La ragazza dalle manine viola
Mentre nel mondo milioni di
esseri umani lottavano per sopravvivere -tale è infatti il loro scopo su questo
pianeta- ed un ingente numero di essi periva o si ergeva vittorioso, su
un’insignificante cittadina della Russia orientale stava nevicando da qualche
oretta. Molti passeggiavano mano nella mano, lasciando le proprie impronte sul
fresco tappeto candido, altri giocavano a palle di neve o si affrettavano verso
casa con le sporte della spesa che penzolavano ad ogni passo.
Tutto normale, quindi.
No, nient’affatto, signori.
Conoscete forse di che materia sia fatta la normalità? Potete, magari,
misurarla con criterio scientifico, oppure portarmene un campione dentro ad un
vasetto di vetro? Sfido chiunque a farlo, attenderò un qualsiasi responso. In ogni
caso, stavo narrandovi di come in un luogo insignificante, in un giorno
insignificante, degli insignificanti esseri umani stessero riempiendo un attimo
della propria giornata con azioni ordinarie. Bene. C’era tra loro, s’intende,
non in loro compagnia, né in loro presenza o semplice colpo d’occhio, una
ragazza. Pallida, col naso rosso e le gote infiammate di porpora, ferma dietro
i cespugli colle mani congestionate immerse nella neve.
Ora voi mi chiederete: e
cosa ci faceva una giovane seduta in terra a sorbirsi il freddo mentre gli
altri stavano in compagnia a scaldarsi? Eh, forse non vi è parso “normale”? Sì,
ne sono certo: lì in fondo, mentre ancora non avevo finito di raccontare,
avevano già cominciato a vociare “che stranezza! Che stranezza! E’ forse
pazza?”. Adesso, sistemate le bretelle e l’acconciatura e sgranchita la schiena
sulla sedia, ditemi: sapete forse che aspetto abbia la stranezza? Cosa sia
curioso o bislacco? Non mi serve un esempio fisico, sia chiaro. Io pretendo -e
lo affermo con tono perentorio- il concetto di “strano” dentro ad un barattolo.
Sì, sì, assieme alla “normalità”, così si risparmia qualche spicciolo per il
recipiente. Io sono sempre qui che aspetto, bene? Bene. Dove eravamo
rimasti?
Insomma, la ragazza tirò
fuori le manine violacee dalla neve e se le portò, chiuse a coppa, alla bocca,
alitando piano dentro all’incavo che aveva creato attorno alle labbra. Una
nuvoletta di vapore si spanse nell’aria pungente. Si alzò, facendo fremere i
ramoscelli alle proprie spalle, poi risalì un viottolo e si mescolò agli altri
esseri umani, con la testa fissa ai piedi. No, non era triste, aveva solo
voglia di osservare i propri scarponi sprofondare nella neve e goderne il
morbido rumore che ne scaturiva. Plof, plof, plof. Sempre uguale. Così,
come era giunta lì, adesso stava tornandosene a casa guardandosi i piedi e
sorridendo lievemente, appagata. “Perché sorridi?”, le chiese ad un tratto un
ragazzino paffuto e rosso in viso, tutto imbacuccato nella sua sciarpa blu. Lei
di rimando tirò un singulto di sorpresa, ma, benché non lo conoscesse affatto,
gli rispose ugualmente, continuando a sorridere. “Perché ha nevicato, vedi? Non
è bellissimo?”
Il ragazzino sollevò le labbra di
sbieco, in una smorfia di disappunto, poi fece spallucce. “Ma la neve c’è
sempre a gennaio, di che ti stupisci? Sei straniera?”
Il sorriso della ragazza dalle manine
viola, udite quelle parole, si spense in un sospiro appena accennato.
“No, non sono straniera…” Mormorò con
il capino basso, adesso per il cattivo umore, ciondolando un po’ la gamba
avanti ed indietro. “Non bisogna mica essere nuovi alle cose per potersene
stupire, non trovi?”, continuò con un accento meno grave e più forte, un poco
intriso di astio.
“Non capisco”, esclamò il ragazzino
paonazzo, “come tu ti possa stupire per una cosa così normale! E’
come dire che lo zucchero filato sia speciale.”
“Oh, ma lo è, lo è!”, Sbottò in
risposta la ragazza, torturando il tessuto della propria lunga sciarpa, “E’
così soffice, dolce e appiccicoso! Non ti rende felice dividerlo con qualcuno,
oppure semplicemente osservarlo esser mangiato da qualche bambino sorridente?”
“No, non mi rende felice.” ,rispose
l’altro con semplicità. “Io sono felice quando la mia squadra di Hockey
preferita vince il campionato, o se prendo un buon voto a scuola, o, ancora, se
qualcuno mi regala un nuovo videogioco.”
La ragazza con la sciarpa scosse il
capo. “No, non mi hai capito. Non è quel tipo di felicità. Quella non è
felicità, è soddisfazione momentanea. La felicità è sentire caldo al ventre e
tirare fuori il sorriso senza alcuna ragione.”
Per un attimo i due non dissero nulla,
e signori, davvero, l’aria sembrava satura di un’infinità di parole non dette.
Tuttavia, senza ribattere alcunché, il ragazzino abbandonò la giovane donna con
gli scarponi in mezzo alla neve, sola.
“Arrivederci.”, lo salutò lei, ma
quello non rispose, già rincorso da un caccia militare fatto da ragazzini
vocianti. Così, nuovamente in compagnia di se stessa, ritornò per la propria
meta improvvisata, scorgendo, lungo il suo cammino, miriadi di dettagli tanto
interessanti e belli quanto appaganti. Poi incontrò me, seduto s’una panchina
poco distante da sé, e, in tono pacato mi chiese:
“Lei saprebbe procurarmi
della normalità? Oppure, se non le spiace, potrebbe quantificarmi la
stranezza?”
“No.” ,le risposi semplicemente, “Non ho un barattolo di vetro dove
riporla, né un’unità per misurarla.”
“Grazie mille”, replicò radiosa, con un enorme sorriso, “è proprio quello che
mi serviva conoscere.”
Detto questo mi salutò e si allontanò per il viale, continuando a sorridere,
poi si voltò per congedarsi nuovamente con un gesto infantile della mano,
quindi scomparve al finale della strada alberata.
Questa era la storia che mi
premeva di narrarvi, amici. Ma adesso mi chiedo: qualcuno ha forse trovato per
me quel famoso barattolo pieno dei miei dubbi? Qualcuno potrebbe porgermelo da
laggiù, in mezzo alla folla? Non ancora? Non importa, aspetterò. Intanto andrò
a farmi una passeggiata nel parco, chissà se non incontri ancora la ragazza
dalle manine viola.
Dovreste incontrarla anche voi, sapete? Ve lo auguro.