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Autore: margheritanikolaevna    11/09/2012    6 recensioni
Confesso che l’11 settembre mi sconvolse: prima tragedia globale del nuovo millennio, cambiò in modo irreversibile le nostre idee di libertà, sicurezza e democrazia.
Forse per questo amo CSI NY, che si scelse di ambientare lì proprio per aiutare la rinascita della città e in cui l’11 settembre è in qualche modo anch’esso un personaggio, a volte sullo sfondo, a volte invece protagonista.
Ho cercato di raccontarlo secondo prospettive temporali diverse (subito prima, subito dopo, dieci anni dopo) e adesso, che sono passati undici anni e in me rimane ancora inalterato il terrificante sbalordimento di quel pomeriggio, ho voluto ricordarlo con una storia che non ne condivide né lo spazio né il tempo, ma unicamente il cuore più nero.
Grazie in anticipo a chi leggerà.
Prima classificata al contest "War Tales: racconti dal fronte", indetto da Filira su efp ma giudicato da My Pride
Questo è il link al contest:http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10230276
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mac Taylor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo quinto.
Bassamat al-farah
 
Libano-Beirut, 23 ottobre 1983 ore 05.15
 
Shirin Ascari scende piano dalla camionetta che l’ha raccolta lungo la strada e portata fino alla città; tira il velo sul viso, infastidita dalla polvere e dagli sguardi dei soldati francesi che le hanno dato un passaggio. Si allontana a passo svelto senza salutare, senza ringraziare, ignorando le battute e le risate che gli uomini in divisa lanciano al suo indirizzo.
Sospira e guarda in alto: verso oriente la luce pallida del giorno spegne una a una le stelle nel cielo ancora grigio. La Capra, il Cane, il Serpente, lo Scorpione e più in là le tre sorelle - Mintaka, Alnilam, Alnitak - svaniscono avvolte nella federa biancastra dell’alba. 
Non sa che ore sono, né precisamente dove dirigersi; eppure, nonostante tutto spera di fare in tempo.
 
Libano - Beirut, caserma dei marines, 23 ottobre 1983 ore 6.18
 
Il sole sta sorgendo e fa già piuttosto caldo; è domenica e la maggior parte dei mille marines arrivati in città il maggio precedente si trova ancora nelle camerate a riposare.
Mac Taylor, invece, è già sveglio da ore; ha trascorso anzi una notte agitata, tormentato da un’ansia che non è riuscito a spiegare razionalmente e ripensando agli avvenimenti della sera precedente, a tutte le persone che ha conosciuto e che con ogni probabilità non rivedrà mai più.
Eppure - considera - tutto sommato è stata una notte tranquilla, una delle poche che hanno potuto passare nelle camerate e non sdraiati sul pavimento, nei bunker al piano terra, per difendersi dai colpi di mortaio.
Esce nello spiazzo al centro dell’edificio e aspira gli odori di caffè e bacon fritto provenienti dalle cucine: è domenica in fondo e bisogna solennizzarla anche se sono lontani dalle loro famiglie, anche se rischiano la vita ogni giorno.
Oggi è di servizio come sentinella e pensa che forse più tardi scriverà una lettera a sua madre e le racconterà quello che gli è successo il giorno prima; chissà, magari se non ci sarà troppa fila riuscirà persino a parlarle a telefono. E per la prima volta non sarà per descriverle ciò a cui lui - addestrato in patria per combattere una guerra - ha dovuto assistere impotente, senza poter intervenire.
Dopo settimane di attacchi, di autobombe esplose e non, di colpi di mortaio sparati al calare della luce - riflette, osservando il via vai di soldati - adesso la situazione sembrava essersi un po' tranquillizzata e nella base l'atmosfera era diventata meno tesa.
Trae un respiro profondo ma, nonostante si sforzi, non riesce a scacciare l’inquietudine che lo turba.
 
***
 
Il soldato semplice Robert T. Giordano monta la guardia all’ingresso laterale della caserma; il suo turno è quasi finito e non vede l’ora di farsi una doccia e infilarsi nella branda. Per fortuna - pensa, scacciando infastidito la mosca che per l’ennesima volta gli si è posata sulla mano che impugna il mitra di ordinanza - era andato tutto liscio quella notte…
Per settimane avevano visto e sentito così tanti scontri armati chelui e i suoi compagni ormai erano in grado di capire, in base al rumore dei colpi e al colore deilampi delle detonazioni, quali fazioni si stessero combattendo e dove.
Ha appena iniziato a rilassarsi pregustando la piacevole frescura dell’acqua sulla pelle quando all’improvviso vede una figura correre a perdifiato verso di lui. È completamente avvolta in una veste scura e pesante e Robert all’inizio non riesce a capire nemmeno se sia un uomo o una donna: dà una voce all’altro marine di guardia insieme a lui, che pareva essersi assopito un momento e sobbalza sentendosi chiamare, ed entrambi puntano l’arma davanti a loro.
Ecco, ricordano, le regole di ingaggio: le maledette dieci regole del peacekeeper. Una di queste praticamente vietava ai soldati in missione di pace di rispondere al fuoco anche dopo che alcuni di loro erano stati uccisi in mezzo al fuoco incrociato della guerra di bande, persino se vedevano morire ammazzati davanti ai loro occhi donne e bambini.
I due marines gridano l’altolà una, due volte come prescrive il regolamento, ma questo non serve a fermare la corsa dello sconosciuto che evidentemente non ha capito e continua a correre disperatamente verso l’ingresso della base. Quando urla qualcosa in arabo - qualcosa che i due ovviamente non possono comprendere - i soldati si accorgono che si tratta di una donna: sentono la sua voce, ma è ancora troppo lontana per distinguerne i lineamenti.
Contemporaneamente, seguendo i protocolli che hanno imparato, i militari imbracciano le armi e prendono la mira. Ripetono l’avvertimento ancora, ma la donna non si ferma neppure stavolta e anzi grida nuovamente come se volesse avvisarli di qualcosa.
I due americani si scambiano uno sguardo carico di ansia: purtroppo sanno perfettamente cosa devono fare.
Troppe volte sono stati tratti in inganno, la loro priorità è difendere se stessi e i compagni da quello che potrebbe essere un attentatore suicida che, con uno stratagemma, sta cercando di avvicinarsi alla base. Non sarebbe la prima volta.
Il marine Robert T. Giordano serra le mascelle e fissa il commilitone. “Fermati, ti prego… fermati, maledizione!” impreca sotto voce.
Fanno un ultimo tentativo intimando l’alt e poi, tutti e due nello stesso istante, aprono il fuoco.
Shirin Ascari avverte un dolore lacerante al petto, alla schiena, al collo e prima che possa rendersi conto di ciò che è accaduto crolla al suolo, fulminata dai proiettili. Il respiro spezzato, il cervello annebbiato dal terrore, tenta di rialzarsi solo una volta ma non ci riesce; si sente scivolare indietro e lontano nel vento, indietro e lontano senza capire, mentre la polvere comincia già a posarsi sulle sue vesti imbrattate di sangue, sul suo corpo di ragazza massacrata, sui suoi occhi ormai spalancati sul nulla.
 
Il tenente Mac Taylor sta bevendo l’ultimo sorso di caffè prima di cominciare il suo turno di sorveglianza quando sente gli spari provenienti dall’ala ovest della caserma: istintivamente si alza da tavola e corre in quella direzione.
 
Libano - Beirut, caserma dei marines, 23 ottobre 1983 ore 6.23
 
Ismalal Ascari è seduto al posto di guida del camion Dodge giallo; le mani sono appoggiate senza tensione sul volante, è tranquillo e rilassato e nessuno direbbe mai che sta per morire.
Fuori il mattino sorge, ma è la notte che si stenderà sul mondo quella domenica di ottobre.
Si sente leggero, lo shaid, più che mai libero, perché sa che non può tornare indietro: tra pochi istanti consegnerà angoscia e orrore agli invasori, tra pochi istanti diventerà un martire.
Socchiude gli occhi scuri e pensa che sarà condotto in paradiso da uccelli dalle piume verdi, che allo spargimento della prima goccia di sangue sarà perdonato per i suoi peccati e salvato dai tormenti della tomba, che potrà intercedere per settanta suoi parenti.
Guida lentamente, girando nel parcheggio della base militare con studiata calma: poi, con un’improvvisa accelerata, si scaglia contro l’ingresso principale abbattendo barriere e filo spinato.
Qualcuno dall’interno gli spara, ma è troppo tardi e lui lo capisce; supera due posti di guardia e giunge proprio al centro del compound.
Ismalal Ascari sorride.
È il bassamatal-farah, il sorriso di gioia dei martiri.
Sorride perché è felice.
Perché sta attraversando le porte del paradiso.
Perché sta per scorgere il volto di Allah.
Il camion bomba esplode nell’atrio squarciando i quattro piani della caserma: le porte blindate saltano via come un fuscello, gli alberi più vicini vengono sradicati e completamente defoliati all’istante.
 
*** Mac Taylor è appena arrivato all’ingresso secondario dell’edificio e subito i due ragazzi di guardia gli corrono incontro per spiegare l’accaduto; il tenente si affaccia e osserva il cadavere disteso nella polvere, ancora troppo distante per scorgerne il volto. In preda a un’inquietudine di cui non riesce a comprendere l’esatta ragione, fissa quel povero mucchio di stracci insanguinati col cuore che gli batte all’impazzata nel petto È consapevole che uscire dalla base sarebbe un’imprudenza e una follia, che si esporrebbe al pericolo senza nessuna valida motivazione, eppure qualcosa lo spinge ad aprire il cancello metallico… All’improvviso un lampo, come quando lo sportello di un altoforno si spalanca, e un muggito che incomincia bianco e poi diventa rosso e via via si dissolve nello spostamento d’aria; i tre uomini si voltano e nella stessa frazione di secondo un fragoroso boato riempie e squassa l’aria, rovesciandoli all’indietro sullo sterrato. Il fumo e la polvere li accecano e tolgono loro il respiro; pezzi di metallo anneriti, schegge e calcinacci scagliati lontano dalla forza dell’esplosione, punteggiano il suolo.
Il silenzio irreale che è seguito alla deflagrazione della bomba, lo shock e lo stordimento si dissipano poco a poco, sostituiti dai lamenti dei feriti e dalle grida di chi è rimasto indenne.
Mac Taylor si tira su in ginocchio a fatica, lo spostamento d’aria lo ha scaraventato con violenza per terra e il sangue che cola dalla fronte gli offusca la vista; gli sfugge un gemito, sente che sta per svenire, ma con tutte le sue forze resiste. Sbatte le palpebre, la gola irritata dal fumo acre; intorno, il terreno è sconvolto e a pochi centimetri da lui giace fumante un brandello di lamiera contorta. Adesso è in piedi e senza attendere che il fumo si diradi avanza barcollando verso ciò che rimane delle camerate; confusamente, mentre arranca tra i rottami e i gemiti dei feriti, si rende conto che se non fosse corso a vedere cosa era accaduto dall’altra parte della base, se fosse rimasto dov’era fino a pochi minuti prima, l’esplosione l’avrebbe certamente ucciso.
Il caporale Stan Whitney è riverso al suolo, il volto ambrato annerito dalla fuliggine, l’uniforme squarciata sul petto; gli occhi dilatati per la sofferenza, si lamenta in preda ad acuti spasmi di dolore.
Sanguina abbondantemente dalla bocca, dal naso, dalle orecchie, tanto che l’uniforme mimetica ne è inzuppata, e biascica senza sosta parole incomprensibili: sono frasi spezzate, invocazioni, in un mormorio sempre più flebile.
Mac è quasi accecato dal suo stesso sangue e non riesce a pensare lucidamente, eppure dentro di sé capisce che non c’è più nulla da fare.
Gli prende entrambe le mani nelle sue e mente: “Tieni duro, marine!” grida col poco fiato che gli rimane in corpo.
“Resisti, ti porteremo via di qui!”.
Lo tiene disperatamente stretto, quasi potesse in quel modo strapparlo alla morte, portarlo veramente lontano, in un luogo sicuro che sa non esistere da nessuna parte.
Stan trema e si lamenta debolmente; una sostanza vischiosa e rossastra, che il tenente riconosce subito con raccapriccio, inizia a colare con lentezza inesorabile dal margine interno dell’occhio sinistro del caporale.
All’ultimo il ragazzo si solleva appena e tenta di dire qualcosa.
“Io l’ho visto, ho visto quello che guidava” mormora.
Mac sente che le sue mani perdono all’improvviso forza, le stringe ancora ma si rende conto che ormai è finita.
“Lui sorrideva…” 

 

 

FINE

 
(1) Come detto, Stan Whitney è il nome del personaggio effettivamente citato nell’episodio La sentinella di CSI NY.
(2) So che in Iran si parla prevalentemente il farsì, ma per esigenze narrative ho immaginato che i personaggi usassero l’arabo che, del resto, ho letto essere lingua comunque presente nel paese, soprattutto ai confini con la Siria e il Libano.
(3) Il riferimento è all’attentato che il 18 aprile 1983 aveva devastato l’ambasciata americana a Beirut, uccidendo 63 persone.
(4) Tra il 16 e il 18 settembre 1982 i miliziani cristiano-falangisti di Elie Hobeika, in cerca di vendetta per l’omicidio del neo presidente Gemayel e d’accordo con l’esercito israeliano che aveva competenza sulla zona, entrarono nei campi profughi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, che erano stati in precedenza chiusi dagli israeliani, e posero in essere una terribile strage. Il numero esatto delle vittime è tuttora sconosciuto, ma  oscilla tra le 450 e le 3.500 a seconda delle fonti. Fonte wikipedia.
(5) L’episodio è raccontato nella puntata “Yahrzeit” (“Il ricordo”) di CSI NY. In verità, sembrerebbe che Mac apprenda le circostanze del racconto solo in quel momento, ma a me è piaciuto immaginare che egli già lo sapesse e che quel ricordo, indotto dalle particolari circostanze del momento, lo induca a una riflessione più ampia e generale sulla guerra.
(6) Dai documenti rinvenuti sul luogo dell’esplosione, si apprese che effettivamente l’attentatore si chiamava così e che era di nazionalità iraniana.
 

  
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