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Autore: lalla    11/06/2004    2 recensioni
[Via col Vento]
Potrebbe sembrare strano che lo abbia scelto come fonte di ispirazione, perchè, amando da morire la cultura afroamericana, non si può amare questo film spudoratamente razzista. Eppure, ho voluto provarci. Un'ultima cosa: Russell Crowe non c'entra niente, questa volta. Crow sta per Cornacchia ed era il nomignolo con cui i bianchi razzisti del Sud dileggiavano i neri.(Via col vento)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*

 

   -Mia madre si chiama Lola ed è ancora una bellissima donna. A Richmond, quando sono nato io, ventisette anni orsono, faceva la puttana. Una schiava non può disporre di se stessa, era per quello che l’avevano comprata, una bella jaloff di tredici anni e di sangue quasi puro.

    Parlava lentamente, con quella sua voce bassa, ipnotica e un po’ roca, con quell’accento duro del Nord, gli occhi chiusi,le mani strette l’una nell’altra, la testa abbandonata all’indietro contro la spalliera del divano: una ruga verticale profonda, netta come un taglio, gli spaccava in due la fronte, dalle sopracciglia aggrottate all’attaccatura dei capelli.

    -La schiavitù, suppongo, non è una di quelle cose che vi abbiano mai fatta inorridire, Madame, o mi sbaglio? Vostro padre trattava bene i suoi neri, non gli faceva mancare il necessario e non ha mai picchiato nessuno.Da bambina, probabilmente, qualche vecchio schiavo vi ha fatta ballare sulle ginocchia e a casa vostra doveva senz’altro esserci qualche negra brontolona che si vantava di aver tirato su tre o quattro generazioni di O’Hara e tutte queste cose vi hanno aiutata a scaricarvi la coscienza…

    Rossella osservò la macchia nera dei suoi vestiti, le brache di pelle, la giacca indiana  con le frange, le borchie d’argento, le decorazioni d’ossi di bisonte e aculei di porcospino, i tacchi consumati degli stivali da cavallerizzo.  Che ci faceva un uomo simile nel salotto di casa sua? Perché si lasciava insultare a quel modo, a dispetto di tutto quanto il suo orgoglio, da un uomo vestito come un vaccaio, da un negro  che, prima che il mondo scoppiasse, avrebbe abbassato lo sguardo incontrandola? Invece era come se Wade fosse davvero in grado di leggerle dentro e non volesse risparmiarle niente. Era uno scorpione pieno di veleno, un diavolo a cui nulla sfugge, presente, passato, futuro… A dispetto dei suoi pochi anni e della sua faccia, bella come quella di un angelo, del suo corpo teso, che rifiutava di abbandonarsi all’abbraccio morbido del sofà, quel corpo magnifico per il quale la donna provava, malgrado se stessa, una fitta dolorosa di desiderio.

     There is a house in New Orleans…The House of Rising Sun…”

     Adesso si era messo a canticchiare una di quelle loro canzoni dalla melodia dissonante, piena di tristezza, una canzone che, probabilmente, raccontava una storia vera: quella di una prostituta bambina. La voce era quella rauca e spezzata dei suoi congeneri, una voce che metteva i brividi addosso.

    -Mia madre era una di quelle ragazze: puttana a tredici anni, incinta a sedici e non si sa di chi…Una cosa la so per certa:chiunque fosse, mio padre era sicuramente un bianco, uno di quei ricchi porci che frequentavano il bordello e sganciavano fior di dollaroni per sbattersi le ragazze e farsi spennare al tavolo verde. La madama, naturalmente, non l’aveva presa bene. Ci ha tentato con l’elleboro nero, con i decotti di prezzemolo, con i bagni bollenti…Quando ha visto che io continuavo a starmene saldamente abbarbicato alle viscere di mia madre, si è rassegnata  e ha detto soltanto “Speriamo che sia una femmina”. Già, un’altra  prostituta bambina per la Casa del Sole Nascente, un’altra vergine da mettere all’asta. Invece sono nato io. Per un po’ ci ha lasciati insieme, poi, quando ha visto che ai clienti non andava d’avere un marmocchio in mezzo ai piedi mentre facevano i loro porci comodi, si è risolta a vendermi: tra l’altro le avrei fruttato un bel po’ di quattrini  perché a quell’età ero parecchio bellino e promettevo bene, sempre che la cosa interessasse a quel disgustoso pederasta che sembrava intenzionato a comprarmi: a lui piacevano piccoli, quando cominciavano ad  avere nove o dieci anni se ne disfaceva perché non gli interessavano più…Siete ancora convinta che la schiavitù possa aver avuto un volto umano, Madame?

    La guardava fisso fisso, con quegli occhi bui come il fondo di un pozzo, e si tormentava nervosamente il labbro inferiore con le dita.

    -Io non mi chiamo Harriett Beecher Stowe, e tutte queste cose non le ho inventate: le ho provate sulla mia pelle, come altri hanno provato la frusta, il fuoco, le botte, i lividi. Vi avevo avvertita che sarei stato sgradevole, che avrei anche potuto…ferirvi Madame.

    -Continuate. Vi prego.

    -Scappare non era facile, se l’avessero riacciuffata sapeva che cosa l’aspettava. Ma mia madre è un diavolo di donna, non avete idea di quanto sia coraggiosa. E poi abbiamo incontrato parecchia brava gente che ci ha aiutati. Ancora adesso le capita di svegliarsi di soprassalto, con i latrati dei cani dentro le orecchie, quei cani da pista addestrati alla caccia al negro, che non mancavano mai in nessuna piantagione.

    Anche suo padre ne possedeva una muta, di quei cani: blodhound e coonhound dal fiuto portentoso, capaci d’inseguire la loro preda da un sorgere del sole all’altro e i terribili catahoula, i cani leopardo dai denti aguzzi come pugnali. Sicuramente la madre di Wade aveva tremato più per il bambino che per se stessa, quando aveva sentito ululare i cani a due passi dal confine, dalla salvezza.

   -Arrivati a Philadelphia, tutto è stato molto più facile di quel che mia madre temesse: i tempi erano quelli che erano, tutti provavano simpatia per noi e volevano aiutarci. Leeland McRae, che già da allora dirigeva la Scuola di Belle Arti, offrì lavoro a mia madre come donna delle pulizie.Non era molto, ma si poteva tirare avanti decentemente.

    Già: probabilmente la bella Lola aveva arrotondato i suoi guadagni posando nuda per gli studenti dell’Accademia e senz’altro aveva scaldato, nelle fredde notti del Nord, il letto del Grande Maestro, fresco vedovo e ancora attraente e vigoroso, malgrado i sessant’anni suonati. E il Maestro aveva finito col prendere in simpatia il ragazzino, bello come un angelo, intelligente e sveglio, tanto da pagargli gli studi fino al conseguimento della laurea nel più prestigioso ateneo del Paese. Gli artisti non hanno i pregiudizi dei comuni mortali, gli unici colori che contano, per loro, sono quelli da schiacciare fuori dai tubetti e così vissero tutti felici e contenti: come nelle favole.

    -Butler è il cognome di vostra madre?

    -Il primo che le sia venuto in mente, quando i funzionari dell’Ufficio Immigrazione gliel’hanno chiesto. Butler era uno dei clienti del casino. Il più attraente e il meno villano di tutti, a sentire mia madre.Le faceva spesso dei regalini, a volte capitava che le lasciasse delle mance sottobanco. E lei metteva via quei soldi, immaginava che le sarebbero tornati utili, prima o poi. Credo desiderasse che io fossi davvero figlio di quell’uomo. Può essere che sì come che no, chissà…

    Butler, come Rhett. Viaggiava spesso, niente di strano che si fosse trovato a passare dalle parti di Richmond, anni prima, e a frequentare il locale dove lavorava la madre di Wade. L’uomo che Lola Butler avrebbe desiderato fosse il padre di suo figlio, galante perfino con una prostituta di colore, rassomigliava tale e quale a Rhett.

    -Sapete se vostro padre era…bruno, olivastro, con i baffetti?

    -Mia madre non me ne ha mai parlato, ma che importanza può avere? So per certo che era un bianco, e quando un bianco ingravida una negra, il figlio che viene fuori è un po’ più chiaro di sua madre, ma molto più scuro di suo padre, conta questo. Comunque scommetto che vostro marito è bruno, olivastro e con i baffetti. Vi avevo avvertita che le mie parole avrebbero potuto ferirvi, Madame.

    “No, Wade, anche se la verità può far male, me lo insegni tu stesso. Da queste parti, tutti gli uomini bianchi hanno bastardi di colore, concepiti con una schiava o con una puttana e le loro legittime consorti hanno finito col non farci più caso. Io amo Rhett. Ma anche se lo amo questo non significa che lo consideri un santo.” Solo il pudore la tratteneva dal dirglielo. Però aveva ragione, al solito, il diavolo nero: Rhett non era diverso dagli altri uomini, né s’era mai preoccupato di sembrarlo. E lei non era una a cui l’amore chiuda gli occhi e turi le orecchie, era sempre stata cosciente del fatto che suo marito potesse aver avuto altre donne. Tante, compresa una sgualdrina nera di Richmond  che gli aveva dato, a sua insaputa, un figlio mezzosangue. Era un’ipotesi perfettamente realistica, sulla quale era del tutto inutile arrovellarsi, arrabbiarsi, piangere…Eppoi  indubbiamente l’unico uomo che Wade in qualche modo doveva aver considerato come un padre era Leeland McRae, che si era occupato di lui, gli aveva dato consigli, insegnato a scarabocchiare, l’aveva calzato, vestito, aveva permesso che avesse una casa e che potesse studiare. Rhett Butler: un semplice nome, per lui, né più né meno. Un nome simile al suo, ma che apparteneva ad una persona del tutto diversa, un bianco con i capelli bruni e i baffetti sottili, un perfetto sconosciuto, uno di quei ricchi che gli facevano soltanto rabbia. Aveva letto  “Il Capitale”, pensava Rossella. Di che cosa si trattasse con precisione, lei non s’era mai curata di saperlo: un trattato politico, questo era sicuro, forse il vangelo di quelli che sognavano di mettere il mondo sottosopra in nome dell’uguaglianza. Di quelli come Wade, che sarebbe potuto diventare un artista e invece aveva scelto di diventare medico per aiutare i bambini mocciosi degli slums, gli operai che lasciavano le dita sotto le presse delle fabbriche, gli immigrati che non sapevano una parola d’inglese e si guadagnavano la fame pulendo le latrine pubbliche, magari perfino gli indiani delle riserve. E chissà per quale misteriosa ragione  aveva deciso di curare la figlia e la mantenuta d’un mercante d’armi. Il bisogno di denaro? Mah, uno che vive in Congo Square nella casa di uno stregone vudù, che veste e cavalca come un vaccaio texano, che si vanta di saper badare a se stesso, non può essere un uomo che abbia grandi esigenze:chi doveva mantenere, oltre a se stesso? Il suo cavallo, le aveva detto Prissy, e un grosso cane nero sempre affamato. Basta.

 

*

    -Le vostre mani, dottor Butler…Sono incredibilmente belle.

    Lo avrebbe fatto arrossire, a guardarlo come lo guardava, se fosse stato bianco. Sì, lo avrebbe fatto arrossire, accarezzandogli leggera, con la punta dei polpastrelli, il dorso della mano.

    -E’ importante che un medico ne abbia cura: sono il suo strumento di lavoro. E che le tenga pulite, soprattutto questo. Stein ,uno dei miei insegnanti ad Harvard, uno che in Europa aveva studiato con il dottor Semmellweiss, non faceva che ripetercelo.

    Stein. Un ebreo, sicuramente doveva essere quello. Solo un ebreo, anche al Nord, non avrebbe recriminato, ritrovandosi tra i piedi un negro che pretendeva di studiare per diventare dottore. E a lei gli ebrei non erano mai piaciuti, le sapevano di nasi adunchi, animi gretti e mani sordide. Tutti, anche quel dottore arrivato dall’Europa che se le lavava continuamente ed esigeva che altrettanto facessero i suoi allievi. Ma era possibile che le mani di un negro fossero pulite? I negri a lei avevano sempre messo paura, con quei denti grossi, quegli occhi bianchi nelle facce nere, quei muscoli che sembrava volessero scoppiare sotto i camiciotti di tela, quei capelli che dovevano essere ruvidi come la lana delle capre. Negri ed ebrei, due facce della stessa medaglia, gli assassini di Cristo e i reietti della terra. Non aveva mai conosciuto un ebreo, negri sì. E le facevano ancora più paura, adesso che quella maledetta guerra li aveva resi liberi com’era libera lei,  i neri di casa e quelli dei campi,la stupida Prissy e il dottor Butler, che era bello come un angelo e non abbassava gli occhi incrociando il suo sguardo. Chissà se era vero che solo pensare alle donne bianche mandava il loro sangue in fiamme. E chissà se era vero che…Con tutti quelli che le erano passati davanti agli occhi in vita sua, non aveva mai pensato che anche un  uomo di colore potesse essere bello e desiderabile. Come Wade, con i suoi occhi profondi e le labbra socchiuse, con il suo leggero sentore di cuoio e di colonia che non riusciva a mascherare l’odore eccitante della sua pelle.  La stava osservando senza parlare. Che fosse arrivato a comprendere la sua frustrazione di donna umiliata, a fiutare il suo desiderio segreto, malato, vergognoso, che non doveva trapelare per niente al mondo? Ci hai mai provato con un nero, bella signora?

    -Mio padre era arrivato a possedere anche quattrocento schiavi: li ho sempre avuti sotto gli occhi, nei campi, in casa, dappertutto. Eppure…

    “Eppure te li sei sempre figurati come ti ha fatto comodo, bella signora: animali creati per la fatica, con la schiena forte e il cervello debole, pigri, sensuali, creduloni, i cui unici interessi sono ballare, mangiare e fottere e molto più attrezzati tra le cosce che non dentro la testa. Eppoi ti mettono addosso una terribile paura, perché non puoi più controllarli com’eri abituata a fare e non li conosci abbastanza: è normale aver paura delle cose che non si conoscono.”

    Gli aveva detto che la vita non era stata facile con lei e che spesso era stata costretta ad affrontare con coraggio le difficoltà: stava con un uomo che non era suo marito e dal quale aveva avuto una figlia; se n’era sempre infischiata di schemi e convenzioni, e se un uomo le piaceva…Se le piaceva, non esitava a farglielo capire, anche se le uniche cose che sapeva di lui erano il colore della pelle e dieci anni e più di differenza d’età. Aveva mani morbide e delicate, estremamente piacevoli mentre gli scorrevano dolcemente sulle sopracciglia, sugli occhi, sugli zigomi alti e ossuti. Deglutì, quando gli sfiorarono le labbra.

    -Sei bellissimo, Wade.

    -Parecchi uomini di colore lo sono. Non ve n’eravate mai accorta?

    “Già, ai bianchi ha sempre fatto comodo lasciarci credere il contrario, strapparci via l’orgoglio di essere come siamo, insinuare nei nostri cuori l’invidia per gli altri e il disprezzo di noi stessi. E noi ci siamo cascati. Quasi tutti i sanguemisto come me sono orgogliosi di essere bianchi per metà, per tre quarti, per un decimo soltanto; chi è nero, invidia i capelli lisci e la pelle chiara di chi è meticcio. Chi è meticcio disprezza i neri e non si rende conto che i bianchi disprezzano tutti allo stesso modo. Non è vero, Madame? Ai bianchi, il loro mondo non basta più, e allora… Gli indiani vengono massacrati per costruire la ferrovia. I neri, alla faccia di tutte le leggi, continuano a restare la solita merda di sempre. In Asia e in Africa non è rimasto un solo francobollo di territorio che non sia colonia. Che cosa ci abbiamo guadagnato, noialtri? La vostra civiltà, che avete avuto la condiscendenza d’insegnarci a colpi di frusta?”

    Wade aveva una pelle morbida e sensibile e un notevole autocontrollo. Un altro le sarebbe saltato addosso, pensava Rossella. Lui si limitò a lasciarsi sfuggire  sospiro di piacere quasi impercettibile e a guardarla con quegli occhi carichi di domande.

    “Uh, ti piace, il negro, eccome se ti piace, il negro grosso, puzzolente e sempre in fregola, bella signora…Non te l’hanno insegnato, che le signore perbene farebbero meglio a girare alla larga da quelli come noi? Ah, Rossella, piccola mia, se continui a toccarmi in questo modo non so fino a che punto…”

    Aveva dita bianche e sottili, Rossella. Dita curiose e impudiche, che gli sbottonavano la camicia e si divertivano a sfiorargli, leggere, la pelle scura del petto. Che splendidi muscoli hai, Wade…Un bel paio di spalle, il collo lungo e robusto, la nuca rotonda, coperta di riccioli fitti e ruvidi. E la schiena liscia, lui che le aveva detto di frusta, fuoco, lividi e bastonate. Non c’erano segni sulla sua pelle, pensava la donna assaporando le labbra piene di lui, il sapore salato della sua lingua e della sua saliva. Parlava con le parole degli altri, forse con le loro menzogne. La tua vita è stata meno difficile di quanto non lo sia stata la mia.Che cosa ti hanno dovuto rubare e ti sei dovuto riprendere, quando eri la scimmietta ammaestrata di Leeland McRae? O quando tua madre, per farsi mantenere, gli faceva quello che aveva imparato a fare nei bordelli di Richmond?

    Sorrise, sarcastica, continuando ad accarezzargli la nuca, le spalle, il petto, a percepire il calore, la morbidezza, l’odore della sua pelle liscia e scura. “Velluto di mezzanotte”, dicevano i signori bianchi parlottando tra loro  a proposito delle grazie di qualche sgualdrinella nera. E anche la pelle di Wade, che era figlio della degradazione e della lussuria e non dell’amore, era  come velluto di mezzanotte.

     -Tutto questo…è molto meglio del laudano, non è vero, bella signora?

     E’meglio del laudano e non fa male. O fa male, forse. Uno schiaffo era l’ultima cosa che Wade si sarebbe aspettato, quando anche lui cominciò a giocare con le mani. Finché a dirigere il gioco era stata lei, tutto andava bene, ma poi il gioco s’era fatto pesante: lei era una signora, lui uno straccione nero, inutile illudersi.

    La fissò con quegli occhi bui come il fondo di un pozzo poi, sistemati alla meglio i vestiti, infilata la giacca, calcato sulla testa il cappellaccio a larghe tese, se n’era andato senza una parola.

 

*

 

 

    -Wapiti!

     Ricordò di essere uscito dall’acqua in cui aveva cercato refrigerio, in quell’estate torrida di cinque anni prima e d’essersi domandato, non senza imbarazzo, se lei l’avesse visto nudo. Non doveva avere più di tredici, quattordici anni, ed era una deliziosa ragazzina coi capelli neri che le arrivavano alle natiche, i denti bianchi nella faccia cotta dal sole, gli occhi a mandorla dall’espressione pungente. Masticava un po’ d’inglese,appreso alla scuola della Missione cattolica che aveva frequentato fintantoché era stata in grado di resistere rinchiusa, e gli stava sempre appiccicata alle costole. Era una mocciosetta di quattro o cinque anni, quando l’Uomo Bianco Che Fa Vivere La Gente Sulla Carta aveva preso l’abitudine di portarselo appresso quando lasciava la città per andare da loro: un cucciolo di Uomo Bisonte, che le donne della tribù avevano soprannominato Wapiti, come il grande cervo della foresta, che aveva i suoi stessi occhi scuri, liquidi e dolci. Poi l’Uomo Bianco s’era fatto troppo vecchio per cavalcare, e Wapiti tornava da solo a trovare i suoi amici indiani, a schizzare sulla carta i loro tratti fieri, le loro facce aquiline incorniciate dai lunghi capelli pesanti come coperte di lana, quei loro occhi tristi che guardavano aldilà delle cose, cercando il ricordo di un passato che niente avrebbe potuto richiamare indietro.

     La ragazzina gli sedeva sempre vicino per guardarlo disegnare, gli sorrideva sempre. “Sei bellissimo,anche se sei diverso da noialtri”. Gli diceva. Era maliziosa, per la sua età, più delle ragazzette bianche,doveva credersi già donna. Gli aveva regalato i suoi braccialetti e le sue collane, dicendo che gli avrebbero portato fortuna.

    Quella volta, se fosse stato bianco, di sicuro sarebbe arrossito fino alle orecchie, vedendola correre verso di lui. Non potendo fare altro, s’era rituffato a precipizio dentro l’acqua fredda del laghetto.

    -Credi che non abbia mai visto un uomo nudo, Wapiti?

    -Agli occhi della mia gente non sta bene che un uomo si mostri nudo davanti a una donna.

    -La tua gente. I visi pallidi, come l’Uomo Che Fa Vivere La Gente Sulla Carta o gli uomini bisonte?

    Non lo sapeva nemmeno lui, era come se vivesse tra due mondi. La sua pelle scura, fino a quel momento, non gli aveva precluso niente, ma lui non era così sciocco da non capire che era solo fortuna e non sarebbe stato per sempre: solo il denaro e il prestigio sociale di Leeland McRae, l’Artista erano stati capaci di scardinare le mille porte che la vita avrebbe potuto chiudergli in faccia. Il denaro, quello, anche se non era più di un sogno o di un incubo, per gli immigrati degli slums, per i bambini che lasciavano le dita negli ingranaggi delle macchine, quando la stanchezza, la fame e il sonno intorpidivano i loro riflessi; o per i piccoli spazzacamini costretti a sei, sette anni, a guadagnarsi da vivere vincendo a forza di botte l’angoscia del buio, di quei pertugi stretti come una bara nei quali dovevano calarsi a testa in giù, legati per i piedi. Non erano schiavi anche loro, malgrado  la loro pelle bianca, malgrado il tempo della schiavitù fosse stato cancellato dalla guerra? La Guerra Civile aveva spezzato le catene di ferro dei neri per forgiarne altre, invisibili ma ugualmente pesanti da portare: una schiavitù che non guardava in faccia nessuno, bianco, giallo, nero, cittadino americano o immigrato.

    -Non ti si vede più spesso come prima, Wapiti.

    -Ho parecchio da studiare,se voglio diventare uomo-medicina.

    -Un uomo medicina…-il sorriso della ragazzetta s’era fatto scettico-Uno sciamano deve vincere il dolore, se vuole conquistare la conoscenza. E il suo corpo porta le tracce della sua lotta contro il dolore: non vedo cicatrici, sul tuo petto e sulla tua schiena.

     -Non la conquistiamo in un’altra maniera, la conoscenza, piccola Donna Lupo:senza bisogno di farci del male.

    -E’difficile curare il dolore degli altri se non lo si è provato sulla propria pelle,credo.

    E lo credeva il popolo di Donna Lupo: i guaritori si provocavano ferite, scarificazioni e bruciature, arrivavano a forarsi i capezzoli e il prepuzio. Forse era vero,non si riesce a curare il dolore degli altri, se non lo si conosce.

    Aveva conquistato la conoscenza, quando era tornato; e Donna Lupo non era più la stessa di tre anni prima: un essere febbricitante, deforme, terrorizzato, che da due giorni e due notti urlava il proprio dolore per quel figlio, il primo, che non voleva uscire da lei. Un dolore di cui un uomo non avrebbe conosciuto la più pallida parvenza, neppure se si fosse strappato a brani la carne dalle ossa. Donna Lupo sarebbe morta, se non avesse fatto qualcosa, e allora Wade aveva preso il suo coltello, ne aveva arroventato la lama sul fuoco e aveva allargato il canale del parto con un colpo secco. Il bambino era venuto fuori, insieme con un fiotto di sangue e di materia purulenta. Morto.

    Lei se la sarebbe cavata, era giovane e forte, e poi gli sciamani della sua tribù conoscevano le erbe che debellano la febbre. Ma l’amore non le avrebbe dato più alcun piacere e forse non sarebbe stata in grado di avere altri figli: i suoi simili l’avrebbero considerata una reietta, probabilmente il suo compagno l’avrebbe ripudiata: era valsa la pena di salvarla?

    -Sei troppo sensibile, ragazzo: vedi di cambiare o per te saranno guai grossi. Un medico deve abituarsi a convivere con i suoi fallimenti e i suoi errori: non siamo dei padreterni.

    Diceva di parlare così perché aveva già avuto l’età di Wade, ma Wade non aveva ancora la sua. Non era diverso da tutti gli altri neolaureati che gli mandavano come tirocinanti, pieni di ideali eroici che, a contatto con la realtà, si sgretolavano come legno marcio. Nessun problema economico, un facoltoso tutore che, non avendo altri parenti, sicuramente gli avrebbe lasciato tutte quante le sue sostanze…Era stato più fortunato di lui il cui padre, un modesto insegnante,aveva dovuto tenere l’anima coi denti per farlo studiare. Più fortunato di lui che, a quarantacinque anni suonati, non era ancora riuscito a venir fuori  da quel dannato ospedale finanziato da un filantropo di cui non ricordava neppure il nome, dove si curavano corpi fradici per la sifilide, occhi che suppuravano,dita tranciate dai macchinari delle fabbriche, i malanni della fame e della miseria.Quando rientrava a casa più morto che vivo, erano anni che ascoltava la solita solfa:” Sei un fallito, un buono a niente, non ho più nulla da mettermi addosso che non sia tutto rappezzato, i tuoi figli vanno in giro con le scarpe scalcagnate e si vergognano di te…” Sua moglie aveva ragione. Quell’altro, invece, giovane e bello com’era, e ricco come sarebbe diventato, avrebbe potuto avere il mondo ai piedi, perfino sposare l’ereditiera più facoltosa e più carina della città senza che nessuno osasse recriminare circa le sue origini o il suo colore.

    -Il denaro corrompe-diceva sempre. Se avesse ereditato tutte le sostanze di Leeland McRae, come sembrava più che probabile, avrebbe lasciato un vitalizio a sua madre e investito il resto in quel dannato ospedale. Pazzo. Poi sarebbe sceso al Sud, per curare i malanni dei suoi simili e magari si sarebbe fatto linciare dal Ku Klux Klan  non appena quella gentaglia avesse realizzato che non era stato capace di restarsene al suo posto o una donna bianca gli avesse posato gli occhi addosso anche solo per guardarlo. Dieci, cento, mille volte pazzo. Era un bel ragazzo simpatico, con la parlantina facile, ricordava il dottor Brannighan, che cavalcava come un centauro, non si tirava indietro se c’era da menare le mani e anche con la sei colpi se la cavava mica male. Era bravissimo a disegnare, forse avrebbe fatto meglio a non intestardirsi a diventare medico e sarebbe potuto diventare un artista di vaglia come il suo tutore. Con le idee che gli frullavano in testa, per lui sarebbe stata la scelta migliore, invece…

    -Il momento in cui un medico deve misurarsi con la morte prima o poi arriva sempre, Wade. E non sempre a morire sono i vecchi, o chi ci vuole male. E’ dispiaciuto anche a me, credimi, ma nessuno avrebbe potuto farci niente.

    Inutile dirgli che piangere di tristezza e urlare di dolore non è vergogna, Brannighan tanto non lo avrebbe capito, e magari gli avrebbe rinfacciato di avere il cuore di cera e le lacrime in tasca, come tutti quanti i maledetti neri, una razza  impastata di sentimento più che  ragione. “Ti saresti dovuto fare le ossa  dove me le sono fatte io, ragazzo”. Già, lui se l’era fatte come medico militare durante la Guerra, le maledette ossa. Avesse visto anche solo una decima  parte di quello che aveva visto lui quando era chirurgo dell’esercito, giovani rovinati per sempre, gente che pregava Dio di toglierla dal mondo,  avrebbe mollato tutto quanto per tornarsene all’Accademia a dipingere. O sarebbe diventato duro come una pietra, e non avrebbe dato una lacrima, per la piccola immigrata morta in quella maniera spaventosa solo perché non aveva abbastanza denaro da comprarsi un paio di scarpe.

    -Forse quella tua…Anna è stata più fortunata da certi che dalla guerra tornavano ridotti a rottami. E non piangere come piangono le donne, Wade, maledizione!

 

*

 

    Wade cavalcava verso casa sotto la pioggia, la pioggia tiepida dell’autunno di New Orleans. Quei pochi anni, quella città, l’avevano cambiato, indurito, come l’allume di rocca aveva indurito la pelle delle sue dita. Aveva imparato, se non ad accettarle, almeno a misurarsi con le numerose facce della morte che in quella città putrida di fango erano le febbri, i serpenti velenosi, i morsi incurabili dei cani arrabbiati, la presenza incombente del Padre delle Acque, il grande fiume che fagocitava e non restituiva quel che si era preso, una città che sembrava sempre sul punto di marcire, se non di sprofondare in quel fango su cui si reggeva per puro miracolo. E poi c’era l’odio, il puntiglio truccato da questioni d’onore, il fanatismo cieco  e senza ragione che armava le mani dopo essersi rivestito d’ideali assurdi che, in realtà, servivano solamente a nascondere giochi di potere: bianco contro nero. Uomo contro uomo. Quando sarebbe finita? Ne aveva curate a decine, ferite d’arma da fuoco e ossa rotte dalle bastonate. Qualcuno gli era morto tra le braccia, com’era successo a Papa Joe, un vecchio negro mezzo svanito che era stato pestato chissà per quale motivo, dai fantasmi bianchi che s’erano dati il nome di un fiore. Era stata dura non piangere, anche se nessun Brannighan glielo avrebbe rimproverato.

    Ma, per fortuna, quella città era anche piena di vita, generosa e calda come una vecchia puttana alla prese con un ragazzino a cui debba insegnare tutto: il Carnevale, il profumo speziato del gumbo (minestra di gamberi, N.d.A.) e delle callas (frittelle dolci N.d.A,), il mercato con il suo vociare, la musica e le donnine dei locali malfamati di Storyville, la stupefacente bellezza delle mulatte di Rampart, i tamburi del vudù. L’appé vini le Grand Zombi /L’appé vini pou fé gris gris…”(« E’ venuto il grande Zombi…E’ venuto per fare gris-gris… » si tratta di una sorta di formula di scongiuro nel dialetto creolo di New Orleans N.d.A.)

 

*

 

    Nell’accomodarsi la veletta, mentre la carrozza di avvicinava alla meta,, Rossella si domandò se qualcuno avrebbe  potuto riconoscerla. Con il viso velato e le mani coperte dai guanti, niente la rivelava per una bianca. I riccioli neri che le sfuggivano dal cappellino avrebbero potuto spacciarla per una quarto od ottavo sangue, per qualcuna di quelle languide bellezze dalla pelle color avorio vecchio con le quali i gentiluomini bianchi della città solevano formare,col beneplacito di tutti quanti, mogli comprese, le loro famiglie clandestine. Rise dentro di sé, sarcastica, al pensiero di come si sarebbe sentita, appena pochi giorni prima, se qualcuno si fosse azzardato a scambiarla per una donna di colore. Nessuno può mettere ipoteche sul proprio futuro. E le differenze, in fondo, non erano poi molte, anche se nelle vene di  Rossella scorrevano solamente sangue irlandese e francese. Anche di lei dicevano a bassa voce puttana e mantenuta. Rhett era stato suo marito cento, mille, diecimila anni prima, adesso era soltanto l’uomo che le giaceva accanto nel letto e per il quale ogni scusa era buona pur di rimandare un matrimonio a lungo promesso. Rhett non era mai stato una persona come si deve e mai che gliene fosse importato qualcosa. Era ancora sposata a Frank, il buon vecchio Frank che non amava, la prima volta che era stata con lui. Frank, marito di Rossella e socio in affari di Rhett. Delle remore morali avevano fatto cartastraccia, sia lei che lui, e la paragonassero a chi volevano, le malelingue di New Orleans: anche a una negra. Per quel che gliene importava…

    La vettura pubblica, mai avrebbe immaginato in vita sua di doversi servire di una carrozza a nolo, di dover sedere sulla stessa panca dove poteva aver posato le natiche una prostituta, si era fermata.

    -Congo Square, Madame-aveva bisbigliato il vetturino, aiutandola a scendere. Era un negro corpulento, di mezza età e sicuramente dalla voce, dal biancore delle mani, dalla consistenza dei capelli o da qualche altro particolare, doveva averla riconosciuta per quella che era. Ma non si era, grazie a Dio, meravigliato più di tanto: da Mexcal,perché era lì che stava andando, a farsi preparare filtri d’amore e fatture a morte, non andavano solo le negre.

    La casa dello stregone era un vecchio edificio fatiscente in fondo a un giardino incolto, ombreggiato da alberi di catalpa  che da anni non venivano potati. Un grosso cane nero latrava minacciosamente, lanciandosi contro l’inferriata. Ringraziando il Cielo, la casa era dotata di un piccolo ingresso secondario che si apriva direttamente sul muro esterno della costruzione e doveva essere la porta che immetteva nell’abitazione di Wade.

    Bussò. Era possibile che lui non fosse in casa, come capita spesso ai medici.

    -Desiderate, Madame?

    -Ho un terribile mal di testa…da un paio di giorni in qua.

     Gli rispose, sollevando la veletta e dedicandogli il migliore dei suoi sorrisi. Lui era scalzo, in maniche di camicia, bellissimo.

    -Non avrete intenzione di ricominciare con quel dannato laudano, spero:detesto l’idea di veder morire i miei pazienti.

(continua)

   
 
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