nuovo salto temporale –l’ultimo –di un mese, quindi ci troveremo più o meno a Natale/Capodanno.
Ah sì, babbeh, si è capito, no? Siamo nel giorno del Ringraziamento e quindi c’è la cena con il tacchino ripieno. Credo lo sappiate tutte, comunque di solito spetta al capo della famiglia l’onore di tagliare il tacchino, per questo lo fa Ryan.
Ecco, non credo ci sia altro riguardo al capitolo, come sempre se avete domande, supposizioni, offese, offerte pecuniarie, potete contattarvi e sarò ben felice di rispondervi.
Come avrete notato all’inizio del capitolo la lista dei video si allunga, l’ultimo arrivato è uno dei miei preferiti. Dura poco poco e sono i “credits” iniziali di YSM, una genialata sempre di TheCarnival, che mi fa questi regali bellissimi che io amo e che mi danno sempre idee nuove per i capitoli. Guardatelo, non ve ne pentirete (e se non avete guardato gli altri… genuflettetevi sui ceci per 40 minuti urlando qualcosa di offensivo riguardo… boh, il vostro personaggio preferito, poi guardateli).
Infine, come sempre, ringrazio preferiti/seguiti/da ricordare perché aumentate sempre di più e siete un numero stratosferico, e poi vorrei ringraziare anche chi mi inserisce tra gli autori preferiti, perché non credevo che ci fossero così tante persone malate di mente dentro a EFP (fluffosamente parlando).
Il gruppo spoiler è questo: NERDS’ CORNER e come sempre ricordo che l’iscrizione è gratis e dentro trovate le foto dei protagonisti e gli spoiler dei capitoli futuri, chi volesse, deve solo iscriversi, accetto tutti, indifferentemente.
Il prossimo capitolo è a un buon punto e spero di aggiornare quanto prima, quindi, quando avete letto per favore fatemi qualche segno di fumo che mi regolo per aggiornare. Graaaaazie <3

A presto,
Rob.

   
 
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