“Convivendo in… capsule”
EPISODIO VII
Aleggiò nell’aria una polvere bianca, come nebbia persistente dalla consistenza più pesante si appiccicò sul sudore dei suoi muscoli, effuse sotto il naso l’aroma del cemento diroccato e a terra una coltre spessa su cui lasciò impronte al suo incedere.
Sotto i piedi nudi, Vegeta calpestò pietrisco e
frantumi di calce, non elargì uno solo dei suoi sguardi irrequieti ai divani
coperti da vecchie lenzuola o alle sedie lasciate a mangiar polvere in un
angolo del salone.
Aveva i pantaloni strappati, e la vena ancora
febbricitante della sua tempia dava ad intendere che aveva ancora molta
adrenalina iniettata nel sangue.
Dalla finestra senza tende la brezza dissipò la nube
polverosa arretrandola fino al corridoio da dove era venuto, ma il crollo
ulteriore del muro alimentò di nuovo la sua robustezza e questa volta il saiyan
dovette arrendere il naso ad una smorfia arricciata di disturbo e ridurre le
palpebre a due fessure.
Neanche questo lo distolse dal tragitto che compiva
ogni volta che usciva dalla stanza gravitazionale.
Tralasciando quello che accadeva, entrò in cucina,
aprì il frigorifero e senza interrogarlo tracannò l’intero cartone di succo di
frutta tropicale vitaminizzato.
Il rumore dei picconi si rincorreva con quello dei
calcestruzzi che franavano, restituiva polvere alla polvere dal sorgere del
sole.
Bulma aveva avuto la felice idea di ingrandire il
salone e di farne un ambiente aperto abbattendo il divisorio dell’ingresso.
Diceva che l’entrata avrebbe guadagnato luce ed
aria, che la stanza necessitava di una rinfrescata alle pareti, e che aveva
letto sulla rivista “Case e giardini” che una tinta di giallo paglierino
sarebbe stata più rilassante per la vista.
Se presa da quell’entusiasmo non pensò di
ammodernare l’intera villa, fu soltanto perché Vegeta minacciò di non fare più
ritorno fino alla conclusione dei lavori.
Quando il rumore dei picconi cessò d’improvviso,
seguito dall’ultimo crollo, Vegeta ebbe l’impressione che in quell’istante il
modo circostante si azzerasse, e le sue orecchie da sempre insensibili ai
richiami della natura finirono per dare risalto perfino al canto degli
uccellini.
Restò sostenuto al muro a sorseggiare lentamente gli
ultimi sorsi che gli restavano e a godersi l’attimo di quiete sopraggiunto.
Gli operai addetti ai lavori erano due trentenni dei
quali aveva intravisto soltanto le schiene ricurve abbronzate dal sole.
Non si erano accorti del passaggio del saiyan e così
uno dei due riprese il discorso lasciato in sospeso:
“Morale della storia…” si asciugò la fronte madida e
respirò ancora trafelato “ho speso una cifra per farle passare una bella serata
e quella stronza non si è degnata neanche di farmi salire sopra quando l’ho
riaccompagnata a casa!”.
L’altro, un viso deturpato dall’acne adolescenziale
e spalle smilze, che ammassava con la scopa polvere e pietre, soggiunse di
conoscere bene la tipa in questione e che era il suo passatempo preferito
quello di scroccare serate per poi non farsi più sentire.
Ancora per molto parlarono di questa e di altre
donne, di fiaschi e di trombate, mentre Vegeta, centellinando il cartone
di succo di frutta tropicale vitaminizzato, rifletteva su quanto fossero
patetici i terrestri ed i loro discorsi, neanche tanto per la volgarità insita
quanto per l’inutile affanno, che faceva bene a restarne alla larga, che c’era
sempre tempo per imporre un dito e far saltare in aria l’intero pianeta.
Il tenore di questi discorsi gli rammentò quelli
snocciolati tra le pareti di metallo della Base di Freezer, nelle pause dei
combattimenti o al ritorno da campagne vittoriose, tra gesti osceni e risate
sguaiate rivide il piglio distaccato di chi alle parole preferiva i fatti, e
concluse che di mondo in mondo, di razza in razza, molti aprono la bocca per
farle prendere aria.
Lo stesso piglio supponente di allora si inarcò di
scatto quando nel mezzo di quel calderone di parole saltò un nome a lui ben
noto.
“Ma tu l’hai vista Bulma Brief?” domandò quello col
volto deturpato dall’acne, strizzando un occhio d’intesa.
“E chi non la vedrebbe! Con una come quella anche i
morti si risvegliano!” fece l’altro di rimando impastando calce con le
ginocchia a terra.
Vegeta tese l’orecchio e tornò ad irrigidire la
schiena.
L’imperturbabilità di prima tramutò nel
raccoglimento di chi si sente chiamato in causa anche soltanto per una ragione
indiretta.
I due erano convinti di essere rimasti soli in casa,
perciò si limitarono ad abbassare il tono ma non a frenare la lingua.
Così il principe dei saiyan apprese dell’incontro
che avevano avuto con lei quel mattino quando aveva dato loro istruzioni sulla
parete da gettare a terra, del suo vestitino di colore arancio, della
scollatura a pizzo su cui non era
possibile non far cadere lo sguardo, del profumo esotico che effondeva ad ogni
movimento:
“E’ una puledra di razza, mi venderei la casa di mia
madre per una scopata con lei!” e mentre lo diceva, il giovane dalle braccia
tatuate e naso rincagnato smise per un istante di impastare calce, come se la
profondità di quel pensiero non ammettesse altro.
“Io mi accontenterei di vederle anche solo le tette”
fece l’altro raccogliendo i detriti nella carriola “avanti e dietro ha tanta di
quella roba che c’è l’imbarazzo della scelta! Beato chi se la spassa! Quella sì
che è una vera femmina ed io sono nato nel luogo e nel posto sbagliato!”.
Mentre a Vegeta la vena della tempia era ritornata a
pulsargli spasmodica, sentì uno dei due domandare se era sposata.
L’altra voce, tossicchiante e fastidiosa più di una
marmitta danneggiata, spiegò di aver visto il vecchio scienziato dare la mano
ad un bimbetto di quattro o cinque anni, di non sapere se viveva qualche altro
uomo in casa, ma di aver sentito una volta da sua sorella, che l’incontrava dal
parrucchiere presso il quale lavorava, che non si era mai sposata.
“Sarebbe un vero spreco se non avesse nessuno a
farla godere. Più ci penso e più mi convinco che è un vero spettacolo della
natura quella donna!” commentò il tatuato rialzandosi e strofinando le mani
piene di calce sui pantaloni “mi verrebbe voglia di andarmi ad intrufolare nel
suo letto e farle una bella sorpresa!”.
“Non ci pensare nemmeno a consolarla, una come
quella punta in alto, è roba pregiata!” ed il colpo di piccone che tornò ad
assestare aprì nel muro un’altra breccia, indusse alla fuga l’uccellino posato
sul davanzale e concluse il turpiloquio.
Non ebbe il potere di smuovere una fibra del
principe dei saiyan, solido come una roccia a picco sul mare che la salsedine
logora ma non discosta, né di produrre un battito di ciglia in più del dovuto.
Soltanto la mano si strinse per accartocciare in un
unico colpo il cartone di succo di frutta.
Uscendo dalla cucina, andò incontro alla nuvola di
polvere alimentata dai picconi quale vento che soffia sul fuoco, non storse il
naso e non assottigliò lo sguardo.
Superò i due operai che anche questa volta non si
avvidero di lui, si trattenne per un istante sulla soglia, e passando per il
giardino raggiunse i laboratori di Bulma.
Armeggiando accovacciata vicino al telaio di una motocicletta, la donna si accorse del suo arrivo soltanto quando spense il saldatore e si tolse lo schermo che le proteggeva la vista.
Si rialzò accompagnando il movimento del suo corpo con una smorfietta dolorante del volto:
“Ohi… la mia povera schiena!” esclamò flettendo il
busto avanti ed indietro.
Aveva bisogno di una pausa e Vegeta, qualsiasi cosa
volesse, era arrivato al momento giusto, giacché era servito a farle alzare la
testa, a prendere un respiro e ad emetterne uno più profondo e sfinito.
Prima di sfilarsi i guanti, si scostò dalla fronte la frangetta e la imbrattò di una striscia di lubrificante al di sopra del sopracciglio destro.
Aveva smesso il vestitino di colore arancio per un
pantalone largo e scuro ed una t-shirt con il marchio della sua azienda, non
aveva scollatura in cui perderci lo sguardo ed il profumo esotico si era
confuso tra il lezzo di oli e carburanti.
Notò che lui se ne stava zitto a fissarla con la
spalla appoggiata ad un muro ed un piede puntato a terra dietro l’altro:
“Sei venuto per dirmi qualcosa?” gettò i guanti su
una cassetta degli attrezzi e lo scrutò ben disposta, ma interrogativa.
Non poteva immaginare che in quella mascella
indurita il principe dei saiyan fermentasse il desiderio di assalire le sue
labbra, che un discorso sconcio sentito per caso tra due trentenni in astinenza
sessuale avesse destato in lui qualcosa che andava oltre l’eccitazione fisica
ed oltre il desiderio più carnale.
Era la percezione di un possesso tangibile, di
qualcosa che era soltanto suo, che altri non avrebbero potuto avere né strappargli.
Aveva l’aspetto delle sue forme e della sua
bellezza, suscitava brama, dominio, gelosia e fierezza.
Che la guardassero pure, che la rendessero oggetto
dei desideri più proibiti, tanto lui poteva avere più di una fantasia, perché
poteva prendersi tutto senza chiederle niente.
Mai gli era sembrata così desiderabile come in quel
momento.
Poco contava l’abbigliamento trasandato e l’unto sul
sopracciglio destro.
Bulma lo vide smuoversi dal muro, non indebolire la
mascella né dargli altro ad intendere fino a quando non si fermò ad un palmo da
lei.
Allora la sollevò e se la gettò sulla spalla,
suscitando proteste e sconcerto si avvicinò al tavolo da lavoro, con un gesto
del braccio lo sgombrò dagli attrezzi che si sparpagliarono a terra con tonfi
metallici e la sistemò lì con rudezza.
“Ma ti pare questo…” le fu sollevata la maglia e
tolta parola come se la testa fosse stata spinta in una vasca da bagno “…il
momento?!” ne uscì fuori con i capelli arruffati.
“E da quando ci sono momenti giusti ed altri che non
lo sono?” fu contento di trovarla senza l’ingombro del reggiseno e come un
affamato non perse tempo a cingere d’assedio il suo petto.
Lei tentò ancora di respingerlo:
“Ma potrebbe arrivare mio padre!”
“Sai bene che Trunks costringerà i tuoi al luna park
fino a quando non avranno chiusi i cancelli!” e si diede da fare per liberarla
dagli altri indumenti.
Bulma non riusciva a capacitarsi di una reazione
tale, soprattutto ricordando che nelle due sere precedenti gli aveva girato
intorno con una camiciola semitrasparente e lui, oltre ad averla ignorata come
fosse stata appunto un fantasma, non si era preso la briga neanche di andare a
dormire nella sua stanza.
Per non aggiungere che proprio quel mattino erano
venuti a farle visita i soliti ospiti di ogni mese.
“Ma non vedi come siamo ridotti? Siamo sporchi e
sudati, avresti potuto almeno aspettare stasera e poi non è decisamente
giornata…” spinse ancora le mani contro il suo petto d’acciaio ma il risultato
che ottenne fu quello di farsi imprigionare i polsi in una morsa indomabile
dietro la schiena.
“Non mi fermeresti neanche se ti mettessi a gridare
aiuto” la minacciò a denti stretti ed il suo fiato fu caldo e stuzzicante
vicino all’orecchio.
Bulma arrese il collo alla sua lingua e socchiuse le
palpebre, poi si appigliò all’ultimo filo di lucidità mentale per ribadirgli
l’impaccio che aveva.
Non era certa se gli andava di condividere con lei
anche questo.
“Non è mai stato un problema” attirò le gambe nude
contro di lui e si cinse i fianchi “o pensi che possa farmi desistere questo?”
L’avrebbe fatta sua anche se avesse stillato fango.
Allora in risposta si sentì baciare in modo profondo
e travolgente.
Le lasciò i polsi indolenziti perché fosse libera di toccarlo, di far scivolare le dita sul madore dei suoi muscoli, di appigliarsi ai suoi capelli, di spingergli la bocca dove più desiderava.
Fecero l’amore su un tavolo
da lavoro, tra scartoffie, ferraglie, sangue e sudore.
Quando di questo restò
soltanto l’affanno, ed il piacere aveva già vibrato in ogni fibra del loro
essere, fu Bulma a ricoprirsi per prima recuperando gli abiti da terra.
Pensò che rimettersi a
lavoro e trovare concentrazione sarebbe stato difficile dopo la passione
consumata e così decise che per quell’oggi poteva bastare e che una doccia
sarebbe stata l’ideale per recuperare decenza e vigore.
Rivolse uno sguardo al suo
ombroso compagno, rimasto appoggiato al tavolo, ripulito alla svelta dalle
tracce lasciate con uno strofinaccio di carta, con gli occhi socchiusi e le
braccia incrociate.
Avrebbe voluto dirgli che
era stato fantastico, che quel suo temperamento imprevedibile un giorno o
l’altro l’avrebbe fatta impazzire, ma sapeva che quella posa era un modo per
comunicarle di non fare commenti e lasciarlo in pace.
Mentre allacciava la scarpa
col piede poggiato su uno scranno e le dita ancora tremanti e febbrili, si
accorse di non percepire alcun tipo di rumore provenire dalla casa.
In realtà, era dall’arrivo
di Vegeta che aveva smesso di sentire i picconi rincorrersi per demolire il
muro.
“Non avranno mica già finito
di lavorare? Mi sembra molto strano…” sbirciò l’orologio e registrò che non era
ancora orario.
Vegeta alzò una palpebra
quando sentì la gomma delle sue scarpette muoversi per dirigersi alla volta
della casa.
Poi, rimasto solo, senza
scomporre una ruga della fronte, si alzò i pantaloni e strinse il legaccio ai
fianchi.
Sul prato, tra vetri
infranti e detriti di calce, giacevano i due operai.
Dopo aver perso entrambi i
sensi, quello con l’acne adolescenziale si reggeva ancora la testa sofferente
tra le mani, mentre l’altro dalle braccia tatuate cercava a fatica di ritrovare
equilibrio.
“Ma cosa è successo?!”
accorse Bulma allarmata.
Dai primi indizi si deduceva
che a farli catapultare in giardino era stata un’esplosione interna alla casa.
Ma i due, ancora confusi,
narrarono di un vento improvviso, di un’energia silenziosa…
FINE