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Autore: LadyProud    14/07/2012    4 recensioni
«C’erano parecchie cose che mi facevano diventare sentimentale: le scarpe di una donna sotto il letto; una forcina dimenticata sul tavolo da toilette; quel loro modo di dire: “Vado a far pipì”; i nastri per capelli; camminare lungo il boulevard all’1,30 di pomeriggio, due persone, un uomo e una donna, insieme; le lunghe notti passate a bere e a fumare, a parlare; le liti; il pensiero del suicidio; mangiare insieme e star bene; le battute, le risate senza senso; sentire la magia nell’aria, star chiusi insieme in una macchina parcheggiata; parlare dei propri amori finiti alle 3 di notte; sentirsi dire che si russa; sentirla russare; madri, figlie, figli, gatti, cani; a volte la morte a volte il divorzio, ma sempre andare fino in fondo; leggere il giornale da solo in una tavola calda e avere la nausea perchè lei adesso è la moglie di un dentista con un quoziente di intelligenza di 95; gli ippodromi, i parchi, i picnic al parco; perfino le galere; i suoi amici noiosi, i tuoi amici noiosi; il tuo bere, il suo ballare; il suo flirtare, il tuo flirtare; le sue pillole, le scopate clandestine; dormire insieme…»
-Charles Bukowski, Donne
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1.

 
Perché essere felice, quando puoi essere normale?
-Jeanette Winterson
 


La sveglia suonò, come tutti i giorni, alle sei e zerouno del mattino. Mettevo un numero uno, dopo lo zero, perché lasciare il sei da solo non mi sembrava giusto. Fin da bambina, ho imparato ad amare il numero sei, lo usavo in tutte le password che dovevo inventarmi, in tutte le combinazioni, mi sembrava perfetto. Per non lasciarlo da solo in mezzo a tutti quei numeri inutili, quindi, gli avevo affiancato un numero uno, sperando che in questo modo trovasse qualcuno degno della sua compagnia.
Svogliatamente, mi misi a sedere e con una manata zittii la sveglia. Era passata una settimana, dall’ “incidente” con quei due ragazzi, e mi ero rimessa totalmente in forma; tuttavia, sentii ancora un po’ di dolore, nel malmenare la mia sveglia.
Vicino al letto c’era sempre un paio di calzini puliti. Li presi, silenziosamente, e li infilai. Subito dopo averlo fatto, notai che erano uno rosso e uno viola, ma non me ne curai; non volevo produrre inutile rumore cercandone degli altri.
Il pavimento della casa era interamente ricoperto da un parquet scuro e lucido, e i piedi scalzi avrebbero lasciato delle impronte, quindi stavo sempre attenta a non girare per casa scalza.
Le uniche cose che potevo fare per quella famiglia che non mi apparteneva più, era di non lasciare impronte sul pavimento pulito, e di non fare rumore la mattina.
Ero l’unica ad alzarsi a quell'ora, e non mi piaceva svegliare gli altri; si sarebbero arrabbiati, e avevo già troppi pensieri per la testa.
Puntai dritta verso il bagno, rigorosamente in silenzio; accostai la porta, per non fare rumore nel chiuderla, e mi lavai.
Compivo quotidianamente gli stessi gesti, e tutto ciò era alquanto rassicurante; mi convincevo che, se quei semplici gesti mi fossero venuti bene, allora anche il resto della mattinata sarebbe stato semplice da affrontare. Adoravo i gesti semplici, non perché non fossi capace di compierne altri più difficili, ma perché la sicurezza che deriva da queste piccole quotidianità mi affascinava. Ed era tutto dentro di me, capite? Ero l’unica che avrebbe potuto rassicurarmi, e sapevo anche come fare. Avevo il totale controllo del mio corpo e della mia persona.
Uscita dal bagno, con i corti e scompigliati capelli neri ancora umidi, ritornai in camera mia e aprii l’armadio. Presi un toppino nero, una maglietta dello stesso colore, e degli shorts di un grigio slavato. Usavo il toppino al posto del reggiseno, perché ero alta e magra come un chiodo, senza un filo di seno. Quel poco che c’era mi dava fastidio, e non mi andava di sentirmi limitata indossando un reggiseno, così lo sostituivo con un toppino, che non mi faceva sentire nuda. Ho sempre pensato, in segreto, che da grande mi sarebbe piaciuto fare un’operazione per rimuovere il seno; successivamente cambiai idea, un po’ perché mi sembrava irrispettoso verso quante lo dovevano fare obbligatoriamente, a causa di un tumore o un cancro al seno, un po’ perché ero fiera di essere donna, e non mi andava di perdere un elemento che sottolineava la mia femminilità per un mio capriccio.
Mentre mi guardavo allo specchio, cominciai a pettinarmi i capelli, giusto per dargli una forma. Mi compiacqui del mio aspetto; non avevo bisogno di trucco o di altre maschere per sentirmi bene con me stessa.  Amavo il mio corpo in quanto era il corpo di una donna, e tutte le donne sono belle. Mi persi per un istante a fissare i miei occhi verdi, le pupille che si stringevano e si dilatavano a seconda della luce, la mia carnagione pallida, e l’accenno di cicatrice su una guancia.
Un’altra ragione per la quale non mi sistemavo più di tanto, era che in ogni caso il mondo mi avrebbe giudicata secondo degli standard che non riuscivo a capire, e che sotto sotto neanche volevo capire.  
Mi infilai un paio di converse nere usurate e mi diressi in cucina. Mia madre, stranamente, era già sveglia e stava preparando il caffè. Io riempii un bicchiere di latte e mi appoggiai su un bancone vicino ai fornelli a bere. Tutto ciò avvenne in un religioso silenzio, finché mia madre non ruppe l’atmosfera.
«Sta’ attenta a non farti uccidere, oggi».
«Non sono morta, oppure non sarei qui».
«Non sentirai freddo, con quei pantaloncini?». Storse il naso. Non le piaceva avere una figlia più alta di lei –molto più alta di lei-, quindi non sopportava la visione delle mie due gambe snelle, pallide e lisce.
«E’ primavera, mamma. Non morirò né a causa di improbabili aggressioni alla luce del sole, né per il freddo. Contenta?»
Aprii il rubinetto del lavandino e lavai il bicchiere.
«Ce l’hai degli amici, a scuola?», sbottò lei. Smisi di far scorrere l’acqua e la guardai. Cominciai a sentire la rabbia che prendeva il sopravvento, e provai una familiare sensazione di soffocamento. Spesso mi capitava di sentirmi come un povero naufrago che annega. L’acqua gli arriva pian piano al cervello, facendolo sentire ottuso, facendogli girare la testa, improvvisamente leggerissima. Sto affogando, ho bisogno di ossigeno, ma come posso liberarmi da questa situazione, se non so nuotare? Pensa questo, il suo ultimo pensiero. Si sente stupido, per l’ultima volta, e si lascia morire. Perché non ha imparato a nuotare, da bambino?
Ed io, perché non ho mai imparato ad abbassare la testa, a passare oltre le cose, ad essere superiore?
«Questi non sono affari che ti riguardano», sputai. Presi la cartella, il cellulare, le cuffiette ed uscii di casa, sbattendo la porta.
Please momma can’t you see, I’ve always tried to please,
I wore ribbons and jewelry and make up and perfume and dresses down to my knees…
Melissa Ferrick gridava a tutto volume nelle mie orecchie.



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Buonasera! Scusatemi per il ritardo, ho una marea di cose da fare, prometto di essere più celere per il prossimo capitolo. Li sto facendo brevi, di modo che non vi stufiate subito a leggerli. Ringrazio infinitamente le quattro recensioni positive, i preferiti, i seguiti e anche i lettori silenziosi!
   
 
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