Anime & Manga > Dragon Ball
Segui la storia  |       
Autore: lilly81    05/09/2012    16 recensioni
Brevi ed intensi racconti, capsule da mandare giù tutte d’un fiato, per narrare momenti qualunque della convivenza tra Bulma ed il principe dei saiyan. NUOVI AGGIORNAMENTI!
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Convivendo in… Capsule”

“Convivendo in… Capsule”

 

Episodio XIII

 

 

Una legge di natura vuole che, per assolvere certe funzioni, le gambe di una donna debbano essere divaricate.

Non si sarebbe donna, altrimenti.

Di più. Il mondo si fermerebbe se le donne non potessero più aprire le gambe.

Talmente congenito è starsene con la schiena riversa e le cosce allargate che pare quasi che una donna non sia nata per stare in piedi e camminare.

Questo penserebbe un alieno se, giunto sulla Terra, vedesse una donna giacere a quel modo.

Di certo, credendola una sorta di rettile strisciante, perfettamente autonomo e a suo agio, concluderebbe che la natura umana è completa e perfetta anche così.

Non si spiegherebbe, altrimenti, del perché non si provi imbarazzo, in particolare ad una certa età e dopo certe esperienze, a stare davanti ad uno sconosciuto con le mutandine sfilate, le cosce allargate e la stessa disinvoltura di un neonato al momento del cambio del pannolino.

In quei momenti, il pudore delle donne, si potrebbe dire, è calpestato da chi le sta di fronte.

Se Bulma spostò il mento e fissò gli occhi su un punto imprecisato della parete asettica e bianca non fu per quel senso di pudicizia, ormai perduto, ma solo perché non era certa che l’uomo che le stava davanti avrebbe continuato a credere alle sue parole.

Dunque, signora, lei è sempre convinta che si sia trattato di un incidente?”, domandò questi, alla fine, sfilandosi i guanti di lattice sporchi di sangue.

“Sono finita contro uno spigolo mentre ero nel mio laboratorio. Mi pare di averlo già spiegato. Prima di andarmi a coricare, mi sono recata lì per accertare di aver spento i computer. Era buio e non mi sono resa conto dell’ostacolo”.

Il medico ripose gli strumenti di sutura sul tavolo accanto e tornò a rivolgerle la sua faccia di cagnolone dalle orecchie grosse. A quell’ora della sera, prossimo a concludere il suo turno, aveva le palpebre appesantite, gli occhi stanchi ed iniettati di sangue, ma era disposto ad avere ancora pazienza.

A terra, i pantaloncini sporchi sembravano essere stati colti da un flusso mestruale improvviso.

“Signora…”, insistette quasi con premura, togliendosi gli occhiali e massaggiando il naso rincagnato con due dita grosse e pelose “io temo, invece, che lei abbia subito un’aggressione e per qualche ragione si vergogna di denunciare l’accaduto. Se io la metto a disagio, esiste uno staff competente con cui sarà libera di parlare. Mi permetta di aiutarla”.

“Ma che idiozie va dicendo?”, replicò l’altra, dimenticando i punti di sutura e provando a scendere dalla barella con l’euforia scattante di sempre.

“Signora, per carità, lei così riapre la ferita! Con calma, con calma!”, la redarguì, facendola tornare a distendere con una zampata quasi paterna.

“Sto benissimo, invece!”, rialzò la schiena ostinata l’altra.

“Aspetti che finisca l’effetto dell’anestesia per dirlo”, si asciugò la fronte sudata con un fazzoletto stropicciato che tirò dal camice bianco.

“Non sono stata aggredita. Le pare che io abbia la faccia di una donna che è stata aggredita?”.

Dalla grinta che sprigionavano i suoi occhi, dalla mascella decisa e serrata si sarebbe detto che era stata lei ad aggredire qualcuno. Le unghie laccate di rosso erano affilate alla stregua di un set di taglierini.

Eppure era giunta, da sola, in ospedale alle 23.17 col pigiama sporco di sangue e il volto sbiancato più di un lenzuolo.

A quel punto, il dottore tornò a sedersi di fronte a lei e per armarsi di altra pazienza prese ad accarezzarsi i baffi ispidi da cagnolone mezzo addormentato appena riemerso dalla cuccia.

“E allora per quale ragione il tampone ha evidenziato tracce… ehm… di sperma?”.

Bulma si limitò soltanto a sbattere una palpebra in più del dovuto prima di raccontare, senza mezzi termini, di aver avuto un rapporto con suo marito proprio poco prima dell’incidente.

A quel punto, il cagnolone si arrese, afferrò la cartella medica, estrasse una penna dal taschino e fece dei ghirigori sulla carta.

“Applichi questa pomata due volte al giorno. Domani starà già meglio. La chirurgia ha fatto passi da gigante. La prossima volta faccia più attenzione. Ehm… le raccomando un periodo di riposo di almeno venti giorni… ha capito a cosa mi riferisco?”.

“Può starne certo…”, sibilò Bulma torvamente, recuperando i pantaloncini inzuppati di sangue.

“Le suggerisco di chiamare suo marito e farsi venire a prendere”, fece turbato e, tuttavia, poco convinto di averle consigliato la cosa giusta.

Ma l’altra rispose di essere perfettamente in grado di ritornare a casa da sola.

La donna che azionò l’aircar imbrattato di sangue, estratto da una capsula tirata dalla borsa, non era più la stessa paziente indisciplinata e ribelle, giacché aveva lasciato tutta la baldanza e le menzogne sull’impiantito a scacchi dell’ospedale, tra gli sguardi interrogativi di un inserviente e dell’infermiera di turno allo sportello.

Man mano che si approssimava la cupola della Capsule Corp., immortalata nell’istantanea abbagliante di un fulmine, la spina dorsale si curvava in avanti e la frangetta sulla fronte pesava più di una corona estratta dal marmo.

Anche le unghie laccate di rosso, tremolanti e nervose intorno al manubrio, sembravano volersi spezzare ad una manovra più brusca.

Il corridoio di casa restituì il suono di un passo stanco e trascinato, interrotto solo dallo scricchiolio di un mattoncino di plastica sotto la scarpa a metà della scala.

Trunks era nell’età giusta per sparpagliare i propri giocattoli ovunque andasse; e proprio quel mattino il nonno aveva dovuto estrarre uno di quei mattoncini colorati dallo scarico del water. Non c’era da stupirsi se la nonna aveva cucinato uno di questi mattoncini insieme all’arrosto di tacchino giusto una settimana prima.

Entrare nella sua stanza equivalse pressappoco ad assistere alla scena di un omicidio, con una chiazza di sangue che imbrattava il centro del letto, una scia tracciata sulla moquette in direzione del bagno e un mucchio di fazzoletti di carta.

Non c’era impronta di chi avesse compiuto quel misfatto: la scientifica non l’avrebbe trovata di certo sul kit di pronto soccorso estratto d’urgenza dall’armadietto del bagno, né sull’abatjour dimenticata accesa o sul libro caduto ai piedi del comodino.

Solo un esame più attento della biancheria avrebbe rivelato qualche indizio, ma neppure sarebbe stato attendibile, preso atto che il letto veniva rassettato con le stesse lenzuola a pois rosa già da tre giorni.

Bulma uscì da quella stanza, dopo venti minuti, con un pigiama pulito di taglio maschile ed una mantellina di lana gettata sulle spalle.

Con passo trascinato e cauto, calpestato l’ennesimo mattoncino colorato disseminato da suo figlio, raggiunse la cucina alle ore 00.53; e fu allora che si imbatté nell’assassino.

Presunto o tale che fosse, questi si ritrovò a schermarsi gli occhi quando la penombra del soggiorno fu agguantata dai led posizionati proprio sul divano, ai piedi del quale se ne stava seduto occultato.

Stanata la belva, niente affatto assopita, e trascorso l’istante in cui i loro sguardi si incrociarono per poi deviare ciascuno in direzione opposte, il più lontano possibile l’uno dall’altro, Bulma si avviò ai fornelli, mise una tazza nel microonde e infuse una bustina di tiglio e camomilla. A dispetto della dieta e delle creme rassodanti, aggiunse tre zollette di zucchero oltre la dose normale.

Il tintinnio del cucchiaino sul bordo fumante della tazza servì a riempire il silenzio che ingombrava tutta la stanza.

Senza osare sedersi, giacché sentiva di avere la stessa libertà di movimento di uno dei suoi robot, si limitò ad appoggiare un fianco contro il tavolo snack della cucina.

Da quella posizione aveva una visione chiara di tutto l’ambiente, compreso il profilo dell’alieno rimasto seduto sul tappeto con una gamba allungata ed un’altra contratta.

Non aveva avuto il tempo di assuefarsi alla luce che lo sguardo era rimasto intrappolato tra gli schizzi astratti del grosso dipinto appeso sul camino.

Il ritratto in questione, acquistato ad un’asta di beneficenza senza pretese, occupava la parete del camino fin dalla prima volta in cui aveva messo piede in quella casa; ma adesso, ad una visione distorta, accadde che il nero, il viola prugna, il blu metallico, incominciassero a soffocarlo; il verde cobalto, il rosso carminio lo stordissero; il giallo lo accecasse, e il turchese… neppure riuscisse a guardarlo.

Solo nella pennellata di acquamarina trovò una tregua e lì inchiodò le pupille.

Era Bulma ad avere la situazione in mano, questo era chiaro, il potere assoluto di smuovere il silenzio, di spostare le cose, di produrre calore, di scuotere l’aria.

Da dove attingesse questo dominio era cosa sconosciuta, forse dal fastidio e dal bruciore che si risvegliavano tra le cosce e si diramavano fino alle unghie laccate di rosso.

Lo smalto adesso scintillava di nuovo.

Né il tiglio e la camomilla, né qualsiasi sedativo presente in natura e neppure la sigaretta, frattanto accesa, le avrebbero impedito di aprire bocca e di fargli sapere:

“La prima cosa che ha pensato il medico, quando mi ha vista, è stata che io avessi appena partorito. Non è un caso che abbia avuto gli stessi punti di sutura di quando nacque nostro figlio quasi quattro anni fa”.

La pennellata di acquamarina incominciò a trascinarlo verso un fondale sempre più scuro e melmoso; e così Vegeta spostò lo sguardo sul tappeto, lasciandosi avviluppare questa volta nella giungla geometrica del tessuto.

Il suo cuore produsse un sottofondo di tamburi. Non sembrava fatto, forse, di cuoio tanto era duro?

Allora, poteva eseguire anche il ritmo di una danza selvaggia!

“La seconda cosa che ha pensato…”, continuò l’altra imperterrita, calibrando con estrema precisione mezza dose di sarcasmo con un’altra di veleno, “…è stata che avessi subito un’aggressione”. Aspirò una sana boccata di fumo. “Sono quasi scoppiata a ridere. Come facevo a spiegargli che mio marito, il quale viene da un altro pianeta e che con un solo dito può disintegrare una galassia intera, mentre facevo l’amore con lui in tutta tranquillità, ha sgarrato quel tanto che bastava per mandarmi all’ospedale?”.

Piantala!”.

Il rullo di tamburi cessò all’istante e nel sangue restò solo l’adrenalina di quella danza selvaggia.

Uscito dalla giungla geometrica del tappeto, fu libero finalmente di mettere a fuoco il suo interlocutore.

“E’ stato un incidente”.

“Dove si è mai sentito che gli incidenti accadono mentre si sta sdraiati comodamente su di un materasso? Qui sulla Terra non succede e le tue parole non mi sono di alcun conforto. Che vuol dire che è stato un incidente? Ti stai, forse, giustificando? Ci mancava solo che lo avessi fatto con intenzione!”.

La mantellina di lana era ormai scivolata a terra.

“Sarebbe stato di gran lunga meglio!”.

Sì, lo aveva detto finalmente e nel modo più incisivo che poteva, lasciando una volta per tutte la giungla nella quale si era riparato e portandosi davanti a lei con la fierezza incontrastata di una tigre.

A Bulma non restò altro che spegnere la sigaretta nel posacenere, non senza avergli lasciato intendere, grazie alla freddezza con cui compì il gesto, che sarebbe stata lieta di strofinargliela su una ferita aperta.

“La colpa è soltanto tua”, soggiunse il saiyan, affilando la sua espressione più diabolica. “Possibile che tu non te ne sia mai resa conto? Dovresti sapere che, ogni volta che vieni a letto con me, sfidi la sorte, ma, evidentemente, ti piace così tanto che accetti il rischio. Io sono un saiyan e tu soltanto una debole terrestre: sono io che ogni volta ti lascio in vita”.

“Questa è davvero bella!”, scosse le spalle con una risata farneticante. “In tutti questi anni, mi sono accorta di essere andata a letto con una bestia soltanto quando stasera sei scappato via e mi hai lasciata a sanguinare da sola!”.

Vegeta emise un grugnito da tigre frustata e le voltò la schiena.

Una sensazione di disagio ed inadeguatezza si fece strada negli anfratti aggrovigliati ed ombrosi di quel suo cuore selvatico nel momento in cui si accorse che certi deliri di onnipotenza lasciavano oramai un retrogusto senza sapore.

Aveva bevuto un gustoso nettare di vino senza averne tratto alcun piacere, piuttosto uno strano malessere si era concentrato alla bocca dello stomaco.

La verità, paradossalmente difficile da ammettere, era che non aveva voluto farle del male con intenzione, non certo quella sera, non in quella stranissima giornata di inizio primavera.

Si era accorto quanto nell’aria ci fosse qualcosa di diverso quando, verso il tramonto, ultimata la sessione pomeridiana dei suoi allenamenti, si era portato sulla terrazza più alta della Capsule Corp.

La brezza fragrante recava un profumo di mandorli in fiore: di quanti pianeti avesse visitato mai aveva sentito un aroma tanto buono.

La sua indole insensibile alla bellezza della natura si era concentrata sul mandorlo piantato in giardino, a margine del ciottolato che conduceva ai laboratori, e aveva rammentato che, l’ultima volta che lo aveva osservato dalla finestra della sua stanza, appena qualche giorno prima, era scheletrico e senza vita.

Tra lande gelide o riarse, attraversate ai confini delle galassie, aveva pensato, un simile miracolo non si sarebbe mai generato, o meglio, sarebbe stato più facile vedere spuntare un germoglio piuttosto che egli si fosse soffermato a considerarne la straordinarietà.

Allora, cosa c’era di diverso quel giorno?

Non era la prima stagione fiorita che trascorreva sulla Terra, ma la sensazione di benessere trasmessa dall’aria fragrante, dal mandorlo in fiore, dalle cime frastagliate dei monti Paoz in lontananza, talmente nitide da poter scorgere persino i vapori generati dalle grandi cascate, sapeva quasi di prodigioso, e i prodigi, si sa, sono tali quando si manifestano in modo spontaneo: le sue mani non avevano ucciso nessuno, la sua bocca non aveva sputato sangue, i suoi piedi non avevano calpestato rivali.

Non si accorgeva Vegeta che quel benessere veniva da dentro di lui e poco importava che fosse perituro come le foglie di un albero: a cicli alterni il suo cuore iniziava a conoscere nuove stagioni.

Neanche l’arrivo di Bulma aveva sconvolto quella quiete.

Toniche, bianche, lisce: era ritornata a scoprirsi le gambe.

La sua presenza non discordava affatto con l’atmosfera circostante, al contrario, ne delimitava meglio i contorni, concentrando quella stranissima sensazione di appagamento in un unico punto.

Kakaroth, tutto sommato, poteva quel giorno restare pure all’inferno!

Dunque, Bulma gli aveva portato un vassoio zeppo di biscotti.

L’aveva guardata con sospetto, perché dalla madre della suddetta - benché a lui poco importassero certe informazioni - aveva saputo che per tutto il giorno non era uscita dal laboratorio.

Che fossero, forse, fatti di plutonio, di zinco, di mercurio?

Invece, seppe che l’oggetto delle sue ricerche era proprio un nuovo robot da cucina: un robot vero e proprio, con gambe e con braccia, in grado di cucinare qualsiasi pietanza.

“Assaggia”, aveva esibito con trepidazione.

“Poco zucchero”, aveva farfugliato ingerendone cinque in un solo boccone.

“Evidentemente è un robot che ci tiene alla linea…”, aveva concluso, scoppiando a ridere.

Non tutte le ciambelle, tanto per restare in tema, riescono col buco, e l’umanità intera poteva anche fare a meno di questa invenzione!

La fragranza del mandorlo aveva stuzzicato anche il suo olfatto, perché il nasino eccentrico e vivace si era mosso per indovinarne la sorgente e, scorto l’albero, aveva sorriso di chissà quali ricordi.

Neppure l’arrivo di Trunks, intento a minare l’incolumità del micio nero del nonno, correndo, senza sosta, per tutta la casa, aveva guastato la serenità di quel tramonto di primavera: quando il gatto si era intrufolato nel canale dell’acqua piovana, Trunks, ignaro di poter far ricorso ad una dote ereditata dal padre, aveva divelto la conduttura con un naturale incremento dell’aura.

Sì, era stata proprio una piacevole giornata di inizio primavera, talmente strana che, intorno alle 22.45, Vegeta si era ritrovato per la prima volta ad indugiare davanti alla porta della stanza di Bulma.

In genere, era la donna ad invadere i suoi territori, ma quella sera non lo aveva fatto, né gli aveva lanciato un segnale per fargli intendere che, dopo aver messo Trunks a letto, sarebbe stata lei ad aspettarlo.

Non era raro che, un po’ per pigrizia, un po’ per ricordargli dell’esistenza di quel piccolo angolo di casa, si servisse di allusioni del tipo “stasera ho i piedi talmente gonfi che credo proprio che andrò in camera mia e non ne uscirò fino a domani”, oppure “dalla finestra della mia stanza vedo uno strano segno nel cielo, non è che potresti passare e dirmi se si tratta di una stella o di un pianeta?”.

Stava al principe dei saiyan interpretare certi messaggi: talvolta li ignorava di proposito e altre volte, pur fiutando l’esca, si lasciava adescare come un pesce nella rete.

Ora, passasse pure una vita intera, Vegeta avrebbe conservato sempre una certa timidezza da alieno venuto da lontano.

L’audacia che aveva ostentato con Bulma nei loro primi incontri intimi era stata solo una delle tante armature sfoggiate all’occorrenza, ma Vegeta, a parte le volte in cui era necessario ristabilire il suo primato, era uno per il quale il primo passo rappresentava uno sforzo sovrumano.

Perciò, il principe dei saiyan si era ritrovato a temporeggiare fuori la stanza della consorte con un’esitazione più degna della prima volta, grattando la fronte stempiata, e persuadendosi che fosse solo una questione di ormoni eccitati da risolvere al più presto.

Tutta colpa di quella stranissima giornata!

Alla fine, era entrato e l’aveva trovata già a letto.

A Bulma era bastato togliere gli occhiali e poggiare il libro sul comodino.

“Tesoro…”, aveva mormorato, scostando la coperta.

Cacciato ogni riserbo e interessato a ribadire a sé stesso la propria superiorità di principe dei saiyan, Vegeta si era fatto spazio sistemandosi direttamente sopra di lei.

Il languore delle carezze e dei baci, le esplorazioni audaci, la luce soffusa dell’abatjour, il piacere, le lenzuola di cotone a pois rosa, l’acquazzone improvviso contro i vetri della finestra, i gemiti crescenti, le mani intrecciate, le pressioni più efficaci, il cigolio della rete, e improvvisamente un urlo di dolore, lo sguardo atterrito, un tuono rimbombante su tutta la Città dell’Ovest.

Per spostarlo da sé, Bulma gli aveva mollato un ceffone:

Ma cosa… cosa mi hai fatto?”, era scoppiata a piangere alla vista della chiazza di sangue che si allargava sulle lenzuola.

Solo adesso, dopo aver vagato nel buio del soggiorno, valicato immagini astratte e giungle geometriche, Vegeta trovò una spiegazione, o meglio, ammise ciò che aveva intuito fin dall’attrito insignificante e pure oltraggioso della mano di Bulma contro la sua mascella.

Un saiyan che va a letto con una femmina terrestre o è un saiyan che ha voglia di trucidare qualcuno, e in questo caso sarebbe, comunque, un saiyan frustrato perché è da altre battaglie che egli dovrebbe trarre godimento, o è un saiyan che scende a molti compromessi con stesso.

A causa di quella fottutissima giornata, che della primavera era l’imitazione peggio riuscita,Vegeta aveva smarrito il compromesso più essenziale.

Mentre il temporale imperversava fuori, trascinando ogni profumo di albero in fiore diritto nelle fogne, con un movimento cauto, Bulma, recuperò da terra la mantellina di lana e se la rimise sulle spalle.

“Mi dispiace, mi sono soltanto distratto…”.

Ora, non importava che lo avesse mormorato a denti stretti, facendo sbiadire le nocche delle mani, o che il pomo d’Adamo sembrasse un boccone ingerito di traverso, tanto era sporgente e duro.

Era la prima volta che diceva “mi dispiace”.

Ma il bruciore della sutura era troppo martellante perché Bulma si soffermasse a ragionarci sopra.

“Come sarebbe a dire che ti sei… distratto? Non puoi permetterti di distrarti! Le tue distrazioni possono costarmi care! Io sono una donna delicata!”, ci tenne a ricordargli. “Neanche la prima volta sei stato così… maldestro!”.

La serenità di quel tramonto, il senso di appagamento sperimentato in modo insolito sulla terrazza, lo avevano rilassato al punto tale che egli aveva trascurato ciò che non trascurava mai:

“Ho soltanto dimenticato per un istante di essere un saiyan…”, disse assai significativamente, prima di mandarla al diavolo, “e scusami se è poco!”.

 

 

FINE

 

 

 

 

   
 
Leggi le 16 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Dragon Ball / Vai alla pagina dell'autore: lilly81