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Autore: _ivan    20/07/2012    7 recensioni
[ COMPLETATA LA PRIMA PARTE: la seconda verrà scritta e pubblicata al termine di 'Monetarium - la neve e le ombre' ]
Theodore è un ragazzo come tanti: alterna la sua vita tra facebook, videogiochi, televisione e uscite con pochi e fidati amici. Sua madre adora interpretare la parte del tiranno, suo padre quella dell'uomo saccente e un po' troppo pretenzioso. Eppure basta il discorso del presidente degli Stati Uniti, un giorno, a cambiare tutto. Al mondo viene rivelato che..
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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!! piccole note:
grazie a chiunque abbia recensito: mi rendete più felice di quanto già non sia..!
grazie a quelle persone con cui sono riuscito ad instaurare un rapporto di stima reciproca fatto di tanti consigli, sorrisi e complimenti.


*


CAPITOLO V.1

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_5.1_EFP.pdf ]

Devo fermare Martin. Devo andarci io. Non mi hanno detto tutto: si capiva a colpo d’occhio che nascondo qualcosa. Ci mandano al macello, lo so, si procurano vittime sacrificali proprio come nei film. Hanno promesso uomini in cambio della salvezza del pianeta. Magari diventeremo loro schiavi. Va sempre a finire così. O forse dicono il vero. Forse potrei realmente finire su un pianeta diverso. E poi? Poi cosa farei? Sono un idiota: non riesco nemmeno a passare l’esame di microeconomia e voglio tentare la scalata al successo universale. Ma devo andarci, sarebbe da scemi non farlo. E mamma e papà? Soffriranno. Cassie. Mi mancherà. Oddio, forse mi piace.Cassie. Sarebbe una cosa buffa. Erv. Erv, già, chissà come morirebbe d’invidia se lo sapesse.E poi tanto mamma e papà con i soldi che riceveranno dall’assicurazione non soffriranno troppo. E se non li pagassero? In fondo non posso saperlo. Eppure Diana sembrava sincera, magari è davvero in buona fede. E se mentisse? E se fosse una spia? Ha detto che io e Mart siamo gli unici senza una motivazione. Cosa c’entriamo? Basta, devo andarci. E se è una fregatura? Non importa, almeno morirei di fronte agli alieni. Morirei facendo qualcosa. Certo che faccio proprio ridere: voglio fare il temerario e non convinco nemmeno me stesso.
Ci stavano pedinando. Il governo stava nascondendo tutto. Sapevano già ogni cosa. Mentono ogni giorno a tutto il mondo. E se stessero nascondendo anche altro? Potrebbero eliminarci tutti. Ci muovono come stupide pedine. E io dovrei fidarmi di loro? Certo che se però fosse vero…Devo accettare. Devo fermare Martin. E se ci stessero ingannando? Vado.
O ora o mai più.
Sapevo cosa dire.
 
Nel silenzio avvolgente di quella fredda stanza, ogni masticata risuonava come una valanga in una valle dell’Antartide.
«Martin la vuoi finire?» dissi alzando lo sguardo su mio fratello che, dall’altra parte del tavolo, sbocconcellava da un pacchetto di crackers salati.
Dopo il colloquio con Diana e Kirchner fui accompagnato nella stanza adiacente, assieme a Mart.
Ci lasciarono soli con per farci accordare sul da farsi. ‘Soli’ in termini polizieschi significa inscatolati in una stanza con un’intera parete a specchio, oltre la quale vieni osservato costantemente come un animale durante un safari. Pensai fosse più una trovata per studiare le nostre reazioni più che pper darci la vera opportunità di  trovare un punto d’incontro.
Tra le cinque sedie a disposizione intorno ad un tavolo di metallo rettangolare e senza spigoli, io scelsi l’unica che mi poneva di fronte a Martin e con le spalle verso il mio riflesso. Allungai la presa su un bricco di succo di frutta lasciato appositamente per noi al centro del tavolo, assieme a qualche pacco di crackers ed una bottiglietta d’acqua. Quando Martin accartocciò il pacchetto vuoto facendolo scricchiolare, il primo rinfrescante sorso di succo alla pera stava scendendo lungo il mio esofago. Il ronzio di un grande condizionatore riempiva con monotonia i tempi morti.
Le idee di Martin sull’intera questione erano piuttosto confuse. Toccò a me dar loro un ordine in vista di una decisione definitiva.
«Quindi…?» disse a fatica, una volta smesso di tirar via con la punta della lingua le piccole briciole rimaste incastrate tra i denti.
«E quindi te l’ho detto, Mart.» dissi dopo una manciata di secondi di silenzio, attento a pesare ogni parola «dovresti restare a casa. Ci vado io, è la decisione migliore per tutti, anche per mamma e papà.»
Entrambi i nostri ‘sì’ erano dettati dall’incoscienza e dal capriccio. Anche allora, mentre parlavo, non mi rendevo realmente conto della serietà e gravità della situazione. La vedevo lontana e artefatta, come quando si vede una notizia al telegiornale, ce se ne dispiace ma non si riesce ugualmente a comprenderla in tutte le sue sfumature.
«Ma io voglio andarci.» corrugò la fronte, caricato non tanto dalla sicurezza delle proprie idee, quanto dalla presunzione e cocciutaggine infantile. Non credo ne fosse realmente convinto, ed il pensiero di potermi lavorare la sua mente già indecisa mi rincuorava dandomi vive speranze di successo.
«Hai sentito cosa hanno detto, giusto? Non sanno nemmeno se ci tratteranno come cavie da laboratorio. Potremmo finire in chissà quale pianeta orribile, costretti a…a fare quello che ci sarà ad attenderci. Metti che dobbiamo fare le vittime sacrificali? C’hai pensato? Hanno detto che il governo ha sempre nascosto e sta continuando a nascondere tutto. Magari adesso stanno raccogliendo gente che, con accondiscendenza, sia disposta a immolarsi sull’altare per…che ne so. La salvezza dell’universo.»
«Allora tu perché vuoi andarci?»
Touchè.
«Perché sì!» dissi alzando la voce. Cominciavo a perdere la pazienza «Fatti i cazzi tuoi! Senti Mart, ci vado io, ok? Sono il più grande, litigo sempre con mamma e papà, non mi piace andare in università, non ho tanti amici e non ho voglia di fare un cazzo. Tu sei un successo unico. E’ giusto che resti qui.»
Mio malgrado la verità era una sola, ed ora la stavo fronteggiando a carte scoperte: al momento preferivo la prospettiva di diventare uno schiavo su un pianeta popolato da alieni, dove nessuno poteva vedere il mio insuccesso, piuttosto che quella di restare un fallito totale sul pianeta Terra sotto gli occhi di tutti.
«Voglio andarci, e tu non me lo impedirai.» disse.
Stronzo.
Sospirai e abbassai lo sguardo. Ci volle una manciata di secondi prima che il dolore che volevo mimare si impadronisse di me. Pensai alla morte di mamma, alla solitudine, al fallimento. Pensai alla malattia e alla fame. Pensai all’impossibilità di muoversi, alla prigionia. Mi immedesimai con così tanto trasporto che una parte di me si convinse della concretezza di quella tristezza in realtà immotivata. Sentii gli occhi gonfiarsi di pianto. Questa era la carta vincente, l’asso pigliatutto.
«Mart,» dissi senza alzare lo sguardo «la verità è che io ne ho bisogno. Ne ho bisogno per davvero. Ho…fatto sesso con Cassie, cinque mesi fa.»
Cercai il suo sguardo e trovai la sua titubanza.
«Ho contratto il virus dell’HIV. Cassie era malata e non ne avevo idea. Credevo di sapere tutto. Così prendo le medicine da due mesi, e potrò vivere, ma…sarò costretto ad assumere farmaci per tutta la vita e…»
Sospirai di nuovo. Incredibilmente mi sentii il peso della malattia addosso nonostante il mio corpo fosse completamente sano dal giorno della mia nascista. Il potere della suggestione.
«Io» dissi «…insomma, Erv mi ha detto che secondo lui ‘loro’ potrebbero possedere le tecnologie giuste per guarirmi. Tipo potrei tornare sano. Capisci? Così io ne ho davvero bisogno, Mart. Non lo faccio per capriccio.»
Il silenzio che seguii le mie parole mi diede l’occasione di sentir martellare il cuore nel petto. Il mio corpo scandiva il tempo con prepotenza.
«Mi stai mentendo» disse. Incrociai il mio sguardo con il suo, iniziando un silenzioso singolar tenzone.
«No, Mart.»
«Quando l’hai presa?»
«Quattro mesi fa.»
«Prima hai detto cinque.»
«Cinque cosa?»
«Prima hai detto ‘cinque mesi fa ho fatto sesso con Cassie’, me lo ricordo.»
«No, ho detto quattro. E comunque non c’entrano i numeri, non fare il bambino.»
«E quando te l’hanno diagnosticato?»
«Due mesi fa. Ho fatto le analisi del sangue per l’università.»
«Non chiedono esami del sangue.»
«Mart non mi far girare il cazzo. Cosa ne sai tu, che in università non ci vai nemmeno?»
«Mamma e papà…?»
«Ecco, appunto, non l’ho ancora detto a mamma e papà. E…ho paura, perché non vorrei essere una delusione per loro. Mi faccio schifo.»
«Ma anche io voglio andarci.»
«Mart, per favore…davvero.»
«Mamma si arrabbierà molto.»
«Lo farà anche se ci andrai tu. Anzi. E poi hai sentito, non possiamo dire nulla. Sarà figo anche qui, vedrai. Ci saranno un mucchio di cambiamenti: si vivrà come nei Jetson.»
«Non dare per scontato che abbia accettato di mandare te.»
«Potresti rischiare di morire. Io sono pronto, ma tu hai davvero voglia di rischiare?»
Silenzio.
«Sei malato veramente? Theo non prendermi per il culo.»
«Lo giuro su mamma e papà.»
Silenzio, ancora. Non avevo sensi di colpa.
«Forse hai ragione tu» disse finalmente. Il suo sguardo era basso, la sua voce intristita, il suo volto incupito.
«Sì» continuò, cercando di convincersi della decisione che stava strisciando nella sua mente «Hai ragione tu. Sì. E’ meglio che io resti qui. E poi la mia vita mi piace. Ora che ci penso non vedo il motivo per cui dovrei rischiare, quando posso dedicarmi alla pacchia più totale per il resto dei miei giorni.»
Sorrise, e lì per lì sorrisi anch’io, volendogli bene come mai prima d’allora. Stava provando dispiacere per tutto: per la mia malattia (che malattia non era), per la rinuncia a un’occasione irripetibile, e per la consapevolezza che volente o nolente lui mi stava perdendo così, da un giorno all’altro, senza poter fare nulla per impedirlo.
Scavai nei suoi occhi e vi trovai amore e preoccupazione, rassegnazione e premura. Realizzai che gli volevo bene, e che forse lasciare casa sarebbe stato più difficile di quanto immaginassi.
Feci un profondo respiro, prima di lambire nuovamente con le mie labbra la punta della cannuccia.
Sentii un peso al cuore. Un sesto senso urlava che stavo facendo la scelta sbagliata.
Provai dolore di fronte alla consapevolezza di aver perso vent’anni dietro a stupide discussioni. Volergli bene mi piaceva. Se solo me ne fossi accorto prima…
«Mi lasci la tua playstation, vero?»
Le sue parole mi spiazzarono.
Quando ridacchiai, un istante dopo, rischiai di farmi andare di traverso il succo alla pera. Piegandomi in avanti scoppiai in qualche colpo di tosse.
«Scemo…» dissi portando entrambe le mani tra i capelli, per sistemare la piccola coda legata con l’elastico. Scossi la testa senza aggiungere altro.
«E adesso cosa succederà?» chiese ancora.
Feci spallucce guardandomi attorno alla ricerca di una risposta nell’aria. Sbirciai in direzione del vetro riflettente, ma vi trovai solo il mio viso scavato dalla stanchezza.
«Non so.» dissi prima di fare l’ennesimo sospiro «Suppongo che ti faranno firmare delle carte per costringerti a non parlarne con nessuno. L’hai sentito, no? Non si possono lasciar trapelare le informazioni.»
Sperai che il peso di quel segreto prima o poi non lo avrebbe fatto impazzire. Nei film succedeva così.
«Dici che tornerai a trovarci?» disse.
«Non credo.»
«Fai attenzione, ok?»
«Non sono mica uno smidollato come te, Mart. Io ho i coglioni.»
«Ti piacerebbe. Fai attenzione.»
«Ok. Ma adesso smettila di fare l’effeminato sentimentale. Lo sai che non lo sopporto.»
«Scusa.»
Sospirai, estenuato dalla situazione nella sua schiacciante totalità. Non ne potevo più. Bevvi l’ultimo lungo sorso di succo, prima di alzarmi dalla sedia e girare attorno al tavolo.
«Dai abbracciami, scemo.» dissi costringendolo a farsi stringere tra le mie braccia. Sorrisi facendolo accoccolare al mio petto. Strinsi con così tanto amore da sentirlo entrare nel mio petto, riempirmi il cuore. Il suo odore pervase le mie narici, il suo battito si sincronizzò con il mio.
Fu l’unico saluto che riuscii a dare, l’unico addio che mi fu concesso, quello che ancora oggi mi porto nel cuore.
 
Il fatto che l’agente Kirchner fosse entrato appena un minuto dopo la fine del confronto con mio fratello mi diede la conferma che cercavo: ci stavano tenendo d’occhio dalla sala adiacente.
Salutai Martin e sotto invito uscii dalla stanza per seguire Kirchner. Fu allora che lo vidi: un uomo dal viso asciutto e appuntito, con occhiali troppo bassi su un naso adunco da condor, capelli corti e secchi, d’un color fuliggine in tinta col completo elegante, tirato a lucido e portato con atteggiamento inorgoglito, severo. Nella mano destra, un’anonima ventiquattrore di pelle nera sbatacchiava contro la sua gamba ad ogni passo deciso.
Era un agente come gli altri?
Chiamatela suggestione ma quando incrociando i nostri passi nel corridoio ci scambiammo uno sguardo fugace, mi parve di vedere sul suo viso severo un piccolo sorriso compiaciuto e poco incoraggiante. Un taglio perfettamente orizzontale nel viso, tra labbra sottili e troppo chiare. E chiamatelo sesto senso ma lì per lì provai un’incosciente stato di inquietudine. Non avevo affatto un buon presentimento.
Varcammo contemporaneamente le soglie delle due piccole sale umide, lui nella sua, io nella mia. Sospirai pensando a Martin.
 
Quando dopo quasi un’altra ora misi il primo piede fuori dalla centrale, nel mondo esterno, mi sentii così confuso da percepire i conati di vomito.
Scesi la scalinata di pietra disorientato, con lo stesso spirito di un carcerato che per la prima volta dopo anni varca la soglia della prigione.
Il frullìo lontano delle pale di un elicottero animava il silenzio della metropoli, apparentemente abbandonata. Una fresca brezza serale mi scompigliò ciuffi di capelli sfuggiti all’elastico. Osservai la strada e i marciapiedi: l’insegna accesa di un pub illuminava l’asfalto scuro. Nell’ombra, un gatto frusciò contro una parete sgattaiolando tra le ruote di una macchina.
Nel cielo, una suggestiva danza di luci artificiali coronava la gigantesca luce bianca, un oblò verso mondi alternativi. Le stelle erano sparite, inghiottite da quello spropositato sfoggio di tecnologia.
Con le mani nelle tasche e il peso della stanchezza sulle spalle, mi incamminai verso la volante della polizia che mi attendeva col motore già acceso .
Volevo solo dormire.
Sentivo le dita della mano destra leggermente indolenzite Avevo smesso di contare dopo aver scritto la diciottesima firma, almeno mezz’ora prima della mia liberazione. Accarezzai la maglietta con estrema cura. La pelle ad altezza del cuore prudeva appena, là dove con dello scotch era stato attaccato un piccolo microfono.
Non lo tolga fino a quando non le sarà stato ordinato di farlo’ mi avevano detto Kirchner ‘ci servirà a monitorare i suoi spostamenti e a verificare che tutto proceda secondo gli accordi. È una faccenda seria, signor Theodore. Si ricordi che noi sapremo qualunque cosa farà nelle prossime ventiquattro ore.Qualunque cosa dirà, ovunque andrà, cosa mangerà. Qualunque cosa. Non faccia scherzi.
Aprii la portiera della vettura e mi gettai sul sedile. Ad attendermi, oltre ai due agenti alla guida nei posti anteriori (non più Hçunning e Rowney), c’era Martin che fissava oltre il finestrino. Inizialmente non sembrò neppure accorgersi del mio arrivo, completamente immerso nei suoi innocenti pensieri.
Oltre il parabrezza, nella penombra, una signora sul marciapiede fissava nella nostra direzione.
Mi stavano già spiando? Forse era una di loro.
«Hey Mart» dissi con un sorriso stanco «Com’è andata?»
Lui si voltò, mi sorrise e mi guardò tranquillo. I suoi occhi erano diversi, ignari. Capii da subito.
«Bene! Per ore non hanno fatto altro che chiedermi le solite cose. Sai, per la storia degli Humpsey. Due palle. Ti sembra normale che mi abbiano fatto sprecare un interopomeriggio per questa cazzata? Comincio ad odiare il figlio degli Humpsey, giuro.» sbuffò sincero. Il mondo alle sue spalle prese a scorrere veloce al di fuori del finestrino.
Mi sentii svuotare.
«Mart» lo guardai «cosa ti hanno fatto?»
Temetti la risposta.
«Perché, a te no? Due palle. Mamma aveva ragione.»
Era chiaro. Mi si raggelò il sangue. Cercai nei suoi occhi il barlume della ragione, la forza della conoscenza e della condivisione. Quel bene che ci eravamo confessati e voluti fino ad appena un’ora prima. Non trovai nulla se non il vuoto.
Qualunque cosa gli avessero fatto, ero solo.
Nessuna parola era mai pesata così tanto sul mio cuore.
Solo.
Quando Martin tornò a fissare oltre il finestrino, a sentirsi fu solo il rumore del motore.

   
 
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