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Autore: DarkshielD    08/09/2012    0 recensioni
’ Quell’abbraccio commosso tra padre e figlio lo riportò a qualcos’altro, qualcosa di lontano, oscuro come la notte, indistinto come nebbia: il calore di un corpo senza identità, una voce affettuosa, un fuoco assassino, urla familiari, movimenti bruschi dettati dal panico e, sopra a tutte le altre, una voce rabbiosa che gridava.
Traditore.
E all’improvviso, tutto divenne freddo. ‘

Il tempo può cancellare anche i più grandi orrori, e sanare le più mortali ferite.
Ma il destino è un essere che non dimentica. Nessun debito può rimanere irrisolto di fronte a lui.
[Ancora ferma al quarto capitolo. Fatta qualche modifica qua e là.]
Genere: Azione, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Traditore! Prendetelo! Dobbiamo ucciderlo! DOBBIAMO DIFENDERE IL NOSTRO ORGOGLIO!

Non abbiamo bisogno della giustizia Cragmita!

Il nostro odio è il miglior giudice.

Voci rabbiose si inseguivano nella sua mente.

A parte quello, non vi era nulla che riuscisse a disturbare la sua quiete: il suo corpo era scomparso, non percepiva più alcun dolore, né stimolo, assolutamente nulla.

Gli sembrava quasi di essere in uno stato di animazione sospesa, privo di alcuna coscienza, privo di sensazioni, privo di memoria.

L’unica cosa che continuava a disturbarlo erano quelle voci…

DOBBIAMO DIFENDERE IL NOSTRO ORGOGLIO!

Echi nel silenzio, anziché disperdersi si rafforzavano, rimbalzavano da una parte all’altra di pareti invisibili acquistando una forza sempre maggiore e una direzione precisa e, come un’onda inarrestabile, travolgevano tutto.

Il nostro odio è il miglior giudice.

Sapeva a chi erano rivolte quelle grida.

- Hey, pendaglio da forca! - seguì in colpo metallico.

Sussultò: fu qualcosa di fastidiosamente immediato, come venire trascinati in superficie a respirare.

Come in risposta a un segnale, la sensazione di incorporeità scomparve, gli arti presero sensibilità, il corpo assunse peso, il respiro apparve e divenne affannoso, i sensi lo travolsero, l’irreale divenne reale.

Come ultima cosa, la prova del ritorno alla realtà, sentì il corpo riempirsi di sferzate. Percepì il dolore.

Ecco, era tornato in superficie.

Il colpo metallico si ripeté. Stavolta gli parve alquanto secco, come se si trattasse di legno contro ferro. Il formicolio che gli percorreva il corpo diradò, concentrandosi sul lato sinistro del collo e sulle spalle, tuttavia, la sensazione di essere ricoperto di strisce di dolore simili a frustate anziché scomparire si rafforzò.

In particolare, si concentrò sul ginocchio destro, come se quest’ultimo fosse trafitto da un palo.

Aprì gli occhi, misurando ogni respiro, quasi temesse di inalare veleno da un istante all’altro. La vista, dapprima offuscata, divenne molto nitida.

La prima cosa che vide fu però il nulla.

Il buio completo.

Poi, come tante lampadine, vaghi chiarori rossastri illuminarono la sua vista, che divenne nitida.

Si guardò intorno senza muoversi: capì che si trovava in posizione distesa da un lato, su un pavimento di pietra ricoperto di qualcosa che sembrava paglia, freddo e sudicio. Ai due lati sorgevano due pareti in pietra alquanto basse, grigie e sudicie non meno del pavimento, ed intaccate, in molti punti, di quelli che sembravano essere graffi, scritte e simboli. Di fronte non sorgeva alcuna parete ma solo una serie di sbarre tozze, sporche e arrugginite, presso le quali si percepiva un vago ronzio. Oltre le sbarre non si vedeva molto a parte una persona seduta su uno sgabello di ferro arrugginito, oltre la quale si scorgeva una lunga parete di pietra umida a sinistra, alla quale erano fissati, a intervalli regolari, una serie di piccole lampade rugginose che emanavano un inquietante chiarore rossastro, mentre a sinistra si intravedeva una lunga serie di sbarre, non meno arrugginite delle lampade. L’aria umida aveva un odore stantio e polveroso, impregnato dell’odore di sudore e di escrementi.

Lo sguardo del prigioniero si fissò sulla persona seduta sullo sgabello: aveva spalle possenti, taurine, il volto girato dalla parte opposta, con la testa priva di capelli e ricoperta di un folto pelo marrone striato di nero, le orecchie triangolari erano grandi, piatte e appuntite. Dal retro dei pantaloni spuntava una coda lunga e sottile, terminante con un vezzoso ciuffo di peli, riportante le stesse striature.

Somigliava terribilmente a un lombax.

Un lombax?

Indossava un completo nero di stoffa privo di protezioni, con un collo alto sul quale brillavano due targhette metalliche. I pantaloni erano della stessa tinta, portava anfibi, di pelle, alti al ginocchio sui quali brillavano delle fibbiette lucide. Allacciati alla cintura vi era una numerosa quantità di piccole borse portaoggetti, e portava un bracciale sull’avambraccio destro: era grosso, ingombrante e sembrava d’ottone, e nella parte interna, quella corrispondente al polso, spuntava un ingombrante macchinario a due canne pieno di tubicini e molle, e aveva il singolare aspetto di una pistola.

Perché probabilmente è una pistola concluse il prigioniero, che ancora non si era mosso dalla sua scomoda posizione. Non si era guardato molto intorno, ma aveva notato l’indolenzimento delle braccia e delle mani e capito immediatamente che era legato, disteso sul fianco sinistro, chiuso probabilmente in una cella con quella che aveva tutta l’aria di essere una guardia oltre le sbarre. Il dolore, invece, non se lo sapeva spiegare. Cercò di ragionare con freddezza, rievocando ogni ricordo utile che riaffiorava. Ma erano tutti confusi, offuscati dall’angoscia e dall’agitazione: lampi di luce azzurrina, le grida concitate di una battaglia, il dolore delle ferite e un amaro sapore in bocca che non riusciva a spiegarsi.

Dove sono finito?

Non seppe rispondersi, in quel momento, poteva solamente limitarsi a confrontare le poche immagini rievocate che continuavano a vorticare nella sua mente e osservare ciò che lo circondava, oppresso da una sensazione confusa.

Un lontano brusìo ringhioso, sovrastato da grida autoritarie e altri rumori metallici lo sottrasse ai suoi ragionamenti. Tese le orecchie, aguzzò la vista verso il corridoio semibuio oltre le sbarre, e attese.

- Porci leccaculo, state certi che la pagherete! - una serie di pesanti imprecazioni si alzò poco lontano, dai lati delle sbarre a sinistra, diretti verso qualcuno in avvicinamento di cui a malapena si udivano i passi.

- Chiudi il becco! - altro suono di legno contro metallo, forse un bastone. Il rumore di passi si avvicinò e si moltiplicò.

Un gruppo uscì da un corridoio nascosto dalla fila di sbarre, e si diresse verso la cella del prigioniero: erano quattro, tutti lombax, tutti con un espressione tetra nei musi scuri e avevano tutti la stessa divisa nera indosso. La guardia seduta sullo sgabello scattò in piedi, sull’attenti. I quattro si fermarono, e il primo a sinistra del gruppo, il più minuto, volse uno sguardo inquisitore verso la fila di celle ed i suoi inquilini. - Alister Azimuth! - gridò, scrutando uno ad uno i detenuti. Il prigioniero legato, sentendo pronunciare il suo nome, suo malgrado sobbalzò. Alla guardia non sfuggì quel piccolo movimento, e quando il suo sguardo si fissò sul lombax, quest’ultimo, ancora incerto della sua situazione, cercò di mettersi in posizione seduta, ricambiando l’espressione dura. - Prendetelo. - disse la guardia rivolta ai tre dietro di lui, i quali si fecero avanti ed entrarono nella cella aperta dal guardiano seduto sullo sgabello. Il ronzio proveniente dalle sbarre cessò.

Due dei tre lo afferrarono per le braccia, tirandolo su di peso e lo trascinarono fuori, senza dargli il tempo di mettersi in equilibrio sui piedi.

Alister non ebbe che il tempo di percepire una fitta di dolore che gli fulminò la gamba destra, togliendogli il respiro ed offuscandogli completamente la vista.

- Hey! - trattenne a stento un grido, stringendo i denti. Le guardie attesero un istante, prima di mettersi in marcia. Abbassò lo sguardo nella semioscurità solo per notare che dalle ginocchia in giù gli abiti, dei lerci pantaloni in tela ruvida, erano completamente bagnati di un liquido caldo, nerastro nella penombra del luogo.

Cos…

Poteva a malapena zoppicare, con quel dolore.

Lo condussero giù per una serie di scale mal illuminate e fredde, invase da un’aria carica di umidità, fino a sbucare in un’enorme sala, lunga e rettangolare, umida, piena di porte, e trascinato oltre una di esse.

Si trovava ora in uno stanzino relativamente piccolo e umido, circa quattro metri per tre, di pietra, il cui unico arredamento era una logora sedia di ferro al centro, alla quale erano fissate delle cinghie di cuoio, una serie di ganci e catene appese al soffitto, una catinella fumante contenente una strana sostanza luminescente posata in un angolo accanto a un caminetto acceso e tre pesanti macchinari metallici dislocati lungo le pareti, vagamente simili a tavoli operatori. Alister aveva già una vaga idea di ciò che volevano fare di lui, ma aveva tentato di cacciare via i suoi timori. Cosa ho fatto? Che volete da me? Aveva protestato lungo le scale senza ottenere alcuna risposta, domandandosi cosa fosse realmente successo e in quale posizione si trovasse ora, tentando di far collimare in modo logico gli avvenimenti dell’immediato presente con quelle voci, quei ricordi confusi antecedenti il suo risveglio. Eppure, per quanto ci provasse, nulla quadrava.

Fu la vista dei macchinari a far crollare le sue speranze. Tentò di divincolarsi, ma la presa delle guardie sembrava di ferro. - Sta’ buono. - Una di esse gli inferse una ginocchiata allo stomaco, smorzando ogni altro tentativo di ribellione.

Si sentiva già debole di suo, e quel colpo, oltre a attenuare ulteriormente le sue forze, lo fece quasi rimettere.

Stronzo. Insultò mentalmente il suo aguzzino. Era piegato in due dal dolore, ma nella mente turbinavano migliaia di ipotesi.

E’ reale. Reale. E’ tutto reale. Ogni cosa che vedo, ogni singola sensazione. Cos’è successo?…

Aveva la gola serrata. Sentiva che tutto quello che gli accadeva intorno fosse in un certo senso causa sua, come se si fosse trovato di fronte a una lunga fila di tasselli del domino e avesse accidentalmente fatto cadere il primo.

I due aguzzini lo legarono con cinghie di cuoio alla sedia e gli restarono accanto, mentre gli altri due uscirono. Nel giro di due minuti rientrarono accompagnate da due creature simili a lucertole a sei zampe, con una pelle grigiastra e glabra, spruzzata di macchioline scure, dalle cui bocche spuntavano dei piccoli aguzzi denti gialli. Ad entrambi i lati della testa spuntavano rigide antenne simili a corna.

Erano Cragmiti. Indossavano le stesse divise nere dei lombax.

- Desiderate farci compagnia, quindi? - sogghignò uno dei nuovi arrivati con una nota divertita nella voce, rivolto ad un settimo, del quale il prigioniero, anche allungando il collo, non riusciva a vedere il volto.

- Abbiamo tutto il necessario, qui, per farlo cantare. Non comprendo il vostro desiderio di assistere all’interrogatorio del ribelle. – continuò il cragmita, lanciando una veloce occhiata ad Alister. Il lombax notò un dettaglio che al momento non riuscì a trovare inquietante: il cragmita cha aveva parlato aveva gli occhi di un insolito color ceruleo, completamente diverso dal giallo acceso caratteristico della sua specie.

- Non assistere Heanp, partecipare. - fu la risposta. Alister sgranò gli occhi, sentendo quel nodo alla gola serrarsi ulteriormente.

Quella voce….

- Comunque, continuo a sostenere che tu abbia fatto fare ai tuoi uomini fatica inutile. Se è ancora il generale che avete conosciuto durante la guerra, allora credo che sporcherai gli attrezzi per nulla. -

La scarica di adrenalina rese il lombax improvvisamente lucido. In un primo istante quella voce fece nascere in lui un vago lume di speranza.

Ma il suo tono, e la presenza dei cragmiti lo soffocò immediatamente.

Il settimo elemento del gruppo aveva indosso una divisa color avorio e rosso scuro con una coppia di strisce rosse sulle maniche e sui lati dei pantaloni, che terminavano con delle ghette. Colori della guardia pretoriana lombax. Aveva un bastone di legno consunto e un cappotto color rosso scuro orlato di pelliccia bianca, infilato per un braccio solo.

Era un lombax dall’aspetto giovane, dalla pelliccia oro, le strisce marrone chiaro, e grandi occhi verdi. Sul lato sinistro della faccia erano visibili una profonda escoriazione che attraversava la parte finale del sopracciglio, il cui sangue ancora fresco brillava alla luce delle lanterne, e una benda macchiata di sangue gli copriva parte della guancia, sul lato destro era presente un unico, lungo taglio orizzontale.

Non è possibile…

Non osservava quel volto, sapeva che non avrebbe creduto ai suoi occhi. Ma quelle ferite… le conosceva.

Le aveva create lui stesso.

- Ratchet…? - soffiò Alister in un filo di voce, incredulo. Il giovane lombax avanzò senza distogliere lo sguardo dall’altro, facendo oscillare il bastone e passandolo da una mano all’altra.

Nel suo portamento si leggevano chiaramente la minaccia, ma nei suoi occhi si rifletteva un altro sentimento, qualcosa che Alister, nel momento, non riuscì a scorgere.

Sei un’incosciente! Ti rendi conto da che razza di avversari sei circondato?!

Si domandò il vecchio lombax, non del tutto certo della situazione in cui si trovava, ma convinto di trovarsi di fronte un alleato venuto ad aiutarlo.

Non credeva di sbagliarsi.

Che accidenti fai vestito così?

- …“Maggiore Ratchet” volevi dire? - lo corresse questi, gelido. Alister scrutò gli occhi verdi del lombax con un’espressione dura, cercando un’ombra di falsità nel minaccioso tono della sua voce.

Che diavolo ti è passato per la testa? Non perdere tempo in sceneggiate, vattene! Te ne devi andare, stupido! E’ pericoloso!

- Perché hai quell‘espressione così sbalordita? - continuò il giovane, quasi sorridendo.

- ’Che diavolo stai facendo’ volevo aggiunge... - Il vecchio lombax non ebbe il tempo di finire la frase che un colpo di bastone gli arrivò alla mascella, con forza tale da fargli sentire in bocca il sapore del sangue.

D’accordo, illuminami. Cosa diamine stai facendo? Pensò in quell’istante.

- Io? Nulla. Eseguo gli ordini, evidentemente. -

Ordini? Di chi?

Nella mente di Alister, suggerita dalla presenza dei due cragmiti stava cominciando a delinearsi un ipotesi, ma si rifiutava di accettarla. Non sarà che…

- Ordini di chi? -

- Qualcuno che che ora certamente non potrai più ammazzare, visto che ti hanno finalmente sbattuto al fresco. -

- …’non potrai più ammazzare’? non ricordo di aver ammazzato nessuno. - Quella frase lo fece ritrovare faccia a faccia con l’altro, i volti a pochi centimetri di distanza fra loro.

- Ah, già. Per te quello era un atto di giustizia, perché i lombax sono sottomessi a degli animali senza cervello, è questo quello che pensi? - Alister faticava a seguirlo, il filo dei suoi pensieri si era fissato su cinque parole:

Ordini. Omicidio. Cragmiti. Sottomissione. Lombax.

Cos’è questa storia?…

Che stai facendo, Ratchet?

Ho ucciso qualcuno? Ma chi? Quando?

E perché?

- Sottomessi ad animali senza cervello? Non dire sciocchezze ragazzo, i lombax non sono sottomessi a nessuno. - rispose. La frase venne accompagnata da fragorose risate provenienti dai due cragmiti che osservavano, divertiti dalla confusione a malapena celata sul volto del lombax. - Sentito? Adesso siamo Nessuno! - sogghignò il cragmita dagli occhi cerulei, Heanp, suscitando altra ilarità. I soldati sorrisero stupidamente. Ratchet sembrò irrigidirsi.

- Già… certo. - gli rispose. Si voltò verso Alister.

- Quella che hai fatto è probabilmente una sciocchezza dettata dalla rabbia, altrimenti ora non saresti nelle nostre mani. - continuò - Mi complimento comunque, è stata una sciocchezza fatta con gran stile. Ammazzare il nuovo governatore coloniale mandato dall’impero al suo primo discorso deve aver fatto guadagnare parecchi punti a voi ribelli. -

I lombax sono sottomessi a un impero?

Era un indizio. Fissò i due cragmiti: l’ipotesi assunse forma definita, e nella sua mente riaffiorarono nuovamente quei vaghi ricordi, i ricordi della sua ultima battaglia, avvenuta nella camera di Orvus, nel Grande Orologio, prima che si risvegliasse in quella situazione.

La sua era una battaglia per cambiare il corso degli eventi.

Una battaglia per cancellare la più grande delle ingiustizie subite nella storia del suo popolo.

D’un tratto capì.

Oh per Orvus

- Ora …- continuò l’altro - …visto che sei qui, abbiamo un paio di domandine da farti. -

 

  
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