Storie originali > Giallo
Segui la storia  |       
Autore: JulietAndRomeo    29/06/2012    2 recensioni
Io rimasi un attimo interdetta: Nick? Quel Nick? Il figlio di Jeremy? Il tipo che avevo odiato a prescindere?
Come se ci fossimo letti nel pensieroci girammo l'uno verso l'altra: «Cosa?»
«Sta zitto!», «Sta zitta!» urlammo all'unisono e continuammo: «Io?»
«Tu!»
«No!»
«No?»
«Si!»
«Smettila!» concludemmo.
questa è la prima storia che scrivo e l'ho fatto per un concorso letterario a scuola quindi non so neanche come è venuta: la pubblico perché mi piacerebbe avere un vostro parere, non so ancora quanto sarà lunga perché il concorso sarà a settembre quindi devo ancora finirla. E' un giallo/commedia perché non piacciono neanche a me le cose troppo pesanti da leggere quindi l'ho 'alleggerita'. Non vi chiederò un commento, quello deve essere a vostro buon cuore. Adesso vi lascio, buona lettura
Genere: Commedia, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 5: Keep holding on.

Appena uscimmo dalla Sunset & Boulevard tirai un sospiro di sollievo. L'ispettore mi indicò, anche se non ce n'era il minimo bisogno, una serie di stradine laterali per poter raggiungere in fretta il distretto.
Proprio come l'altra volta, la guardia all'ingresso guadagnò cento dollari extra per sorvegliare Michelle, anche se, come l'altra volta, era contento di farlo ugualmente: mi appuntai mentalmente di chiedere all'agente, la prossima volta, se la macchina fosse di suo gradimento e poi, in caso non lo fosse stata, sborsare i famosi cento dollari.
Mentre prendevo nota di questo, il cellulare cominciò a squillare: lo presi solo per farlo smettere di suonare, ma il nome sul display mi fece venire i brividi: porco cazzo! Nick mi stava chiamando; avevo due possibilità: #1. potevo mentire dicendo di essere ancora imbottigliata nel traffico; #2. potevo dire la verità, sapendo che ci sarebbe rimasto male se avesse saputo di essere allo scuro di una parte del caso.
La scelta fu facile: «Cullen» dissi al telefono.
«Dove diavolo sei finita, Macy? È più di un'ora che ti aspettiamo!».
«Si, mi dispiace» dissi con malcelata ironia: «Ma mentre ero imbottigliata nel traffico, Lewis mi ha raggiunta e ragguagliata sul caso: attualmente sono al distretto e le novità sono fantastiche, Nick. Adesso devo andare, ma tu goditi la colazione con Tanya» dissi chiudendo la conversazione senza dargli il tempo di ribattere.
«Tanya?» disse Lewis.
«Non si origliano le conversazioni altrui, ispettore, e comunque non sono sicura sia il suo nome, non sono brava con i nomi delle persone che decido di detestare» lo liquidai.
«Si lo so, Cullen» disse ridendo: «Venga, credo si ricordi dov'è la mia scrivania, ma non vorrei si perdesse» continuò con lo stesso tono.
«Non si preoccupi» dissi sorridendo sarcasticamente.
Arrivati alla reception del distretto, Lewis si bloccò: «Mi hanno detto che dentro c'è la vedova, ha un aspetto familiare per quanto mi riguarda e per quanto ho potuto notare l'altra volta, ma potrei sbagliarmi. È bionda, la riconoscerà subito, ma non le dia troppe noie con le sue domande, Cullen, io la conosco, lei tende sempre ad esagerare» disse Lewis.
«Ok, ok andiamo» dissi sventolando una mano come si fa con qualcosa di poco importante.
Entrammo negli uffici: da un'atroce sensazione mi assalì e mi attanagliò lo stomaco, appena varcammo la soglia della porta... sentivo che la giornata non sarebbe andata bene, e raramente mi sbagliavo.
I poliziotti che si ricordavano di me, si scansarono, come se avessi potuto fare a loro quello che avevo fatto al 'Troll', senza motivo.
Ci avvicinavamo sempre di più alla scrivania dell'ispettore e la sensazione si ingigantiva sempre di più; cominciai anche a scorgere la testa bionda della vedova Jennings, attraverso le sagome degli agenti che passavano davanti a me e l'ispettore.
Come se avesse avvertito la nostra presenza, la vedova si voltò e in quell'istante mi sentii morire: doveva per forza essere frutto della mia immaginazione.
Evidentemente sbiancai, perché l'ispettore chiese una sedia e un bicchiere d'acqua per me e cominciò a chiedermi se mi sentissi bene: non lo sentivo l'unica cosa che i miei sensi percepivano era la donna bionda seduta a quella scrivania. Era diversa, adesso il colore dei capelli era diverso, ma gli occhi marroni, le labbra carnose e il naso dritto mi dissero che non stavo sbagliando: era lei, cambiata certo, ma era lei.
Senza fiato rifiutai il bicchiere d'acqua che Lewis mi stava porgendo e a tentoni arrivai fino alla scrivania dell'ispettore.
La donna mi guardava come se avesse visto un fantasma e tentò di toccarmi, probabilmente per accertarsi che fossi reale, ma io mi scansai bruscamente e i suoi occhi si intristirono: meglio così, me lo doveva dopo tutto quello che mi aveva fatto passare.
«Macy...» sussurrò la donna.
Io la guardai con disgusto e le riservai un'occhiata assassina.
«Vi conoscete?» ci interruppe Lewis sbalordito.
«La conosce anche lei, ispettore» dissi estraendo una foto scattata al mio sesto compleanno: «Guardi bene la foto».
«Non... non può essere!» esclamò l'ispettore alternando lo sguardo dalla donna alla foto.
«Oh si che può essere: evidentemente Jennings non era l'unico con dei segreti» dissi riprendendomi la foto e voltando le spalle alla sottospecie umana seduta dietro la scrivania: «Io me ne vado, quando avrà ripulito il distretto da feccia come questa» dissi indicando la donna a cui erano venuti gli occhi lucidi: «Mi chiami o rintracci il mio telefono, faccia lei» conclusi rivolgendomi all'ispettore.
«No! Non andartene, abbiamo così tante cose da dirci!» gridò la donna nella mia direzione.
Tutti gli agenti del distretto si voltarono verso di lei e poi guardarono me.
«Non ho niente da dirvi, 'madre'» pronunciai a voce abbastanza alta perché potesse sentirmi, virgolettando l'ultima parola: «Non sono così importante da meritare la vostra attenzione, io» proseguii dura.
«Mi dispiace» sussurrò lei. Sembrava pentita, ma era tardi per chiedere scusa.
Dopo quelle due parole, la mia rabbia esplose: «Vi dispiace» sibillai piano: «Ve ne andate, scappate, non mi cercate per dieci anni e tutto quello che sapete dire è 'mi dispiace'? Perdonatemi, ma non vi credo, non solo non vi credo, ma colgo anche l'occasione per dirvi quello che provo nei vostri confronti, madre: IO. VI. ODIO!» urlai scandendo bene le parole.
Lei scoppiò a piangere: «Avrei preferito ci foste stata voi, in quel vicolo, al posto di Jennings: sarei stata molto più felice» aggiunsi ghignando.
Tutti gli agenti del distretto mi guardarono basiti e scioccati, ma nessuno osò prendere le difese di mia madre: si era rifatta una vita, con un marito ed un figlio nuovo, in cui io non ero minimamente contemplata; la guardai come se fosse la cosa più schifosa sulla faccia della terra, con tutto lo sdegno di cui ero capace, voltai le spalle a tutti e andai via.
Arrivata al parcheggio saltai in auto e partii sgommando. Dovevo prendermi un pò di tempo per me stessa ed elaborare tutto: tutti i demoni del mio passato erano tornati prepotenti nel mio presente... 'O forse' pensai 'Non erano mai andati via'.
Accostai davanti ad un negozio di scarpe, appoggiai la testa sul sedile e vi sprofondai dentro, con gli occhi chiusi. Guardai i miei polsi e la scritta su di essi mi ricordò la promessa di tre anni prima: continua a tenere duro. 'Facile per te!' pensai.
La vista di mia madre, del tutto inaspettata, mi aveva scombussolata e non poco: mi passarono davanti agli occhi alcuni episodi della mia vita; New York City, Lewis, la lettera, il trasloco a Los Angeles, la prima volta che era successo; ricordai il dolore e la cicatrice che ne era conseguita; ricordai quella sera; ricordai Charles e i paramedici che mi portavano all'ospedale; ricordai la clinica; ricordai il mio riflesso allo specchio dopo la clinica; ricordai i tatuaggi; ma soprattutto, ricordai tutto il male che mi ero fatta per colpa sua. In poche parole, ricordavo la mia adolescenza.
Molti di sicuro non avranno capito di che cosa io stia parlando: è giusto che io vi spieghi.
Mia madre se ne andò quando io avevo appena compiuto undici anni, per l'esattezza la settimana dopo il mio compleanno. Per i primi tempi, circa 7 o 8 mesi, pensammo fosse stata rapita e così rimanemmo a New York City per seguire le indagini. All'alba del nono mese circa, a mio padre arrivò una lettera dove, scoprii in seguito, mia madre spiegava ciò che era successo e cioé la sua fuga a causa della notorietà e dell'eccessiva ricchezza della famiglia, ricordo soprattutto una frase che scrisse: 'Nostra figlia è un piccolo genio, Theodore, farà strada, si farà conoscere e io non posso sopportare altra fama. Non più'. Imparai queste parole a memoria, mi hanno sempre accompagnata e sempre mi accompagneranno.
Mio padre tentò in tutti i modi di nascondermi la lettera, mi disse solo che mia madre non sarebbe tornata e poche settimane dopo ci trasferimmo nella calda e soleggiata California.
Su una cosa mia madre aveva maledettamente ragione: ero un piccolo genio (del crimine, ovviamente) ed ero anche una piccola stronza, che non sapeva tenere a freno la curiosità.
Così una sera, mentre mio padre era ancora a lavorare, mi introdussi nel suo studio, dopo aver forzato la serratura e cercai quella maledetta lettera, di cui il mio genitore mi negava la vista, in lungo e in largo, facendo attenzione ad ogni minimo rumore.
Alla fine, riuscii a trovarla: la carta era scarsa, un comune foglio A4 piegato in più parti e infilato in una busta altrettanto scarsa, la riconobbi solo grazie alla scrittura panciuta di mia madre, che spiccava sul bianco del foglio; mio padre l'aveva nascosta in un cassetto, chiuso a doppia mandata di cui ovviamente forzai la serratura.
La lettera era breve e recitava:

Caro Theodore,
mi sembra inutile dire che mi dispiace tanto, ma i miei nervi non potevano reggere oltre.
Non tornerò a casa, questo lo avrai sicuramente capito già, e ti pregherei dunque di bloccare le indagini e le ricerche consegnando questa lettera agli agenti che si occupano del caso.
Ti starai sicuramente chiedendo il motivo della mia fuga: la notorietà mi aveva stancata. Io sono una donna di provincia, anche se mio padre e il suo impero finanziario ci hanno presto obbligati a trasferirci in città, alla mercé di giornali scandalistici e paparazzi. Quando ho sposato te, credevo che il sogno di poter tornare alla mia vita normale, lontana dalla città, si potesse realizzare, ma così non è stato: non fraintendermi, non ti sto incolpando è solo che ho bisogno di staccare, sono arrivata al limite.
Inoltre, nostra figlia è un piccolo genio, Theodore, farà strada, si farà conoscere, e io non posso sopportare altra fama. Non più. Perdonami,

Jenny

Quando arrivai alla fine della lettera sentii il mondo crollarmi addosso: mia madre se n'era andata perché non voleva aggiungere la mia -inesistente- fama a quella sua.
Cominciai a piangere, ma non me ne accorsi, riposi la lettera nel cassetto e rimisi tutto per come l'avevo trovato. Uscii dallo studio di mio padre correndo e piangendo mi precipitai in camera mia.
Nei giorni seguenti tentai di non dare a vedere che avevo trovato, aperto e letto quella lettera: continuavo quindi a fare domande e la sera mi maledivo perché era solo colpa mia se lei era andata via; pensavo di essere sbagliata, lei non mi voleva più ed ero sicura che una ragione più profonda di quella che lei aveva dato nella lettera doveva esserci e, se aveva detto che non era colpa di mio padre, allora doveva per forza essere colpa mia.
Avevo 13 anni la prima volta che mi tagliai: quella volta successe per sbaglio; stavo aiutando la signora Smith in cucina e mi ferii, ma provai una sensazione di libertà, come se tutto il male che albergava dentro di me stesse venendo fuori. Continuai quindi a tagliarmi le vene dei polsi, sporadicamente, solo quando qualcosa mi ricordava quelle che credevo fossero le mie 'colpe'.
Questa storia andò avanti per due anni; nessuno era a conoscenza di ciò che facevo, in estate indossavo dei polsini o molti bracciali per nascondere le cicatrici e tutto sembrava andare bene, ma cominciai anche a non mangiare più e di quello si accorsero tutti. So che lo stato di ignoranza in cui vertevano i miei affetti non poteva durare a lungo, ma pensavo sarebbe durato abbastanza a lungo da permettermi di uscirne da sola: una sera però esagerai.
Quando mia madre viveva ancora con noi, aveva comprato un vestito, un vestito blu, senza spalline, lungo fino al ginocchio, che fasciava il busto e si allargava a trapezio. Non lo aveva mai indossato e mio padre, dopo che lei era andata via, si era premurato di non farmelo vedere, ma era bello e, pensando che io non ne conoscessi la provenienza, mi disse di averlo comprato apposta per me e che gli sarebbe piaciuto se lo avessi indossato. Io acconsentii anche se non credevo di potercela fare, ma per lui, che mi aveva sempre protetta, avrei fatto di tutto, quindi lo indossai.
Mi guardai allo specchio e vidi i capelli scuri e ricci di madre, i suoi occhi marroni, le sue labbra carnose e il naso piccolo e dritto, aggiungendo il vestito, in quello specchio vidi lei, così presi quel pezzo di metallo affilato che credevo donasse felicità e mi feci due tagli profondi, per lungo, su entrambi i polsi. Non passò neanche un minuto che svenni.
Il resto è tutt'ora abbastanza confuso: ricordo le urla di Charles e, dopo qualche minuto, l'arrivo dei paramedici e il neon sul tetto dell'ambulanza. Mi risvegliai in ospedale, ero sola, ma un'infermiera mi disse che Theodore non mi aveva lasciata un secondo, si era allontanato giusto in quel momento per andare in bagno. Quando tornò mi abbracciò come se fosse un naufrago e io la sua salvezza. Parlammo e gli raccontai tutto: ormai era inutile nascondersi dietro un dito.
Alla fine del mio racconto mi consigliò di farmi aiutare; ero sempre stata testarda, ed ero convinta di potercela fare sempre da sola, ma quella volta mi resi conto che neanche un pazzo avrebbe detto 'no'.
Così, il giorno dopo le mie dimissioni dall'ospedale, mi apprestavo ad entrare in una clinica d cui sarei uscita solo un anno dopo.
Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui tornai 'libera': era una mattina soleggiata di Aprile e tutto mi sembrò eccessivamente bello. In clinica avevo capito che non era me stessa che odiavo, che quando mi tagliavo non lo facevo perche volevo farmi del male: volevo farlo a mia madre, ogni volta che vedevo qualcosa che me la ricordava mi ferivo, era lei, quella sera, che avevo visto nello specchio, lei quella a cui avevo tagliato le vene. Avevo anche ricominciato a mangiare, anche se non moltissimo, ma comunque un risultato.
Trovai mio padre ad aspettarmi nel parcheggio, per tornare a casa.
Stavo per salire in macchina quando mi specchiai nel finestrino della macchina: capelli castani, lisci, lunghi, occhi azzurri, naso dritto e labbra sottili. Adesso si che vedevo me stessa. Mi guardai come se non mi fossi mai vista veramente in vita mia e quello che vidi di più fu tutto il male che mi ero fatta a causa di quella donna; mi ripromisi quindi che mai più mi sarei fatta del male e che avrei continuato a tenere duro, che avrei combattuto ogni giorno per non ricadere nella trappola che mi aveva imprigionata 4 anni prima.
Due giorni dopo, sui miei polsi (in parte per coprire le cicatrici, in parte per ricordarmi ogni giorno quella promessa che avevo fatto) la scritta 'Keep Holding On' spiccava come petrolio sulla neve bianca.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Giallo / Vai alla pagina dell'autore: JulietAndRomeo