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Autore: MeliaMalia    03/01/2007    1 recensioni
Sfoderai il migliore dei miei sorrisi saccenti, piegando le labbra in una linea ironica che invitava a prendermi a schiaffi dal mattino alla sera. Dovreste vedermi, quando sorrido così. Vi giuro che, tutte le volte che lo faccio allo specchio, ho una faccia tosta tale che mi verrebbe da prendermi a pugni da solo.
E’ un sorriso adorabile, insomma.
Perciò lo misi sfacciatamente in mostra. Quindi, con voce risoluta, con fare da gran duro, dissi: “E’ ora, signorina, che tu possa tornare ad essere ciò che sei. Ovverosia, un cadavere.”
Sono un tipo dalle frasi d’effetto, io.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Sei uno sciocco, Aster.» ridacchiò la signora Meyer, mentre guidavo il calesse. La notte, come sempre in quella stagione, era scesa prima del solito, sorprendendoci durante le compere che solevamo effettuare al paesino vicino ai nostri possedimenti. Dicendo noi, intendo me, il vostro bel protagonista, e la nostra simpatica cameriera, una signora che aveva da tempo superato la mezza età. Una donna simpatica, che ai tempi mi aveva cambiato i pannolini. Una cara signora, che però aveva in sospeso con me un torto davvero irreparabile.
Aveva suggerito a mia madre di chiamarmi Aster.
Aster.
Vuol dire astro. Stella.
E’ un nome da femmina!
Aster del Casato di Fortesole. Che cosa ridicola.
Eppure, mia madre aveva dato retta ai suggerimenti della signora Meyer. Li aveva trovati geniali, a dirvela tutta. E mi aveva chiamato così.
Ma torniamo a noi.
Guidavo il nostro bel calesse, spronando quel pigrone di Belnero. Era un cavallo da tiro vecchio e bisbetico quanto la nostra cara donna di servizio, che tendeva a dare retta solo a me. Ed era per questo motivo che, tutti i giovedì, io lo attaccavo al carretto, costringendolo con qualche moina e qualche minaccia a raggiungere il paese più vicino a noi. La signora Meyer vedeva il momento della spesa settimanale come un giorno di grande festa; io, ovviamente, lo vivevo come delle noiose ore da passare in compagnia di un ronzino sclerotico mentre lei contrattava sul prezzo della verdura.
Certe volte, andavamo in compagnia di mia sorella. Lei si chiamava Bianca Chiara Aria (sì, per i nomi buffi mia madre aveva la fissa…) ma noi tutti ci limitavamo ad utilizzare il terzo appellativo, quello che la descriveva meglio: Aria era una splendida ragazzina di circa sedici anni, con enormi occhi verdi ereditati da mamma, e lunghi capelli neri ereditati da papà. Di fisico esile, sembrava quasi una bambolina. La mia bambolina. Più leggera dell’aria, più fresca della brezza.
Avevo l’adorazione per mia sorella. L’amavo più di mio padre e di mia madre, l’amavo più della mia stessa vita.
Allegra e solare, era speciale, e non solo perché sapeva ridere di ogni cosa: aveva ereditato i poteri esoterici della cara bisnonna Mariana, cosa che, quando lo aveva scoperto, aveva fatto piangere di gioia mamma. Forse, un giorno, Aria sarebbe divenuta una potente esorcista, proprio come la bisnonna.
Due pargoli allevati per combattere il male, ecco cos’eravamo.
Ma eravamo felici.
Accidenti, ho di nuovo perso il filo…
«Perché mi dite così?» mi schernii con un sorriso, facendo schioccare le lunghe redini sull’anziana e paziente schiena di Belnero.
La signora Meyer rise, tentando però di guardarmi con severità. Due espressioni difficilmente conciliabili, e difatti l’esperimento fallì miseramente. «Vai così veloce, Aster, che rischi di farci rovesciare!» accusò, tenendo sulle ginocchia un cestino di vimini ricolmo di prodotti della terra.
Io le davo del lei, però ricevevo in cambio il tu. E la padrona, teoricamente, non era certo la signora Meyer. Però le cose erano così da che ero piccolo, e di cambiarle chi aveva voglia?
«E’ notte e fa freddo, mia cara signora Meyer.» replicai con aria divertita. «Ho il diritto di correre a casa, no? E se ci attaccassero i vampiri?»
«Li uccidi tu.» fu la tranquilla risposta, che mi fece distendere le labbra in un sorriso.
In lontananza, apparve la figura del nostro maniero. Era un vecchio e freddo castello, circondato da un grande e curato giardino. Di quello si occupava mamma. Era una specie di maga, con le piante. Le curava con un amore infinito, ottenendo in cambio splendide e multicolori fioriture, che sbocciavano durante la bella stagione. Al momento, però, gli alberi attorno a casa nostra erano privi di foglie; ombre nere sotto la luna, sembravano tanti scheletri protesi verso casa mia.
«E lui, chi è?» volle sapere la signora Meyer, indicando un viandante intento a passeggiare sui bordi della strada in terra battuta. Voltai il capo, osservandolo perplesso.
Ovviamente, vidi l’Antico. Presumo che come cosa sia prevedibile.
Beh, sappiate che per me non lo fu affatto. Schioccai le redini su Belnero, incitandolo con un urlo di puro orrore ad accelerare; ma fu fiato sprecato, dal momento che la bestia, avvertendo la presenza del biondo vampiro, aveva già ideato un brillante piano di fuga, che lo spinse ad allontanarsi in fretta e furia da quel demone, tirandosi dietro un Cacciatore in preda al panico, ed una donna di servizio perplessa e spaventata.
«Che succede, Aster? Che succede?» strillava la signora Meyer, sovrastando i nitriti terrorizzati del nostro ronzino.
Era una fuga sciocca. Era una corsa inutile. Quello era la Morte stessa, avrebbe potuto raggiungerci solo pensando di farlo.
Eppure, non lo fece.
Vai a casa tua, topo di fogna. Io ci sono già stato. Non sono una persona che ama maltrattare gli animali. Anzi. Di solito mi arrabbio, quando vedo i contadini frustare i loro cavalli. Eppure, quella sera feci del gran male a Belnero, percuotendolo con quelle vecchie e consunte redini.
Ci avvicinammo a rotta di collo al maniero, fermandoci nel bel mezzo di quella foresta morta che era ora il nostro giardino. Scesi giù dal calesse, sordo ai richiami della signora Meyer, sordo ai nitriti del ronzino, sordo a qualsiasi cosa. E corsi in casa.

***
Ecco, siamo al punto più difficile, allo snodo più tremendo e doloroso di questa storia. Ed io sento che mi mancano le parole per descriverlo. O forse il coraggio.
Ma devo farlo, vero?
Trovai i miei genitori nel grande salotto. Il fuoco nel camino era acceso e scoppiettante, i libri della grande libreria ordinati come al solito. Le poltrone di morbido velluto, intrise di sangue.
Così come il pavimento.
Così come i muri.
Così come ogni maledetta cosa, lì dentro.
E loro… loro… erano…
Non più interi, ecco com’erano.
Era sparsi, qui e là. Erano stati un divertente balocco. Vidi la testa di mio padre a qualche passo da me, vidi i suoi occhi spalancati nell’orrore della morte, del buio totale. La sua bocca, distorta da dolore, dalla tortura. Caddi a terra, tenendomi il ventre. Mi volse da una parte, e vomitai per un tempo che mi parve interminabile. Rovesciai il contenuto del mio stomaco, e non mi fermai nemmeno quando fu vuoto, smosso da conati irrefrenabili. Ho il vago ricordo di aver udito, nel frattempo, l’arrivo della signora Meyer. Di averla sentita urlare, di aver percepito il suo corpo cadere a terra in conseguenza al suo svenimento. Ma non me ne curai.
L’unica cosa a riportarmi alla realtà fu il sommesso pianto di Aria.
Alzai gli occhi arrossati e lucidi, cercandola con disperazione. Infine, la intravidi: una cosina dalla chioma nera, accucciata nell’angolo in fondo alla stanza. Come avevo fatto a non notarla prima?
«Aria…» sussurrai, rialzandomi incerto sulle gambe; ottenni un risultato traballante, di cui non mi curai minimamente. «Aria!» chiamai più forte, correndo verso di lei. Nel farlo, m’insozzai le scarpe di sangue. E calpestai qualcosa. Ma non me ne importava. «Aria, sono qui. Sono qui! Aria!» mi inginocchiai di fronte a lei, fissando con aria smarrita quella bambolina che, raccolte le ginocchia al petto, aveva nascosto il viso su di esse, piangendo a dirotto.
Quante ore aveva passato così, con l’unica compagnia dei cadaveri dei nostri genitori? Non mi era dato saperlo.
Ma era viva. Viva!
«Aria, sono io, sono Aster. Sono qui. Sono qui.» la avvolsi tra le braccia, la strinsi con tutte le mie forza. Chiusi gli occhi, permettendomi di piangere. Le mie spalle furono scosse dai singhiozzi, mentre avvolgevo la mia delicata e tremante sorellina, tenendola contro di me come un giocattolo. «Sono qui, Aria.» mormorai ancora, con voce rotta.
Ero lì, certo. Quando ormai tutto l’orrore si era compiuto, ero arrivato. Come un inutile salvatore del nulla.
Non era il momento di pensare a ciò. Aria era viva. A quello dovevo pensare.
O avrei rischiato di impazzire.
«Alza il viso, fiorellino.» sussurrai con voce roca. «Guardami, sono il tuo fratellone. Adesso va tutto bene. Va tutto bene.» che menzogna spudorata. «Guardami, Aria.» la incitai ancora.
Lei mi obbedì.
Quando alzò lo sguardo su di me, quando mi parlò con voce lacrimevole, quando aprì le labbra in un urlo angosciato, strillando che la stanza era piena di sangue, io non riuscii a muovere un muscolo.
Tutto me stesso era concentrato su due soli particolari: ovvero, sullo straordinario pallore di Aria, e sui lunghi ed acuminati canini che la sua sottile bocca spalancata nel grido metteva in mostra.
Era un vampiro.
   
 
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