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Autore: RobTwili    20/07/2012    34 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Svegliarsi dopo un incubo, con la testa che doleva per le troppe lacrime versate non era mai il modo migliore per cominciare una giornata; soprattutto se, appena sveglia, ricordavi l’orrore visto il giorno prima: il modo truce in cui due delle persone più care erano state freddate e lasciate lì, in mezzo alla strada.
Mi alzai dal divano cercando di non pensare a niente, volevo svuotare la mente come era successo con tutti i miei sentimenti, avevo bisogno di rilassarmi e ‎di non pensare, prima di cominciare a preparare le valigie per tornare a casa. Dovevo salvare i ragazzi allontanandomi da loro, perché ovunque io andassi, portavo morte e lacrime. Ecco il mio unico pensiero mentre scostavo la coperta che qualcuno mi aveva sistemato perché non prendessi freddo. Sussultai spaventata quando, dopo essermi legata i capelli, vidi Ryan seduto su una sedia della mia cucina; il volto spento e nessuna fiammella di vita in quello sguardo che di solito covava rabbia e trasmetteva ironia. Stava fumando con un gesto troppo meccanico per sembrare rilassato: la mano destra si spostava dalle labbra per poi appoggiarsi alla coscia mentre soffiava fuori una nuvola di fumo grigio; lo sguardo fisso davanti a lui, ma al contempo distante ore e chilometri. Non avevo nemmeno la forza di sgridarlo per tutti i filtri di sigaretta che c’erano per terra.
Vidi i suoi occhi posarsi su di me per un istante, non appena mi alzai dal divano. Nessun saluto, nessuna battuta idiota, solamente le sue labbra socchiuse per far uscire una nuvola grigia di fumo. Mi avvicinai al frigo, prendendo una bottiglia d’acqua e riempendomi un bicchiere senza dire nemmeno una parola; Ryan, come pensavo, non fece niente per rompere quel silenzio, rendendo la cucina del mio appartamento quasi opprimente, come se stesse cercando di farmi capire che dovevo andarmene subito da lì. Camminai verso il bagno, spogliandomi in modo meccanico e socchiudendo gli occhi per far scendere le lacrime nate quando il mio sguardo si era posato sui miei vestiti macchiati di sangue.
Aria e Dollar. Ancora una volta non riuscivo a non pensare a loro, ai loro corpi distesi lì, in mezzo all’asfalto e ricoperti di sangue. Non ero in grado di lavare via quell’immagine dalla mia mente, non come avevo fatto con il sangue rappreso sulle mie mani. Uscii dalla doccia arrotolandomi un grande asciugamano bianco e tamponando i capelli, legandoli subito dopo anche se erano umidi. Indossai un paio di pantaloni e una maglia che avevo appeso all’attaccapanni del bagno la mattina del giorno precedente, prima di uscire con Aria e Dollar, e, senza pensare alle lacrime che non accennavano a fermarsi, andai in camera, decisa. Sapevo quello che avrei fatto: per il bene di tutti e per non impazzire dovevo andarmene da lì. Magari sarei tornata in California; anzi… mi era sempre piaciuta la Florida, lì avrei potuto fare surf e il clima era simile a quello di Los Angeles. Sì. Sarei partita quel giorno stesso.
Quando tornai in cucina trovai Ryan seduto sulla stessa sedia, l’unica differenza era la sigaretta spenta, che si era aggiunta a tutti i filtri accumulati dentro al posacenere e sul pavimento. Non parlai, di nuovo; mi limitai solamente ad aprire le ante dei mobili della cucina per prendere le pentole e ammucchiarle sopra al tavolo. Le avrei inscatolate entro quel pomeriggio; sapevo che ci sarebbero stati problemi per il trasloco, ma potevo fare con calma, mi sarei fatta spedire dai ragazzi gli scatoloni un po’ alla volta, dopo aver trovato una sistemazione decente, lontana da gang e da morti.
«Cosa stai facendo?» sbottò Ryan. Alzai lo sguardo per guardarlo e notai che i suoi muscoli erano tesi, non sembrava rilassato e indifferente come qualche minuto prima. Ignorai quella strana sensazione e continuai ad appoggiare le pentole in modo ordinato, tenendo la mente concentrata per posizionarle una sopra l’altra, dalla più grande alla più piccola. Sentivo però lo sguardo di Ryan puntato su di me e sapevo che l’unico modo per far sì che la smettesse era rispondere.
«Le valigie. Me ne torno a casa, non posso più stare qui» mormorai, lasciando che una lacrima scendesse lungo la mia guancia per cadere poi sulla mia mano che stava sistemando i coperchi delle pentole. Ryan si irrigidì ancora di più, tanto che vidi le sue mani stringersi a pugno sulle sue ginocchia, come se volesse trattenere un attacco di rabbia. Non avevo però il coraggio di guardarlo in faccia di nuovo, timorosa di quello che avrei potuto vedere.
«Fai le valigie per andare dove? A casa? Scappi di nuovo esattamente come hai fatto quando sei arrivata? È questo che vuoi fare per tutta la tua vita, scappare alla prima difficoltà?». Disprezzo, amarezza, rabbia… non riuscivo nemmeno a capire quali fossero i sentimenti che provava Ryan, ma di certo si poteva notare l’odio che provava verso di me, perché gli avevo portato via Aria e Dollar, due delle persone probabilmente più importanti per lui e per tutti gli Eagles.
«Non si tratta di scappare alla prima difficoltà, non capisci? Ovunque vada le persone a cui voglio bene finiscono per ferirsi o farsi male e sono stanca». La mia voce era stridula ma non me ne curai; non mi interessava nemmeno delle lacrime che scendevano lungo le mie guance. Probabilmente sembravo una bambina, ma Ryan poteva pensare quello che voleva, non mi interessava. Sapevo che era colpa mia e me ne sarei andata per salvarli tutti, perché non dovevano morire per colpa mia.
«Non è colpa tua, andiamo. Se vuoi pensarla così… fai pure, va avanti, ma non è per colpa tua che sono morti Aria e Doll. La gente qui muore ogni giorno, molto più di quello che tu immagini». Le sue mani corsero sopra al tavolo per afferrare l’accendino e il pacchetto di sigarette; ne tirò fuori una, stringendola tra le labbra mentre la accendeva. Di nuovo, come già era capitato, la luce prodotta dalla fiamma illuminò il volto di Ryan, mostrandomi il suo zigomo con una piccola ferita. Assomigliava a una sbucciatura, come quando da bambina cadevo dalla tavola da surf, ferendomi le ginocchia sugli scogli.
«Mi sono ubriacata e siete venuti a sapere che John non ci pagava, se non l’avessi detto non sarebbe successo tutto questo casino». Continuavo a ripetere quelle frasi in modo meccanico camminando avanti e indietro per appoggiare le pentole sulla tavola. Non pensavo nemmeno a quello che dicevo; la verità era che durante la doccia avevo rimuginato su quella decisione e niente e nessuno mi avrebbe mai fatto cambiare idea, perché sapevo che era colpa mia. Me l’avevano ripetuto Ryan e Brandon e sapevo che se Aria fosse stata lì si sarebbe arrabbiata con me, perché secondo lei non era colpa mia. Aria… socchiusi gli occhi sentendo una nuova ondata di lacrime arrivare. Stavo piangendo, di nuovo. Avevo perso il conto delle volte in cui l’avevo fatto lì, a Hunts Point.
«Vuoi metterti in quella fottuta testa che non è colpa tua se la gente muore? Vai dove cazzo vuoi, ma non rifilare a nessuno la scusa che la gente muore per causa tua, perché non è vero». Ryan si alzò di colpo dalla sedia, facendola sbattere con lo schienale per terra a causa del contraccolpo. La sigaretta era caduta sul pavimento, ma non sembrava nemmeno accorgersene, troppo impegnato a stringere il bordo del tavolo con forza, come se volesse scaricare tutta la rabbia su quell’oggetto. Ero stanca; stanca di scappare per proteggere le persone e stanca di essere sempre la causa di tutto. Secondo Ryan potevo andare dove volevo, bene, l’avrei fatto!
«Vado dove voglio, hai ragione. Vado a casa, parto oggi pomeriggio» spiegai, tenendo lo sguardo abbassato perché non volevo più scontrarmi con i suoi occhi tristi e stanchi. Sapevo che soffriva; Ryan non aveva un cuore, ma soffriva anche lui per la perdita di Dollar e Aria, ne aveva dato prova quando – con le mani sul viso di Dollar – l’aveva scosso nonostante fosse già morto.
«Almeno saluta Doll e Aria, non credi di doverglielo?». Senso di colpa. Tipico di Aria; non era così che mi aveva obbligata a seguirla il giorno prima? Però, in quella frase di Ryan, c’era anche la sua ironia. Questo perché Ryan, nonostante tutto, soffriva. Forse anche lui aveva un cuore. Raccolse la sigaretta che gli era caduta e dopo averla spenta dentro al portacenere – facendo cadere altri filtri consumati sopra al tavolo –si avvicinò alla porta del mio appartamento, fermandosi con la mano sulla maniglia. «I funerali sono domani mattina. Fai quel cazzo che vuoi». Non si voltò per guardarmi, ma capii che aspettava una mia risposta quando, dopo qualche secondo di silenzio, la sua mano non girò il pomello per aprire la porta.

«Aspetterò domani allora; partirò dopo i funerali». Sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché Aria e Dollar mi erano stati vicino come solo Soph ed Edge avevano fatto. Era Dollar che mi aveva portata al sicuro, la sera del mio arrivo a Hunts Point, durante la rissa con i Misfitous; era Aria ad avermi accolta come se mi conoscesse da sempre, dopo che John mi aveva derubato. Aria e Dollar meritavano la mia presenza al loro funerale, perché erano mei amici e volevo bene a loro, anche a quel piccolo fagiolino dentro alla pancia di Aria, lo stesso che avevo scoperto per prima, grazie ai miei studi.
La mia risposta sembrò soddisfare Ryan, perché aprì la porta, uscendo dal mio appartamento e richiudendosela subito dopo alle spalle. Nessuna parola, nessun suono all’infuori del mio respiro che si faceva sempre più veloce, producendo un peso sul mio petto.
«Vaffanculo» urlai scagliando la pentola che avevo in mano contro la porta. Non ci arrivò, cadendo sul pavimento qualche metro più avanti e producendo un frastuono che non riuscì a superare il mio urlo. Caddi sulle ginocchia singhiozzando, lasciando finalmente che le lacrime che avevo – malamente – trattenuto per la presenza di Ryan scendessero, rigandomi le guance. Era un urlo contro Ryan, contro la vita che faceva e aveva costretto Dollar e Aria a fare. Era un urlo contro John e la sua stupidità, perché aveva ricevuto protezione da entrambe le gang, tradendo la loro fiducia. Era un urlo contro tutti e contro nessuno, contro me, che mi incolpavo per tutto e contro i miei genitori, che mi avevano abbandonata e si erano dimenticati di me, evitando perfino di farmi gli auguri per Natale. Piansi fino a sentire la gola bruciare, con i palmi delle mani appoggiati al pavimento perché non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi. Quando capii che non sarei riuscita a cambiare il corso della mia vita rimanendo lì per terra a piangere, mi sforzai di alzarmi per andare verso il divano, dove mi distesi, coprendomi con la coperta che – probabilmente – mi aveva sistemato Brandon la sera prima. Non appena chiusi gli occhi promisi a me stessa che non avrei più pianto per Aria e Dollar; promessa che infransi la mattina dopo, il giorno del loro funerale.
 
Quella mattina anche il cielo sembrava triste per Aria e Dollar. Hunts Point era sovrastato da nuvoloni neri che minacciavano pioggia; la stessa che probabilmente avrebbe fatto sciogliere un po’ della neve che ricopriva i marciapiedi e i bordi delle strade. Mi asciugai una lacrima che scendeva silenziosa lungo la mia guancia e sistemai il vestito che avevo appena indossato; lo stesso che Aria mi aveva costretto a comprare un paio di settimane prima. «Smettila di rompere Lexi, quel colore ti dona e sei ancora più gnocca perché contrasta con i tuoi capelli scuri». Così si era imposta senza che avessi possibilità di ribadire: mi aveva sfilato di dosso il vestito in mezzo al negozio, senza curarsi delle altre persone che avrebbero potuto vedermi in intimo. Durante quella giornata di shopping sfrenato Aria mi aveva costretta a comprare anche un paio di scarpe con il tacco perché «Sei alta come una persona normale con queste ai piedi e magari qualcuno ti noterà». Non aveva ceduto, spiegandomi chi mi doveva notare. Aria era una persona odiosa, quando si intestardiva per tenerti all’oscuro di qualcosa. Un sorriso amaro si posò sulle mie labbra, mentre indossavo quei tacchi altissimi con cui rischiavo di rompermi una caviglia. Glielo dovevo, mi sentivo obbligata a portarli, sicura che, per qualsiasi altra occasione Aria mi avrebbe costretta a indossarli. In equilibrio precario mi diressi fino al divano per prendere la borsa e, dopo aver indossato un giaccone pesante per ripararmi da quel freddo pungente; sospirai, appoggiando la mano sulla maniglia. Dovevo essere forte, non potevo dimostrarmi debole, non dovevo piangere.
Quando però aprii la porta e vidi tutti i ragazzi in silenzio sul pianerottolo, la promessa che avevo appena fatto a me stessa andò in frantumi; la vista mi si appannò e qualcosa di caldo scivolò giù, lungo le mie guance. Mi voltai, guardando la porta del mio appartamento e asciugandomi una lacrima cercando di non farmi notare dai ragazzi.
«Andiamo» ordinò Ryan. Nessuna ironia nella sua voce, non mi aveva nemmeno salutata. Non che mi aspettassi quel gesto da parte sua, visto il modo in cui se ne era andato dal mio appartamento la sera prima, dopo quello che era successo. Aspettai qualche secondo, sentendo i passi dei ragazzi che scendevano la scala e poi, dopo essermi asciugata di nuovo le lacrime ed essermi promessa che non avrei più pianto, li seguii, in silenzio.
Credevo che avremmo preso le moto o che saremmo andati a piedi, in fin dei conti il cimitero era a pochi isolati da Whittier Street, per questo quando vidi Ryan e i ragazzi uscire dal portone dello stabile per poi dirigersi nel retro mi fermai, confusa. Cosa c’era nel retro del 198 di Whittier Street? Perché non sapevo nemmeno che il mio palazzo avesse uno spazio abbastanza grande per ospitare… «Wow» sussurrai stupita, vedendo quelle tre auto parcheggiate in quello spiazzo di cemento chiaramente adibito a parcheggio. Erano tutte dei ragazzi? Come facevano a permettersi quelle auto lussuose? Le avevano rubate a qualcuno? C’erano troppe domande nella mia testa che non avrebbero avuto di certo una risposta, visto che Ryan salì sulla prima auto – al posto di guida –; Brandon fece lo stesso con la seconda e Sick li imitò, aprendo però lo sportello della terza macchina. I ragazzi si divisero: Paul e Josh salirono sui sedili posteriori della macchina guidata da Brandon, Ham e Swift invece in quella di Sick. Lebo mi guardò, accennando un sorriso e indicando, con un gesto del capo, la macchina che aveva Ryan alla guida. Non avevo nemmeno voglia di discutere così mi incamminai verso la berlina scusa, salendo sul sedile anteriore. Ryan mi guardò sorpreso, bofonchiando qualcosa prima di scuotere il capo, avviando il motore.
«Agganciati la cintura di sicurezza» proruppe immettendosi in strada, senza veramente controllare se ci fossero macchine che sopraggiungevano. Mi voltai a guardarlo stupita; mi stava ordinando di agganciare la cintura di sicurezza quando lui era il primo a non farlo? Stavo per ribattere che forse doveva indossarla prima lui, ma lo sguardo di Ryan – triste, furioso e malinconico – mi bloccò, impedendomi di ribattere. «Subito» continuò poi, senza smettere di guardarmi. Sapevo che non mi avrebbe dato pace fino a quando non l’avessi indossata, così, trattenendo a stento un sbuffo per l’irritazione, feci come mi aveva ordinato.
Ryan si fermò un isolato prima del cimitero, posteggiando l’auto di fianco alla strada; sentii i motori di altre due macchine spegnersi e istintivamente mi voltai, vedendo che, appena dietro all’auto di Ryan c’erano Brandon e Sick. Lo sportello di Ryan si aprì e, prima ancora di scendere dall’auto, si accese una sigaretta, richiudendosi la portiera alle spalle e appoggiandosi con la schiena alla macchina per fumare. In pochi istanti tutti i ragazzi si radunarono lasciandomi dentro all’auto da sola, oppressa da quel silenzio che non mi permetteva nemmeno di sentire le loro voci. Scesi, raggiungendoli ma rimanendo un po’ in disparte perché non volevo ascoltare che cosa avessero da dire; sapevo che Ryan mi teneva all’oscuro riguardo diversi aspetti degli Eagles e non volevo essere così presuntuosa da origliare i loro discorsi, non in quel momento.
Cominciai a guardarmi attorno, concentrandomi sul vialetto ricoperto di neve; il lungo viale alberato non era come l’avevo visto a luglio, con gli alberi che proteggevano dalla luce del sole, c’erano solo rami secchi, coperti di neve. Tutto era ricoperto di neve; tutto era bianco e grigio: il cielo, il paesaggio e anche le lapidi, che si confondevano e disperdevano in mezzo a tutto quel bianco. Poco distante da me c’erano due ragazze; vedevo i loro sguardi nascosti da un paio di occhiali da sole scuri, ma le riconobbi subito, nonostante le avessi viste solamente per qualche minuto, un mese prima: erano Irene e la sua amica. Irene, l’ex Signora di Brandon. Mi salutò con un gesto della mano e risposi con un timido sorriso, chiedendomi chi le avesse avvertite. Pensiero stupido, visto che la notizia della morte di Aria e Dollar si era sparsa in poco tempo, portando tristezza e sorpresa: più di qualche abitante di Hunts Point si era infatti chiesto come mai Ryan non avesse già attuato una vendetta, uccidendo tutti i Misfitous, visto che avevano a loro volta ammazzato una Signora, per di più incinta.
«Brandon» mormorò Irene, avvicinandosi a lui per attirare la sua attenzione. Vidi il corpo di Brandon tendersi appena, riconoscendo quella voce probabilmente per lui famigliare; socchiuse gli occhi prendendo un respiro profondo e si voltò verso di lei, con uno sguardo spento. «Mi dispiace così tanto» singhiozzò Irene, raggiungendolo in un paio di passi e abbracciandolo. Vidi il suo corpo scosso dai singhiozzi e una lacrima superò la barriera degli occhiali scuri, scendendo lungo la sua guancia.
«Ciao» bofonchiò Brandon, dandole un bacio tra i capelli e ispirando a occhi chiusi. Le braccia di Brandon circondarono il corpo di Irene, stringendola quasi in modo possessivo. Sentivo i suoi singhiozzi attutiti, visto che il suo volto era appoggiato al giaccone di Brandon, ma capii qualche parola di quello che stava dicendo a lui. «Non importa, sta tranquilla» rispose, accarezzandole di nuovo il capo, per tranquillizzarla. Irene cercò di parlare ancora una volta, stringendo le braccia attorno al corpo di Brandon che le appoggiò una mano sulla guancia, perché potesse guardarla negli occhi; l’altra mano si spostò sul suo viso, sollevandole gli occhiali da sole e mostrando i suoi grandi occhi azzurri velati dalle lacrime. «Irene, smettila. Non mi interessa». C’era l’ombra di un sorriso in quelle labbra circondate dal pizzetto, come se fosse felice.
«No, Brandon io…» cercò di nuovo di spiegare lei, levandosi una lacrima dalla guancia con un gesto secco della mano. Lui non le permise di concludere la frase, accarezzandole una guancia e baciandole la fronte, bofonchiando qualcosa che non riuscii a comprendere, se non qualche parola come «dopo» e «casa». Irene annuì, prendendo un respiro profondo per calmarsi un po’.
Ryan, proprio come gli altri ragazzi, era immobile a qualche passo di distanza da Brandon e Irene e non era intervenuto. Esattamente come era accaduto la notte in cui avevo incontrato Irene per la prima volta –andando a pattinare a Lower Plaza – nessuno dei ragazzi aveva interferito con la chiacchierata tra Brandon e Irene; erano attenti a tutto quello che accadeva, senza però intervenire o disturbare.
«Entriamo» ordinò Ryan, gettando la sigaretta per terra e spegnendola con la punta della scarpa. Senza aggiungere altro abbandonò il lungo viale alberato, valicando il cancello in ferro battuto ed entrando al Joseph Rodman Drake Park. Quel piccolo parco adibito a cimitero non era più grande di tre ettari; la parte che ospitava le lapidi poi era racchiusa da un recinto in ferro, come se quella cinquantina di lapidi fosse così protetta. Mi ero chiesta, la volta precedente – durante il funerale di JC – come mai solamente gli Hard-Cores degli Eagles fossero le uniche persone sepolte in quel piccolo cimitero in tempi recenti – visto che quasi tutte le lapide portavano date di due secoli prima –. Aria mi aveva spiegato che Ryan aveva adibito quel piccolo cimitero come “cappella degli Eagles” solamente perché Joseph Rodman Drake aveva scritto in The American flag.
Ryan camminò fino ad arrivare sotto a una grande quercia, isolata da tutte le altre tombe. Lì, ricoperte da due grandi cuscini di rose rosse, bianche e blu –  che probabilmente volevano rappresentare la Stars and Stripes – c’erano le bare di Aria e Dollar. Vedere i loro nomi incisi mi fece salire di nuovo le lacrime agli occhi, come se solo in quel momento riuscissi a capire che non li avrei più rivisti.
Aria Butler.
Jack “Dollar” Smith.
Quei due nomi continuavano ad attirare la mia attenzione, nonostante non volessi leggerli. Le date sotto poi, rendevano tutto ancora più macabro; non potevano essere così vicine. Sedici anni, come si poteva morire a sedici anni perché qualcuno ti sparava a sangue freddo? Quella persona non era nemmeno umana, non poteva avere sentimenti, aveva meno cuore di Ryan.
«Ehi» sbottò qualcuno, appoggiandomi una mano sulla spalla. Sussultai, alzando lo guardo dalle lapidi per capire chi fosse. Difficile dirlo, visto che non riuscivo a vederci con le lacrime che rendevano tutto confuso, ma sembrava Ryan. Mi strofinai le guance, trattenendo l’ennesimo singhiozzo e guardando Ryan ora davanti a me. Sembrava volesse dire qualcosa, ma ci rinunciò subito dopo. «Siediti» ordinò, indicando una sedia di fianco a lui. Era la sedia più vicina alla lapide di Aria, da lì potevo vedere il suo nome scalfito nella pietra; riuscivo anche a scorgere la lapide di Dollar e rimasi colpita da una differenza: sulla pietra grigia, sopra a Jack “Dollar” Smith c’era un’aquila. Sopra al nome di Aria invece vedevo un piccolo angelo, con il volto rivolto verso l’aquila. Strinsi convulsamente il fazzoletto tra le mani, torturandolo; quel metodo però non funzionò, visto che cominciai a piangere di nuovo. Dovevo andarmene da quel posto, il più presto possibile. Sarei partita subito dopo il funerale, avrei telefonato a Brandon e gli avrei chiesto di spedire le mie cose al mio nuovo indirizzo; di Brandon potevo fidarmi.
Alla mia sinistra prese posto Brandon, subito dopo di lui c’era Irene, ancora nascosta dagli occhiali scuri. Di fianco a Ryan, alla sua destra, si sedette Sick. Per la prima volta non c’era quel suo sguardo da maniaco, era semplicemente uno sguardo triste e spento, come quello di tutti i ragazzi. Paul, Josh, Ham e Swift presero posto nella fila di sedie dietro a noi. Riuscivo a udire un vociare crescere, come se lentamente arrivassero le persone, non ero però in grado di vederle, perché le lacrime offuscavano tutto. Sentivo Ryan e Sick bofonchiare qualcosa; sembravano discutere di una decisione presa, una decisione insindacabile.
«Michael?» domandò una voce femminile, non molto distante da me. Istintivamente mi voltai per capire a chi appartenesse, ma, nonostante avessi cercato di asciugare le lacrime, non riconoscevo quella ragazza con i capelli castani. Era alta e bella, con un fisico quasi da modella: non indossava gli occhiali da sole e si vedeva che aveva pianto: i suoi occhi marroni erano circondati da due grosse occhiaie scure, come se non dormisse da giorni.
«Oh cazzo» sbottò Sick, come se c’entrasse qualcosa con quella ragazza. Smise di parlare con Ryan, alzandosi lentamente in piedi e camminando fino a lei. Quando fu sufficientemente vicino si abbassò, guardandola come se fosse un’allucinazione. «Che cosa ci fai qui?». Non riuscivo a vedere lo sguardo di Sick, ma dalla voce si capiva quanto quella ragazza fosse in grado di incidere sul suo umore. Che fosse… che fosse Claire?
«Lo sai che volevo bene ad Aria e Dollar, non potevo mancare». Accennò a un sorriso stanco, torturandosi le mani e giocherellando con l’anello d’oro che aveva all’anulare sinistro. Quella ragazza era sposata, quindi doveva per forza essere Claire.

Sick si mosse irrequieto, facendo mezzo passo indietro per non essere troppo vicino a lei, come se la vicinanza gli costasse un certo sforzo. «Chi ti ha detto di Aria e Dollar?». C’era quasi rabbia nella voce di Sick, sembrava che vedere Claire non fosse una cosa piacevole per lui. Strano, visto che ogni volta che parlava di lei appariva innamorato.
«Ho i miei contatti». Una risposta fredda che si intonava all’espressione su quel viso stanco, incorniciato da lunghi capelli castani che ricadevano scomposti sulle spalle. Claire era davvero una bella ragazza e riuscivo a capire perché Sick fosse – nel suo modo distorto, certo – ancora innamorato di lei. Se poi sapeva tenergli testa, forse erano davvero fatti l’uno per l’altra.
«Quindi non sei venuta qui per rivedere me?». C’erano ironia, disprezzo e tristezza in quella frase. Si capiva che Sick soffriva ancora e forse per quello si comportava in modo così brusco con Claire. Non le lasciò nemmeno il tempo di rispondere, le diede le spalle, tornando a sedersi di fianco a Ryan. «Puoi anche tornartene da tuo marito» sbottò, prendendo una sigaretta dalla tasca del giaccone che indossava e accendendola dopo averla portata alle labbra.
«Michael, per favore» supplicò Claire, facendo un passo verso di lui. Non mi guardò, non guardava nemmeno i ragazzi; nessuno, solo Sick. Sick che continuava a comportarsi come un bambino, guardando dalla parte opposta del cimitero, come se, fuori da quella recinzione in ferro battuto, ci fosse qualcosa di interessante. «Michel, parliamo» insistette, appoggiando la mano sinistra su quella di Sick.
Il suo sguardo si abbassò, focalizzandosi sulle loro mani che si toccavano. «Va via. Siamo a un funerale e non ho voglia di parlare con te. Tornatene in Italia da tuo marito». A quella frase non riuscii a trattenere una risata che, unendosi a un singhiozzo, spaventò Ryan tanto che mi guardò, sorpreso.
Quella situazione era così surreale da ricordarmi, ancora una volta, perché volessi andarmene. Hunts Point non rispecchiava il mondo reale; Hunts Point era un quartiere isolato da tutto, dove era quasi normale ridere partecipando a un funerale e piangere scoprendo che una ragazza di sedici anni era incinta. Hunts Point mi sarebbe mancato, ma dovevo allontanarmi ed era solo questione di ore, ormai.
Qualche istante dopo comparve il pastore, riportandomi alla realtà e zittendo Claire che cercava di far ragionare Sick, costringendolo a parlare con lei. Ci rinunciò con un sospiro, andando a sedersi in fondo, nelle ultime sedie rimaste vuote.
Le parole del pastore sembravano infliggermi una coltellata ogni secondo che passava, come se tutto quello che diceva fosse riferito a quello che era successo lì a Hunts Point con Aria e Dollar. Il mio arrivo, Dollar che mi aveva portata al 3B, Aria e la sua accoglienza al Phoenix, il nostro diventare sempre più amiche, il vederla sorridere durante la sua festa di fidanzamento e le sue lacrime dopo quel test di gravidanza. Il suo indice puntato contro di me se voleva obbligarmi a fare qualcosa e la cicatrice di Dollar che si increspava ogni volta che regalava un sorriso a lei. Le mani di Dollar che proteggevano la pancia di Aria e quella nuova vita dentro di lei… senza nemmeno accorgermene cominciai a piangere di nuovo, isolandomi da tutti e non capendo che Sick si era alzato per camminare fino alle due bare. Si posizionò in mezzo, attirando la mia attenzione dopo che si era schiarito la voce.
«Io… mi hanno detto che dovevo fare il discorso, il problema è che non sono tanto bravo con le parole. Ci proverò lo stesso. Vorrei spendere prima cinque minuti di tempo per Aria, una ragazza fantastica che aveva due belle tette. L’ho sempre detto a Dollar che lo invidiavo per quello; insomma Aria fin da piccola si è dimostrata una ragazza che sapeva tenere testa a Dollar, era dell’idea che siccome aveva la patata sarebbe stata in grado di tenerlo in pugno, e aveva ragione», si interruppe, prendendo un respiro e sentii una risata di Ryan, di fianco a me. «Insomma, Aria era una ragazza speciale e tutti voi sapete che non mi sarei perso per niente al mondo la festa di Aria e Dollar, quella dove l’abbiamo ufficializzata a Signora». Un nuovo attimo di silenzio, interrotto dalle risate dei ragazzi che probabilmente ricordavano fin troppo bene Sick nudo, con lo stampo di una mano sul sedere. «Aria era figa dentro e fuori, e poi aspettava un bambino. Una bambina, per essere precisi; bambina che mi sarei trombato tra una quindicina d’anni, dopo essermi assicurato che avesse le  tette della madre. Però, ammettiamolo, Aria era figa e stupida. Perché non si può innamorarsi di Doll. Lui era un cretino», lo sguardo di Sick si spostò, per posarsi sulla bara davanti alla lapide con la foto di Dollar; poi continuò: «l’ha dimostrato dall’inizio, guadagnandosi quel soprannome che tutti conosciamo, e l’ha dimostrato anche senza aver fatto la prova dell’ascensore. Perché Doll aveva le palle, ha combattuto fino alla fine, come ha fatto Aria. Siamo tutti fieri di loro, siamo felici di aver donato quel flag a Dollar, perché l’ha portato con onore, non l’ha mai fatto cadere, non c’era polvere su quel pezzo di stoffa rossa insanguinata. Non c’è mai stata fino a quando il suo sangue ha ricoperto completamente anche quello di JC, una persona davvero importante per entrambi. Non voglio parlare di lui, ma so che da lassù Dollar si sta lamentando perché lo sto prendendo in giro. In verità non so che dire. Era un bravo ragazzo, trombava poco… no, non è vero. Trombava come un riccio e lo prendevamo sempre per il culo perché gli volevamo bene, quindi… continua a trombare amico». Lo sguardo di Sick si spostò verso l’alto mentre si portava un pugno al cuore, socchiudendo gli occhi. Stupido Sick che era riuscito a farmi piangere di nuovo, con un discorso tanto serio quanto idiota e volgare.
Speravo che quella tortura fosse finita, ma mi sbagliavo; Ryan si alzò camminando fino all’esatto punto in cui Sick aveva tenuto il discorso. Ne avrebbe fatto uno anche lui? Ryan, l’O.G. senza cuore degli Eagles, avrebbe fatto un discorso per salutare Aria e Dollar? Mi aspettavo di tutto, ero quasi pronta a sentirlo parlare di quanto Dollar non sapesse picchiare o sparare, sicura che sarebbe stato quasi un discorso senza sentimenti. Il gesto di Ryan però mi stupì, facendomi bloccare il respiro: estrasse dalla tasca dei suoi jeans scuri un flag rosso, sistemandone un altro che era quasi uscito, e, dopo averlo preso tra le mani, tirò in due direzioni diverse, rompendolo esattamente a metà. Doveva essere il flag di Dollar, vista la quantità di sangue che c’era sopra, per questo – e anche per l’importanza che sapevo loro davano a quel pezzo di stoffa – non riuscii a trattenere un singhiozzo più forte, mentre Ryan appoggiava un pezzo di flag sopra alla lapide di Dollar e un altro su quella di Aria. Fermò i due pezzi di stoffa con dei sassi, tornando poi a sedersi di fianco a me senza dire una parola. La visione dei due pezzi di stoffa rossi sopra alle due lapidi grigie in quel prato bianco era quasi fastidiosa, soprattutto perché il forte vento – che minacciava una pioggia sempre più imminente – continuava a farli sventolare.
Qualcosa di caldo si appoggiò sopra al mio ginocchio, stringendo appena la presa, ma non me ne curai, incapace di distogliere lo sguardo dalla foto di Aria, così sorridente e felice. Non ascoltai altro; il dolore era troppo e la funzione finì fortunatamente poco dopo, lasciandomi in uno stato quasi catatonico seduta su quella sedia, a pochi metri da quelli che erano stati forse i miei unici, veri amici lì. Vedevo le persone avvicinarsi alle due lapidi e appoggiarci le dita sopra, per salutare un’ultima volta quei due ragazzi, sentivo il vociare farsi sempre meno forte, come se le persone, a poco a poco, se ne stessero andando. C’era però il costante borbottio di Ryan che ringraziava tutti, sempre con lo stesso tono distaccato, come se non gli interessasse veramente e fosse lì solo perché costretto. Forse era davvero così, forse Ryan non avrebbe mai voluto partecipare a quel funerale. Mi asciugai una lacrima, decisa che non avrei più pianto. Dietro a una signora che non conoscevo, c’era Peter. Sembrava che tutti se ne fossero andati, dopo aver fatto le condoglianze a Ryan e che Peter e quella signora fossero gli ultimi rimasti.
«Ciao» mormorò Peter, cercando di sorridere verso di me. Risposi con un cenno del capo, sapendo che non sarei stata capace di parlare. «Vai pure a casa mamma, ti raggiungo tra poco» sussurrò alla signora, appoggiandole gentilmente una mano sulla schiena per allontanarla da Ryan che le stava chiedendo come si sentisse. La mamma di Peter? E perché Ryan la conosceva e sembrava così gentile con lei?
La signora salutò tutti, rivolgendomi un sorriso materno che mi scaldò il cuore e poi si allontanò.
«C’è qualche problema?» chiese Ryan, sospettoso. Sembrava che qualcosa nel comportamento di Peter l’avesse insospettito al punto che vidi i muscoli del suo corpo tendersi e i ragazzi avvicinarsi a lui. Erano in posizione di attacco e sarebbero scattati al primo segnale.
Peter scosse la testa, cercando di spiegare che non c’era nessun problema, poi, dopo aver preso un respiro profondo, cominciò a parlare: «Ieri ho ricevuto notizie da mio padre, non posso andare a vederlo perché è nel buco e quindi non riceve visite. Comunque ha trovato il modo di comunicare con un altro e il suo messaggio è chiaro: sistemerà tutti i Misfitous che ci sono al Vernon. Dice anche che gli dispiace per Dollar e Aria e che gli sarebbe piaciuto essere qui a sventolare il flag». Prigione, Misfitous, flag… ma chi era il padre di Peter e cosa c’entrava con gli Eagles?
«Sapevo che avremmo sempre potuto contare su Night. Ringrazialo, se riesci a farglielo sapere e ricordagli che c’è sempre il suo posto qui in mezzo a noi. E… io e i ragazzi abbiamo pensato a una cosa, per ringraziare anche te». L’ultima frase di Ryan mi stupì, tanto che mi alzai dalla sedia e mi avvicinai involontariamente di un passo, per capire se avevo sentito bene. Ryan aveva davvero ringraziato Peter? Lo stesso Peter che sembrava voler uccidere alcune volte? E che cosa aveva fatto Peter per meritarsi un regalo dagli Eagles? Di che regalo si trattava?
Vidi Peter dondolarsi da un piede all’altro, in evidente imbarazzo. Si portò una mano al mento, pensieroso; sembrava non sapesse che cosa dire. «Io… lo faccio volentieri» spiegò, tenendo lo sguardo basso, come se si vergognasse.
Ryan non era d’accordo; sbuffò, prendendo una sigaretta dalla tasca posteriore dei jeans e, dopo aver guardato Brandon e Sick – come se volesse cercare un loro muto consenso – disse: «il Phoenix ha bisogno di un nuovo capo, qualcuno che sia alleato con noi, abbiamo bisogno di sapere con sicurezza che il Phoenix sarà sotto la nostra protezione, con uno di noi. Se ti fa piacere potresti diventare il nuovo proprietario». Avevo capito bene? Ryan aveva appena chiesto a Peter di diventare il nuovo padrone del Phoenix, solo ed esclusivamente se fosse stato sotto la loro giurisdizione? «Diciamo che è un ringraziamento per te e per Night» concluse poi, lasciandomi ancora più sorpresa.
«Non so cosa dire, io… grazie». Un sorriso – il suo sorriso – fece capolino sul volto di Peter e mi ritrovai a sorridere con lui, per quel riso così contagioso che mi spaventava ma riusciva anche a ricordarmi che qualcuno, lì a Hunts Point, era una persona che non uccideva o vendeva droga per vivere. Il Phoenix con Peter come proprietario sarebbe stato un po’ come il vecchio locale che conoscevo, solo senza Aria e John. Un po’ meno luminoso, senza l’allegria di Aria e la sua voce che salutava ogni cliente che usciva, ma con il sorriso di Peter ad accogliere ogni persona. Peter, commosso e felice, salutò i ragazzi e se ne andò, rivolgendomi solo il suo sorriso. Non me l’ero sentita di dirgli che sarei partita in un paio d’ore, preferivo sparire, senza scenate che mi avrebbero solamente rattristata di più.
«Andiamo a casa» ordinò Ryan, guardando ancora una volta il cumulo di terra smossa davanti alle due lapidi grigie. Istintivamente feci lo stesso, salutando Aria e Dollar e ringraziandoli per tutti i bei momenti passati assieme. Mi sarebbero mancati, ma non mi sarei mai scordata di loro, sarebbe stato impossibile farlo.
Salimmo in macchina in silenzio, tanto che quando sentii il rumore di qualcosa che cominciava a picchiettare sul tettuccio dell’auto mi stupii di sentirlo così forte: stava piovendo. Non era una pioggerellina fine, assomigliava piuttosto a uno di quei temporali estivi che ti coglievano all’improvviso, durante una passeggiata sulla spiaggia. Mi voltai a guardare Ryan che stava guidando e rimasi sorpresa di vedere sul suo viso una scia che scendeva dal suo occhi destro: Ryan stava piangendo. La luce del giorno rifletteva le gocce di pioggia del parabrezza sul suo volto, come se fosse ancora più rigato dalle lacrime; non me la sentivo nemmeno di parlare. Vedere Ryan così vulnerabile faceva quasi male, tanto che mi voltai, guardando fuori dal finestrino fino a quando non ci fermammo sul parcheggio dietro allo stabile di Whittier Street. Scesi dall’auto sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto i ragazzi, così aspettai che anche Brandon e Sick – con Lebo, Paul, Josh, Ham e Swift – ci raggiungessero e feci un respiro profondo, pronta per parlare.
«Io finisco di preparare le valige e me ne vado. Volevo solo salutarvi». Terminai la frase con un nodo in gola e la voce che tremava per le lacrime che volevano uscire di nuovo. Piangevo interrottamente da due giorni e sembrava che quella crisi non dovesse avere mai fine; lo sembrò ancora meno quando Brandon si avvicinò a me, abbracciandomi. «Grazie, di tutto» mormorai contro il suo petto, sicura che mi avrebbe sentita. La presa delle sue braccia attorno al mio corpo si strinse appena, come se volesse rispondere alla mia frase. Gli altri ragazzi mi salutarono senza avvicinarsi o abbracciarmi; nemmeno Sick, che si allontanò dopo un ghigno, rispondendo al suo telefono che squillava. Brandon, dopo aver sciolto il nostro abbraccio si avvicinò a Irene, in piedi dietro a lui; era salita in macchina con lui e non aveva mai parlato in mia presenza, sembrava però che avessero più di qualche questione in sospeso; speravo solo che tutto si risolvesse per il meglio, perché Brandon meritava quello.
Ryan non mi salutò; fece semplicemente un gesto che in quei sei mesi gli avevo visto fare anche troppo spesso: prese una sigaretta dalla tasca dei jeans, cominciando a fumarla subito dopo. Forse era meglio così, nessun saluto con Ryan, perché non c’era niente da dire, non dopo quello che ci eravamo detti la mattina prima.
Salii le scale per arrivare al terzo piano lentamente, ascoltando il rumore dei miei tacchi sul marmo consumato e guardando quelle vecchie pareti con l’intonaco grigio scrostato. Forse mi sarebbe mancata Whittier Street, mi sarebbe mancato il 3C ma soprattutto il 3B pensai, chiudendo la prima valigia e aprendo il cassetto della biancheria – l’ultimo – per sistemare il contenuto nella seconda. Sì, sarebbe stato stupido mentire, mi sarebbero mancati, ma era meglio così per loro, perché volevo bene a quei pazzi scatenati – un po’ volevo bene anche a Ryan, o forse, semplicemente, lo odiavo meno – e non avrei mai voluto che qualcun altro di loro morisse. Se fossero morti senza che la notizia mi giungesse forse sarebbe stato addirittura meglio.
Sentii qualcuno bussare insistentemente alla mia porta, con urgenza. «Lexi, apri la porta». Un urlo, la voce di Brandon. Lasciai la canottierina che avevo in mano sopra al materasso e corsi verso la porta, sbattendoci contro e indietreggiando di un passo per aprirla.
«Cosa succede?» domandai a Brandon, vedendo il suo sguardo sconvolto e i suoi capelli bagnati dalla pioggia. Era spaventato e aveva il fiato corto per la corsa che probabilmente aveva fatto per raggiungermi. Prima ancora che pronunciasse le parole il mio respiro si fermò, in attesa di capire che cosa fosse successo.
«Ryan sta andando dai Misfitous, da solo. Vuole ucciderli tutti».

 
 
 
 
Per prima cosa vorrei scusarmi per l’immenso ritardo di questo capitolo che arriva a quasi un mese dall’altro. Mi scuso infinitamente, ma in questo periodo non c’era proprio la voglia di scrivere per diversi motivi annoianti che non starò qui a dire, perché non voglio stancarvi.
Tornando al capitolo… non ho poi molto da dire. Tanti ritorni che ho sempre voluto inserire (ammetto che vorrei scrivere una OS Sick/Claire perché hanno tanto da dire. Ci sarebbe anche qualcosina Brandon/Irene, ma forse più avanti, visto che dalla fine del capitolo si intuisce che Irene al momento non è la priorità di Brandon).
Ah sì, il Joseph Rodman Drake Park è un piccolo cimitero a Hunts Point. Ha una cinquantina di lapidi e come ho scritto sono tutte vecchie, nel senso che l’ultima persona seppellita lì deve essere più o meno morta nel 1850. Mi sono presa la licenza di dire che gli Eagles usano quel cimitero come cappella perché è vero che J.R. Drake ha scritto “The American Flag”. Comunque il lungo viale con gli alberi (come avevo descritto durante il funerale di JC senza saperlo) e il cancello esistono davvero, e il cimitero è a un paio di isolati da Whittier Street.
È anche stato svelato il mistero di Peter, finalmente si scopre il suo legame con gli Eagles e perché sappia così tante cose su di loro. Ci sono ancora un paio di misteri su di lui, ma non credo svelerò altro, o magari più avanti, devo ancora capire cosa sarà utile e cosa no.
Comunque, quando Peter parla di suo padre Night, dicendo che è nel buco, significa che è in isolamento, quindi non ha tutti i privilegi degli altri carcerati (mi sembra non sia possibile nemmeno l’ora d’aria fuori dalla cella, forse una doccia al giorno, ma non ci metterei la mano sul fuoco); insomma, un gergo dei carcerati per dire che si è in una cella di isolamento.
Per quanto riguarda una mia possibile pausa per l’estate… io sinceramente non ne ho bisogno, non aggiornerò ogni settimana, però non mi va di fermarmi un mese o più, ecco. Scriverò e non appena avrò un capitolo pronto lo pubblico, anche perché il capitolo 18 per me è davvero importantissimo e forse, assieme al 16, è il capitolo centrale di tutta la storia.
All’inizio, nella lunga lista dei video, si è aggiunto: Goodbye Dollar. Un video che è nato come una scommessa da parte di The carnival che mi ha detto «siccome tu mi hai fatta piangere con il capitolo io farò lo stesso con un video». Inutile dire che ci è riuscita alla grande.
Come sempre –anzi, stavolta più di sempre –ringrazio tutte le meravigliose recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo e tutte voi che aggiungete la storia ai preferiti, seguiti e da ricordare e anche chi ha il coraggio di mettermi tra gli autori preferiti.
Ricordo per chi volesse il gruppo spoiler: Nerds’ corner.
A presto.
Rob.
   
 
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