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Autore: _ivan    09/07/2012    6 recensioni
[ COMPLETATA LA PRIMA PARTE: la seconda verrà scritta e pubblicata al termine di 'Monetarium - la neve e le ombre' ]
Theodore è un ragazzo come tanti: alterna la sua vita tra facebook, videogiochi, televisione e uscite con pochi e fidati amici. Sua madre adora interpretare la parte del tiranno, suo padre quella dell'uomo saccente e un po' troppo pretenzioso. Eppure basta il discorso del presidente degli Stati Uniti, un giorno, a cambiare tutto. Al mondo viene rivelato che..
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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!! piccole note:
grazie chiunque abbia recensito: mi motivate a continuare e mi aiutate a migliorare ( e cosa c'è di più importante? ).
scusate l'assenza ma ho scritto altri racconti ( con i quali ho sperimentato nuovi stili e nuovi argomenti ) e il sito di EFP mi dà non pochi problemi con il caricamento.
sì, ci sarà un capitolo 5.1 della durata di 8 pagine circa. per il momento..buona lettura!

*


CAPITOLO V

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_5.0_EFP.pdf ]

«Non ricordo molto del viaggio di ritorno.
Cassie sfrecciava sulle strade con la presunzione di chi è convinto d’essere immortale, approfittandone del fatto che salvo qualche irriducibile le strade si fossero del tutto svuotate.
Tenemmo abbassati entrambi i finestrini d’un paio di dita. L’aria fredda pungeva il mio viso, risvegliandomi di tanto in tanto dal mio fare trasognante. Dopo un paio di tentativi di conversazione andati a male, Cassie accese l’impianto stereo facendo partire il cd sulla traccia tredici.
Ascoltammo i Foals fino a quando non ci fermammo di fronte al cancello d’ingresso della mia villetta. Trovai la via, per la prima volta dopo settimane, finalmente sgombra da tutti i giornalisti che erano stati impegnati con l’omicidio degli Humpsey.
Cassie spense la musica e mi guardò accennando un sorriso. A qualche metro dal muso della nostra automobile vi era una volante con le sirene spente. Oltre il parabrezza, invece, la nebbia che cominciava a diradarsi rivelò una vastità di sfumature rosate sospese nel cielo, come una cappa alla quale non riuscii a dare una forma.
«Preferirei farmi lobotomizzare dagli alieni» disse Cassie, prima di ridacchiare.
«Non è divertente.» dissi.
«Eccola» aggiunsi poi,  assottigliando lo sguardo per sbirciare oltre Cassie e il suo finestrino. Scorsi, nonostante la miopia, la figura sfocata di mia madre sul ciglio della porta d’ingresso aperta.
Sospirai in risposta al fatto che cominciò a sventolare il braccio a mezz’aria con fare isterico.
«Ha paura di passare inosservata?» sottolineò Cass con un sorriso «Qualcuno le spieghi che tanto la gente percepisce la sua negatività a distanza» scoccò un’occhiata oltre il finestrino, in direzione di mia madre che cominciò a scendere i gradini poco prima della porta.
«Dai, ci vediamo» disse ancora Cassie, forse temendo un incontro-scontro con mamma «se non muoriamo tutti, domani andiamo sulle colline fuori città. Li si dovrebbe vedere tutto, credo. E fammi sapere se sono qui per la storia dell’incidente di prima. Ok?» si concesse un attimo di silenzio, quindi si sporse e lasciò un bacio caldo sulla mia guancia.
I suoi capelli profumavano di buono.
     Contro ogni aspettativa mamma rimase in silenzio.
Per inciso, la sua ira funesta era data dieci a uno.
Quando sui gradini mi abbracciò cercai di mascherare lo stupore schiarendomi la voce con un piccolo colpo di tosse.
invitandomi a raggiungere in soggiorno gli agenti della polizia e mio fratello.
Investito dal caldo domestico alzai le maniche del maglione.
Annusai l’aria e raggiunsi il soggiorno in un incontrollabile vorticare di pensieri.
I poliziotti erano due. Quando col petto incassato tra le spalle mi avvicinai per stringere loro la mano sentii il peso dei loro sguardi sul mio corpo.
Mi presentai all’agente Rowney con un sorriso cordiale. Era un uomo sulla cinquantina con la faccia tonda e la calvizie pronunciata. Mi diede l’impressione d’essere una di quelle persone che dopo il matrimonio si lasciano andare a stili di vita più oziosi e malsani. Con la goffaggine di un orso si alzò dal divano, sorrise e mi strinse la mano con moderata forza.
Accanto a lui, in piedi dal primo istante, un uomo dall’aspetto rigido mi fissò con fare austero.
La postura eretta, probabile eredità di un intenso addestramento militare, lo faceva apparire più alto di quanto già non fosse. Un colosso, rispetto al suo pacato collega.
La sproporzione tra i due era bizzarra, seppur davano l’impressione d’esser complementari.
Rowney, nonostante la sua mole, sembrava piccolo come una mosca sul culo di una vacca.
«Sergente Hunnings» disse con tono fermo. Temetti di restare senza braccio, quando con grande energia lo scosse per presentarsi.
Rowney, tornato seduto, avvolse con entrambe le mani una capiente tazza di the caldo e se la portò alle labbra. Succhio rumorosamente un lungo sorso, quindi la ripose accanto ad un bicchier d’acqua ancora intonso.
La televisione zittita dall’opzione ‘muto’ riportava le immagini violente di una rivolta cittadina che riuscii a sbirciare solo con fugaci occhiate. Un uomo dai tratti orientali lanciava sassi contro un soldato dell’esercito.
«Siamo venuti» disse il sergente Hunnings scorrendo lo sguardo su tutti i presenti «perché abbiamo ricevuto la richiesta di portarvi in centrale. Dobbiamo fare degli accertamenti e interrogarvi su una questione particolarmente importante. Mi faccia finire, signora» alzo una mano per zittire preventivamente mia madre, che chiuse le labbra e si accoccolò ai cuscini della poltrona.
«I suoi figli non hanno commesso alcun reato e non verranno trattenuti in centrale oltre il tempo necessario a svolgere tutte le indagini. Non c’è nessun problema per Theodore, tuttavia avremmo bisogno di una sua firma per confermare la sua disponibilità a far sì che il minorenne venga con noi.»
Afferrata una valigetta nascosta dal tavolino, la aprì tenendola con il palmo sollevato d’una mano e ne estrasse un fascicolo di carta. Tenne in mano solo i documenti, quindi li sfogliò nel più completo silenzio alla ricerca di qualche particolare, inumidendo di tanto in tanto il polpastrello dell’indice, tra le labbra.
Mi voltai verso Martin, nel più completo silenzio, con le braccia incrociate e con la spalla poggiata allo stipite della finestra. Sospirò, quindi sbirciò oltre il vetro, distratto.
«Mh…Martin Hughes…» lesse Hunnings con poca enfasi, frullando a mezz’aria la mano libera «…e che dichiara la sua completa autonomia e attendibilità, dichiarandolo in grado di fornine informazioni valide anche a livello legale in caso di eventuali processi in tribunale.»
Porse il foglio a mamma, che lo accettò con diffidenza.
In silenzio cominciò a leggere, sotto lo sguardo attento di Hunnings e talvolta di quello più accidioso di Rowney.
«Fate sempre così?» dissi io.
«Come, scusi?»
«Fate sempre firmare questi fogli?»
«E’ una procedura comune, sì.»
«E perché dobbiamo venire?» parlavo con la sfrontatezza di chi è sicuro di essere nel lecito.
«Non siamo tenuti a fornire questo genere di informazioni.» continuò Hunnings «Lo scoprirete in centrale.»
Incrociai lo sguardo con quello più di mia madre. A nulla probabilmente erano servite le rassicurazioni del sergente: con molta probabilità nella sua mente eravamo già finiti drammaticamente in carcere.
«Siete sicuri che non sia nulla di grave, vero?» chiese lei.
Hunnings annuì.
«E perché non ne potete parlare?»
Hunnings roteò gli occhi. Probabilmente pensava che ci sarebbe voluto molto meno tempo. Ripetè la frase sull’impossibilità di fornire informazioni e tornò al silenzio.
Pensai che se avessero avuto bisogno di noi per rispondere alle solite domande sugli Humpsey non avrebbero avuto motivo di tenere nascosta la motivazione della procedura, e che se fossero venuti lì per la questione dello scampato incidente stradale non avrebbero richiesto la presenza di mio fratello. Oltretutto Cassie non era stata chiamata da sua madre, e il fatto che potessi essere rintracciato dalle forze dell’ordine prima io di lei lo reputavo alquanto improbabile.
Chiesero anche a me di firmare tre moduli. Non persi tempo a leggere, scarabocchiai le mie firme e con il loro permesso anda a concedermi una tregua in cucina ed un bicchiere d’acqua fresca.
     Quando per tornare in soggiorno trovai tutti nel disimpegno di casa sentii categoricamente rifiutata la proposta mossa da mia madre di poterci accompagnare personalmente in centrale.
Venni stritolato dal suo abbraccio quando, con sofferta rassegnazione, ci lasciò andare verso la volante della polizia.
Mia madre era la personificazione dell’esagerazione: un’alternanza di fasi di menefreghismo che ti danno a credere che neppure ti reputi suo figlio, e fasi di esagitato nervosismo dovuta ad un’eccessiva premura e sfiducia nei confronti di tutto il mondo. Non aveva vie di mezzo, e la cosa personalmente non mi piaceva.
E’ così che, neppure fossimo stati in procinto di intraprendere l’avventura della nostra vita, ci caricò le spalle – e le orecchie – di raccomandazioni, sotto ai miei occhi imbarazzati e quelli divertiti di Rowney.
Ringraziai Dio quando riuscii a raggiungere i sedili posteriori della volante e soprattutto perchè riuscii a farlo in meno di cinque minuti. Con un sospiro di sollievo cercai oltre il finestrino inferriato le linee dell’astronave aliena in lenta sparizione nel buio della sera.
 
«Guarda!» urlò Martin con emozione infantile.
Sembrava non accettare il fatto che i finestrini posteriori fossero bloccati. Con la testa assumeva posizioni scomode nella speranza di carpire col suo sguardo fazzoletti di cielo scuro.
A separarci dagli agenti c’era una grata metallica dalle maglie larghe circa due dita. Vi premetti contro le ginocchia alla ricerca – vana - di una posizione comoda.
Un profumatore d’auto a forma d’albero pendeva dallo specchietto retrovisore, sbatacchiando ad ogni curva senza ormai più emettere alcun odore.
«Hai visto?» disse l’agente Rowney, seduto nel posto assegnato al passeggero.
Si reggeva con la sinistra alla maniglia di sicurezza poco al di sopra della sua testa.
«Non c’è nessuno.» continuò «È uno vero schifo. E pensare che avevo detto a mia moglie che sarei rimasto a casa, oggi. Mi sarei dovuto mettere in malattia.» sospirò e si sporse in avanti.
Io, dietro di lui, ne vedevo solo la nuca.
«Se non altro non siamo sotto a quell’affare come tutti gli altri. Dio ci salvi tutti quanti, Robert. Quelli dell’esercito sapevano tutto, sai? L’ho sentito alla radio. Io ho sempre odiato l’esercito. Una volta ho dovuto-…»
Smisi di ascoltare, fedele alla mia impossibilità di mantenere la concentrazione.
Spostai lo sguardo oltre il finestrino alla mia sinistra. Le strade e i marciapiedi erano  vuoti. Completamente.
Fino ad allora avevo creduto che Londra e la sua gente fossero diventati ormai un’unica entità inscindibile, un mostro millenario in continuo tumulto.
Il formicaio, invece, questa volta era stato abbandonato. Una visione raccapricciante.
«Hai visto il tg?» disse Martin cogliendomi alla sprovvista.
Mi voltai e lo guardai.
La sua innocenza lo rendeva impavido: invidiai il fatto che riuscisse a restare estraneo all’ansia del momento.
Scossi la testa.
La risposta sembrò piacergli. Sorrise, dunque si voltò meglio nella mia direzione, poggiando un ginocchio sul sedile, di lato.
«Sono enormi.» l’entusiasmo lo portò a gesticolare. Aprì le braccia per quanto gli fu concesso dagli spazzi ridotti della volante.
«E sono arrivate in tutto il mondo, sai?» continuò «Le astronavi, intendo. Hanno mandato una tempesta di filmati in diretta. Youtube è in sovraccarico. Quella su New York City sembra un serpente immenso! Sono uscite anche dal mare. E Sai come? Erano invisibili. Da un momento all’altro sono comparse nel cielo. Invisibili, semi-visibili, visibili. Ci pensi? Sono praticamente su tutte le città più importanti del mondo.»
«Prendi fiato.» gli tirai un buffetto sulla spalla, pensieroso.
«Invisibili ai radar?» disse Hunnings, intromettendosi con la voce gelida di chi vuole mantenere distacco e autorevolezza.
«Invisibili!» rispose Martin «era come se…come se lentamente da invisibili diventassero visibili, no? Come se per un attimo fossero quasi invisibili, trasparenti, ecco. Si vedevano solo i contorni. Poi lentamente hanno assunto colore, mostrandosi del tutto. La cosa assurda è che non abbiano interferito con i voli delle linee aeree. Nessun incidente. Oddio, è vero che i voli fossero stati drasticamente diminuiti da un paio di giorni, però è comunque strano, no? Come se lo sapessero. Ah, in Arabia hanno provato a lanciare dei missili contro un’astronave. Quella era diversa da quella di New York, sembrava un uovo…ma tutto rossastro. Sembrava di roccia, e piccole luci vi ruotavano intorno. Era visibile per quello; sai, lì è tipo notte. Non si sa a cosa possano servire, ma sembrano seguire…come delle orbite. Comunque è scoppiato il putiferio: tutti temevano un contrattacco, invece niente. I missili si sono distrutti senza recare danni e gli alieni non hanno risposto. Non si sono neppure fatti vedere. Dicono che quindi sia la dimostrazione che non sono ostili, altrimenti ci avrebbero già distrutti, no? Ma io non so se crederci, sinceramente.»
Rowney tirò un sospiro di sollievo e Hunnings lo ammonì con lo sguardo. Fuori dalla vettura il mondo scorreva veloce.
Sembrava tutto irreale.
Prima dell’arrivo in centrale Martin riuscì a spiegare come gli eserciti di mezzo mondo si fossero mobilitati per la difesa delle capitali interessate dall’episodio. Solo a Beijing si contavano ventimila soldati di fanteria. La marina militare degli Stati Uniti d’America, invece, aveva impiegato tutte e dodici le portaerei a disposizione, spargendole nell’Oceano Atlantico.
     Quando scendemmo dalla macchina la sera era calata sulla città. Illuminata dalla luce calda di un lampione, una donna senza-tetto e seduta a terra con le spalle contro un muro osservava il cielo. Sbirciai verso l’alto, dove nel buio della prima sera una luce puntiforme azzurra vibrava nell’aria tracciando lentamente cerchi concentrici nel cielo.
Varcammo la soglia della centrale di polizia in compagnia degli agenti, a due passi di fronte a noi. Sentii sul corpo lo sguardo attento di chiunque ci incrociasse nei corridoi, come carcerati che sbirciano da dietro le sbarre la marcia di un condannato a morte.
Il minimalismo estetico dell’edificio nella sua parte esterna era ripreso anche all’interno, nel suo arredamento scarno, vecchio e prevalentemente metallico. L’asetticità e la neutralità dei colori non contribuivano certamente a rendere l’esperienza più gradevole.
Ci fermammo in un corridoio del primo piano, dove sia io che Martin prendemmo timidamente posto su due sedute, al primo cenno di Hunnings.
I minuti passarono nel silenzio. Ad interromperli fu un uomo in completo nero, dall’aria severa ed elegante, che aprì la prima porta da destra e si avvicinò alla nostra posizione.
La sua voce, nel mentre scambiava due parole con i due agenti, mi arrivò roca come quella dei fumatori incalliti.
     Non mi piacque l’idea di lasciare mio fratello, tuttavia fui costretto dalle circostanze. ‘Gli interrogatori avverranno in separata sede’, aveva detto la nuova comparsa, l’agente Kirchner, prima di separarci e condurre Martin nella sala all’estrema sinistra.
Era un uomo dall’aspetto ordinario, se non per il mento troppo prominente e folte basette brizzolate.
Io lo seguii fin dentro la stanza da cui era uscito.
Era una sala di una ventina di metri quadrati, dalle pareti bianche macchiate dall’umidità e il tempo, e con un’unica lampadina al centro della stanza, nuda come i cavi che la sorreggevano a mezz’aria. L’unico calorifero presente non riscaldava abbastanza la sala.
Ad accogliermi, seduta all’unico tavolo presente al centro della stanza, una donna bellissima. L’agente Kirchner chiuse la porta mentre io prendevo posto sulla sola sedia libera rimanente.
Io e la ragazza ci osservammo in silenzio per un lungo attimo poi, con grazia, si sporse in avanti mi offrì la piccola mano. Le sue labbra carnose, rinforzate da un corposo rossetto scarlatto, disegnarono un sorriso perfetto che formò una fossetta ad altezza della guancia sinistra.
I grandi ed espressivi occhi azzurri, la pelle diafana e i lunghi capelli corvini mi ricordarono l’aspetto grazioso di Zoey Dechanel, una delle mie attrici preferite. Si presentava da Dio nel suo tailleur con piccoli ricambi bianchi sugli orli.
Avevano entrambi più l’aspetto di due avvocati piuttosto che di due agenti di polizia.
«Diana Stirling,» disse mentre strinsi piano la sua mano «piacere di conoscerti, Theo. Posso darti del tu, vero? Forse un bicchier d’acqua potrebbe tornarci comodo, che ne dici?»
«Volentieri.»
Mi domandai se anche Martin avesse ottenuto il privilegio di questa cordialità o se, piuttosto, stesse avendo a che fare con agenti uguali al mite Kirchner.
Quest’ultimo uscì dalla stanza nel più totale silenzio; fu allora che Diana riprese la parola, più distesa.
«Cosa fai di bello nella vita, Theo?»
«Come…?»
«Sì, insomma, studi, lavori…cose così.»
Di fronte al mio momentaneo silenzio, Diana sembrò intuire i miei pensieri.
«E’ per sciogliere un po’ il ghiaccio.» incalzò, con un sorriso «vorrei che tu fossi a tuo agio, che non ti preoccupi, ecco. In fondo sei giovane e non siamo qui per fare il tribunale della Santa Inquisizione» ridacchiò, quindi accavallò una gamba sull’altra.
Mi cadde l’occhio e spontaneamente sorrisi anche io.
«Studio economia all’università.» dissi, abbandonandomi allo schienale della sedia, disteso e irretito dal suo fascino.
«E i tuoi familiari…?» continuò «Di là c’è tuo fratello, se non mi sbaglio»
«Giusto. ..Niente, è una famiglia normale. Non vado molto d’accordo con i miei genitori ma non credo sia poi tanto strano, no?»
«Capisco…» disse lei, seppur mi diede l’impressione di non aver neppure ascoltato la risposta.
«Senti Theo, cosa ne pensi di tutta questa storia degli alieni?»
Kirchner rientrò, richiuse la porta alle sue spalle e poggiò di fronte a me un bicchiere di plastica ricolmo d’acqua. Qualche bollicina risaliva sulla superficie. Ingollai due primi lunghi sorsi, freschi. Kirchner si mise in piedi accanto a Diana, con le mani intrecciate dietro il bacino.
«In che senso?» dissi.
«Hai paura?» tornò composta, poggiò gli avambracci sul tavolo e si sporse in avanti. Non mi sfuggì la luce dell’interesse nei suoi occhi.
«No.» risposi «Cioè, bè, sì, forse un po’ sì. Ma è normale, no?»
Annuì.
«Theo noi siamo agenti del dipartimento dei servizi segreti della Gran Bretagna, e siamo qui per una questione piuttosto importante. Aspetta prima di fare domande.»
Bevvi di nuovo, fino all’ultima goccia.
Servizi. Segreti. Della. Gran. Bretagna.
«Il governo degli Stati Uniti» riprese a dire lei, senza mai schiodare gli occhi dai miei «non ha raccontato esattamente tutta la verità. Avrai seguito anche tu le vicende in televisione, no? Sai che hanno mostrato numerosi reperti tenuti nascosti in passato, che hanno rivelato la vera posizione dell’area51 e la sua funzione primaria – effettivamente relativa al mondo extraterrestre -, che hanno divulgato nastri e filmati che prima di tutto questo trambusto erano considerati di massima segretezza.»
Un nodo allo stomaco mi causò una sgradevole sensazione di nausea.
«Ebbene,» proseguì «ci sono altri particolari rimasti nell’ombra. Quello che non è stato detto è che il governo degli Stati Uniti fosse in realtà a conoscenza già da quattro anni di ciò che sarebbe successo, che abbia avuto ripetutamente occasione di intraprendere contatti diretti e indiretti con le razze aliene e che, nel corso del tempo, si sia giunti a numerosi accordi in grado di giovare gli interessi di ambo le parti. Se si è giunti alla situazione di oggi…non è certo per volere solo di non-umani. Era programmato. Capisci?»
Annuii.
«Oltre ad aver accettato uno scambio totale di culture, materiali, conoscenze e strumenti, che porteranno ad un’elevazione della specie umana oltre i limiti dell’immaginabile, è stata stilata una dettagliata lista di persone alle quali sarà presentata l’opportunità di lasciare in via definitiva il pianeta Terra, al fine di trasferirsi permanentemente su altri pianeti.»
Sussultai e mi aggrappai con entrambe le mani al tavolo.
Un fremito di adrenalina vibrò lungo la mia colonna vertebrale, facendomi girare la testa e contorcere le budella.
«Theodore.» tagliò corto Diana, con una mano a mezz’aria. «Qui non si parla di un giro a Disneyland.»
«Ho capito bene?» la luce nei miei occhi anticipava il mio entusiasmo «Posso…?»
Fanculo i richiami e fanculo gli invidiosi come lei. Perché ne ero certo: Diana mi invidiava, anche se si nascondeva dietro una coltre di sorrisi e buone maniere. Non si parlava di un viaggio a Disneyland, appunto: questo era molto di più. Molto più di una proposta allettante di lavoro o di una vittoria alla lotteria; questo era molto più di t u t t o. Sarei partito per un altro pianeta, avrei cambiato vita, magari sarei diventato un esponente di spicco di una colonia di esseri umani in terre straniere, avrei incontrato alieni, tecnologie superiori, avrei acquisito superpoteri, sarei stato invincibile, magari immortale.
Esistevo solo io. Io e il mio sogno sul punto di divenire realtà.
Me lo sentivo che sarebbe successo.
Avrei voluto alzarmi e gridare al mondo che Theodore Hughes lo sapeva fin dall’inizio.
«Fammi finire. Rimandiamo le domande a dopo» disse lei. Sospirò e lanciò un rapido sguardo al suo collega, in religioso silenzio «sono state stilate cinque liste, ognuna delle quali comprende esattamente mille persone, tra bambini, adolescenti, adulti e anziani. Tra questi ci sono uomini di scienza, artisti, persone che nel corso della loro vita hanno sviluppato particolari caratteristiche, come i detentori di record mondiali, ma anche malati terminali, pericolosi criminali, individui psicologicamente instabili...e poi ci siete tu e tuo fratell. Ti prego, Theo, di prendere in considerazione ogni aspetto della proposta, analizzandola alla perfezione. Non lasciarti prendere dall’entusiasmo.»
«Accetto.»
Chi di voi avrebbe agito diversamente? ‘non lasciarti prendere dall’entusiasmo’ era un concetto impossibile da attuare in quelle condizioni.
Pensai per un secondo a Martin. Mi ero dimenticato di lui. Chissà come stava agendo.
Quando l’agente Kirchner uscì per la seconda volta dalla piccola sala io e Diana restammo a fissarci in silenzio per una dozzina di secondi.
«Theo, ti parlo come se fossi amico mio» disse passandosi una mano tra i capelli, a sistemare qualche ciocca setosa dietro l’orecchio sinistro. Percepii la sua buona fede. In quel momento condividemmo entrambi un pezzo del nostro cuore.
«Se accetterai» disse «non siamo in grado di dirti a cosa verrai sottoposto. Hanno detto che vengono in pace, ma…nulla è dato per certo, ok? Non sappiamo in quali terre verrai condotto, le scene alle quali dovrai assistere, il modo in cui verrai trattato, le conoscenze che ti verranno trasmesse, il ruolo che ti verrà assegnato una volta che sarai con loro. E soprattutto non tornerai mai più a casa. Mai più.»
Non sapevo cosa rispondere. La porta si aprì e l’agente Kirchner si avvicinò al tavolo per poggiarvi sopra una valigetta robusta in cuoio nero.
«Ok…» riuscì a dire prestando attenzione a non incrociare il suo sguardo. Diana stava rivestendo l’infame ruolo della coscienza. Col senno di poi non posso che ringraziarla.
Clic. Clic.
Seguii con gli occhi le dita affusolate di Diana che afferravano un fascicolo rilegato. Riuscii a sentire il profumo della carta appena stampata, di quando la prendi in mano e ne senti ancora il calore sulle dita. Lo posizionò di fronte a me ed ebbi l’occasione di leggere i caratteri cubitali che siglavano la prima pagina.
 
PROJECT OMEGA – TOP SECRET
 
Questa volta a prendere la parola fu l’agente Kirchner, rimasto in piedi accanto alla sedia di Diana che, dopo aver sfogliato per me le prime due pagine del fascicolo, si mise a fissarmi in silenzio e con le gambe elegantemente accavallate.
«Che lei decida o meno di prendere in considerazione la proposta,» disse l’uomo guardandomi dall’alto «siamo obbligati a metterla a conoscenza di tutti i dettagli implicati. Innanzitutto è Assolutamente Impossibile offrire l’opportunità sia a lei che a suo fratello Martin. E’ un aut aut di cui non conosciamo i motivi e sul quale potrete confrontarvi una volta concluso questo colloquio.»
Annuii in silenzio per confermare la mia attenzione, stranamente duratura.
Per nulla al mondo avrei lasciato a Martin l’opportunità di soffiarmi tutto questo da sotto il naso. Mai.
«Le raccomando di leggere tutto il fascicolo con estrema attenzione, Mr.Huges.»
Deglutii cercando di non tirare le somme prima del dovuto. ‘Pensa positivo’, mi dissi. Una parte di me era convinta che una qualche fregatura mi stesse aspettando al varco, ormai proprio dietro l’angolo.
«Arriviamo al punto fondamentale della questione.» disse Kirchner intensificando – se possibile – il suo sguardo sulla mia pelle. Mi sentii come scavato da una larva invisibile, proprio ad altezza della fronte.
«Tutto ciò di cui le stiamo parlando dovrà restare assolutamente segreto. Immagino che, da buon cittadino quale sarà, non vorrebbe mai scatenare il malcontento del popolo e la sfiducia nei confronti del governo. Nascerebbe allarmismo, e dopo quello partirebbe una corsa all’oro. Dopo la corsa all’oro probabilmente si arriverebbe a rivolte e forse anche vere e proprie guerre. Senza contare l’invidia, poi. Se si sapesse che lei ha un posto già pronto sulla prima nave in partenza, molto probabilmente si ritroverebbe impiccato a un albero prima della prossima alba, se Dio ci concederà un altro giorno.»
Diana incrociò le braccia sotto ai seni acerbi e restando con il corpo poggiato allo schienale prese prepotentemente la parola.
«Theodore,» disse «non possiamo permetterci che tu ne parli con nessuno al mondo. Nessuno, capisci? Neppure ai tuoi genitori o ai tuoi migliori amici. Nessuno. Avremo mezzi a sufficienza per assicurarci che tu rispetterai questo semplice patto, e in caso di infrazione abbiamo l’ordine di intervenire immediatamente per impedire una diffusione delle informazioni.»
In altri termini: in un modo o nell’altro mi avrebbero fatto sparire dalla faccia della Terra. Era una minaccia velata. La storia del Patto era una stronzata. Mi sentii oppresso; schiusi le labbra per respirare profondamente.
«Quindi» provai a dire riscoprendomi con la gola secca. Tossii due volte, quindi tornai a parlare «come farò ad andare via? Cosa dirò ai miei genitori?»
Allungò un braccio, sfogliò il fascicolo di fronte a me e mi mostrò, a pagina 23, le stampe in bianco e nero di foto di casa mia. Osservai senza parole gli scatti in apparenza rubati da dietro un grosso albero, in direzione della mia casa prima senza pannelli solari, poi durante i lavori ed infine con tutti gli implementi montati sul tetto.
In basso a destra mamma di spalle dava indicazioni a un operaio che in cima al tetto sistemava i pannelli. Poco più in alto, mio padre cercava qualcosa nella cassetta della posta.
Stavano scattando dal giardino degli Humpsey. In un paio di scatti si intravedevano manciate di giornalisti che puntellavano la zona, interessati all’omicidio.
Da quanto tempo ci stavano pedinando?
Sentii girare la testa.
Mentre chinato in avanti fissavo le immagini riempiendo la mia testa di domande irrisolte, Diana riprese a parlare.
«Sappiamo della recente installazione di quei pannelli solari sul tetto della vostra casa, esattamente su quella che dovrebbe essere camera tua, è corretto?»
Annuii distrattamente. In una foto di sinistra Martin stava tornando a casa con lo zaino sulle spalle.
«Nel caso in cui tu dovessi accettare, domani mattina i tuoi familiari verranno chiamati in caserma. Tu verrai prelevato da dei nostri agenti e portato all’aeroporto di Gatwick. Indurremo un corto circuito negli impianti di immagazzinamento dell’energia elettrica, e questo causerà un incendio con consecutivo crollo del tetto. Ostacoleremo l’arrivo dei rinforzi che, raggiungeranno casa tua quando per te sarà già troppo tardi.»
Rimasi in silenzio. Il cuore martellava nel mio petto. Quasi mi sentii cedere la cassa toracica, dalla violenza di quel ritmo. Capivo perfettamente quello che voleva dire.
Diana riprese a parlare.
«Da domani mattina, Theodore, tu per il mondo intero sarai morto. Nessuno saprà della tua dipartita. Si conta che il resto della casa resterà intatto. I tuoi genitori verranno risarciti dall’assicurazione.»
Pensai al dolore che avrei dato loro.
«Non ti è permesso portare nulla, chiaro?» continuò la donna «Non il telefonino, non un peluche, non un lettore mp3, non un libro. Niente. Tutto dovrà sembrare assolutamente normale e nessuno dovrà aver modo di pensare che tu in realtà sia andato via di casa. Tutto chiaro? Devi andartene di casa nelle stesse condizioni in cui saresti durante una morte accidentale. Ti faremo avere tutti i dettagli non appena possibile. Una volta scortato a Gatwick ti forniremo tutto il necessario per la tua sopravvivenza.»
Rimasi sconvolto dalla facilità con la quale, in questo mondo, fosse possibile far sparire completamente un essere vivente.
Semplicemente non sarei più esistito.
Kirchner si riappropriò della parola tolta. «E’ vietato lasciare biglietti d’addio e fare qualunque altro tipo di azione che possa suscitare sospetti in terzi. E’ vietato avere ripensamenti. Dal momento in cui siglerà questi moduli lei si dichiarerà disponibile a collaborare con gli enti governativi per gli scopi che le sono stati esposti. Dal momento che verrà consegnato, lei smetterà definitivamente di essere un cittadino d’Inghilterra, d’Europa e del mondo. Lei diventerà un elemento a sé stante, un essere in transizione. Gli organi competenti si dissociano da ogni genere di azione alla quale lei verrà sottoposto e non si assume la responsabilità di quello che le succederà.»
«E se dicessi di no…?» la domanda mi uscì così spontaneamente che mi ritrovai a domandarmi se l’avessi solo pensata o se piuttosto l’avessi realmente pronunciata. Una parte remota di me forse voleva rifiutare. O forse mi stavo informando per Martin, non so; in quel guazzabuglio incomprensibile riuscivo a scindere e riconoscere ben poche delle mie emozioni.
Il sorriso dell’agente Kirchner mi prese sinceramente alla sprovvista. Probabilmente capì che mi stavo già immaginando in una fossa comune scavata nel cuore della foresta amazzonica, eliminato perché d’intralcio.
«Non la uccideremo» disse «se è quello a cui sta pensando. Certe cose succedono solo nei film. Nella realtà di tutti i giorni esistono metodi più economici e in ugual modo sicuri. Non le possiamo dire nulla a riguardo, ma le assicuro che non succederà nulla alla sua salute né tanto meno a quella dei suoi familiari. Ha la mia parola.»
Suppongo si capisse fin troppo bene che no, non me ne facevo un cazzo della sua parola.
«C’è scritto tutto nel paragrafo quattro del fascicolo rilegato» disse infatti poco dopo.
Nel silenzio che si venne a creare potevo quasi sentir macchinare il mio cervello. Un brusio di elaborazione di dati e informazioni che mi avevano colto alla sprovvista, travolgendomi e lasciandomi senza fiato. Cercai di lasciarmi il coinvolgimento emotivo alle spalle analizzando con metodo scientifico tutte le eventualità, tuttavia non ci volle molto prima che la curiosità, l’egoismo e la speranza mi spinsero a gettarmi verso il fruttuoso ignoto che mi stava tentando nascosto nell’ombra dell’inganno. Nella mia mente c’era un’unica certezza: ora che potevo fare qualcosa, che potevo essere qualcuno, che potevo vivere, non avrei rinunciato per nulla al mondo. La paura del nulla mi inquietava, ma dentro di me sentii il ruggito della determinazione.
Trassi un profondo respiro. Lo sentii gonfiarmi i polmoni, riempirmi la mente poco dopo svuotarla. Chiusi gli occhi e annuii.
«Ok.» dissi.
Un’opportunità da non lasciarsi scappare.
Il mio futuro in un secondo.
Quell’unica parola ardeva viva nella mia gola «Accetto.»
Nei secondi di silenzio che seguirono la mia frase aprì gli occhi. Diana stava sorridendo guardandomi in viso.
«Non puoi farlo.» disse scuotendo appena la testa, trovando in risposta la mia titubanza «Devi prima parlare con tuo fratello, ricordi?» aggiunse.
«Ah già. Martin.»
«Mi dispiace. Vedrai che farete in fretta.» mi sorrise, si alzò dalla sedia e mi strinse la mano. «In bocca al lupo, Theodore. Sembri un ragazzo per bene, non fare cavolate, ok? Dio, sembri mio fratello. Non so cosa farei al posto tuo…Né se tu fossi lui.» scosse la testa. Mi alzai anche io dalla sedia. La guardai in silenzio.
Fece un profondo respiro, quindi girò intorno al tavolo e mi abbracciò. «Andrà tutto bene» mormorò al mio orecchio.
Sentii la carezza delle sue labbra rosse sul mio lobo.
Il calore di quel gesto mi riempì il cuore.
Andrà tutto bene.

   
 
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