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Autore: Aurelia major    10/03/2007    4 recensioni
Cosa succede quando una persona amabile e amichevole ne incontra una scontrosa e sarcastica ? Guai probabilmente , anche perché c'è chi vuole assolutamente fare amicizia e chi cerca d'impedirglielo a tutti i costi ...
Genere: Romantico, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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19

 

 

 

Era mezzogiorno passato quando Haruka si decise ad alzarsi dal letto. A passi da zombie si diresse nel bagno e quel che vide nello specchio la convinse che aveva bisogno di restaurare tutta la facciata prima di rimettere piede in mezzo alla gente. In effetti aveva un paio di occhiaie belle livide, dalle quali gli occhi le sporgevano come quelli di un calamaro.

“Conciata così al massimo posso cospargermi di succo di limone e fare il pezzo più saporito della frittura di paranza!”  Considerò prima di dare un’occhiata al resto,é a quanto pareva la notte insonne aveva prodotto altri effetti collaterali. E restando nella metafora mangereccia si poteva affermare senza fallo che i suoi capelli,  che dalla testa le partivano sparati in tutte le direzioni, molto ricordavano il ciuffo dell’ananas. Il colorito  poi più che eburneo richiamava piuttosto molto da vicino quello del tofu appena condensato.

“Adesso prima mi faccio una bella doccia fredda, seguita da un ricco caffè, magari via endovena, dopodiché una visita dal barbiere e il gran finale  con l’acquisto di un abito da sera consono. Speriamo solo che non mi tirino fuori uno di quei completi che si vedono sulle bamboline che mettono sopra le torte nuziali.”

Sperò inarcando dubbiosa un sopracciglio. Non amava molto il classico e aveva sempre sospettato che tra l’eleganza ed il pacchiano ci fosse un filo molto esiguo. Ergo non avrebbe voluto trovarsi dalla parte di quest’ultimo. Comunque non c’era che dire, nonostante tutto si era svegliata di buonumore e questo non fece che migliorare quando le telefonò Hitomi comunicandole l’esito del suo invio floreale.

“E’ andata Haruka, Shanaya Yamamay graziosamente accetta il tuo invito. Nel biglietto le ho scritto che la raggiungerai a bordo alle otto, ce la fai ad essere lì verso le sette?”

“Alle sette? Scusa e che ci devo fare lì un’ora prima del previsto?” Chiese mentre tentava di domare a colpi di spazzola le ciocche sovversive, al momento sembrava ci fosse in atto un golpe tra il ciuffo e il resto dei capelli.

“Stamani ho ordinato per te presso la maison di Armani vestiario ed accessori, li troverai ad aspettarti in cabina poiché ne ho prenotata una a tuo nome. Ti cambierai una volta là, tanto non mi sarei aspettata comunque che da casa tua al porto saresti arrivata impeccabile, giacché presumo ci andrai in moto.”

“Non avendo altro mezzo di locomozione... ad ogni modo, prima che facessi tutto tu, avevo pensato di prendere un taxi. Però riflettendoci la tua soluzione mi pare più appropriata. Grazie Hitomi, se l’unica stella del mio cielo!”

 “Adesso non metterti a fare la ruffiana, se l’ho fatto è solo per salvaguardare anche il mio culo! Ché  conoscendoti saresti stata capace di presentarti ad una serata simile con un paio di jeans strappati e una giacca di pelle! E non è della figuraccia che avresti fatto che mi preoccupavo, piuttosto della reazione della signorina Yamamay. Ricordati chi è e vedi di non fare passi falsi.”

“Sai cosa Hitomi? Ci avevi mai riflettuto che il nostro capo ha lo stesso cognome di una famosa catena di negozi che vendono intimo? Secondo te sarebbe appropriato se mi rivolgessi alla mia ospite chiamandola Signorina Mutanda? In fondo l’assonanza c’è.”

“Non t’azzardare!”

“Su, non farti venire la tachicardia, scherzavo. Ma ora dimmi, a quale banchina devo dirigermi e soprattutto, come riconosco  Perizoma-san?”

“Haruka! Piantala, che se ti scappa un lapsus simile davanti a lei potremmo finire a spasso tutte e due.”

“Probabilmente a vendere mutande, sarebbe un contrappasso ideale.”

Haruka ridacchiò al sibilo inorridito di Hitomi, avrebbe dovuto piantarla sul serio, quest’ultima aveva ragione ad avvertirla, se una perla del genere le fosse uscita innanzi a quella ragazza, molto probabilmente avrebbe chiuso anzitempo la propria carriera. Pure non riusciva a smetterla di fare la spiritosa, era incredibile quanto fosse allegra, sembrava che finalmente si fosse tolta un peso e le pareva di fluttuare stamattina.

“Ha detto che ti verrà incontro, quindi non c’è problema. Lei conosce perfettamente la tua faccia,  quel che mi preoccupa è che vorrebbe aggiornarsi anche sul resto.”

“Non ti angustiare vecchia mia, dimentichi forse il  sesto senso, modello  virgin allarm, che ho sviluppato in Spagna? Come la pollastra s’attizza, me la squaglio. Ti assicuro che al primo cambiamento di temperatura della concupiscente, sarò già lontana. Non voglio mica rischiare altri palpeggi in fuori gioco. Mi rendo conto però che il tuo pessimismo è giustificato, del resto la notte del 24 qualsiasi ragazza sana di mente vorrebbe da me un bel pacco regalo!”

“Haruka trattieni la tua naturale cretineria e per un attimo rifletti. Il problema sta proprio qui, se quella s’accorge che sei tutta dinamite e niente miccia, il che sta a significare che una volta scartato il tuo involucro non troverà una mazza, saranno guai. Fa la brava, altrimenti potrai dire addio ai tuoi sogni di gloria. Per cui vedi di fare la galante, ma mantieniti a distanza di sicurezza e soprattutto fai quel che devi fare in fretta e poi vattene subito, perché per te quella barca è più pericolosa del Titanic!”

“Okay, vorrà dire che, onde evitare qualsisi rischio iceberg,  mi farò servire persino i drink senza ghiaccio. A scopo cautelativo!”

“Oggi sei troppo gioconda per i miei gusti, posso solo sperare che la prospettiva di finire in mezzo ad una strada sia un deterrente efficace per te.”

“Più efficace di quella possibile cozza? Credi a me Hitomi, andrà tutto bene. Mi recherò al party, incontrerò chi devo e poi riaccompagnerò quel mitilo alla scogliera dalla quale proviene. Facile no?”

“Come dici tu.” Assentì docile la donna mentre tra sé e sé rideva maliziosamente. Haruka non aveva proprio idea di quel al quale stava andando incontro. Quasi certamente l’indomani si sarebbe mangiata le mani, altroché! Shanaya era un tocco di ragazza e chissà se le sue ammonizioni avrebbero retto innanzi a tanta avvenenza. “Allora ti saluto, divertiti stasera e mi raccomando, occhio a quel che fai.”

“Tranquilla è tutto sotto controllo.” La rassicurò, dopodiché infilò il soprabito e  si accinse a recarsi dal coiffeur per darsi una sistemata. Era così ottimista che mentre l’ascensore la portava al pianoterra si mise addirittura a canticchiare a tema.

Bravo, bravissimo, bravoooo! Là, là, là, làààààààà! Tutte mi cercano! Tutte mi vogliono! Sono il factotum della città ah ... Sono il factotum della città, de la città... della città ... lààààààààà!!!

Eseguì il finale mentre le porte si aprivano e , davanti al portiere di turno che la guardava allibito, fece un mezzo inchino insolente. Dopodiché ridendo euforica uscì all’aria aperta, nonostante il cielo plumbeo sentiva che quella sarebbe stata una fantastica giornata!

 

 

Dall’altra parte della metropoli, precisamente in una villa a strapiombo sul mare, all’interno del proprio budoir, un’altra ragazza pensava alla festa che s’approssimava e il suo umore era tutt’altro che radioso. 

Michiru si scrutò nello specchio e sospirò triste. Non che fosse particolarmente infelice quel giorno, benché in un occasione simile fosse costretta a trascorrere una notte magica come quella della vigilia in mezzo a degli estranei. Piuttosto, se quell’ingaggio non le fosse parso doveroso e la sua coscienza non l’avesse spinta ad accettarlo, avrebbe preferito essere da sola giacché Sachiko latitava nel cuore dell’Europa e lei non aveva nessuna intenzione di trascorrere le feste con suo padre e la sua concubina. Pure avrebbe suonato, quantunque si chiedesse dove avrebbe trovato l’ispirazione e lo stimolo per farlo.

E sospirando nuovamente si voltò, avendo notato nello specchio l’ingresso del nuovo residente a casa Kaiou.

“Ligea vieni qui.” La chiamò chiedendosi se stavolta, dopo due giorni d’inviti di quel tipo, questa le avrebbe fatto la grazia di acconsentire ad una sua richiesta. E ancora una volta fece un buco nell’acqua, Ligea come sempre l’ignorò, proseguendo come se non avesse affatto parlato e a passi felpati si diresse verso il suo letto dove s’accomodò senza tanti complimenti. Poi, quasi volesse altresì irriderla, voltò il capo verso di lei e fissandola imperscrutabile le sbadigliò in faccia.

Quella gatta, rifletté ancora una volta, le ricordava molto qualcuno e non solo per le medesime iridi verdi o per il suo manto chiaro. E così come per l’altra, anche l’arrivo della felina era stato imprevedibile, essendo questa la conseguenza dell’inusuale strenna natalizia di suo padre, benché quest’anno non si sarebbe aspettata di averne. Eppure l’altro giorno si era presentato a lei con intenti riconciliatori, porgendole un cestino dal quale proveniva un gran baccano. E quando successivamente l’uomo aveva afferrato che sua figlia non era intenzionata ad intendere ragioni, non senza strepitare, s’era rassegnato. Ma lui se n’era andato e la micia era rimasta.

Era una semplice gattina di pochi mesi, pure la convivenza si era rivelata difficile sin dal primo momento, poiché Ligea non aveva nessuna intenzione di venire a patti con lei, esattamente come colei la quale spesso veniva equiparata. E a rimarcare ancora di più quell’assonanza c’era il fatto che ormai era diventata la gatta la padrona della situazione. Due giorni soltanto, ma erano stati sufficienti a Michiru per comprendere che non aveva alcun trasporto nei suoi riguardi e che faceva quel che le pareva, nonostante la cosa non andasse a genio a lei, che sarebbe dovuta essere quella che comandava. Piuttosto sembrava addirittura che lo facesse apposta per irritarla. Non le riconosceva nessuna autorità, combinava ogni sorta di sgarbi e se faceva tanto di accarezzarla, qualora avesse la residua illusione che con un po’ di dolcezza l’avrebbe resa meno riluttante, per tutta risposta l’amabile animaletto le si rivoltava contro infuriata sfoderando le unghie.

Più che il nome della sirena mitologica, pensò amara, avrebbe dovuto darle quello di Haruka. Giacché, proprio come quest’ultima si comportava. E se suo padre gliel’aveva regalata attendendosi che le facesse compagnia, aveva fatto fiasco su tutta la linea. Ligea non le si metteva neppure in grembo, figuriamoci venirle incontro o far le fusa per lei. In compenso un paio di volte l’aveva gratificata con una sorta di vicinanza magnanima che però si era limitata allo starsene sulla poltrona di fronte alla sua.  Sì, il nome Haruka le sarebbe stato a pennello, decisamente.

Adesso dormiva e come al solito si era acciambellata sul suo letto, dove non avrebbe dovuto essere.

Michiru abbozzò un sorriso triste e lasciò perdere la gatta per concentrarsi cu altre incombenze. Svagata prese ad osservare le varie mise che la cameriera aveva tirato fuori dall’armadio e collocato lì intorno perché scegliesse cosa indossare per l’evento serale. Depressa fissò le varie combinazioni di colori e modelli senza che queste risvegliassero in lei la minima reazione, come se fossero anonimi abiti e non le costose vesti di sartoria che erano. Normalmente le piaceva mettersi in ghingheri e presentarsi adeguatamente al suo pubblico. Se non fosse stata così inane avrebbe speso ore a provare e riprovare  le varie toilette  finché non fosse stata soddisfatta del risultato. Oggi, come ieri, come il giorno prima ancora e quell’altro che l’aveva preceduto, tutto le sembrava opaco, senza vita.

Abito lungo? Decolleté quadrato? Capelli legati o sciolti? Quanta futilità. Ché per quel che concerneva la vivacità rasente il suolo che l’animava, avrebbe potuto tranquillamente infilarsi dentro un sacco di patate e non avrebbe fatto differenza. E proprio qui stava la questione, ultimamente pareva che niente fosse in grado di scuoterla dall’apatia che la stava sommergendo. Dopo inutili tentativi di creazione aveva riposto momentaneamente i pennelli nella loro scatola e davvero non sapeva dove e quando li avrebbe riesumati. Quanto al violino, non eseguiva da tempo immemore melodie allegre. Appena prendeva l’archetto in mano ne scaturivano inevitabilmente suoni melanconici che diventavano progressivamente interminabili nenie colme di sconforto. Motivi che eseguiva a scopo evocativo, poiché credeva, fortemente voleva credere, che quelle note potessero superare la distanza e richiamare a sé la persona cui le dedicava. Ma fino a quel momento aveva fallito e l’unica attività che sembrava darle sollievo era quella di passare ore ed ore a nuotare in piscina.

Perciò trascorreva le sue interminabili giornate a galleggiare sull’acqua di quello spazio coperto e circondato da vetrate che le consentivano la vista del panorama marino. Se fosse stato meno freddo avrebbe cercato l’abbraccio del mare, ma proprio perché la glacialità delle onde le avrebbe ricordato la medesima di colei la quale era causa di quell’umore tetro, preferiva restare nel grembo caldo della grande vasca.

Purtroppo oggi non aveva affatto tempo da spendere in quel metaforico ventre materno  poiché, nonostante sarebbe stata una delle ultime ad esibirsi, segno di quanto fosse tenuta da conto dall’organizzazione, avrebbe comunque dovuto essere tra le prime a salire sull’imbarcazione. Una volta a bordo si sarebbe truccata, avrebbe indossato la sua coda di pavone e avrebbe fatto la ruota che implicitamente esigevano da lei durante il party antecedente al concerto. Certo gli chaperon non le sarebbero mancati, né sarebbe stata incapace di sostenere le conversazioni brillanti che in genere aveva in queste occasioni, solo si sentiva cadere le braccia.  Ma doveva farlo, se non altro perché le donazioni sarebbero state fatte tramite una sorta di asta benefica. Ogni artista avrebbe ceduto la propria esibizione al miglior offerente e se davvero voleva aiutare coloro che abbisognavano di generosità, doveva essere briosa, effervescente, persino davanti a quegli individui tronfi. Dopo sarebbe pure potuta ripiombare nei suoi stati torpidi, ma stasera doveva dare l’impressione di non essersi mai divertita tanto prima d’allora.

E a questo scopo una buona volta, finalmente decise quale vestito indossare, indicandolo con un gesto alla domestica che subito lo ripose nella sua scatola per non farlo gualcire. Dopodiché aggiunse le scarpe e i monili con i quali si sarebbe adornata. E qui ci fu un momento d’interdizione da parte sua giacché per quella sera non avrebbe potuto portare la collana che ultimamente aveva sempre al collo. Era un ciondolo che nel suo interno cavo ospitava quell’unico capello biondo che era segno tangibile del passaggio di Haruka nella sua vita. Era diventato una specie di talismano per lei e separarsene, seppur per una sera, le appariva come se le avesse voltato le spalle.

“E proprio la notte di Natale.” Pensò rattristata. Perché non riusciva a darsi pace? Forse se avessero avuto un epilogo, persino se fosse stata una conclusione negativa, avrebbe potuto lasciarsela alle spalle. Ma così no.

Soprattutto dopo quell’incubo che aveva avuto notti prima. Aveva sognato infatti che Haruka se n’era andata perché ,vittima di un male incurabile, preferiva attendere la fine lontano dalle occhiate compassionevoli degli altri. Il che, considerato quanto potessero essere labili le visioni oniriche, era perfettamente in linea col personaggio. Ma la coerenza del suo inconscio non le aveva impedito di svegliarsi con un grido strozzato e di tirarsi  le ginocchia al petto. Abbracciandole senza riuscire a trattenere le lacrime, dolorosamente si chiese se davvero, nel caso in cui fosse stato questo il motivo scatenante, avrebbe preferito sapere o no. La sua ignoranza in tal senso era protettiva, finché restava nel territorio dell’incerto infatti  tali terrificanti pensieri non avevano conferma. Il che non era affatto darsi una risposta. Ad ogni buon conto, da quel momento in poi, aveva avuto cura di includerla sempre nelle sue preghiere e sperava ardentemente, insieme al suo ritorno, che stesse bene. Nient’altro, né gloria, né amore o il minimo accenno a  sé.

Per cui proprio non riusciva a disgiungersi da quel pendente, quindi si risolse a tenerlo al collo fin quando avrebbe potuto, dopodiché se lo sarebbe legato al polso, continuando a sentirne il contatto sulla pelle. Haruka doveva essere con lei quella sera, nonostante tutto.

Fece cenno che portassero da basso quegli scatoloni e si preparò ad uscire, non prima però di fare l’ennesimo tentativo.

“Io vado Ligea.” Annunciò alla gatta, la quale si limitò a muovere impercettibilmente l’orecchio e socchiudere un occhio, come a voler dire che ne prendeva atto, ma che non gliene poteva fregare di meno. Michiru, nonostante tutto riuscì a sorriderne, era innegabile, un pezzetto dell’essenza di Haruka sicuramente era  trasmigrato in quell’animale!

La lasciò sul letto, sperando che non le riducesse a brandelli le lenzuola con le unghie e da ultimo prese la custodia che conteneva il violino. Era ancora indecisa sul brano da suonare quella sera. Debussy? Chopin? O Vivaldi? Le sembravano tutti troppo smaccatamente leggeri per il peso che portava dentro. La delicatezza di quegli autori poco si adattava alla forza con la quale avrebbe voluto tenere avvinto il ricordo. Incerta salì sull’auto che l’attendeva e mentre si dirigeva verso il porto si rilassò sui comodi sedili chiudendo gli occhi. A questo punto una folla d’immagini le invase la testa. Haruka assisa sulla bike che stillava sudore intanto che le sue gambe instancabili parevano non avvertire la fatica; Haruka che pensava a chissà cosa mentre un ghigno divertito le stirava i lineamenti ; Haruka incurante del professore e della lezione che stava tenendo alle prese con gli sguardi che tentavano d’intercettare il suo; Haruka che correva nel parco saettando accanto a quante passeggiavano, senza fermarsi mai con nessuna; Haruka che con parole sprezzanti fustigava l’ambiente che la circondava; Haruka che senza una parola si disperdeva nel nulla, senza voltarsi indietro.

E questo era una parte che aveva vissuto di lei, poi vennero le rappresentazioni di quanto poteva solo immaginare.

La vide bambina insieme a sua madre in una stanza spoglia, ma al contempo caotica, dove ovunque stazionavano orpelli che testimoniavano la natura errabonda delle due. Fregatene, le pareva d’udire che le ingiungesse la donna, è quel che sei la cosa che davvero conta, il resto è superfluo. 

Poi la immaginò abbandonata in un angolo di una casa borghese, volontariamente lontana dalla sua famiglia adottiva. Si figurò il volto infantile ma già fermo, più che determinato a mantenere le distanze da quella gente che non sentiva comune a lei. Delineò quegli occhi verdi, più grandi allora di quelli che aveva conosciuti, assottigliarsi e diventare via, via sempre più duri mentre passava da un posto all’altro, da una famiglia all’altra. La vide infine quasi simile all’attuale, monolitica e definitivamente introversa, nell’atto di fare la conoscenza dei gioviali e provvidenziali Meiou. Ma a quel punto le ferite non potevano più rimarginarsi, ormai erano diventate cicatrici e se le sarebbe portate per sempre addosso.

Michiru riaprì gli occhi, la consapevolezza era calata su di lei, adesso sapeva cosa avrebbe suonato. Invero, quale brano più de Il volo del calabrone avrebbe potuto rappresentare l’eterno errare, la forza instancabile, le tremende giravolte che Haruka aveva compiuto da un continente all’altro? Nessuno altro probabilmente, quindi la decisione era presa. Avrebbe vibrato sulle corde del violino quel pezzo infernale, difficilissimo, ma di ode a quella che nelle difficoltà era arrivata fino a lei. Sarebbe stata la sua serenata, il suo personale omaggio a quella creatura, perché non si sentisse sola, ovunque fosse, in quella notte d’immensa lontananza.

E sulla passerella che dalla terraferma la portava alla nave Michiru fu stimolata dal vigoroso grecale che proveniva dal mare, soffiava imperioso e pareva essere scaturito dal nulla. Alzava le onde creando una leggera spuma e allo stesso tempo giocò a lungo con i suoi capelli e con le falde del cappotto. Era gelato, ma nonostante ciò, quando se ne sentì avvolgere, per la prima volta dopo tempo sentì rinascere la speranza. 

Il vento è tornato e  il mare sta cambiando.  Pensò portando la mano al seno e stringendo istintivamente il medaglione. Si era al crepuscolo e il sole luccicò con un debole barbaglio bucando momentaneamente la cappa di nubi. Michiru si portò all’interno, era stata solo un’illusione? Chissà, intanto avrebbe partecipato a questa stupida festa e forse non sarebbe cambiato nulla, eppure si sentì invasa da un irragionevole senso d’aspettativa.

 

 

Haruka controllò l’ora e silenziosamente tentò di soffocare un’imprecazione. Accidenti a lei e a i suoi impulsi irragionevoli! Se quando aveva finito di farsi tagliare i capelli fosse filata dritta a mangiar qualcosa e poi al parcheggio dove aveva lasciato la moto, non avrebbe perso tutto quel tempo. A quest’ora avrebbe dovuto già trovarsi all’imbarcadero, invece eccola impelagata nell’ennesima situazione della quale poteva dar la colpa solo a sé stessa. Magari avrebbe dovuto aspettare prima di buttarsi a corpo morto in quel negozio, però davanti a quella vetrina proprio non aveva saputo resistere.  Un paio di Manolo Blahnik erano il sogno di ogni femmina vittima della moda e quelle, doveva ammettere, sebbene non fossero affatto nel suo stile, erano un gran bel paio di scarpe. Tacco alto, fibbie che s’intrecciavano alla caviglia, d’un color argento appariscente ma non volgare. In breve sarebbero state divinamente ai piedi di Michiru e, pensò con un ghigno astuto, presentarsi a mani vuote nella notte principe dei doni, poteva essere una gran brutta figura. Non che pensasse di potersela ingraziare in quel modo, ma si dava in caso che non appena aveva immaginato la violinista con quei sandali addosso, non era riuscita a reprimersi. Al che  era cominciata la bagarre, in breve si era trovata in balia di tre commesse un po’ sgualdrine che , oltre a lanciarle ognuna a suo modo un segnale invitante, l’avevano bersagliata con una serie di domande alle quali non sapeva dare risposta. Che misura aveva Michiru? Eh, vallo a sapere, ecco un’altro quesito che avrebbe dovuto aggiungere al lungo elenco che stava formulando. Per cui tentò di cavarsela descrivendo alle tre l’altezza e la corporatura della ragazza. Si dava il caso però che questi dati non fossero necessariamente indicativi, spesso, le fece notare una del trio con modi inequivocabili, ad un’altezza media poteva corrispondere un piede piccolo o una fetta spropositata. Sicuro di non sapere che numero avesse la propria fidanzata?

E vallo a spiegare a quella che non si trattava di questo. Inoltre si stava impicciando o l’aveva detto così, tanto per dire? Difficile dirlo, ma intanto che decideva di prenderle lo stesso, optando per una grandezza media, veniva succintamente informata che qualora avesse dovuto cambiarle,  per lei, per lui,  non avrebbero fatto nessuna difficoltà.

Ma certamente e magari se vengo da sola è meglio ancora eh?!

Pensò Haruka ironica, ma anche abbastanza onesta da riconoscere che quelle lusinghe la compiacevano come non mai. Grosso errore, il suo narcisismo le aveva fatto perdere un mucchio di tempo, ché se non fosse rimasta lì a flirtare sarebbe stata un pelo meno in ritardo. Ma tant’è, cominciò a correre come una forsennata in direzione del parcheggio.

Filò a tutta birra per le strade cittadine pregando ardentemente di non incappare in pattuglie dei vigili urbani o in rilevatori elettronici di velocità e ad ogni semaforo scalpitava nervosamente. Quando finalmente arrivò sulla strada costiera si rilassò un pochino, poteva farcela, la nave con le sue luci scintillanti appariva in lontananza. Ancora qualche chilometro e sarebbe entrata in porto, una bazzecola per la cilindrata che stava cavalcando. Ma proprio mentre formulava tale pensiero e dava ulteriore gas, superando di nuovo e abbondantemente il limite di velocità imposto, la sua buona stella decise di allontanarsi per un break. Mancava pochissimo all’imbocco della zona portuale quando con orrore sentì le sirene che si avvicinavano, seguite dall’apparire delle temute luci lampeggianti negli specchietti retrovisori. E non poté far altro che fermarsi. E, intanto che due poliziotti le verbalizzavano l’infrazione, condita da un rimprovero piuttosto severo, e le appioppavano una multa salata, tanto che gli zeri del totale si perdevano in una fila interminabile, la iattura  raggiunse il suo clamoroso zenit. Il che voleva dire che si vide sequestrare con un fermo amministrativo la sua adorata moto. E le toccava pure attendere l’arrivo del carro-attrezzi che se la sarebbe portata via. Furibonda si sedette in compagnia dei militi sulla balaustra del litorale e da lì poté assistere indisturbata allo spettacolo della partenza della nave.

“Bingo!”  Esclamò mollando un pugno vigoroso al parapetto. E ora che avrebbe fatto? Di rinunciare ed andarsene non se ne parlava proprio. Si guardò intorno in cerca di una soluzione, ci sarebbe stato qualcuno disposto ad affittarle una moto d’acqua, un motoscafo, una maledetta zattera! Macché, il posto era deserto, neanche una schifosissima barca di pescatori puzzolente di pesce che potesse darle un passaggio!

Arrivò il convoglio e, accompagnato dalla scorta dei poliziotti, tristemente si portò via l’unico mezzo di locomozione del quale disponeva... e se pure non l’avesse fatto? Mica poteva legarci dei galleggianti e sperare di raggiungere la nave con quella!?

Pensa Haruka, cazzo, pensa!

S’ingiunse saltando giù dal muretto e cominciando a camminare frettolosamente verso destinazione ignota.

Un momento! Si disse bloccandosi di colpo. Si era ricordata di quel che aveva visto al margine della strada quando aveva imboccato per il lungomare. Decine di negozi che vendevano attrezzature marittime, li aveva notati con la coda dell’occhio. Si ricordava perfettamente delle colorate boe di segnalazione e delle mute da sub che avevano in esposizione. E che vorresti fare? Comprarti una muta? Haruka ricordati che non sai nuotare accidenti a te!

Nuotare no. Si disse condiscendente. Ma col windsurf sono una stramaledetta fuoriclasse! Esclamò mentre il vento che veniva dal mare con un alito più forte le scompigliava i capelli. Fortuna che l’abito di gala l’aspettava in cabina e che quel mattino aveva indossato un paio di scarpe da ginnastica. Afferrò saldamente i manici della borsa che conteneva il dono dal quale erano partite tutte le sue sfighe e prese a correre nella direzione dalla quale era venuta, mettendoci uno slancio che nelle gare che aveva sostenuto in precedenza non aveva impiegato mai. A lunghe e potenti falcate si diresse verso la meta ultima, fregandosene altamente del giubbotto che aveva abbandonato per strada a causa dell’impaccio e del calore che le procurava. Così fu che il negoziante che stava a momenti per chiudere, tanto quello già era un periodo di vacche magre, figurarsi se per Natale venivano a fare acquisti da lui, si vide piombare in negozio una furia bionda dal volto congestionato e dal fiato rotto. Ché Haruka aveva corso senza risparmiarsi e senza lesinare quanto a velocità per più di cinque chilometri.

“Voglio una tavola e una vela da windsurf!” Ringhiò piegandosi e poggiando le mani sulle ginocchia. Era sfinita e aveva una moquette in bocca, tanta era la sete.

“ P- prego?” Chiese l’uomo impaurito, convinto com’era di trovarsi innanzi ad un rapinatore che ancora doveva tirar fuori la pistola.

“Una vela ed una tavola, subito. Come cazzo sono, non ha importanza la marca o il modello, me le dia immediatamente!” Sbraitò senza ancora riuscire a rialzarsi.

“Ma, non saprei...” Tergiversò questo indeciso o meno se chiamare la polizia, al che Haruka si eresse in tutta la sua temibile altezza e fulminandolo con lo sguardo, tirò fuori il portamonete dalla tasca. 

“Glieli pago oro!” Assicurò sbattendo pesantemente la carta di credito, pericolosissimo veicolo di spese nelle sue mani bucate, tant’è che se n’era sempre giudiziosamente negata l’uso fino ad oggi, sul bancone innanzi a lei. ”Mi dia anche una muta, non importa quale e se ce l’ha solo rosa confetto! E già che c’è, anche dell’acqua, me lo quoti pure al costo dello champagne!”

A questo punto l’uomo capì l’antifona e cominciò a radunare quanto gli era stato chiesto mentre Haruka ingollava l’acqua come se fosse appena stata salvata dall’arsura del deserto del Gobi. Pagò senza fiatare l’ammontare esorbitante del complessivo, quel tizio si era rivalso su di lei di tutte le mancate vendite dalla fine dell’estate in poi, e telefonò alla capitaneria di porto. Chiese di essere messa in contatto con la plancia dell’Albatros, meno male che si era ricordata il nome col quale avevano battezzato quella bagnarola dei mari, e una volta in comunicazione con uno degli ufficiali, tanto fece e tanto disse che riuscì a persuaderli a prenderla a bordo in quel modo anomalo. Si trattava solo di portarsi in prossimità della barca, un gioco da ragazzi! Ma il vento, quel vento che da sempre sentiva come fido alleato, non l’avrebbe tradita. Non stavolta almeno.

Dopodiché si fece dare anche uno zainetto, che pagò contanti, ove riporre il vestiario che ancora aveva addosso e la  scatola con le scarpe per Michiru. Indi si recò nel retrobottega a cambiarsi. Rabbrividendo di freddo, che quel maledetto le aveva dato una muta che le lasciava le braccia e metà delle gambe scoperte, si fece aiutare a portare la tavola e la  vela sulla spiaggia  vicina. Così , salutata dagli incoraggiamenti che l’uomo grato, adesso sì che era anche per lui Natale, le rivolgeva, mise in mare il windsurf e s’accinse a quell’impresa disperata.

“Ce la puoi fare. Ce la farai cazzo!” Mugugnò tirando su l’albero  dall’acqua ed afferrando il boma cominciò a caracollare in attesa di prendere un po’ di vento che le consentisse l’avanzata iniziale. E quando infine sentì le spinte dell’aria farsi più consistenti, si spostò sulla tavola inclinandosi in modo opportuno e iniziò a fendere le onde.  Si era fatto buio ormai, ma non se ne diede pensiero, orientandosi con le luci di poppa della grande nave che era in lontananza alla sua destra. Il vento non la stava deludendo, continuava a soffiare esuberante e la spingeva sempre più veloce verso il  traguardo finale.  Sorrise raggiante muovendosi sulla tavola in modo da sfruttare ancor di più quel grecale provvidenziale e il suo sorriso divenne un ghigno compiaciuto quando s’accorse che stava attirando un bel po’ d’attenzione. Infatti pareva proprio che gran parte dei  passeggeri si fosse riversata sulla murata della nave per assistere alla sua singolare impresa. E quando arrivò in prossimità del boccaporto che avrebbe dovuto accoglierla nelle viscere del vascello,  grida d’incitamento e applausi festosi accolsero il suo approdo.

Eccomi Michi, sto arrivando. Mormorò saltando in acqua ed afferrandosi alle mani protese dei marinai. Riuscirono persino a recuperare il suo windsurf arpionandolo e accostandolo sul fianco della nave. Ci avrebbero pensato i membri dell’equipaggio  a tirarlo in secca, Haruka ebbe cura di prelevare solo lo zaino che si era irrimediabilmente infradiciato.

Con espressione di scusa pregò l’ufficiale che l’accolse di perdonarla per il suo arrivo quanto mai balzano e, buttandosi sulle spalle la coperta che questi le porgeva, lo seguì nei meandri della nave. Quando arrivarono al ponte da dove si dipartivano i corridoi che portavano alle cabine una piccola folla plaudente l’attendeva e Haruka, con la faccia di bronzo che la contraddistingueva, levò in alto le mani unendole nel gesto del vincitore.  Gli astanti risero deliziati e intanto che sorrideva soddisfatta, Haruka con lo sguardo frugava tra la miriade di volti in cerca di uno solo. Purtroppo non lo trovò.

Cercò di consolarsi, tentando di domare la delusione, dicendosi che Michiru non era proprio il tipo che si sarebbe scapicollata per assistere a quella bagarre. Frattanto una figura ignota emerse dal gruppo avanzando ancheggiante verso di lei. Una gran bella figura, doveva ammettere. L’esaminò partendo dai piedi. Slanciata, fisico da mannequin, belle tette. Poi passò alla faccia, e neppure lì nulla da eccepire. Una cascata di capelli ondulati del colore del miele le ricadeva sulle spalle scoperte. Una chioma selvaggia, strinata da ciocche più chiare, che incorniciava un volto parecchio avvenente. Naso all’insù, occhi cerulei e ben distanziati, labbra piene e morbide... insomma, proprio una bella figa. La quale, quando le arrivò dappresso, si fermò e sorridente le porse la mano con il palmo all’ingiù.

“Ciao Haruka, sono Shanaya Yamamay.”

Ah! Pensò Haruka in quella cruciale manciata di secondi. Hai capito quella carogna di Hitomi? Non me l’aveva detto mica che qui avrei trovato la playmate del paginone centrale!

E poi, riavendosi dalla piacevole sorpresa, riacquistò i suoi modi urbani. Prese la mano che le veniva offerta e chinandosi in avanti la sfiorò appena. A quanto pareva avrebbe dovuto aspettare un po’ prima di vedere Michiru, per cui, perché nel frattempo non intrattenersi con questa  cavallona?

“Avremmo dovuto conoscerci prima Shanaya.” Cominciò sorniona strizzandole l’occhio. E quest’ultima, strizzandoglielo di rimando, affermò: “Meglio tardi che mai.”

“Giusto. Ora, se vuoi scusarmi un attimo, andrei a cambiarmi. Ti spiace avviarti mentre mi rendo presentabile?”

“Figurati Haruka, ti attendo al bar, ma tu non farti aspettare troppo, mi raccomando.” Concluse maliziosa e dandole la schiena nuda, giacché aveva una scollatura vertiginosa,  cominciò ad allontanarsi lasciandosi dietro una scia di profumo molto conturbante. Gli ormoni ipersviluppati di Haruka reagirono all’istante, malgrado lo scopo primario che l’aveva condotta lì. 

“Non cominciare senza di me!” Fece quest’ultima malandrina occhieggiandole il fondoschiena da paura appena, appena celato dalla veste succinta. A questo commento Shanaya si limitò a lanciarle un’occhiata parecchio esplicativa da sopra la spalla e se ne andò ridacchiando.

 Domine dei che femmina!  Si disse Haruka continuando a rimirarla con tanto di bocca aperta ed incurante del fatto che fosse diventata quasi bluastra dal freddo. E molto, molto galvanizzata si diresse verso la stanza che Hitomi le aveva fatto preparare. Certo che aveva presente il motivo per il quale si era quasi ammazzata per venire a questo party, doveva vedere Michiru, doveva parlarle. E l’avrebbe fatto non appena avesse potuto, subito, quando l’avrebbe intercettata però. Intanto poteva tranquillamente farsi un giro con quella, quando le sarebbe ricapitato un simile pezzo da novanta da aggiungere al suo palmares ?

Fischiettando entrò nella cabina e lo stava ancora facendo quando emerse dal bagno ripulita e con i capelli lavati di fresco. Addomesticò le chiome ribelli, lasciando comunque campo libero alla frangia, che pareva piacere molto alle donne e prese a vestirsi. Tutto poteva dire alla sua manager tranne che fosse priva di gusto. Lo smoking che le aveva preso infatti, sebbene fosse elegante, era moderno. Dalla linea adeguata, ma non imbalsamata. Applicò i gemelli ai polsini, dopodiché tastò la rigidità del colletto alla diplomatica della camicia. Perfetto, esattamente come voleva che fosse. Prese il papillon e lo annodò lasciandolo un po’ disordinato, in modo che fosse lampante che il suo era un cravattino vero, non una di quelle burinate posticce.  Infine indossò la giacca attillata e più che appagata si rimirò allo specchio. 

Ah, come potrà resistermi?

Ridacchiò alla domanda retorica e constatando che non le mancava nulla si avviò verso il salone dei rinfreschi,  senza chiedersi in effetti a chi si riferisse precisamente con quel commento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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