“Convivendo in… Capsule”
Episodio XIII
Una
legge di natura vuole che, per assolvere certe funzioni, le gambe di una donna debbano
essere divaricate.
Non
si sarebbe donna, altrimenti.
Di
più. Il mondo si fermerebbe se le donne non potessero più aprire le gambe.
Talmente
congenito è starsene con la schiena riversa e le cosce allargate che pare quasi
che una donna non sia nata per stare in piedi e camminare.
Questo
penserebbe un alieno se, giunto sulla Terra, vedesse
una donna giacere a quel modo.
Di
certo, credendola una sorta di rettile strisciante, perfettamente autonomo e a
suo agio, concluderebbe che la natura umana è completa
e perfetta anche così.
Non
si spiegherebbe, altrimenti, del perché non si provi imbarazzo, in particolare ad una certa età e dopo certe esperienze, a stare davanti ad
uno sconosciuto con le mutandine sfilate, le cosce allargate e la stessa
disinvoltura di un neonato al momento del cambio del pannolino.
In
quei momenti, il pudore delle donne, si potrebbe dire, è calpestato da chi le
sta di fronte.
Se
Bulma spostò il mento e fissò gli occhi su un punto
imprecisato della parete asettica e bianca non fu per quel senso di pudicizia,
ormai perduto, ma solo perché non era certa che l’uomo che le stava davanti
avrebbe continuato a credere alle sue parole.
“Dunque, signora, lei è sempre convinta che si sia trattato
di un incidente?”, domandò questi, alla fine, sfilandosi i guanti di lattice
sporchi di sangue.
“Sono
finita contro uno spigolo mentre ero nel mio laboratorio. Mi pare di averlo già spiegato.
Prima di andarmi a coricare, mi sono recata lì per accertare di aver spento i
computer. Era buio e non mi sono resa conto dell’ostacolo”.
Il
medico ripose gli strumenti di sutura sul tavolo accanto e tornò a rivolgerle
la sua faccia di cagnolone dalle orecchie grosse. A
quell’ora della sera, prossimo a concludere il suo
turno, aveva le palpebre appesantite, gli occhi stanchi ed iniettati di sangue,
ma era disposto ad avere ancora pazienza.
A
terra, i pantaloncini sporchi sembravano essere stati colti da un flusso
mestruale improvviso.
“Signora…”,
insistette quasi con premura, togliendosi gli occhiali e massaggiando il naso
rincagnato con due dita grosse e pelose “io temo, invece, che lei abbia subito
un’aggressione e per qualche ragione si vergogna di denunciare l’accaduto. Se
io la metto a disagio, esiste uno staff competente con cui sarà libera di
parlare. Mi permetta di aiutarla”.
“Ma
che idiozie va dicendo?”, replicò l’altra, dimenticando
i punti di sutura e provando a scendere dalla barella con l’euforia scattante di
sempre.
“Signora, per carità, lei così riapre la ferita! Con calma, con calma!”, la
redarguì, facendola tornare a distendere con una zampata quasi paterna.
“Sto
benissimo, invece!”, rialzò la schiena ostinata l’altra.
“Aspetti
che finisca l’effetto dell’anestesia per dirlo”, si asciugò la fronte sudata
con un fazzoletto stropicciato che tirò dal camice bianco.
“Non
sono stata aggredita. Le pare che io abbia la faccia di una
donna che è stata aggredita?”.
Dalla
grinta che sprigionavano i suoi occhi, dalla mascella decisa e serrata si
sarebbe detto che era stata lei ad aggredire qualcuno. Le unghie laccate di
rosso erano affilate alla stregua di un set di taglierini.
Eppure
era giunta, da sola, in ospedale alle 23.17 col pigiama sporco di sangue e il
volto sbiancato più di un lenzuolo.
A
quel punto, il dottore tornò a sedersi di fronte a lei e per armarsi di altra
pazienza prese ad accarezzarsi i baffi ispidi da cagnolone
mezzo addormentato appena riemerso dalla cuccia.
“E
allora per quale ragione il tampone ha evidenziato tracce… ehm… di sperma?”.
Bulma si
limitò soltanto a sbattere una palpebra in più del dovuto prima di raccontare,
senza mezzi termini, di aver avuto un rapporto con suo marito proprio poco
prima dell’incidente.
A
quel punto, il cagnolone si arrese, afferrò la
cartella medica, estrasse una penna dal taschino e fece dei ghirigori sulla
carta.
“Applichi
questa pomata due volte al giorno. Domani starà già
meglio. La chirurgia ha fatto passi da gigante. La prossima volta faccia più attenzione.
Ehm… le raccomando un periodo di riposo di almeno venti
giorni… ha capito a cosa mi riferisco?”.
“Può
starne certo…”, sibilò Bulma torvamente, recuperando
i pantaloncini inzuppati di sangue.
“Le
suggerisco di chiamare suo marito e farsi venire a prendere”, fece turbato e, tuttavia, poco convinto di averle
consigliato la cosa giusta.
Ma
l’altra rispose di essere perfettamente in grado di ritornare a casa da sola.
La
donna che azionò l’aircar
imbrattato di sangue, estratto da una capsula tirata dalla borsa, non era più
la stessa paziente indisciplinata e ribelle, giacché aveva lasciato tutta la baldanza
e le menzogne sull’impiantito a scacchi dell’ospedale, tra gli sguardi
interrogativi di un inserviente e dell’infermiera di turno allo sportello.
Man
mano che si approssimava la cupola della Capsule Corp.,
immortalata nell’istantanea abbagliante di un fulmine, la spina dorsale si
curvava in avanti e la frangetta sulla fronte pesava più di una corona estratta
dal marmo.
Anche
le unghie laccate di rosso, tremolanti e nervose intorno al manubrio, sembravano
volersi spezzare ad una manovra più brusca.
Il
corridoio di casa restituì il suono di un passo stanco e trascinato, interrotto
solo dallo scricchiolio di un mattoncino di plastica sotto la scarpa a metà
della scala.
Trunks
era nell’età giusta per sparpagliare i propri giocattoli ovunque andasse; e proprio quel mattino il nonno aveva dovuto
estrarre uno di quei mattoncini colorati dallo scarico del water. Non c’era da
stupirsi se la nonna aveva cucinato uno di questi mattoncini insieme
all’arrosto di tacchino giusto una settimana prima.
Entrare
nella sua stanza equivalse pressappoco ad assistere alla scena di un omicidio,
con una chiazza di sangue che imbrattava il centro del letto, una scia
tracciata sulla moquette in direzione del bagno e un mucchio di fazzoletti di
carta.
Non
c’era impronta di chi avesse compiuto quel misfatto: la scientifica non
l’avrebbe trovata di certo sul kit di pronto soccorso estratto d’urgenza
dall’armadietto del bagno, né sull’abatjour dimenticata accesa o sul libro
caduto ai piedi del comodino.
Solo
un esame più attento della biancheria avrebbe rivelato qualche indizio, ma
neppure sarebbe stato attendibile, preso atto che il letto veniva
rassettato con le stesse lenzuola a pois rosa già da tre giorni.
Bulma
uscì da quella stanza, dopo venti minuti, con un pigiama pulito di taglio
maschile ed una mantellina di lana gettata sulle
spalle.
Con
passo trascinato e cauto, calpestato l’ennesimo mattoncino colorato disseminato
da suo figlio, raggiunse la cucina alle ore 00.53; e fu allora che si imbatté nell’assassino.
Presunto
o tale che fosse, questi si ritrovò a schermarsi gli occhi quando la penombra
del soggiorno fu agguantata dai led posizionati
proprio sul divano, ai piedi del quale se ne stava seduto occultato.
Stanata
la belva, niente affatto assopita, e trascorso
l’istante in cui i loro sguardi si incrociarono per
poi deviare ciascuno in direzione opposte, il più lontano possibile l’uno
dall’altro, Bulma si avviò ai fornelli, mise una
tazza nel microonde e infuse una bustina di tiglio e camomilla. A dispetto
della dieta e delle creme rassodanti, aggiunse tre zollette di zucchero oltre
la dose normale.
Il
tintinnio del cucchiaino sul bordo fumante della tazza servì a riempire il silenzio
che ingombrava tutta la stanza.
Senza
osare sedersi, giacché sentiva di avere la stessa libertà di movimento di uno dei suoi robot, si limitò ad appoggiare un fianco contro il
tavolo snack della cucina.
Da
quella posizione aveva una visione chiara di tutto l’ambiente, compreso il
profilo dell’alieno rimasto seduto sul tappeto con una gamba allungata ed un’altra contratta.
Non
aveva avuto il tempo di assuefarsi alla luce che lo sguardo era rimasto
intrappolato tra gli schizzi astratti del grosso dipinto appeso sul camino.
Il
ritratto in questione, acquistato ad un’asta di
beneficenza senza pretese, occupava la parete del camino fin dalla prima volta
in cui aveva messo piede in quella casa; ma adesso, ad una visione distorta, accadde
che il nero, il viola prugna, il blu metallico, incominciassero a soffocarlo;
il verde cobalto, il rosso carminio lo stordissero; il giallo lo accecasse, e il
turchese… neppure riuscisse a guardarlo.
Solo
nella pennellata di acquamarina trovò una tregua e lì inchiodò le pupille.
Era
Bulma ad avere la situazione in mano, questo era chiaro,
il potere assoluto di smuovere il silenzio, di spostare le cose, di produrre
calore, di scuotere l’aria.
Da
dove attingesse questo dominio era cosa sconosciuta,
forse dal fastidio e dal bruciore che si risvegliavano tra le cosce e si
diramavano fino alle unghie laccate di rosso.
Lo
smalto adesso scintillava di nuovo.
Né
il tiglio e la camomilla, né qualsiasi sedativo presente in natura e neppure la
sigaretta, frattanto accesa, le avrebbero impedito di
aprire bocca e di fargli sapere:
“La
prima cosa che ha pensato il medico, quando mi ha vista,
è stata che io avessi appena partorito. Non è un caso che
abbia avuto gli stessi punti di sutura di quando nacque nostro figlio quasi quattro
anni fa”.
La
pennellata di acquamarina incominciò a trascinarlo verso un fondale sempre più
scuro e melmoso; e così Vegeta spostò lo sguardo sul tappeto, lasciandosi
avviluppare questa volta nella giungla geometrica del tessuto.
Il
suo cuore produsse un sottofondo di tamburi. Non sembrava fatto, forse, di
cuoio tanto era duro?
Allora,
poteva eseguire anche il ritmo di una danza selvaggia!
“La
seconda cosa che ha pensato…”, continuò l’altra imperterrita, calibrando con
estrema precisione mezza dose di sarcasmo con un’altra di veleno, “…è stata che
avessi subito un’aggressione”. Aspirò una sana boccata di fumo. “Sono quasi scoppiata a ridere. Come facevo a spiegargli che
mio marito, il quale viene da un altro pianeta e che con un solo dito può
disintegrare una galassia intera, mentre facevo l’amore con lui in tutta
tranquillità, ha sgarrato quel tanto che bastava per
mandarmi all’ospedale?”.
“Piantala!”.
Il
rullo di tamburi cessò all’istante e nel sangue restò solo l’adrenalina di
quella danza selvaggia.
Uscito
dalla giungla geometrica del tappeto, fu libero finalmente di mettere a fuoco
il suo interlocutore.
“E’
stato un incidente”.
“Dove
si è mai sentito che gli incidenti accadono mentre si sta sdraiati comodamente
su di un materasso? Qui sulla Terra non succede e le tue parole non mi sono di
alcun conforto. Che vuol dire che è stato un incidente? Ti stai, forse,
giustificando? Ci mancava solo che lo avessi fatto con
intenzione!”.
La
mantellina di lana era ormai scivolata a terra.
“Sarebbe
stato di gran lunga meglio!”.
Sì,
lo aveva detto finalmente e nel modo più incisivo che poteva, lasciando una volta per tutte la giungla nella quale si era riparato e
portandosi davanti a lei con la fierezza incontrastata di una tigre.
A Bulma non restò altro che spegnere la sigaretta nel
posacenere, non senza avergli lasciato intendere, grazie alla freddezza con cui
compì il gesto, che sarebbe stata lieta di
strofinargliela su una ferita aperta.
“La
colpa è soltanto tua”, soggiunse il saiyan, affilando
la sua espressione più diabolica. “Possibile che tu non te ne sia mai resa conto? Dovresti sapere che, ogni volta che vieni a
letto con me, sfidi la sorte, ma, evidentemente, ti piace così
tanto che accetti il rischio. Io sono un saiyan e tu soltanto una debole terrestre: sono io che ogni
volta ti lascio in vita”.
“Questa
è davvero bella!”, scosse le spalle con una risata farneticante. “In tutti
questi anni, mi sono accorta di essere andata a letto con una bestia soltanto
quando stasera sei scappato via e mi hai lasciata a
sanguinare da sola!”.
Vegeta
emise un grugnito da tigre frustata e le voltò la schiena.
Una
sensazione di disagio ed inadeguatezza si fece strada
negli anfratti aggrovigliati ed ombrosi di quel suo cuore selvatico nel momento
in cui si accorse che certi deliri di onnipotenza lasciavano oramai un
retrogusto senza sapore.
Aveva
bevuto un gustoso nettare di vino senza averne tratto alcun piacere, piuttosto
uno strano malessere si era concentrato alla bocca dello stomaco.
La
verità, paradossalmente difficile da ammettere, era che non aveva voluto farle
del male con intenzione, non certo quella sera, non in quella stranissima
giornata di inizio primavera.
Si
era accorto quanto nell’aria ci fosse qualcosa di diverso quando, verso il
tramonto, ultimata la sessione pomeridiana dei suoi allenamenti, si era portato
sulla terrazza più alta della Capsule Corp.
La
brezza fragrante recava un profumo di mandorli in fiore: di quanti pianeti
avesse visitato mai aveva sentito un aroma tanto buono.
La
sua indole insensibile alla bellezza della natura si era concentrata sul mandorlo
piantato in giardino, a margine del ciottolato che conduceva ai laboratori, e aveva
rammentato che, l’ultima volta che lo aveva osservato dalla finestra della sua
stanza, appena qualche giorno prima, era scheletrico e senza vita.
Tra
lande gelide o riarse, attraversate ai confini delle galassie, aveva pensato,
un simile miracolo non si sarebbe mai generato, o meglio, sarebbe stato più
facile vedere spuntare un germoglio piuttosto che egli si fosse soffermato a
considerarne la straordinarietà.
Allora,
cosa c’era di diverso quel giorno?
Non
era la prima stagione fiorita che trascorreva sulla Terra, ma la sensazione di
benessere trasmessa dall’aria fragrante, dal mandorlo in fiore, dalle cime
frastagliate dei monti Paoz in lontananza, talmente
nitide da poter scorgere persino i vapori generati dalle grandi cascate, sapeva
quasi di prodigioso, e i prodigi, si sa, sono tali quando si manifestano in
modo spontaneo: le sue mani non avevano ucciso nessuno, la sua bocca non aveva
sputato sangue, i suoi piedi non avevano calpestato rivali.
Non
si accorgeva Vegeta che quel benessere veniva da dentro di lui e poco importava
che fosse perituro come le foglie di un albero: a cicli alterni il suo cuore
iniziava a conoscere nuove stagioni.
Neanche
l’arrivo di Bulma aveva sconvolto quella quiete.
Toniche,
bianche, lisce: era ritornata a scoprirsi le gambe.
La
sua presenza non discordava affatto con l’atmosfera
circostante, al contrario, ne delimitava meglio i contorni, concentrando quella
stranissima sensazione di appagamento in un unico punto.
Kakaroth,
tutto sommato, poteva quel giorno restare pure
all’inferno!
Dunque, Bulma gli aveva portato un vassoio zeppo di biscotti.
L’aveva
guardata con sospetto, perché dalla madre della suddetta - benché a lui poco
importassero certe informazioni - aveva saputo che per tutto il giorno non era
uscita dal laboratorio.
Che
fossero, forse, fatti di plutonio, di zinco, di mercurio?
Invece,
seppe che l’oggetto delle sue ricerche era proprio un nuovo robot da cucina: un
robot vero e proprio, con gambe e con braccia, in
grado di cucinare qualsiasi pietanza.
“Assaggia”,
aveva esibito con trepidazione.
“Poco
zucchero”, aveva farfugliato ingerendone cinque in un solo boccone.
“Evidentemente
è un robot che ci tiene alla linea…”, aveva concluso,
scoppiando a ridere.
Non
tutte le ciambelle, tanto per restare in tema, riescono col buco, e l’umanità
intera poteva anche fare a meno di questa invenzione!
La
fragranza del mandorlo aveva stuzzicato anche il suo olfatto, perché il nasino eccentrico
e vivace si era mosso per indovinarne la sorgente e, scorto l’albero, aveva
sorriso di chissà quali ricordi.
Neppure
l’arrivo di Trunks, intento a minare l’incolumità del
micio nero del nonno, correndo, senza sosta, per tutta la casa, aveva guastato
la serenità di quel tramonto di primavera: quando il gatto si era intrufolato
nel canale dell’acqua piovana, Trunks, ignaro di poter
far ricorso ad una dote ereditata dal padre, aveva
divelto la conduttura con un naturale incremento dell’aura.
Sì,
era stata proprio una piacevole giornata di inizio
primavera, talmente strana che, intorno alle 22.45, Vegeta si era ritrovato per
la prima volta ad indugiare davanti alla porta della stanza di Bulma.
In
genere, era la donna ad invadere i suoi territori, ma
quella sera non lo aveva fatto, né gli aveva lanciato un segnale per fargli intendere
che, dopo aver messo Trunks a letto, sarebbe stata
lei ad aspettarlo.
Non
era raro che, un po’ per pigrizia, un po’ per ricordargli dell’esistenza di quel
piccolo angolo di casa, si servisse di allusioni del
tipo “stasera ho i piedi talmente gonfi che credo proprio che andrò in camera
mia e non ne uscirò fino a domani”, oppure “dalla finestra della mia stanza
vedo uno strano segno nel cielo, non è che potresti passare e dirmi se si
tratta di una stella o di un pianeta?”.
Stava
al principe dei saiyan interpretare certi messaggi:
talvolta li ignorava di proposito e altre volte, pur fiutando l’esca, si lasciava adescare come un pesce nella rete.
Ora,
passasse pure una vita intera, Vegeta avrebbe conservato sempre una certa
timidezza da alieno venuto da lontano.
L’audacia
che aveva ostentato con Bulma nei loro primi incontri
intimi era stata solo una delle tante armature sfoggiate all’occorrenza,
ma Vegeta, a parte le volte in cui era necessario ristabilire il suo
primato, era uno per il quale il primo passo rappresentava uno sforzo
sovrumano.
Perciò,
il principe dei saiyan si era ritrovato a
temporeggiare fuori la stanza della consorte
con un’esitazione più degna della prima volta, grattando la fronte stempiata, e
persuadendosi che fosse solo una questione di ormoni eccitati da risolvere al
più presto.
Tutta
colpa di quella stranissima giornata!
Alla
fine, era entrato e l’aveva trovata già a letto.
A Bulma era bastato togliere gli occhiali e poggiare il libro
sul comodino.
“Tesoro…”,
aveva mormorato, scostando la coperta.
Cacciato
ogni riserbo e interessato a ribadire a sé stesso la
propria superiorità di principe dei saiyan, Vegeta si
era fatto spazio sistemandosi direttamente sopra di lei.
Il languore delle carezze e dei baci, le esplorazioni
audaci, la luce soffusa dell’abatjour, il piacere, le lenzuola di cotone a pois
rosa, l’acquazzone improvviso
contro i vetri della finestra, i gemiti crescenti, le mani intrecciate, le
pressioni più efficaci, il cigolio della rete, e improvvisamente un urlo di
dolore, lo sguardo atterrito, un tuono rimbombante su tutta
Per
spostarlo da sé, Bulma gli aveva mollato un ceffone:
“Ma cosa… cosa mi hai fatto?”, era scoppiata a piangere alla
vista della chiazza di sangue che si allargava sulle lenzuola.
Solo
adesso, dopo aver vagato nel buio del soggiorno, valicato immagini astratte e
giungle geometriche, Vegeta trovò una spiegazione, o meglio, ammise ciò che
aveva intuito fin dall’attrito insignificante e pure oltraggioso della mano di Bulma contro la sua mascella.
Un
saiyan che va a letto con una femmina terrestre o è
un saiyan che ha voglia di trucidare qualcuno, e in
questo caso sarebbe, comunque, un saiyan frustrato
perché è da altre battaglie che egli dovrebbe trarre godimento, o è un saiyan che scende a molti compromessi con sé stesso.
A
causa di quella fottutissima giornata, che della primavera era l’imitazione
peggio riuscita,Vegeta aveva smarrito il compromesso
più essenziale.
Mentre
il temporale imperversava fuori, trascinando ogni profumo di albero in fiore diritto
nelle fogne, con un movimento cauto, Bulma, recuperò
da terra la mantellina di lana e se la rimise sulle spalle.
“Mi
dispiace, mi sono soltanto distratto…”.
Ora,
non importava che lo avesse mormorato a denti stretti, facendo sbiadire le
nocche delle mani, o che il pomo d’Adamo sembrasse un boccone ingerito di
traverso, tanto era sporgente e duro.
Era
la prima volta che diceva “mi dispiace”.
Ma il
bruciore della sutura era troppo martellante perché Bulma
si soffermasse a ragionarci sopra.
“Come
sarebbe a dire che ti sei… distratto? Non puoi permetterti di distrarti! Le tue
distrazioni possono costarmi care! Io sono una donna delicata!”, ci tenne a
ricordargli. “Neanche la prima volta sei stato così…
maldestro!”.
La
serenità di quel tramonto, il senso di appagamento sperimentato in modo
insolito sulla terrazza, lo avevano rilassato al punto
tale che egli aveva trascurato ciò che non trascurava mai:
“Ho
soltanto dimenticato per un istante di essere un saiyan…”,
disse assai significativamente, prima di mandarla al diavolo, “e scusami se è
poco!”.
FINE