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Autore: Nachan    17/05/2004    9 recensioni
Sull'importanza dell'avere una famiglia. Sul peso insopportabile in cui questa può trasformarsi. Sugli errori che possono derivare dal troppo amore. Altro piccolo flusso di coscienza...^^
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Narcissa Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono Affari di Famiglia.

Diceva così, mio padre, a volte, quando eravamo seduti a tavola e parlavamo di cose importanti. Sono Affari di Famiglia, sottolineava lui movendo quella bocca sottile, e io e le mie sorelle capivamo che non avremmo mai dovuto parlarne a qualcun altro.

Quelle parole avevano uno strano fascino per me.

Ci ripenso ancora, e ancora, mi chiedo, cos’è una famiglia?

Dovrei saperlo bene, ormai, dopo tanti anni, e invece no. Non ne sono sicura.

Una famiglia è un insieme di persone che ti vogliono bene. Persone care. Un luogo a cui fare ritorno, un posto che ha il profumo caldo delle lenzuola pulite, del latte zuccherato, dei vecchi tappeti polverosi. Oppure no.

Una famiglia può essere una trappola. Meravigliosa, dolce, trappola. Briglie a cui rimanere legata per sempre. Modo di comportarsi, modo di essere. Regole ferree.

Continuo a pensarci.

Quante famiglie ho avuto nella mia vita? Molte.

Quella dei miei genitori e delle mie sorelle, la prima, quella del sangue e della carne.

Quella da cui si discende e a cui si ritorna, prima o poi. Quella che si maledice ogni volta perché sembra che da lì dipendano tutti i mali, ma anche quella che si adora. Quella di cui si parla male in privato ma si difende in pubblico.

La mia Casa ad Hogwarts, è stata come una famiglia.

Mi ricordo quei miei parenti: ragazze e ragazzi della mia età, più piccoli o più grandi. Tante teste di colore diverso, chine sui tavoli della sala comune, chine sui banchi nelle aule, chine davanti al fuoco del caminetto. Solo nuche e capelli, niente occhi, niente sguardi.

Eravamo una strana famiglia. Egoista. Ognuno pensava soprattutto a se stesso. Eppure eravamo felici.

Ci piaceva essere così indipendenti, orgogliosi, quasi crudeli con noi stessi e con gli altri.

Sono cresciuta in questo modo.

Nel modo sbagliato, potrebbe dire qualcuno.

 

Quand’ero una ragazzina desideravo che le mie due famiglie, quella di sangue e quella scolastica, si unissero. Sarebbe stato bellissimo. La realizzazione di perfetti equilibri. Equilibri impossibili.

E mi ricordo quel pomeriggio d’estate, seduta sulla panchina di legno, sotto i rami tesi del melo, nell’ombra che odorava già di sidro.

Lui era seduto accanto a me, e raccoglieva sassolini dal terreno. Dondolavamo un po’ le gambe.

Io guardavo le mie sorelle che camminavano nel prato, poco lontano da noi, e pensavo.

“Perché non sposi Andromeda?” gli dissi quel pomeriggio, mentre lui si nascondeva i sassolini nel pugno, come se fossero un tesoro.

“Perché non sposi Andromeda, così entri anche tu a far parte della nostra famiglia!”

Si volse lentamente, gli occhi neri stretti, il vento che gli scostava i capelli dal viso. Non era mai stato bello, non davvero. Neanche in quel momento lo era, mentre la sua bocca si contorceva in una sorta di smorfia di disgusto.

“Non credo che sia possibile” sibilò ed io mi sentii in colpa. Amareggiata e delusa.

L’avevo detto solo per scherzare, all’inizio, ma il mio cuore per un attimo aveva sperato. Ora so che non sarebbe mai potuto accadere.

Che stupido, insano desiderio, quello di difendere la propria famiglia. Voglia di vederla prosperare e riempirsi di persone che si amano. Voglia di vederla diventare un mostro che fagocita tutto.

Non lo sapevo ancora allora, ero poco più che una bambina. Mi sforzavo di non vedere quello che era evidente.

Le mie sorelle camminavano ancora nel prato e c’era vento.

Il vestito bianco di Bellatrix si gonfiava come una vela, i suoi capelli neri volavano ovunque. Andromeda procedeva piano con la testa bassa. Non si guardavano nemmeno in viso. Non si sono mai amate molto, forse perché erano così diverse.

Bellatrix era fiera, spietata. Esiziale.

Andromeda era riflessiva ed intelligente. Non aveva nulla della bellezza dell’altra, e sembrava esserne perfettamente consapevole.

Loro camminavano, dandoci le spalle. Non andavano da nessuna parte.

Io e Severus eravamo ancora seduti sotto il melo.

 

Erano Affari di Famiglia, quelli. Le liti fra noi ragazze, le parole cattive che Bellatrix sussurrava ad Andromeda, e quel suo tentativo di fuga, nel cuore della notte.

Affari di Famiglia, e basta. Cose di cui nessuno avrebbe mai dovuto sapere, perché nessuno avrebbe potuto capire.

 

La mia terza famiglia è quella che ho costruito con mio marito.

Che cosa strana, il matrimonio.

Un marito è una persona che prima è totalmente estranea, poi diventa parte di te. Non ci si conosce per anni, per molti anni, e poi d’improvviso si finisce per inciampare l’uno nei piedi dell’altra.

E’ così il matrimonio: una caduta. Non nel senso negativo. Non sempre, almeno.

Ci rifletto, ora che ho molto tempo, e sto seduta nel mio salotto vuoto.

Ci sono diversi motivi per sposarsi e creare un’altra, una nuova, famiglia, questo ancestrale bisogno di parentela, di un luogo che si possa considerare proprio. Ci si sposa per interesse, per passione, per amore, raramente. C’è attrazione fisica, c’è attrazione intellettiva.

Affinità nascoste. E quello che era un estraneo diventa più intimo di un consanguineo.

Impari a conoscerne il corpo, il viso, le espressioni. Lo si conosce al punto che si potrebbero continuare precisamente le sue frasi lasciate in sospeso, e leggere nei suoi pensieri, senza aver studiato come legilimens. Altri tipi di magie, queste.

E l’ho visto, davvero.

L’ho visto in me e Lucius, l’ho visto in mia sorella e suo marito. Nel modo ostilmente complice in cui si guardavano, nel modo in cui parlavano, in cui si muovevano. E lei che da ragazzina diceva che non voleva sposarsi perché non le interessava e accavallava quelle lunghe gambe sul divano di pelle della Sala Comune, senza sapere che aveva puntati addosso gli occhi di tutti i ragazzi.

L’ho pensato anche io, qualche volta. Non voglio sposarmi e invece mi sono ritrovata a condividere le mie cene con un uomo che amo, a dormire al suo fianco, ad udire il suono della sua voce. A conoscere alla perfezione ogni riflesso della luce sui suoi capelli e sul suo volto. Per anni.

Rischia persino di diventare ridicolo. O, peggio, noioso.

 

Sono Affari di Famiglia, ancora una volta.

Le nostre scelte sono Affari di Famiglia, mi dicevo.

Essere dei Purosangue comporta l’esposizione eterna e costante al giudizio pubblico.

“Saremo giudicati da una corte di pari” diceva mio marito, scherzando, quando io gli chiedevo scusa per qualcosa che avevo fatto o detto senza pensare.

Bene, ora spero che sia così. Davvero.

Sono certa che nei salotti bene della comunità dei Maghi parlano ancora di noi, e finchè la gente parlerà, criticherà e riderà, noi resteremo in vita. Come personaggi di fantasia che temono, prima o poi, di essere abbandonati dalla mente che li ha creati. Cancellati senza possibilità di difendersi.

Ma si parla ancora, e noi, viviamo.

 

Mio figlio farebbe qualsiasi cosa per la sua famiglia. In questo assomiglia a me più di quanto non si renda conto.

Lui sa quali sono i nostri Affari. Li conosce da molto tempo.

Mi dispiace per lui. Mi dispiace molto. Credo che dovrà soffrire tremendamente, in futuro.

Ma d’altra parte lo guardo e mi dico che ora è lui la mia Famiglia. E’ venuto al mondo, ed ora c’è.

Sono Affari di Famiglia, gli dico tal volta, movendo le labbra sottili, mentre siamo seduti a tavola, e parliamo delle cose successe, delle nostre paure e debolezze.

Dalle mie poche parole capisce che per il mondo dovrà indossare sempre una maschera. Perfetta maschera di cera che la fiamma di nessuna candela dovrà mai sciogliere.

Lui mi guarda con occhi freddi ed ansiosi, e mi sembra chiedere se non sto mentendo.

Chiede se erano Affari di Famiglia anche gli avvenimenti di quella notte di quindici anni prima.

La lunghissima notte senza fondo e senza luce, quando bussarono alla porta del castello e chiesero di mio marito, e il mio cuore per un attimo quasi cessò di battere, quando trascinarono mia sorella e mio cognato fuori dalla porta di casa puntandogli una bacchetta alla nuca, quando il mio migliore amico ci tradì abbassando gli occhi e sfregandosi le mani fredde.

Fisso il fondo del mio piatto e cerco di rispondere alla domanda inespressa di mio figlio.

Fa tutto parte del gioco, dell’incastro.

Anche questo.

“Sono Affari di Famiglia, cose che riguardano solo noi, da sempre” dico ancora e mi sembra di avere la voce di mio padre e mi sembra che Draco abbia la mia espressione di bambina affascinata e disgustata.

Fa cenno di sì col capo e abbassa lo sguardo stringendo tanto forte un pugno che le vene salgono in rilievo sul dorso della mano.

Ed è in lui che vedo quello che le mie Famiglie hanno costruito, alla fine.

Un castello di fragilità, di errori, di ideali sterili, di coraggio e di forza di volontà.

Una fortezza di follia.

Eppure ne abbiamo bisogno. Tutti noi, ne abbiamo bisogno.

Io, ora, qui, da sola, ho ancora una Famiglia?

  
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