Una piccola capsula confezionata in
pochi giorni per quanti mi hanno chiesto di continuare a scrivere. Buona
lettura e grazie per il vostro sostegno!
“Convivendo in... capsule”
Episodio V
Se fosse stata una spiga di grano le sue gambe sarebbero stati esili fuscelli sferzati dal vento, e le pietruzze, che la costringevano a serrare le palpebre e a schermarle con una mano, granelli di mais induriti dal sole.
L’altra mano che stringeva la gonna non bastava a domarne le pieghe svolazzanti, ma in quello stato di forza maggiore l’interesse primario di Bulma Brief non era quello di preservare il colore delle sue mutande, ma riuscire a rientrare in casa incolume nel tragitto che la separava dai laboratori posti nel retro del giardino, un tratto breve fatto di ciottoli e di erbetta, ma quella mattina divenuto insidioso come una steppa nel mezzo delle montagne, dove vorticavano a raffica foglie, rami spezzati, terriccio, petali di fiori, e in più, a dimostrazione di trovarsi ancora in città, scatole, cartacce varie e perfino la ruota di una bicicletta che scansò abbassandosi in tempo, sotto un cielo degradato ad uno strano e sinistro colore giallognolo.
Il vento fece appiccicare una ciocca di capelli sulle labbra lucide di rosso ed una carta oleata di pizza, sollevata in volo insieme agli altri rifiuti contenuti nel cassonetto fuori la strada, finì diritto sulla sua faccia come un pugno sul naso ed ella dovette scuotere il capo ripetutamente ed imprecare qualcosa di molto sconveniente per liberarsene.
Quando riuscì a chiudere la porta spingendo con tutte le sue forze, il vento urlò nell’ultimo spiraglio come un branco di cani affamati a cui era stato tolto il guinzaglio.
Tirò un respirò di sollievo, diede una scrollata
alla gonna, ricompose la chioma passando le dita prima da un lato poi
dall’altro e realizzò che Trunks era rimasto seduto sul tappeto a giocare con i
suoi dinosauri di gomma, ignaro del pericolo incombente, perché all’età di
quasi quattro anni è più importante concentrarsi sulle proprie fantasie e decidere
se l’esito di uno scontro immaginario deve volgere in favore del tirannosauro o
gratificare una volta tanto la famigliola dei quattro branchiosauri e
concludere che anche l’unione può fare la forza e tutti alla fine possono
vivere felici e contenti.
Il bambino non badò all’ingresso della madre,
sull’orlo del divano continuò a far rincorrere i mansueti erbivori da quello
più grande e minaccioso, mimando con la voce la loro corsa forsennata ed i
ruggiti tremendi del persecutore, che grazie ad un gioco di squadra, finì oltre
i cuscini in un dirupo della sua fantasia con la testa staccata.
Bulma afferrò il telecomando e si sintonizzò sulla
prima rete nazionale per avere conferme ulteriori sulla notizia che aveva
appreso via radio mentre era nei laboratori.
Il mezzo busto incravattato ed incipriato alla
meglio pochi istanti prima della diretta straordinaria annunciava il terribile
tornado che si sarebbe abbattuto a nord-ovest della regione 446.
Assorta nell’apprendere ciò che il cielo della città
già presagiva nel suo assurdo colore giallastro, sussultò quando alle spalle
sentì stappare una lattina di limonata.
Vegeta poggiò indolente una spalla contro il muro e
dopo alcuni sorsi, che servivano a dissetare l’arsura della gola nella prima
pausa degli allenamenti mattutini, prestò attenzione al televisore soltanto per
trovarvi dentro una spiegazione al pallore della donna e alla voracità con cui
si spuntava le unghie e con piccoli sbuffi le disseminava intorno ai suoi
piedi.
“Di cosa ti preoccupi?” minimizzò con la solita
arroganza che ostentava innanzi ad ogni nemico “ha detto che la Città
dell’Ovest verrà soltanto sfiorata”.
Pronunciare quelle parole più per scherno che per
consolazione non servirono a ridurre il cipiglio di ansia sotto la frangetta
scompigliata e Bulma si strinse nelle spalle significativamente e commentò con
la gravità di donna di scienza qual era:
“Il tempo sta cambiando, non si sono mai visti
simili fenomeni nelle nostre regioni”.
Per un istante elucubrò che avrebbe dovuto inventare
qualche dispositivo per prevedere e prevenire tali cataclismi, ma rammentando
di aver lasciato nei laboratori oltre che un lavoro in sospeso anche suo padre,
si mosse all’improvviso in direzione del telefono per raccomandargli di non
muoversi da lì e di attivare i generatori di corrente alternativa per
continuare ad alimentare i motori su cui stava lavorando e salvaguardare la
realizzazione del progetto nel caso in cui la corrente fosse mancata.
Le rispose invece la madre che piagnucolò di non
aver potuto fare niente per salvare le rose e le sue piante, che il giardino
era distrutto e che aveva trovato rifugio nei laboratori perché erano più
vicini alla serra.
“Migliaia di persone stanno decidendo come mettersi
in salvo la pelle e lei pensa alle sue piante!” agganciò Bulma il telefono.
Nel voltarsi, vide che Vegeta scrutava l’esterno da
dietro l’ampia vetrata, sorseggiando la sua bibita con calma, incurante degli
alberi sradicati nel giardino, dei lampioni che oscillavano pericolosamente,
dell’ululato del vento che ghermiva sull’asfalto desolato come gli artigli di
un falco, sollevava e disperdeva tegole come avessero avuto la stessa
consistenza della polvere.
I negozi che affacciavano su quella strada avevano
abbassato le serrande, le loro insegne producevano soltanto un monotono cigolio
di metallo, una nenia dolorosa che si sovrapponeva al sibilo del vento, lo
rincorreva, lo smorzava, e qualche volta ne restava tramortito.
Allo scurirsi ulteriore del cielo, Bulma accese la
luce con un anticipo di quasi otto ore e Vegeta vide restituirsi dalla vetrata
il cruccio inalterato della sua ampia fronte.
Alle sue spalle, il mezzobusto in televisione
continuava ad illustrare con angoscia crescente le immagini di una popolazione
in esodo, dell’esercito che marciava in loro soccorso, dei saccheggi già
perpetrati, di bambini urlanti e smarriti, di case derelitte prossime ad essere
scoperchiate.
Non avrebbero avuto il tempo di allontanarsi dalla
zona a rischio giacché il tifone andava loro incontro senza deviazione alcuna.
Vegeta schiacciò la lattina, la cestinò a volo e
ritornò sui suoi passi, ma fu bloccato dalla voce di Bulma che gli chiese dove
stesse andando:
“Continuo ad allenarmi, ovviamente” calcò l’ultima
parola, come se la sua domanda e le ciglia stranite non avessero ragione di
essere.
“Ti pare il momento questo di andare a menare
all’aria pugni e calci?” l’espressione strabuzzata degenerò in un piglio più
acceso in meno che non si dica.
“Cioè…?” ora aveva lui quello sguardo smarrito, ma
volutamente provocatorio perché già sapeva con quali argomentazioni ella
avrebbe proseguito.
“Hai visto che cosa sta succedendo fuori, hai
prestato un po’ della tua preziosa attenzione al televisore?”
“E con questo?” recuperò il suo sogghigno “hai forse
paura che il tetto ci crolli addosso?”
“Non ho paura che il tetto ci crolli addosso, ho
paura e basta, non mi sento tranquilla!” ammise a testa alta “è troppo
pretendere che tu stia qui insieme a noi?”.
Il televisore tacque d’improvviso e dopo qualche
istante scattò la luce a neon di emergenza.
Trunks, che intanto aveva fatto risuscitare il suo
tirannosauro, il quale, recuperata la testa staccata e sollevatosi dal dirupo
in cui era caduto, aveva gettato scompiglio tra i branchiosauri che si erano
defilati dietro i cuscini, si guardò intorno interrogativo come se solo in
quell’istante realizzasse di trovarsi nel salotto di casa sua.
“Hai visto?” batté la punta del piede a terra e
rovesciò una mano sul fianco esultante “senza corrente la camera gravitazionale
non può funzionare!”
Ricevette in risposta un mugugno a denti stretti ed
uno scatto di mento nella direzione opposta, ad osservare il cielo che adesso
aveva assunto le gradazioni più scure del grigio.
Nessuno dei tre disse nulla, anche Trunks rinunciò alla caccia dei poveri branchiosauri, e per alcuni minuti si sentì solo il cigolio dell’insegna di un negozio farsi sempre più insistente e poi ad un tratto, come se qualcosa lo avesse fermato, sovvenire il silenzio più lugubre.
Fu in quell’attimo il cui il tempo sembrò annullarsi
che Vegeta vide qualcosa di indefinito dirigersi velocemente verso la finestra:
“Sta giù!” urlò a squarciagola alla donna che era
voltata di spalle, gettandosi contro di lei mentre la grande insegna di “Intimo
e collant” riduceva in pezzi la finestra, si abbatteva sul tavolo,
rovesciava le sedie, restava in bilico su di un fianco e poi cadeva a terra con
un tonfo pesante e sonoro che continuò a ripetersi fino a quando non si
stabilizzò del tutto.
Vegeta alitò contro il suo collo, la sentì muoversi
piano sotto di lui, i suoi seni sollevarsi con affanno sotto la camicetta
strappata, alzò la testa, incrociò i suoi occhi sconvolti ed increduli e per un
istante si fissarono come si vedessero per la prima volta.
“Gra… grazie…” farfugliò la donna.
Non ci fu il tempo di pensare che Vegeta le aveva
salvato la vita, che si era gettato su di lei per proteggerla come avrebbe
dovuto fare quel giorno nel deserto contro l’insidia del dott. Gero, né per
l’altro di meditare che il suo gesto era stato qualcosa in più dell’istinto e
che nel suo cuore sentiva un calore più forte dell’orgoglio per il quale non
avrebbe dovuto compierlo, perché una raffica di vento irruppe nella stanza,
strappò quello che restava delle tende, rovesciò i suppellettili di una
mensola, sbatacchiò tappeti e mise le ali a fogli di giornale:
“Mamma!” il pianto di Trunks si inserì in quel
fragore come una sirena di emergenza.
Bulma, ancora a terra, si aggrappò alle spalle del
saiyan, e in quel gesto disperato con cui lo scosse, Vegeta capì di dover
assicurare protezione alla sua famiglia, mettere a riparo la sua casa, essere
una volta tanto un uomo qualunque e non il principe dei saiyan, e questo oblio
effimero quanto un’impronta sulla riva del mare fu un’altra incrinatura nella
sua coscienza di saiyan che volutamente non avrebbe rappezzato.
Con una leggerezza tale da farle liquefare le
viscere, sollevò la donna, se la mise sotto un braccio come fosse stata una
borsa da passeggio, corse verso il bambino, lo afferrò per le bretelle alla
pari di un bambolotto ed andò a metterli al sicuro nel corridoio.
Bulma cascò seduta all’indietro:
“Dove stai andando?”
“Andate nella stanza gravitazionale, lì sarete al
sicuro, io cerco di trovare un modo per serrare quella dannata finestra!”.
Anche Bulma, piena di fiducia e di speranza, sulle
tracce di quello stesso oblio, commise l’errore di appellarsi alla sua umanità
quando gli chiese di fermarsi e di ascoltarla.
Vegeta non capì cosa ci fosse da dire più importante
di trovare un rimedio per arginare il subbuglio portato dal vento, né il perché
dei suoi occhi improvvisamente supplichevoli e così illuminati da costringerlo
a fermarsi e a prestarle ascolto senza replicare che quello non era il momento:
“Tu potresti salvare migliaia di innocenti da morte
sicura, non ti costerebbe niente, aiutali, ti basterebbe l’imposizione di un
dito per disperdere la forza di un uragano!”.
Un’altra ruga si contrasse sulla sua fronte, più
scavata di tutte le altre:
“Cosa ti passa per la testa? Pensi che io sia
Kakaroth? Io non sono l’eroe di questo pianeta”
“Ma so che se ora sono in piedi è perché mi hai
salvato tu!”
“Non è la stessa cosa!” la sopraffece.
Avrebbe forse dovuto dirle che solo lei e quel
marmocchio contavano nella sua vita?
Che il resto del mondo poteva anche crepare, a lui
non sarebbe importato nulla?
No, Vegeta scelse di aggiungere altro:
“Chiama i tuoi amici”
“Non ci sarebbe tempo, tu sei quello più vicino, e
poi scommetto che se alzassi la cornetta del telefono, troverei le linee anche
interrotte!”
All’apparire improvviso della luce, il saiyan si
guardò intorno, poi si mosse alla volta del salone da cui non si sentiva più
alcun tumulto, seguito a ruota dalla donna che tirò per mano un Trunks più
maldisposto.
“Se si fosse trattato di un nemico venuto dalla
spazio” seguitò Bulma “saresti corso di tua iniziativa senza fartelo ripetere
due volte!”
“Quanta ovvietà! Se il tuo uragano avesse avuto
carne ed ossa avrei trovato pane per i miei denti!”.
Il salotto che si profilò davanti a loro aveva al
centro la vecchia insegna fracassata di “Intimo e collant”, fogli di
giornale e cocci di ceramica ovunque sparpagliati.
In compenso, la tendina squarciata al centro si
agitava più placidamente.
“Il vento si è fermato” commentò Trunks che lasciò
la mano della madre per mettersi alla ricerca dei suoi dinosauri smarriti nei
pressi del divano.
Il mezzobusto in televisione ricomparso insieme alla
luce annunciò gravemente che dalla regione 446 non pervenivano più immagini.
C’era stato un tempo in cui Bulma aveva avuto a
cuore soltanto la propria incolumità, dove in nome della sua bellezza e
gioventù avrebbe sacrificato l’interesse di molti altri, ma quella parte
superficiale della sua vita era stata spazzata dalla venuta di un figlio e da
una relazione fatta di tormento, dedizione e pazienza.
Bulma era cresciuta in ogni senso e quel giorno
avrebbe voluto che il suo uomo alzasse un dito anche per salvare quella gente.
A mente fredda di certo si sarebbe compiaciuta della
forza e della responsabilità di quelle braccia da cui era stata travolta,
sollevata e portata al sicuro insieme a suo figlio, avrebbe meditato sui
cambiamenti di Vegeta, sui sentimenti che non era in grado più di nascondere, a
sua volta lo avrebbe amato più di quanto già facesse, ma per il momento aveva
in corpo rabbia e dolore:
“Sei contento ora?” si ricacciò le lacrime dentro
senza voltarsi a guardarlo, stringendo le nocche della mani “non hai colpa per
quello che è successo, non sei tu a gestire le forze della natura, ma avresti
potuto fare qualcosa per salvare il destino di quegli innocenti e non l’hai
fatto. Che cosa ti costava? Ti meriti di averli tutti sulla coscienza!”
“Ne ho già parecchi, un migliaio in più un migliaio
in meno non fa alcuna differenza” ed ignorando volutamente il subbuglio della
stanza, ritornò ad allenarsi come se niente fosse stato.
FINE
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commento anche a questa storia.