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Autore: _ivan    22/06/2012    7 recensioni
[ COMPLETATA LA PRIMA PARTE: la seconda verrà scritta e pubblicata al termine di 'Monetarium - la neve e le ombre' ]
Theodore è un ragazzo come tanti: alterna la sua vita tra facebook, videogiochi, televisione e uscite con pochi e fidati amici. Sua madre adora interpretare la parte del tiranno, suo padre quella dell'uomo saccente e un po' troppo pretenzioso. Eppure basta il discorso del presidente degli Stati Uniti, un giorno, a cambiare tutto. Al mondo viene rivelato che..
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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!! questa volta scrivo in punti:
_ grazie, grazie, grazie, grazie. siete stati tutti gentilissimi e g i u r o che non appena avrò un po' meno pigrizia addosso mi metterò a correggere
i capitoli precedenti. faccio tesoro di ogni singola parola che mi dite;
_ a proposito di cambiamenti: nel cap. 1 è comparsa la dicitura 'prima parte'. questo perchè ho completato l'altro giorno quello che mi è sembrato un 'ciclo',
dunque ho optato per una macro-partizione in parti oltre che in capitoli;
_ a proposito di traguardi: vorrei festeggiare con voi il superamento della soglia delle 100 pagine di racconto, il fatto che abbia finito la prima parte,
che abbia ricevuto 10 recensioni e che abbia superato le 100 visite per il primo capitolo. non lo avrei m a i immaginato;
_ la mia è una narrazione lenta, lo so. per spiegare questo punto citerò una cosa che io stesso ho scritto in risposta ad ely79:

'io scrivo innanzitutto perchè mi rilassa farlo. non scrivo per fare colpo sugli altri. non scrivo perchè punto ad una commercializzazione, ed è per questo che - lo riconosco - la
mia narrazione è a tratti piatta e poco adrenalinica. è la scrittura di una persona che prova immenso piacere nel cancellare il mondo esterno per identificarsi
in quello nuovo che è stato in grado di plasmare, e che dunque si perde in emozioni e descrizioni introspettive ed ambientali.
'
ennesimo piccolo appunto: questo capitolo andrebbe diviso in 3.0 e 3.1..ma per evitare che non succeda nulla di interessante..ve l'ho messo tutto.
più avanti ho lasciato una piccola divisione, così se volete leggerlo a tappe sapete dove è meglio interrompere. buona lettura.

*


CAPITOLO III

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_3_INTERO.pdf ]

La notte del 22 ottobre fu lunga e travagliata.
Mentre i credenti di religioni neonate si riversavano sulle strade inneggiando a un nuovo inizio, mentre i catastrofisti si stringevano alle loro mogli temendo l’arrivo dell’alba, mentre i primi irriducibili avevano cominciato a puntare gli occhi al cielo, io sprecavo le mie probabili ultime ore dormendo profondamente.
E mentre tutto ciò accadde, feci un sogno.
    
Mi trovo ai piedi di un’immensa scalinata di pietra, color ambra e bagnata dai raggi di un Sole d’avorio.
E’ sempre stato di quel colore, il Sole?
Mi volto alle spalle, verso il profilo di una titanica cattedrale di splendente marmo.
Don. Don.
Il campanile rintocca. Non conto quante volte, ma mi sembrano comunque troppe.
Dall’alto di torreggianti picchi acuminati di pietra, gargolle e angeli fissano il vuoto.
Assottiglio lo sguardo e torno al mondo di fronte a me, infinita distesa erbosa mossa da un vento che non sento sulla pelle.
So di dover andare.
Aspetta, ma dove?
«Andiamo!» urla Cassie da lontano, confermando i miei pensieri.
Ma dov’è?
Eccola, è lì! Un puntino in movimento sulla cima delle scale alle mie spalle. «Nonno Clement ci aspetta!»
Nonno? Cosa c’entra nonno? Come fa a conoscerlo?
Nonno è morto quindici anni fa. Non può aspettarci.
Don. Don.
Mi alzo e comincio a correre verso Cassie. Uno, due, tre, cinque, sette, dieci, ventiquattro. I gradini non finiscono più, a differenza delle mie energie. Le linee degli scalini si confondono e diventano un’unica macchia di colore. Inciampo due volte battendo il ginocchio. Le fitte di dolore mi costringono a gemiti soffocati.
«Dai! Muoviti! Sei peggio di un parto!» sento l’inconfondibile risata di Cassie, ancora infinitamente distante nonostante i miei sforzi per raggiungerla.
Mi sale l’ansia, respiro male.
Tic tic. Tic tic.
Cos’è?
Mi guardo attorno. E’ una bomba che sta per esplodere. Sì.
E’ una bomba!
Non la vedo ma so che c’è.
Tic tic. Tic tic.
Dov’è? Devo correre.
Non mi muovo. Vado nel panico.
Cassie! Aiuto! Cassie! Esplodiamo!
Non riesco a parlare! Cassie!
«Theo, la famiglia è ovunque.»
Nonno?
Tic. Tic.
No!
 
     Mi svegliai di soprassalto, in un bagno di sudore.
Scattai in avanti, ritrovandomi seduto e con gli occhi spalancati.
Tic Tic.
Gli occhi schizzarono sulla destra, dove la sveglia sul mio comodino stava suonando, segnando le nove e quarantacinque.
«Fanculo…» bofonchiai allungando un braccio e spegnendo con un buffetto il piccolo apparecchio blu. Sospirai, tornando a sdraiarmi sul materasso divenuto improvvisamente scomodo. Tra i pochi raggi del sole che attraversavano le persiane semi-chiuse vidi danzare granelli di polvere dalle sfumature dorate.
Passai una mano sul volto, sbadigliando e cercando di abbandonare una volta per tutte il mondo dei sogni.
L’aria, irrespirabile, era gravida del puzzo della mia biancheria sporca gettata in un cesto accanto all’armadio, sull’altro lato della stanza.
Pessimo risveglio.
Poi il pensiero giusto mi colpì il cervello come un fulmine.
Allungai una mano verso il cellulare sul comodino e diedi un’occhiata allo schermo: 23 ottobre 2014.
C’eravamo. Il giorno atteso era finalmente arrivato.
Con il cuore improvvisamente in gola e l’eccitazione nelle vene, scostai le coperte e mi alzai dal letto.
Cominciavo a pentirmi di aver dormito così a lungo: mi promisi che non mi sarei mai perdonato nel caso in cui mi fossi già perso qualcosa di irripetibile. Il pensiero, poi, di aver buttato con incoscienza le eventuali ultime ore della mia vita non faceva altro che sotterrare ulteriormente la stima che avevo nei riguardi di me stesso.
Il pavimento freddo contribuì a risvegliarmi del tutto, e per uscire dal bagno e mettermi una tuta ci misi solo una manciata di minuti.
Mi scoprii talmente emozionato da non riuscire a star fermo.
Attraversai la mia stanza nel mentre mi legavo i capelli con un piccolo elastico nero.
Aprii così la finestra e parte delle persiane, in modo da far circolare l‘aria nella stanza. Il pungente schiaffo del gelo mattutino mi fece rabbrividire, mentre lo sguardo si perse in un muro di fitta nebbia oltre il quale il mondo aveva perso le sue reali fattezze. Il ciliegio spoglio nel cortile anteriore della villa dei Knowles mi apparve come una mano dalle dita ossute, nascosta nell’ignoto e pronta a ghermire il mondo.
«Londra di merda…» bofonchiai lasciandomi tutto alle spalle e incamminandomi verso il corridoio.
Se fosse rimasta la nebbia con molta probabilità non si sarebbero viste le astronavi aliene, e addio anteprima. Ammesso poi che l’Inghilterra venisse coinvolta: avevamo smesso da anni di essere globalmente riconosciuti come potenza mondiale; un disinteresse nei confronti del Regno Unito non credo avrebbe suscitato gran clamore.
Ammesso che, poi, fossero venute davvero delle astronavi dallo spazio.
E se non fosse arrivato nulla?
Mi fermai a pensarci realmente per la prima volta in sette mesi, e improvvisamente mi sentii uno stupido.
Per poco non ruzzolai giù per le scale, assorto com’ero nel mio coinvolgente vaneggiamento. Arrivai al pian terreno pochi istanti dopo, reggendomi allo scorri-mano in ottone.
Quando attirato dal suono di più voci entrai nel soggiorno, trovai ad attendermi nella stanza vuota solo lo schermo del televisore acceso. Rimasi a fissare la giornalista in tv per qualche istante, prima di muovermi verso il telecomando per spegnere l’apparecchio. Era la prima volta dopo il giorno della rivelazione che la tv tornava a essere accesa tra le mura della mia villa.
In cucina, alle mie spalle, qualcuno stava trafficando con piatti e posate.
«Mamma e papà…?» domandai a mio fratello Martin restando sul ciglio della porta della cucina, con una spalla poggiata allo stipite in ciliegio.
Cercava evidentemente un cucchiaio. In mano la tazza, in bocca un biscotto.
Il piccolo televisore della cucina era acceso sullo stesso canale intravisto in soggiorno: alle spalle dell‘avvenente giornalista, l‘immagine della navicella di Star Trek invase lo spazio.
Due tv in funzione potevano solo significare che mamma non fosse a casa.
Martin aspettò di sedersi a tavola prima di rispondermi, in un complesso di masticate e di deglutizioni.
«Sono andati al lavoro. Lo sai che sono degli irriducibili, no?» mi sorrise, e mi sentii in dovere di ricambiare. Lungo il lato destro del tavolo, una spropositata quantità di quotidiani era disposta in un‘ordinata fila.
Mi avvicinai al frigorifero, lo aprii e ne fissai per qualche attimo il suo interno senza realmente farci caso. Richiusi l’anta senza ricordarmi neppure uno dei prodotti passati sotto il mio sguardo vacuo.
«Dicono che da noi arriveranno domani, sai?» disse Martin, girando il cucchiaio nella tazza di quello che mi sembrò latte.
«Come…?» aprii la dispensa e mi sentii Dio quando riuscii a trovare ben tre merendine al cioccolato. Una non aveva propriamente un aspetto fresco ma mi dissi che sarebbe ugualmente andata bene, data la mia fame mattutina.
«Lo dicono sia in tv che sul giornale: l’eclissi sarà visibile in America verso le undici di sera, il che vuol dire che per il fuso orario da noi sarà notte fonda…e un nuovo giorno.»
Più che dall’argomento in sé, restai stranito dall‘improvvisa loquacità di mio fratello. Non stetti a sindacare, attribuendo il merito al fatto che attualmente potessi essere l’unico con cui condividere un po’ di entusiasmo per l‘accaduto.
L‘alternativa a me probabilmente doveva essere il parlare con la mobilia. E a quel punto mi sentii lusingato dalla sua scelta.
«Che due coglioni…» bofonchiai prendendo posto di fronte a lui e scartando la prima piccola brioche. L’odore di cioccolato risvegliò la salivazione.
«Già. Anche se per alcuni tutto questo non significa nulla. Nel senso…il fatto è che, in base a quello che hanno detto, tutto dovrebbe accadere durante giorno dell’eclissi, giusto? Non necessariamente Durante l’eclissi. Non è detto quindi che in America scendano alle undici di questa sera» Martin bevve un lungo sorso dalla sua tazza guardandomi negli occhi. Forse si aspettava una risposta.
«Io questo pomeriggio vado da Cassie.» dissi io, semplicemente.
«Mh. L’hai detto a mamma che non vai in università?»
«Hanno sospeso le lezioni» Non sapevo nemmeno perché stessi mentendo a mio fratello che in fin dei conti era l’unico a non potermi fare nulla. Forse lo feci solo per il gusto di farlo.
«Sarà.» disse «io resto a casa. Mamma ha detto che posso starmene qui. Anzi, tecnicamente vorrebbero restassimo a casa entrambi, papà mi ha chiesto di dirtelo prima che te ne andassi…»
«Papà?» la cosa mi puzzava.
Annuì nel mentre pensavo che, probabilmente, anche i miei genitori potessero aver pensato che girare per la città durante un giorno simile potesse risultare pericoloso.
Afferrai il Times e diedi una sbirciata alla prima pagina. ‘Stanno Arrivando!’. Sorrisi.
«Certo che si sarebbero potuti impegnare anche un po’ di più per il titolo…» dissi riprendendo a guardare altrove, in balia della mia capacità di facile deconcentrazione.
«Vero?» mi sorrise di nuovo. Questa sua disponibilità era quasi inquietante.
La nebbia ammantava la solida struttura della nostra casa, occultando la visuale oltre la finestra della cucina. Al di là di quelle quattro mura, i clacson delle macchine riempivano la metropoli.
«Non hanno ancora finito…?» domandai a mio fratello sfogliando senza interesse un quotidiano di second‘ordine.
«No. C’è ancora mezza strada bloccata dalle macchine dei giornalisti. Hanno suonato alle otto qui a casa. Dovevi vedere la faccia di papà quando gli hanno chiesto, mentre andava al lavoro, di dire qualcosa di carino sugli Humpsey» ridacchiò divertito «Non è stato molto disponibile.»
Da quando il figlio degli Humpsey aveva assassinato i due anziani a coltellate, la via del nostro domicilio era diventata l’epicentro di un’attività mediatica fuori dal comune.
Suppongo che allora i media spendessero così tante energie sul caso, più che per amor di cronaca, per far defluire e focalizzare altrove tutta la tensione generata dalla questione extraterrestre, che oramai possedeva l‘indiscusso monopolio dell‘informazione globale.
Per quanto potesse sembrare impossibile, tenere le giuste distanze dal bombardamento mediatico che si era portato dietro il ‘ciclone alieno‘, poteva dimostrarsi l‘unica via di scampo per evitare una perdita prematura del senno. Senza andare troppo lontani, era in fondo quello che avevano fatto i miei stessi genitori staccando le prese dei televisori, e di questo ne sono grato.
«Certo che era proprio schizzato forte, eh…?» dissi con un mezzo sorriso, aprendo la seconda merendina. Fissai la superficie lucida e zuccherina della piccola ciambella ed improvvisamente mi sentii meglio. Il mio stomaco mi ringraziò con un gorgoglio sommesso.
«Chi, Algernon?» chiese lui.
Annuii.
«Io lo avevo visto una volta, sai? Nel senso…lo avevo incrociato quando sono andato a potare i rami del castagno che gli Humpsey hanno sul retro. Cioè, avevano. Nel senso…c’è ancora, il castagno. E’ che non ci sono più loro.»
Lo fissai, ammetto, un po’ divertito per la sua impacciataggine.
«Mi era sembrato un tipo normale» continuò, facendo spallucce «dicono verrà rinchiuso in qualche istituto…Ma c‘era da aspettarselo. Ha accoltellato diciotto volte la madre e trentasei il padre, poi ha chiamato la polizia e ha detto che glielo sarebbe stato ordinato da una voce nella sua testa.»
Alzai le spalle, rimasto senza parole di fronte a quell’ennesima dimostrazione di come gli uomini in realtà facessero schifo.
Possibile che qualcuno potesse realmente essersi interessato alla nostra esistenza?
E così restai in silenzio, deludendo con molta probabilità le sue aspettative. Per me la conversazione finiva lì.
Sbirciai il quadrante del mio orologio da polso.
Martin cercò ancora due volte di proseguire la conversazione, chiedendomi come avessi dormito e se avessi spento la tv in soggiorno. Risposi a monosillabi, ignorando la sua esplicita bramosia di contatto.
Fino ad allora non avevo fatto altro che desiderare un’opportunità del genere, e ora che ne avevo sentito il profumo, ero fuggito con indifferenza. Come sono strane le persone.
E oggi, ripensando a quella scena che ho ancora chiara nella mente, non provo altro che pentimento.
Mi alzai dal tavolo con l’ultimo snack intatto tra le mani.
Cartacce e briciole erano sparse sulle pagine del Times.
Stanno Arrivando!’.


CAPITOLO III.1

 
Aspettare Cassie di fronte al cancello di casa era sempre uno spiacevole e snervante deja vu. Come una vera star da red carpet, di tanto in tanto poteva capitare che uscisse dalla porta d’ingresso dopo venti o addirittura trenta minuti di ritardo. Il tutto, ovviamente, senza mai la mancanza di una buona dose di disinvoltura.
Quando dal citofono la signora Molly, la madre di Cassie, mi rassicurò sul fatto che la figlia stesse per uscire in quel preciso istante, tirai un sospiro di sollievo. Come al solito la stava spalleggiando, ma generalmente una frase del genere significava che avrei dovuto aspettare solo una decina di minuti scarsi.
La prospettiva di restare immobile di fronte alla cassetta della posta di casa Fitcher non è mai stata troppo allettante, ma dal momento che avevo imparato a convivere con questa ricorrenza - per puro istinto di sopravvivenza - avevo trovato diversi escamotage per ammazzare il tempo in attesa dell’arrivo di Cassie.
Quel giorno in particolare, con una sola cuffietta nell’orecchio, stavo ascoltando a ripetizione Pain dei Three Days Grace.
La villa dei Fitcher sorgeva a Sutton, nella zona meridionale di Londra, in quinta fascia e dunque abbastanza lontana dal centro vivo della metropoli da far pensare di averne varcato i confini.
Il grande edificio in stile vittoriano aveva la facciata principale color porpora e tre torrette merlate che svettavano verso il cielo. La villa spiccava così sul resto delle case del quartiere, caratterizzate invece da uno stile moderno ugualmente piacevole ma decisamente più standardizzato. Non conosco esattamente la storia di quella casa, ma il suo aspetto magnetico contrastante con il resto dell’ambiente faceva pensare a priori che avesse posseduto un passato ricco di misteri dal fascino non indifferente.
Mi guardai attorno respirando a labbra schiuse, con un piede che a tempo di musica picchiettava il cemento.
Le condensa di fronte al mio viso si unì alla nebbia circostante. L‘alto tasso d‘umidità rendeva la respirazione difficoltosa e gravida d‘una spiacevole sensazione d‘oppressione.
Nonostante stessi indossando un pesante maglione dal gusto natalizio, fui costretto ad incassare il petto tra le spalle per far fronte al freddo pungente di un inverno in arrivo.
Intorno a me, la città si era tinta dei colori e delle sfumature di un romanzo gotico.
Mi voltai quando venni richiamato dal rumore secco del grosso portone in legno, all‘ingresso della villa.
«Hey Cassie!» sfoderai uno dei sorrisi migliori che le guance congelate potessero concedermi.
Alzai anche una mano in segno di saluto, sentendo l’intorpidimento delle dita arrossate per il freddo.
«Ma come cazzo sei vestito?» disse Cassie, chiudendo la porta alle sue spalle e avvicinandosi con passo svelto.
«Cosa c’è che non va?» fissai il maglione che stavo indossando e che, ai miei occhi, non sembrava davvero avere nulla di strano. Tolsi la cuffietta dall’orecchio sinistro e infilai tutto nella tasca posteriore dei pantaloni.
«Natale è tra due mesi…e non sei una donna, quindi il rosso potresti risparmiartelo. Anzi, facciamo che te lo risparmi anche a Natale, ok…?» dopo un abbraccio sbrigativo si incamminò verso la sua macchina, una vecchia Opel parcheggiata fuori dalle linee guida bianche.
La seguii e decisi di non domandarle il motivo del ritardo.
«Simpatica come sempre, eh?» le dissi stirando un sorriso sghembo «hai le palle girate?»
«Un po’» rispose lei. Le luci arancioni della macchina lampeggiarono nel grigiore della strada.
«Dove stiamo andando…?» chiesi aprendo la portiera ed entrando nella vettura.
Raggomitolato sul sedile, osservai Cassie inserire le chiavi nel quadrante e cominciare, poi, a trafficare con le cianfrusaglie nella sua grossa borsa in cuoio, tra le ginocchia.
Per l’ennesima volta il suo abbigliamento era impeccabile, connubio ben riuscito tra il gusto vintage e lo stile hipster. Gli orecchini in resina nera a forma di teschio, lasciati scoperti dallo chignon laterale e morbido, sbatacchiavano contro il suo collo longilineo catalizzando spesso e in quel punto la mia attenzione.
«Hey, mi ascolti?» trasalii, appunto, quando Cassie aprì la bocca.
Ero talmente catturato dai miei pensieri da non essermi reso conto del fatto che aveva messo in moto l’auto e che aveva cominciato a parlarmi.
«Cazzo Theo,» disse ancora «a volte sembri davvero su un altro pianeta. Altro che alieni…»
«Sì, scusa. Dicevi?» mi passai una mano tra i capelli, un po’ stranito.
«Niente, quella stronza della mia finta madre mi ha chiesto di comprare il latte.» sospirò «‘certo mammina» disse scimmiottando una voce acuta, imitazione di sé stessa «tanto ci saranno tutti i negozi aperti! Sai com’è, oggi dovrebbero solo arrivare sei popolazioni aliene a conquistare il pianeta Terra!’»
Ridacchiai. Cassie era un’attrice nata, specialmente quando si trattava di caricature e situazioni ironiche.
«Comunque…cinque» aggiunsi quando poco dopo calò il silenzio, portando lo sguardo oltre il cruscotto.
«Cinque di cosa» rispose lei.
«Cinque popolazioni aliene. Non sei. Tu hai detto sei. Sono cinque»
«Oooh, Theo, non rompere, ok?» agitò una mano a mezz’aria sbuffando «non ti ci mettere anche tu con questa storia. Cinque, sei, chissene frega. Non fare il nerd come Ervin, per favore.»
Mi guardò storto, quindi mi lanciò la borsa tra le gambe e uscì dal parcheggio.
Trascorsero cinquanta minuti prima che Cassie decidesse di posteggiare l‘auto: quando indicò l’ingresso di quello che mi sembrò un vecchio garage inarcai il sopracciglio, stranito.
Varcammo l’ingresso camminando uno accanto all’altra.
In completo contrasto con il suo aspetto esteriore, l’ambiente interno era caratterizzato da una cura nei dettagli impressionante: le lunghe file di scaffalature metalliche erano disposte in maniera simmetrica nella zona interna del locale. Grandi frigoriferi dall’anta vetrata seguivano invece il perimetro della piccola sala, illuminata da ingombranti lampade da soffitto al neon che per merito della loro luce biancastra conferivano al tutto un aspetto asettico, freddo e ospedaliero.
Era un modesto negozio di alimentari di quartiere, di quelli sempre più difficili da reperire da quando i grandi centri commerciali si erano imposti sul commercio. Nell’aria, il profumo di frutta matura e zuccherina.
Vicina all’ingresso, una signora sulla cinquantina dalle forme pronunciate e il naso a patata mi guardò sorridendo. Incorniciato da lisci e corti capelli ramati, il suo viso mi sembrò tondo e la sua espressione simpatica.
«Questo posto mi mette ansia.» disse Cassie muovendosi verso l‘interno «Secondo me lo mette in ordine uno psicopatico.»
Prese tra le mani un piccolo cestello blu e, avvicinatasi ai dolciumi, cominciò a studiare con attenzione il retro di tre barrette di cioccolato.
«Come mai sei nervosa?» azzardai la domanda fingendo un interesse solo vago e prendendo goffamente tra le mani una grossa confezione di merendine al latte.
In risposta, come previsto, ottenni inizialmente un suo sguardo che mi sembrò in bilico tra l’irritato e l‘incredulo. Potevo guardarla con la coda dell’occhio, ma tanto mi bastò a farmi gelare il sangue nelle vene.
Nel silenzio più assoluto - di quelli che uccidono -, rotto solo dal ticchettio del registratore di cassa alle nostre spalle, afferrò una stecca di cioccolato bianco e la gettò nel cestello.
«E’ per mia sorella.» disse poco dopo, con una sfumatura nel tono di voce che mi sembrò nel complesso amareggiato.
Riprese a camminare mentre riposi la confezione di merendine. Ebbi l’impressione che i suoi gesti stessero diventando più veloci, tuttavia non mi fu ben chiaro se il tutto fosse dettato dall’agitazione o se, piuttosto, avesse semplicemente l’intenzione di ottimizzare il tempo a nostra disposizione.
Piccolo excursus: la sorella di Cassie si chiamava Lara, e personalmente non la vidi mai neppure una volta. 
Figlie di Molly Grounds - direttrice d’orchestra - e Robert Fitcher - archeologo riconosciuto a livello internazionale - le due bambine assunsero i nomi di due donne della mitologia greca: Cassandra, veggente catastrofista, e Lara, una ninfa punita dagli Dei con il mutismo, per aver desiderato il corpo di una creatura del suo stesso sesso.
Il caso, imprevedibile e bizzarro, fece poi il resto. Sembra il colmo che dunque Cassie fosse cresciuta nella convinzione di aver sempre ragione e che Lara, purtroppo, crescendo si fosse dimostrata affetta da un’acuta forma di autismo che la rendeva gestibile ma assolutamente non autonoma.
Cassie non amava parlare della sua vita e ancor meno di sua sorella, neppure con me, ma da quello che capii con il passare degli anni, quella tra le quattro mura di casa sua non doveva affatto essere una situazione facile da sopportare.
Questo era il motivo principale per il quale non fosse gradita la presenza degli ospiti ed estranei in casa Fitcher, e per il quale fossi costretto ad attendere ogni volta in prossimità del cancello.
Questo era anche il motivo per il quale, dietro la dura maschera di Cassie, si nascondesse in realtà un gran dolore.
E io di tanto in tanto sembravo dimenticarmene.
Ogni volta, ad ogni piccolo assaggio anche solo una briciola della sua quotidianità, finivo col restare irrimediabilmente con una spiacevole sensazione a gravarmi sulle spalle.
Eppure, aldilà dell’amaro in bocca, di fronte ai suoi problemi perfino il rapporto conflittuale con la mia famiglia riusciva a risultarmi meno aspro di quanto in realtà non mi apparisse solitamente, e questa era senz’altro una nota positiva.
Anche questa volta, comunque, rimasi a corto di parole.
«Capisco» mi limitai a mormorare.
Desiderava forse che le facessi qualche altra domanda? O dovevo aspettare che fosse lei a parlarmi per prima?
Mi avvicinai goffamente a un bricco dell’unica marca di latte venduta in quel posto, quindi lo sollevai e agitai a mezz’aria.
«Latte! Era ora.» dissi forzando un sorriso, nel disperato tentativo di glissare.
Mi fissò per un attimo. Sul suo viso un’emozione lasciava spazio all’altra con caotica rapidità.
Alla fine ricambiò il mio sorriso e mise la confezione di latte nel cestello pieno per metà.
«A volte ti invidio, Theo.» disse riprendendo a camminare al mio fianco «Anche io vorrei essere un po’ più cogliona. Un po’ più spensierata e leggera.»
La guardai stranito.
«Vorrei essere un po’ come te…» continuò «che non pensi a niente e perdi tempo con i videogiochi, internet e i pensieri stupidi»
«Hey hey hey» la fermai, alzando una mano a mezz‘aria e inarcando un sopracciglio «fammi capire: questi sarebbero complimenti? Perché in tal caso ti dovresti impegnare di più, sappilo.»
«…che ti illudi» proseguì senza nemmeno rispondermi «di poter fare un viaggetto su qualche pianeta alieno. Oppure già ti immagino, a pensare tipo al fatto che potrebbero regalarci chissà quale potere sovrannaturale» ridacchiò appena, guardandomi negli occhi e avvicinandosi alla cassa con passo lento. «Mi domando come tu faccia ad essere così spensierato. Ecco tutto.»
«Non è vero» dissi mentendo a lei e a me stesso, dopo un breve attimo di silenzio.
La verità è che, in quei giorni più che mai, la mia attenzione era rivolta alla possibilità per me di cambiare completamente vita.
Un’occasione irripetibile stava per bussare alla mia porta, e ci credevo con tutto me stesso.
L’eventualità di lasciarmela sfuggire non era contemplata.
Egoisticamente non mi interessavo delle ripercussioni che l‘arrivo degli alieni avrebbe portato sulla società, di quello che sarebbe successo alla scuola, ai miei amici, alla famiglia e alla mia città.
C’ero solo io, con i miei sogni, i miei desideri, i miei pensieri e le mie ambizioni.
Io volevo andarmene lontano, o magari diventare talmente potente da non dover più pensare a nulla e a nessuno.
«Probabilmente» disse Cassie risvegliandomi bruscamente dal brainstorming «se ci dovessero dare dei poteri io pregherei per avere il controllo del fuoco. Sai che figo…?» ridacchiò appena, allungando una manciata di sterline alla cassiera.
Per un attimo fissai quella donna. Mi sorrise di nuovo, e non potei che apprezzare il fatto che regalasse così, con estrema naturalezza, un pezzo del suo cuore a due perfetti sconosciuti.
E mentre quel sorriso mi faceva pensare che tutto sarebbe andato alla grande, la sirena di una volante della polizia squarciò la nebbia all’esterno del piccolo negozio.
La macchina bianca e la sua striscia arancione sfrecciarono oltre la vetrina un istante dopo, a una velocità molto probabilmente superiore a quella consentita in città.
Aspettai che tornasse il silenzio prima di parlare. «Che ore sono?»
Cassie diede una fugace occhiata al quadrante dell’orologio da polso, mentre a tentoni con una mano sola infilava la spesa nel sacchetto.
«Sono le cinque e tredici. Se non c’avessimo impiegato nove ore a trovar parcheggio, magari» sospirò «…oh ma cosa cazzo succede oggi?» sbuffò dunque guardando oltre la vetrina, dove una seconda macchina con sirena accesa irruppe nella calma della periferia.
Cercai di fare mente locale seppur non mi risultasse ci fosse una centrale di polizia nei paraggi.
Salutammo, ritirammo lo scontrino, il resto e ci apprestammo a uscire, tuttavia non arrivammo neppure alla grande porta in vetro che una terza volante seguì la precedente.
Io e cassie ci guardammo straniti, mentre qualcosa cominciava a puzzarmi.
«Dev’essere qualcosa di grosso» disse Cassie con un sorriso sulle labbra, precedendomi. Aperta la porta, uscimmo dal piccolo locale e inspirammo l’aria satura d’umidità. La nebbia sembrava essersi lievemente diradata, distesa, come maglie di una rete ammorbidite dal tempo.
Il freddo ci avvolse in un abbraccio pungente.
Nel quartiere riecheggiava il rumore lontano e acuto di sirene in movimento: una cacofonia che rimbalzava presuntuosa sulle pareti degli edifici dell‘ante-guerra, e nella quale riconobbi il suono di un’ambulanza e di una camionetta dei pompieri. Forse due.
Sentii il cuore colpito da una spiacevole pesantezza.
Restammo l’uno accanto all’altra, immobili per un attimo di fronte all’ingresso di quel piccolo negozio d’alimentari.
Avvolto dalla nebbia, mi persi nel dedalo della mia mente.
Immaginavo sarebbe successo tutto diversamente: pensavo che una volta giunto il fatidico attimo sarei stato agitato, sì, ma ugualmente immensamente felice.
Sono sicuro di averlo percepito dentro l’anima prima ancora di averne avuto realmente la conferma. E credo di non essere stato l’unico. Credo che allora, in quell’istante, tutti gli uomini della Terra abbiano avuto il presentimento, il sesto senso che, stesse per succedere qualcosa. Qualcosa di grande.
Chiamatelo istinto di sopravvivenza, pessimismo, megalomania, suggestione, chiamatelo come volete.
Io lo s a p e v o.
Fu allora che alzai gli occhi al cielo, verso la coltre grigia che incombeva sulla città.
E il mio corpo andò in frantumi.
Il sacchetto della spesa scivolò dalla mano di Cassie, impattando contro la punta della mia scarpa destra, tuttavia non ricordo di aver provato dolore.
Il tempo doveva essersi fermato.
Era lì, oltre la nebbia e forse oltre i limiti del cielo. Un mostro nero che sovrastava il quartiere, forse l’intera città o forse l’intero stato. Quanto era grande? Mi apparve titanico, nonostante le sue linee, i suoi colori e perfino le sue dimensioni fossero relative in quel vaporoso muro che separava noi uomini dall’immensità dello spazio e dei suoi segreti.
Limiti sfuocati resi informi dal voluttuoso manto grigio.
Al centro del disco, un’enorme luce bianca, pura, abbagliante. Un nuovo Sole coi colori della Luna.
Socchiusi le palpebre per sopportarne la vista, mentre invano cercavo di quantificare la dimensione di quel demonio volante.
Ci avrebbe schiacciati?
Mi guardai attorno con la timidezza tipica dell‘incredulità, insicuro sul fatto che stesse succedendo Davvero.
Con la coda dell’occhio vidi Cassie, accanto a me, pizzicarsi un braccio. Sorrisi.
‘Visto?’ volevo dirle, ‘così impari a non crederci!’.
Rimasi però in silenzio, mentre la gente per strada alzava gli occhi al cielo, tra stupore e spavento.
Una donna corse nella macchina parcheggiata di fronte a noi, mise in moto e se ne andò in tutta fretta. Qualcuno, nel freddo di quella strada, urlò al telefono. Sopra le nostre teste, i volti delle persone affacciate alle finestre erano puntati sulla magnificenza di qualcosa che, nonostante si fosse palesata, per via della bruma restava ancora parzialmente nell’ignoto. Sull’altro lato della strada tre ragazzi erano immobili in contemplazione di ciò che fino a ieri era per tutti l’impossibile.
Mi voltai verso Cassie, inchiodando il mio sguardo alle sue iridi dilatate e color nocciola.
«Cassie» dissi, lasciandomi andare ad un profondo e rumoroso respiro «sono arrivati.»
«Theodore» disse lei.
Mi chinai, afferrai il sacchetto e tornai a guardarla in silenzio.
«PORCA PUTTANA».
Non riuscii neppure a sorridere.
Già. Porca puttana.

   
 
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