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Autore: yuki013    12/07/2012    4 recensioni
"No, la guerra era molto peggio. La guerra era terrore, era ansia, era la voglia di piangere perché non c’era più nessuna ragione per ridere. Era la consapevolezza di non avere tempo di… di dire che, di fare cosa? Salutare, dirsi addio? Pregare? Prezioso fiato sprecato. Era il dolore di veder morire i compagni e non potersi fermare, non poterli nemmeno piangere perché probabilmente anche le lacrime erano già state esaurite per altro. La guerra era avere l’odore del sangue e della polvere da sparo nei polmoni, un tanfo costantemente stagnante in gola al posto dell’ossigeno; era lasciarsi esistere senza vivere realmente."
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti, Yu Kanda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Thirteen times, sing to the graves'
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LaviYuu. Perché sì, perché siamo ancora in pieno LaviYuu Festival e mi tocca perché non ho pubblicato nulla per il Day, causa lavoro e il fatto che io sia terribilmente propensa al non far nulla - compreso scrivere introduzioni, sì. E ho tante di quelle idee che spaziano dal rating più fluffoso a quello più scabrosamente alto che sono sicura di non arrivare a fillare tutto entro la fine del Festival, ma ci provo. Questa è una di quelle cose che stazionano al centro, tra il p0rn e le Tease rosa (?), e che avevo quasi dimenticato nell'antro oscuro della mia cosiddetta chiavetta proibita.
Perché lasciare le storie nel pc non è mai una buona idea. MAI. Buona lettura :3
-Yu


-Storia partecipante al contest "War Tales - Racconti dal Fronte" indetto da Filira sul forum di EFP


Speme.



Ti ricordi quando la guerra era solo la cronaca di un altro mondo?
Hai ancora memoria di quei giorni in cui ti tuffavi fra gli sterminati campi di girasoli e rossi papaveri, stretto nella sciarpa che tua madre ti ha cucito per il tuo quarto compleanno, e che ancora indossi nonostante la lana sgualcita ti graffi ormai le guance? Ricordi il bzzz della radio di tuo padre quando veniva annunciata l’ennesima battaglia ad est, oltre le montagne, e ti domandavi perché gli uomini combattessero per dei pezzi di terra, quando potevano avere la sconfinata vastità del cielo?
Sapevi, mentre osservavi il battaglione che marciava nella sconfinata pianura, che c’erano mogli e figli e madri ad attendere il loro ritorno. Sapevi anche che tanti, tantissimi di loro non sarebbero mai più tornati dal confine. Somigliavano a tante formiche che si spostavano in fila indiana, rigidi ranghi serrati compattati contro il gelo delle fredde notti balcaniche, che come sparuti alberi cresciuti storti per la forza delle vento arrancavano piegandosi in avanti sulle proprie ginocchia: le baionette in spalla, l’artiglieria più pesante in coda e qualche parola tra compagni portata via dal silenzio della notte.
Abbassavi poi gli occhi, stringendoti di più nella coperta che tua madre ti posava sulle spalle ogni volta che ti appoggiavi sullo stipite della finestra, per guardare la neve cadere in piccoli fiocchi sull’erba morente fino a ricoprirla per un intero inverno. Bevevi piano la tua cioccolata calda alla cannella e immaginavi un domani in cui le guerre sarebbero state scritte soltanto nei vecchi libri di storia, tra pagine ingiallite e fotografie sfocate in bianco e nero, scattate da visitatori di passaggio e dimenticate a marcire in un vecchio baule logoro o in una cantina non ancora distrutta dalle bombe.
 Era bello sperare – era bello crederci, che l’allarme aereo e le botole sottoterra ed il terrore nel sentire alla radio che il nemico avanzava rapidamente, un giorno non sarebbero stati altro che memorie di una vita lontana, distante dalla pace e dalla serenità di un mondo in cui non ci fossero più battaglie.
Sì, ti dicevi da piccolo, crescerò per scrivere un domani senza guerre.

 
 

Avanzi stanco attraverso la fanghiglia, costretto ad annaspare tra lo strato di melma che ti arriva a metà polpaccio e la pioggia che continua a scrosciare incessantemente sopra le vostre teste. Osservi con l’unico occhio libero che a nord il cielo sembra schiarirsi, ma l’esperienza che i tuoi viaggi hanno forgiato ti comunica mestamente che non vedrete il sole prima di mezzogiorno. Sempre che ci arriviate vivi, ovviamente.
Tieni Oodzuchi Kodzuchi nella mano sinistra, non te la senti di lasciarlo appeso sulla coscia. L’ansia che tipicamente ogni Esorcista prova nel non poter riconoscere gli Akuma sembra essersi triplicata, nonostante l’occhio di Allen sia iperattivo e pronto a captare una qualunque presenza nemica. Scorgi Lenalee arrancare insieme a Miranda, il suo Time Record attivo e Marie che di tanto in tanto le passa un braccio attorno alle spalle o alla vita per tirarla su. Persino Crowley ti sembra più sciupato del solito: l’unica calma riesci a vederla in Timothy, che dorme tranquillo sulle spalle di un inaspettato Generale Sokaro.
Scosti malamente un ciuffo scarlatto dalla fronte, sentendo l’opprimente bisogno improvviso di farti una doccia. Un bagno magari, con acqua bollente e tanta schiuma, di quelli che ti fanno restare in acqua finché non senti più i polpastrelli.
Un movimento strano alla tua destra ti sottrae alle tue fantasticherie. È naturale per te sorreggerlo, infilarti sotto il suo gomito e continuare ad avanzare senza dirgli un'altra parola. Sarebbe inutile, sarebbe superflua.
«Ch’. Mollami, idiota di un coniglio».
«Te lo scordi, Yuu. Non oggi».
Per una volta non lo stai sfottendo, non te ne frega nulla di vederlo adirarsi e rincorrerti indignato finché entrambi non riuscite a giungere ad un compromesso che durerà sì e no fino alla prossima volta in cui ti azzarderai a chiamarlo per nome. Vuoi semplicemente esserci, rimanere lì, sostenerlo nonostante tu sappia benissimo che non ne ha bisogno. È una persona talmente forte Yuu Kanda che persino la sua fragilità rimane confinata dietro la facciata di stoico e freddo samurai quale pretende di essere.
«Lasciami».
Di contro, affondi con più forza nell’acquitrino e con la stessa determinazione aiuti anche lui, sentendo che la sua presa sulla tua schiena si è fatta un po’ più sicura. Sospiri, osservando con distacco il panorama che ti circonda.
Ti domandi da quante ore siete in marcia, in file ordinate ma esauste per le numerose battaglie. Avanzate per forza d’inerzia più che per vero e proprio spirito combattivo – a parte Allen, forse. Lo vedi fremere in attesa della prossima battaglia. Ma lui è strambo, te ne fai una ragione.
Qualche Finder canticchia per tenere alto l’umore dei compagni, spossati e sfiniti per i numerosi cambi di temperatura e le leghe percorse. Più indietro, due della sezione asiatica si tengono stretti per mano: una ragazza con le treccine ed il suo fidanzato, immagini. Il resto è un freddo vociare di uomini e sparuti gruppetti di donne che ancora sperano, ma che in un modo o nell’altro sanno a cosa stanno andando incontro.
Ripensi alle notti passate all’Ordine, alle abbuffate, alle feste organizzate ogni volta che il numero dei vivi superava quello dei caduti e alla vita che sembrava più leggera, seppur gli scontri tra le fazioni fossero all’ordine del giorno. Pensi a quante volte, perso nei tuoi studi in biblioteca, sentivi lunghi capelli sfiorarti il viso e mani familiari toglierti la fascia dalla fronte perché non ti venisse l’emicrania al risveglio.
È quasi ironico come tutta la tua vita ti passi lentamente davanti, mentre strisciate silenziosi tra corpi inceneriti di esseri umani e resti di Akuma distrutti – mentre non vi resta niente di niente a cui aggrapparvi, se non chi vi sta intorno.
La guerra non è come te l’eri immaginata. Non era l’esplosione che aveva distrutto il tuo villaggio e ucciso i tuoi genitori, né il motivo per cui il vecchio ti aveva scelto per diventare il futuro Bookman. Non era una bella parata con fiori e brindisi al ritorno del plotone vittorioso che avevi visto a dodici anni in Vietnam, e non erano nemmeno i distaccati appunti che inserivi nei vostri archivi perché non andassero perduti tra le crepe del tempo, o gli stermini di massa che venivano sbattuti sgraziatamente sulle prime pagine di tutti i giornali.
No, la guerra era molto peggio. La guerra era terrore, era ansia, era la voglia di piangere perché non c’era più nessuna ragione per ridere. Era la consapevolezza di non avere tempo di… di dire che, di fare cosa? Salutare, dirsi addio? Pregare? Prezioso fiato sprecato. Era il dolore di veder morire i compagni e non potersi fermare, non poterli nemmeno piangere perché probabilmente anche le lacrime erano già state esaurite per altro. La guerra era avere l’odore del sangue e della polvere da sparo nei polmoni, un tanfo costantemente stagnante in gola al posto dell’ossigeno; era lasciarsi esistere senza vivere realmente, senza avere uno scopo diverso dalla semplice sopravvivenza.
Senti il generale Cloud urlare qualcosa, poche file più avanti. In lontananza riesci già ad avvistare le sagome indistinte di centinaia di Akuma avvicinarsi a grande velocità, in una densa nube di morte. Al tuo fianco, Yuu estrae Mugen dal fodero, scostandosi un po’ da te.
No, è il tuo primo pensiero. Si insinua nelle tue membra, costringendoti ad afferrarlo per un braccio. Lui ti rifiuta malamente, prendendoti per il bavero della giacca.
«Si può sapere che diavolo ti prende? Siamo in guerra, quelli ci ammazzano e tu che fai, ti rincretinisci?».
Ti mancherà tutto questo. Ti mancheranno le battutine, i battibecchi con Allen, le sfuriate di Lenalee per placare gli animi, i cambi di umore di Crowley, le fisime di Komui e le botte del vecchio panda. Adesso il braccio ti sanguina abbastanza da far male e con molte, moltissime probabilità, tu sei uno di quelli ai quali un’altra alba non sarà concessa. Tutto quel che riesci a fare è guardarlo con l’occhio smeraldo socchiuso, sperando che capisca – sperando che comprenda che tutti i gesti e le parole ed i sorrisi a fior di labbra scambiati all’ombra di una camera buia, nascosti in mezzo a candide lenzuola tra le mura di pietra scura della Home o di qualche sgangherata bettola, non erano vane o casuali. Erano per lui.
«Kanda… grazie».
Non vuoi rimanere lì ad osservare la sua espressione stranita per come l’hai chiamato. Non vuoi più vedere i suoi occhi scuri che soltanto tu hai visto liquidi di piacere, o le mani ruvide che più e più volte durante la notte ha passato tra i tuoi capelli senza neanche rendersene conto. Non ti va di osservare quelle labbra fredde aprirsi in una smorfia contrariata, così diverse da quelle violacee e umide impresse nella tua mente, memorie di numerosi incontri clandestini al riparo da sguardi indiscreti.
Ti mancherebbe, troppo. Persino nella morte.
Avanzi ancora, fermandoti per osservare degli abitanti che fuggono verso l’entroterra scozzese. Un bambino si ferma per raccogliere il suo orsetto di pezza dalla poltiglia di fango che ricopre la pianura, cercando poi di ripulirlo con il bordo della camiciola da notte. Per un momento alza il viso e i suoi occhi incontrano i tuoi – verdi, brillanti, fin troppo simili ai tuoi da piccolo. Gli sorridi sincero, in una maniera che iniziavi a pensare d’aver dimenticato, e lo saluti con la mano. Lui ricambia e fugge via, nascondendosi imbarazzato e impaurito tra le braccia della madre.  
Scrivere la storia, capisci infine, è molto diverso dal viverla.
«Lavi!».
Ti giri di scatto, sconvolto. Non ci credi, non può averlo fatto. Avrai sentito male, magari è stato Chaoji a chiamarti. È impossibile, è…
«Idiota di un Lavi, giuro che se ti fai ammazzare ti faccio tornare qui come Akuma e poi ti faccio a pezzi con le mie mani!».
Dietro di te, Yuu Kanda ti squadra da capo a piedi con una faccia talmente stravolta da metterti in agitazione, più degli Akuma che stanno per arrivare. Un angolo del tuo cervello ti ricorda che è per questo che l’hai sempre trovato interessante: non riesci mai a prevedere quel che dirà o farà.
Ma un’altra parte, più presente e pressante, registra automaticamente il fatto che ti abbia chiamato per ben due volte con il tuo nome. Non Bookman, non stupido o coniglio – o entrambi insieme: ti ha semplicemente chiamato per nome. Quel nome che, per quanto falso e inventato, non hai mai sentito pronunciare dalle sue labbra.
«Esorcisti di tipo Equipaggiamento, in prima linea!», grida Tiedoll da qualche parte nella folla che si preparava a combattere, di nuovo. Tu non lo stai ascoltando.
L’occhio sano, quasi incantato non riesce a spostarsi dal mite sorriso di Yuu.

 

La guerra non è come tutti se la aspettano. Raccontano di morti e feriti come fossero cifre da vincere alla lotteria, parlano di stenti e condizioni di vita disumane alle quali non hanno mai preso parte. Credono di descrivere il dolore del mondo, la sofferenza dell’essere umano, l’amore per la patria che spinge a lottare e sopravvivere nel bene e nel male. Questo dovrebbe fare un Bookman.
Ma Lavi è disteso a terra, il palmo della mano sulla guancia di Yuu – che se avesse un altro po’ di forza potrebbe anche bruciarlo con lo sguardo omicida che tenta di rivolgergli, invano. Sono ancora vivi, mentre l’alba sorge sul nuovo giorno.
La guerra è guerra, punto. Inizia e continua e uccide, e lascia dietro di sé dolore e morte. E qualcos’altro, qualcosa di diverso: la speranza.
Perché alla fine, presto o tardi, la pace dovrà pur arrivare.

   
 
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