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Autore: LadyProud    19/07/2012    2 recensioni
«C’erano parecchie cose che mi facevano diventare sentimentale: le scarpe di una donna sotto il letto; una forcina dimenticata sul tavolo da toilette; quel loro modo di dire: “Vado a far pipì”; i nastri per capelli; camminare lungo il boulevard all’1,30 di pomeriggio, due persone, un uomo e una donna, insieme; le lunghe notti passate a bere e a fumare, a parlare; le liti; il pensiero del suicidio; mangiare insieme e star bene; le battute, le risate senza senso; sentire la magia nell’aria, star chiusi insieme in una macchina parcheggiata; parlare dei propri amori finiti alle 3 di notte; sentirsi dire che si russa; sentirla russare; madri, figlie, figli, gatti, cani; a volte la morte a volte il divorzio, ma sempre andare fino in fondo; leggere il giornale da solo in una tavola calda e avere la nausea perchè lei adesso è la moglie di un dentista con un quoziente di intelligenza di 95; gli ippodromi, i parchi, i picnic al parco; perfino le galere; i suoi amici noiosi, i tuoi amici noiosi; il tuo bere, il suo ballare; il suo flirtare, il tuo flirtare; le sue pillole, le scopate clandestine; dormire insieme…»
-Charles Bukowski, Donne
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2.

 
«Non ti sposerai mai» disse, «questo è certo. E non troverai mai pace.»
-Jeanette Winterson, Non ci sono solo le arance
 
 
Non doveva andare così. Si suppone che i genitori amino i figli, indipendentemente da qualsiasi cosa. Mia madre non poteva darmi la colpa per una vita che non ho scelto. Forse se avessi potuto scegliere sarei comunque qui, nella stessa situazione; ma non ho potuto.
Un’altra cosa sbagliata era che a me importava.
Mi faceva male non essere accettata da mia madre, da mio padre, da mia sorella. A volte, mi sembrava che anche il mio gatto mi guardasse male. Quando ero chiusa in camera, la mia camera, mi sembrava che i poster attaccati al muro mi lanciassero delle occhiate di disprezzo, di rimprovero. Neanche quel luogo, che avrebbe dovuto essermi familiare, riusciva a sembrarmi accogliente. Non lo sentivo mio, non era la mia camera, non era casa mia. Una persona non dovrebbe rimanere mai così sola.
Alzai gli occhi al cielo, e una goccia di pioggia mi centrò la punta del naso.
«Maledizione», mormorai, «Guarda se mia madre non aveva ragione». Affrettai il passo. La fermata dell’autobus distava ancora cinque minuti di cammino.
Per non pensare alla pioggia, che mi stava inzuppando tutti i vestiti, lasciai che la mia mente si riempisse di pensieri, e decisi di concentrarmi su uno in particolare.
Era passata una settimana dall’aggressione, la gente avrebbe voluto sapere. Ero pronta a sopportare gli infiniti interrogatori? Il perbenismo e la falsità di quelle persone che, almeno in apparenza e purtroppo, abitavano il mio stesso mondo? Mi soffermai su quest’ultimo pensiero. E’ buffo: condividiamo tutti lo stesso mondo, la Terra è di tutti noi e serve a tutti noi. Teoricamente dovremmo lavorare affinché diventi un posto sempre migliore, e dovremmo farlo insieme. Abitare nella stessa casa, il più delle volte ci rende parenti; solo perché il pianeta Terra è uno spazio un po’ più ampio, non significa che in fondo non siamo qualcosa tipo, non so, fratelli. A volte mi vien voglia di piazzarmi davanti alla gente, davanti ai carri armati, ed urlare “ehi, gente! Che cavolo state facendo? Tu ci vivi qui, noi tutti viviamo qui, in questo stesso mondo! Potreste essere parenti e neanche saperlo! Potresti stare per uccidere il marito di tua figlia! Potresti stare per distruggere una foresta dove in un futuro neanche troppo lontano, tuo figlio porterà la sua fidanzata a fare un bellissimo picnic!”, e cose del genere.
In ogni caso, non vedevo nessuna collaborazione, e avevo perso la voglia di aspettare.
«Ehi, Cassie!»
Alzai la testa di scatto. Non mi ero neppure accorta di essere arrivata in fermata. Aveva anche smesso di piovere.
«Ciao, Nick». Nick era un mio compagno di classe, uno di quei maschi che hanno in mente sempre la stessa cosa… Sto parlando del calcio. Forse.
«Come stai? Non ho capito esattamente cosa sia successo, però…». Ringraziai silenziosamente qualche divinità inventata per l’occasione.
«Nulla di che, ho fatto a botte», risposi ridendo. «Sto bene, ora».
«Mi fa piacere. Ah, sei fradicia».
«Non importa. E’ spuntato il sole, mi asciugherò».
«Ah, pioggia e sole, ora dovrebbe spuntare l’arcobaleno…»
Nick fece una risatina, che gli morì in gola dopo avermi guardata in faccia. So lanciare delle occhiate assassine, quando voglio; spesso lo faccio senza accorgermene. Per un motivo o per un altro, tanto, la gente si sarebbe allontanata da me, quindi perché non accelerare il processo? Inoltre, con i capelli zuppi di pioggia appiccicati al volto, dovevo essere raccapricciante.
«Continua pure», dissi alla fine, dopo averlo fissato per un minuto buono.
«Scusa, non volevo…», farfugliò alla fine.
«Sì che volevi». In quel momento arrivò l’autobus. Salii e mi sedetti in un posto molto lontano da quello del ragazzo. Mi rimisi le cuffiette, che per gentilezza mi ero levata durante la conversazione –se così la si può chiamare- e mi estraniai dal mondo, ancora una volta, ancora una volta non per colpa mia.

Scesi alla solita fermata, vicino alla mia scuola. Ovviamente, anche Nick scese lì, ma mi passò accanto velocemente, ignorandomi e superandomi. I primi tempi, questo comportamento mi aveva infastidita; poi aveva cominciato a farmi piacere. Meno gente respirava la mia stessa aria, meglio mi sentivo. Non che mi piacesse isolarmi; ma i compagni di scuola, come i parenti, non puoi sceglierteli, e se ti capitano certi pezzi d’idiota, devi tenerteli e sopportare.
Prima di arrivare alla mia scuola, c’erano un paio di minuti di tragitto  a piedi. Li percorsi velocemente, come se avessi una spina conficcata in un piede e volessi toccare terra il meno possibile. Effettivamente, un po’ era così; volevo vedere i miei compagni di scuola. Volevo parlarci. Volevo che loro facessero qualcosa che mi desse un pretesto per ricominciare ad ignorarli. Poi volevo uscire e tornarmene a casa. Volevo levarmi questa spina dal fianco il più velocemente possibile.
Presi un respiro e girai l’angolo.
Mi ritrovai davanti quell’immensa costruzione di mattoni rossi, ricoperti da una vernice di un colore triste, che si stava lentamente scrostando. Oddio, neanche troppo lentamente; effettivamente, quella scuola cadeva a pezzi. Sembrava che la stessa costruzione volesse allontanarsi da se medesima.
Mi avvicinai al cancello arrugginito e, come previsto, un gruppetto di studenti cominciò ad avvicinarsi a me. Mi sembrava di essere in uno di quei film, dove la protagonista sfigata viene sempre accerchiata da dei bulletti. Alla fine, però, sono questi ultimi che fanno sempre una brutta fine…
«Oh, mio Dio, Cassandra!». Lisa, la pettegola della mia classe, mi si avvicinò, con la bocca coperta da un rossetto così rosso che mi venne l’impulso di schernirmi gli occhi.
Mi fece ridere, quell’invocazione: ‘Oh mio Dio!’. Come se Dio potesse essere davvero suo! Dopotutto, pareva potersi permettere di tutto.
«Ciao, Lisa», le risposi, sorridendo. Lei sembrò indispettita dal mio apparente buonumore.
«Ah, vedo che ti sei ripresa».
«Certamente. Questo ti disturba?»
«No, mi è del tutto indifferente».
Il mio sorriso si allargò ulteriormente, e un attento osservatore sarebbe riuscito ad intravedere le gocce di veleno che scendevano dalle mie labbra.
«Allora, levati dai piedi e smettila di disturbarmi».
Lei rimase di sasso. Evidentemente, una settimana era bastata a farle dimenticare quanto potessimo odiarci, o forse pensava che avrei abbassato la cresta. In ogni caso, approfittai del suo silenzio per superarla ed avvicinarmi all’entrata. I ragazzi intorno a lei ridacchiavano, e io mi concessi un altro piccolo sorriso.
   
 
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