Addio,
mia piccola gabbianella...
Avevamo incontrato un umano talmente speciale da riuscire a capirci; se
tutti gli umani fossero come lui, se tutti gli umani fossero poeti, forse il
mondo sarebbe un posto migliore. In quel momento però poco importava: il destino
si stava per compiere, il momento tanto atteso era purtroppo giunto. Il
campanile di San Michele era sempre più vicino, ed era quella la nostra meta:
il poeta entrò da una porta laterale e iniziammo a salire. Fortunata era tesa,
lo si vedeva chiaramente dalle sue piume immobili e dai suoi occhietti acquosi
e spalancati dalla paura. Arrivammo velocemente in cima: dall’alto del
campanile ci era possibile vedere tutta la città bagnata dalla pioggia che
continuava a cadere. «Ho paura, mamma!» esclamò Fortunata e io mi chiesi
se quella sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe chiamato ‘mamma’. La guardai con un sorriso
incoraggiante e saltai sulla balaustra: dovevo convincerla che doveva tentare e
doveva riuscirci, perché lei era una gabbiana e quello ero il suo destino.
Avrei voluto dirle un sacco di cose per incoraggiarla, ma non mi usciva
nulla: la verità era che non volevo che volasse via, volevo che continuasse a
vivere con me e con gli altri gatti, sarebbe stato così semplice. Lasciarla
andare via significava non vederla più crescere: non vedere più il suo sorriso
dolce, non vederla diventare madre un giorno... Quanto sei egoista, Zorba... pensai tra
me e me. Ero io la sua guida, se non ne ero convinto io, come poteva esserne
convinta lei?
Se
ami veramente qualcuno, lascialo libero.
Ecco come avrebbe
risposto il poeta. Sì, ma quanto era difficile... sarebbe stato più facile
rimangiarsi la parola data a sua madre, ma come potevo? Sua ‘madre’ ero ormai anche
io, e nel mio cuore sapevo qual’era la cosa giusta da fare. Mi sfregai il muso con una
zampa in maniera naturale, per cercare di ricacciare indietro le lacrime: non
dovevo farmi vedere piangere da lei.
«Ora
volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. E’ acqua. Nella tua vita avrai
molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si
chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una
ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.»
Fortunata
spiegò le ali. «La pioggia. L’acqua. Mi piace!» esclamò avvicinandosi alla balaustra. Ti prego, non saltare... pensai
disperatamente, ma continuai ad ignorare i miei pensieri e a fare ciò che era
giusto.
«Ora volerai. » miagolai convinto.
«Ti voglio bene.
Sei un gatto molto buono.» disse Fortunata, ed io mi sentii un buco nello stomaco: la mia piccola
era diventata grande, dovevo lasciarla andare, dovevo farlo...
«Ora volerai. Il
cielo sarà tutto tuo. »
la
incoraggiai trattenendo le lacrime.
«Non ti
dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti. »
stridette lei ancora in bilico sulla balaustra. Io, toccandola appena,
la spronai a fare il grande passo. Lei si lasciò andare
e si buttò.
Per un
attimo mi mancò il respiro e mi dimenticai di nascondere le lacrime: la mia
piccola era caduta come un sasso verso terra ed io mi sporsi per vedere se ce l’aveva fatta
o meno: non mi sarei mai perdonato se Fortunata fosse morta…
poi la vidi: era stupenda con le ali spiegate che battevano su e giù, volava veramente alzandosi
nel cielo ancora più in alto del campanile. Come potevo fare a non piangere?!
La mia gabbanella ce l’aveva fatta: aveva imparato a volare!
«Volo, Zorba! So
volare! » strillava
euforica continuando a volteggiare nel cielo scuro, allegra e stupenda come non
mai.
Il poeta
mi accarezzò il dorso e io iniziai a tremare: volevo solo scoppiare a piangere
in quel momento, e l’umano sembrava volermi dire di lasciarmi andare.
«Sull’orlo del baratro
ha capito la cosa più importante. » miagolai piano.
«Ah sì? E cosa ha
capito? » chiese il
poeta.
«Che vola solo chi osa farlo. » risposi. Il poeta mi lasciò da solo a contemplare la figura di Fortunata che si allontanava sempre di più nel cielo scuro. Sapevo che non sarebbe tornata indietro: i saluti non sarebbero mai stati abbastanza.
La
mia piccola, la mia dolce Fortunata. Ormai se la sarebbe cavata senza
di me. Ma io? Me la sarei cavata senza di lei? In quel momento mi
vennero in mente dei versi di una poesia che si riferiva ai gabbiani;
risi da solo e tentai di asciugarmi le lacrime con la zampa, pensando a
quanto quella poesia in quel momento fosse perfetta pure per me che ero
solo un gatto.
Ma il loro piccolo cuore
lo stesso degli equilibristi
–
per nulla sospira tanto
come per quella pioggia
sciocca
che quasi sempre porta il
vento
che quasi sempre porta il
sole
- I Gabbiani di Bernardo
Atxaga -