L’album non era neanche uscito e già programmavano
un concerto di promozione.
Era stata
un’idea geniale di Bill*, un paio di giorni prima che Battle
for the Sun andasse
in onda sulla BBC
Radio 1, dopo una
sessione
particolarmente fortunata, a
casa di
Steve.
Non erano certo partiti con il piede giusto, considerato che quella
mattina
Brian non era esattamente di buon umore.
Era la prima volta che andavano a
casa
di Steve, il loro nuovo batterista in erba, in gamba per essere
così giovane,
anche se era evidente la differenza di età che correva fra i
membri storici
della band e il nuovo arrivato. Quei quindici anni di differenza erano
tutti in
quell’appartamento di Londra, a Soho, nel caos più
totale, al confine con
Chinatown, e circondato da locali, disco club, pub e strip club, oltre
che bar
affollati da studenti che digitavano freneticamente su piccoli laptop
oppure
sottolineavano di giallo libri universitari o manager
che si sentivano ancora giovani
e si prendevano una pausa, magari attaccando
bottone con qualche cameriera .
L’appartamento di Forrest era al quarto piano e assomigliava
terribilmente ad una
casa per studenti, con una scalinata squallida, un affaccio su cortile
interno,
grigio e con vista sui cassonetti della spazzatura, ma almeno la stanza
principale, una specie di soggiorno con angolo cottura e zona batteria,
era
luminosa.
Quando però Brian aveva visto il bagnetto scuro e senza
finestre aveva
arricciato il naso e aveva commentato che non c’era il bidet.
In realtà non ci
sarebbe stato spazio per il bidet, avrebbe voluto far notare Steve, ma
qualcosa
nello sguardo del suo frontman lo aveva convinto a tacere.
Poi si erano subito messi al lavoro e, dopo un’oretta di
prove, erano piombati
in casa due o tre venticinquenni che
avevano intenzione di invitare Forrest a giocare a pallone.
Era una bella giornata, primaverile e stranamente non umida e piovosa
come ci
si sarebbe aspettati da un marzo londinese: un’occasione da
non perdere.
Quelli si erano trattenuti a bere una birra in compagnia e Stefan e
Bill li
avevano trovati anche simpatici, ma Brian li aveva scrutati in
silenzio, pazientemente,
cordiale ma terribilmente formale.
Stefan per un attimo aveva pensato che non sarebbe riuscito a
trattenersi dal
ridere, gli sembrava di assistere ad una scena comica: da un lato quei
due
ragazzi con le creste colorate, in jeans stracciati e maglietta che
ridevano a
crepapelle, farneticando qualcosa in slang e mangiandosi le parole, e
un Brian
Molko trentasettenne che sfoggiava un sorriso di circostanza,
completamente
vestito di nero, in giacca e scarpe di vernice, che alle volte scandiva
le parole,
alle volte trascinava le frasi lentamente, a metà fra un
dandy di fine secolo e
un damerino.
Dopo più di mezz’ora di gaudio intrattenimento
Molko si era fatto sentire,
sostenendo che dovevano tornare alle prove e non volevano testimoni.
Steve aveva
protestato, in fondo Karl e
Dereck non davano nessun fastidio e amavano ascoltare la buona musica.
Se era
un tentativo di lusinga, Brian non ci era cascato e
Stefan aveva pensato, un po’ meno divertito,
che adesso il suo compare avrebbe piantato una grana rovinando a tutti
la
giornata.
Fortunatamente era intervenuto Bill che aveva appoggiato
entusiasticamente
l’idea di Steve
e aveva proposto di
“allargare la cerchia dei partecipanti”, il giorno
stesso dell’uscita
dell’album, e
stupire i fan con un
concerto segreto, magari
proprio da
quelle parti, a Soho Square, dove l’estate scorsa era andato
a vedere un
piccolo festival di band emergenti che si erano sfidate fin
all’ultima nota per
vedere pubblicato il loro primo singolo.
William Lloyd, tu si che sei un genio,
avevano pensato, all’unisono il bassista e il batterista dei
Placebo, quel
giorno, e pensano
ancora, in quel
momento, davanti agli sguardi stupiti ed esaltati dei fan, stupiti e
incuriositi di chi non li ha mai sentiti, stupiti e irritati delle
nonnette,
delle coppiette o delle famigliole che non riescono a calmare i loro
figli e
nipoti scatenati.
Sono almeno una cinquantina di persone, la giornata merita e
c’è un sole
primaverile che ha finalmente forzato la barriera di nuvoloni
grigiastri,
residuo della Londra continentale e umida nella stagione fredda.
Al sole si può intravedere la rugiada sull’erba
intorno alle panchine di legno,
le querciole sono ancora spoglie come fragili scheletri ma
già si intravede
qualche fogliolina coraggiosa.
Nonostante l’erba sia ancora umida la gente è
comodamente seduta sul prato a
gambe incrociate ma qualcuno già si alza per osservare
meglio quegli omini che
trascinano strumenti
di amplificazione
con relativi cavi sul palchetto
di ferro
per piccole esibizioni estive.
A Stef sembra di essere ritornati al tempo delle piccole serate nei
sottoscala,
davanti a sconosciuti che il più delle volte cercavano solo
una buona birra e
un po’ di compagnia da osteria, su quei palchetti piccoli,
fragili a vedersi,
così diversi dalle immense arene che ormai ospitano i loro
concerti in tutta
Europa e nel mondo.
Arriva a chiedersi se riusciranno a starci tutti, Bill Lloyd, con il
basso a
tracolla, mentre getta uno sguardo apprensivo alla pianola che viene
trasportata su per le scalette del retro, Fiona Brice,
dall’altro lato del
palchetto si stringe misurando quanto spazio le serve per far scivolare
l’archetto sulle corde del violino e allo stesso tempo
cantare nel microfono.
Senza di lei le voci femminili e
anche
leggermente spettrali di “Running Up That Hill” non
sarebbero realtà.
E infine Nick Gavrilovic che accorda la sua chitarra, allungando
l’orecchio
contro la cassa dello strumento per sentire il suono fioco delle corde,
almeno
finché non hanno finito di attaccare gli amplificatori.
C’è voluta una buona mezz’ora per
preparare il campo di battaglia, qualcuno se
ne è andato sperando di salvare le orecchie, borbottando
contro la rumorosa
musica dei giovinastri moderni, qualcuno è andato a
diffondere la notizia,
qualcuno già ha twittato l’evento ma il pubblico
non sembra troppo agitato.
è pur sempre Soho, il quartiere più
“underground” e all’avanguardia di
Londra,
o almeno questa è la sua fama.
Ci avranno fatto l’abitudine
,
riflette Brian, con una scrollata di spalle, mentre cerca di mantenersi
appartato, dietro
il palco,
stringendosi nel
cappotto grigio,
calandosi la visiera della coppola sul viso nascosto dietro ad un paio
di
Ray-ban, come un
agente in incognito o
semplicemente un ragazzino raffreddato.
Non vuole attirare l’attenzione, e in cuor suo,
se potesse
rimprovererebbe Stefan che si aggira tranquillo per il palco, uno
spilungone
pelato che non teme di essere riconosciuto e che non passa certo
inosservato. Anche
Steve Junior sta
prendendo posto dietro la batteria che è stata lentamente
assemblata. Sembra
davvero che manchi solo lui in scena.
Abbandona cappotto
e sciarpa ma non
rinuncia al berretto e agli occhiali, sale sul palco ricevendo la
chitarra
accordata e collegata fra le braccia.
La lascia pendere sul grembo, prova il microfono schiarendosi la voce e
ticchettandoci sopra le dita
per provarlo provocando un
fastidioso eco. L’impianto
stereo è modesto,
valuta in un attimo, reprimendo
a stento una smorfia, deve
ricordarsi che è in pubblico.
Gli basta un cenno,
la scaletta è
concordata, si alternano vecchi successi
e le canzoni del nuovo album
in
ordine di copertina, più o meno, e le bacchette di Steve
ticchettano l’una
contro l’altra in un esercizio di stile che ha visto
più volte ripetere al suo
nuovo batterista prima di iniziare una sessione di lavoro.
La prima volta in cui lui e Stefan avevano presentato quella canzone
alla band
che ormai si era
allargata a ben sei
elementi, sé stesso incluso,
Steve aveva
salutato la nuova uscita con quello sfrigolare di bacchette che lo
aveva
piacevolmente sorpreso. Calzava a pennello con l’attacco
della chitarra
elettrica, e
già sentiva che la canzone
era meno sua e più loro.
Adesso attacca Stef,
e subito lo stoppato di Olsdal e Bill Lloyd
segue il corso dei suoi pensieri , già gli sembra di
attirare l’attenzione del
suo pubblico con quel ritmo cadenzato che
cattura, ipnotico.
Potrebbe continuare così
all’infinito,
potrei anche non cominciare mai a cantare;
il senso di attesa si fa urgente, nel
frattempo prova qualche effetto di distorsione alla
chitarra, tormenta
una corda, ricostruendo la sigla iniziale, accarezzandola e poi stritolandola.
Con un occhio
osserva Junior che
muove la testa al ritmo della chitarra e
quasi quasi vorrebbe rimandare la partenza
per osservare i suoi scatti frenetici
ancora un po’.
Lo diverte, è un comportamento da ragazzino,
con un entusiasmo che lui non riesce più a
provare, non così verace,
così genuino e quasi tenero.
Tutto sommato gli pesa avere lì, dietro le sue spalle quel
biondino scattante
che si agita sul suo sgabellino e nonostante tutto
l’ottimismo che predica la
nuova campagna pubblicitaria del nuovo album,
oggi, Brian Molko si sente tutto tranne che sereno e
ottimista.
“Hi, we are Placebo from London”
suona
un po’ meccanico e poi, stupido che non è altro si
ricorda che è a Soho che,
guarda caso, è
un quartiere di Londra;
Cristo, Brian, concentrati, idiota che
non sei altro, “
the album is called
Battle for the Sun. This
is the title
track, thank you.”
Forse poteva dire qualcosa di meglio per
presentare il nuovo album, pensa fra sé e
sé Steve e sa , dagli sguardi di
tutti che il pensiero è condiviso.
Quindi scatta in avanti con le bacchette,
pizzicando i tamburi della batteria, qualche
colpetto alle guarnizioni in metallo e poi i piatti.
Osserva il suo frontman avvicinarsi al microfono, eloquente, e cominciare a sospirare
con voce
sofferta il pronome
personale di prima
persona singolare che rimbomba sul pubblico attonito.
Strano, si sono zittiti tutti, anche i bambini che osservano curiosi il
primo
concerto della loro vita, perché Steve dubita fortemente che
qualcuno di
questi lattanti
abbia mai visto un
concerto, neanche nella mondanissima Londra. Anzi, i londinesi, fra
tutti gli
inglesi, specie quelli che frequentano i
giardini pubblici, sono forse una delle specie
più snob della terra.
i peggiori sono i bambini snob che
abitano a Nothing Hill, pensa con un mezzo sorriso mentre,
dopo parecchi
sospiri che accarezzano il microfono
in
modo conturbante, finalmente Brian arriva alla fine della frase.
No fun if you, you, you, you, you,
you are a cheap and nasty fake
Fake, fake, fake, fake, fake,
fake
And I, I, I am the bones you couldn't
break
Break, break, break, break, break,
break, break
Finalmente l’atmosfera
comincia a
riscaldarsi anche se, nota Steve con una punta di irritazione, Brian
continua a
tenere gli occhi semi chiusi, ogni tanto digrigna i denti mentre canta,
ha il
collo incassato nelle spalle e stringe rigidamente le braccia,
dondolando
avanti e indietro.
Il biondo non saprebbe dire se il suo cantante sia
veramente coinvolto nello show, sembra
rigido come un pezzo di legno, per
niente scenografico, non certo trascinante.
Lui nel frattempo sente i muscoli gonfiare
i tatuaggi rossastri che gli ricoprono tutto il torace e
le braccia, li
esibisce fiero, senza maglietta, così
sta
comodo e non soffre il caldo, pensa ironico Brian mentre
interpreta i suoi movimenti. Vuole
vedere come se la cava Forrest alle
prese con il suo primo live e, suo malgrado,
constata di non essere abituato a tutta
quell’esplosione di energia,
quella giovinezza e quella attitudo macho così ostentata.
Sei la quintessenza dell’etero
Forrest, dice
a sé stesso e sorride alla folla mentre
pronuncia ancora una volta il titolo del loro primo singolo,
soffermandosi
sul “sun” con un soffio sensuale.
Intorno a loro il paesaggio è cambiato, Stefan nota che sono
accorsi un sacco
di nuovi personaggi, per lo più trentenni, qualche ragazzino
in più, magari
attirato per la prima volta dalla musica prorompente che sa farsi
sentire anche
attraverso mediocri altoparlanti comunali.
L’età
media saranno i venticinque anni,
pensa fra sé e sé,
non a torto,
poiché dal 1994 ne hanno fatta di strada. L’applauso
è tiepido, i fedelissimi sono
pochi, ancora non
sono stati invasi dai
fan agguerriti.
“Thank you, people! Next song is … an old song.
”
Stefan nota con piacere che Brian comincia ad entrare nello spirito
della cosa
anche se non accenna a levarsi quello stupido cappello . E pensare che
lui comincia
a sudare sin dentro ai pantaloni,
ha una
canotta bianca e una sottile
sciarpetta
di seta cangiante con l’orlo glitterato, rosa e a tratti
violetto.
Stefan è tremendamente gay oggi,
sorride Brian mentre prende fiato, già gli manca il respiro
dopo neanche una
canzone, al prossimo intervallo si prenderà un bicchiere
d’acqua.
“Ladies and Gentlemen! Every me and Every you!”
Ecco che Stefan abbassa lo sguardo sul manico seguendo attentamente il
plettro
che pizzica, rapido e indolore, Bill
lo
accompagna serafico passeggiando accanto alla tastiera che lo segue con
un
timido accompagnamento amplificato
dal
pedale; poco
lontano Fiona scompare per
un attimo sul retro lasciando il suo violino appoggiato per terra e Steve comincia a pestare sulla batteria,
contorcendo persino la
schiena e squarciando l’aria con i piatti.
Sucker love is Heaven sent
You pucker up, our passion's spent
My hearts a tart, your body's rent
My body's broken, yours is bent
Pesta troppo il biondo per I suoi gusti, Brian si ritrae per un attimo,
ritardando la ripresa della battuta, e lasciando sconcertato Stefan che si esibisce in un piccolo
riff fuori
programma per tappare il buco.
Gli arrivano sguardi assassini che
chiedono a gran voce “che
cazzo fai?” “
Ma sta attento!” “segui il
ritmo!” . Ma Brian è distratto
dal ciuffo biondo del suo batterista che salta su come un delfino
dall’oceano e
poi gli ricade sugli occhi, grondando sudore.
Poi riprende, biascicando ferocemente:
Carve your name into my arm
Instead of stressed, I lie here charmed
'Cuz there's nothing else to do
Every me and every you
La canzone sembra andare avanti senza intoppi e
altrettanto Kitty
Litter, poi di nuovo una nota stonata in The Bitter End, Brian va fuori
tempo e cerca di
riparare nervosamente .
Steve Forrest comincia a pensare che Brian abbia un tic. Si gira molto
spesso
nella sua direzione e segue l’ondeggiare della sua
lunghissima frangetta
piastrata, poi, con un gesto inconsulto riprende a cantare.
Non può andare così a lungo,
il loro
primo show dopo tanto tempo sta per ridursi ad una barzelletta, pensa
Stefan mentre scarica la sua frustrazione sulla chitarra
cercando di
riparare ai momenti di apatia di Brian.
“…every meeeee”
Brian coglie Bill che ha abbandonato la chitarra e fa il segno di time
out,
dopo appena quattro canzoni.
E pensare che quello doveva essere lo show di presentazione del loro nuovo disco ma, non capisce perché,
Brian non riesce ad andare a
tempo.
Fa segno ai tre componenti principali della band di seguirlo fuori di
scena,
sotto il palco, al riparo dalla folla che commenta sorpresa
quell’interruzione,
folla che comincia
a scalpitare.
Che diavolo ha quel tizio lì sul palco? È
diventato sordo e strabico? , Pensano
alcuni.
Che diavolo ha Molko? Si è drogato? , pensano i
fan.
Qualcuno abbandona il campo, si è fatta quasi ora di pranzo
e non ha tempo per
ascoltare quattro o
cinque fessi over
trenta che giocano sui palchetti per
esordienti, altri ne approfittano per prendersi qualcosa da bere e un
panino da
consumare nel mentre la band si riunisce a consiglio per salvare lo
spettacolo.
“Brian, si può sapere che cazzo fai?!”
“Bill… Mi dispiace, ragazzi. Non so cosa mi ha
preso…”
“NON SAI COSA TI HA PRESO?! MI STAI PRENDENDO PER IL
CULO?!”
“Stefan, Bill, calma… ”
è il biondo a
salvarlo dalla furia dei suoi più
fedeli
collaboratori “Brian… c’è
qualche cosa che non va… con me?”
Stefan e Bill si pietrificano. Poi
lentamente prendono coscienza della situazione,
che è il loro primo serio concerto insieme, e
che il loro sole è
offuscato da un ombra.
Persino Brian impallidisce e digrigna i denti seccato.
“Non dire idiozie, Junior ”
Cade un silenzio imbarazzante mentre
le
parole di Brian puzzano di bugia lontano un miglio.
Steve sembra ferito. Non
ama affatto
quel soprannome, pensava fosse solo uno scherzo quando per la prima
volta il
suo frontman lo aveva chiamato così per poi riderci sopra. E
da allora gli si
era sempre rivolto con quel nomignolo , aveva notato Steve con fastidio
ogni
qual volta che capitava.
Perché non poteva essere come in studio? Con
quell’atmosfera rilassata
e il fancazzismo dilagante?
Che differenza c’era? Tutta quella gente sapeva perfettamente
che adesso era
lui il batterista dei Placebo.
Lo avevano ufficializzato almeno un anno fa. Avevano avuto almeno dieci
mesi
per abituarsi all’idea.
Oppure era Brian che doveva ancora abituarsi all’idea?
“Bene, allora vedi di svegliarti, Molko. Se preferisci
mettiti a contare ma
intervieni a tempo.
Stai cantando di merda.”
Gli fa notare
Steve, con rancore.
Bill li rimanda in scena, facendo sfociare il contenzioso in una bella
pacca
sulla spalla a favore di Brian e un sorriso
poco rassicurante nei confronti di Steve.
Brian barcolla sul palco fino al microfono, dapprima svogliato, poi
lancia un’
occhiata penetrante a quello sbarbatello biondo di Forrest che se ne
sta
rilassato, le braccia forzute abbandonate come salsicciotti appesi alle
travi
della macelleria e osserva il pubblico vacuo.
Si riscuote, ha una sfida da raccogliere.
“Here we are, people! And now… we do it
for real!
The
end of the
century
I said my goodbyes
For what it’s worth
I always aim to please
But I nearly died *
***********************
“Brian!
Suonano alla porta!”
Brian lo ha sentito benissimo lo scampanellio, ma non ha nessuna voglia
di
alzarsi dal divano. Con lo sguardo pensoso osserva il suo compagno di
band,
Steve Forrest che è seduto a gambe incrociate nel salotto di
casa Molko, mentre
stringe appassionatamente un joystick per PlayStation3 e sfida suo
figlio, Cody,
a Grand Theft Auto.
“Muori! MuoriMuoriMuoriMuori! Brutta troi…Ops,
scusa Brian…Fanc…ehm. No!”
Il biondino si agita scuotendo desolato il capo con tanto di cresta al
profumo
di gel e dà un pugno al pavimento, forse si sbuccerebbe le
nocche se il colpo
non fosse stato attutito dal tappeto.
“SI! HO VINTO!” urla di gioia il bambinetto
estasiato, lasciando di corsa il
joystick e saltando su come un grillo, le braccia al cielo in segno di
trionfo.
“SISISISISI! Papà, papà, hai
visto?!”
Brian si riscuote, poco entusiasta davanti alla palese euforia filiale,
mentre
si passa una mano fra i lunghi capelli neri, lisci come la chioma di
una
geisha, scostandoli dal collo sudato. Quando Cody cerca conferma nel
volto
paterno, il cantante si tira su a forza e sorride con finto entusiasmo:
“Grandioso! Sei forte! Dammi il cinque, campione!”
esclama, la voce nasale e
vagamente rauca, come di chi non parla da un pezzo.
Il bambino lo osserva con un’espressione indecifrabile,
scrutando il palmo
alzato del genitore che aspetta in risposta il suo batticinque. Passa
un
secondo di più, un momento di gelo in cui Brian pensa che il
figlio ha compreso
tutto, che a lui non importa una mazza di quella vittoria, un fuoco di
paglia,
una gioia effimera, tutto per una cretina invenzione che si chiama
videogame.
A lui non sono mai interessati i videogame; quando aveva otto anni,
ancora non
esistevano e quando negli anni ’90 hanno preso piede
– o meglio, a metà degli
anni ’90 – lui aveva da lavorare, certo non poteva
perdere il suo tempo
giocando ai videogame.
Ma dopo quella frazione di secondo, un attimo di panico in cui Brian
non riesce
nemmeno a pensare cosa accadrà se Cody non ricambia, il
bambino gli sorride
fiero e trionfante e si avventa contro la sua mano, colpendola con
forza con il
proprio palmo.
“Brian! La porta! Oh, non importa! Vado io!”
Annuncia la voce stridula di Helena Berg, che emerge dalla cucina,
quasi
seccata di dover fare tutto sempre lei. Ogni tanto vorrebbe avere un
po’ di
collaborazione da parte del suo ex compagno in occasione delle grandi
rimpatriate.
Questo sarà Andrew, pensa Helena. Sarebbe proprio ora che
tornasse dal lavoro,
che avesse chiuso l’ufficio e la galleria.
La sua espressione di delusione è palese quando dietro la
porta la aspetta una
figura alta e magra, oblunga, dallo sguardo obliquo, il viso da
criceto, con la
barba mezza rasata e mezza in ricrescita e i capelli con le radici
color topo e
le punte rossicce.
E quel che è peggio è che la sua
è la
faccia che spopola su tutti i giornali nelle rubriche
‘musica’, addirittura
“Rolling Stones USA” gli ha dedicato una prima di
copertina.
“Ma tu sei Matthew Bellamy!” esclama più
che stupita Helena gettando
un’occhiata perplessa alla sua vecchia tuta grigio scuro
adidas, le Nike new
balance giallo evidenziatore e la maglietta rosa porcellino.
“Oh, ciao. C’è Brian?” chiede
lo spilungone senza mezzi termini sbirciando
appena dietro di lei la parete bianca dell’ingresso e in
lontananza i tre
divani che occupano il centro dell’enorme salone. Matt non
può vedere le figure
stravaccate dietro la schiena dei divani né i due
contendenti sul tappeto, ma
può sentire il tono autoritario di Cody che ordina: “Jun,
facciamone un’altra”.
Sente la voce poco familiare di Forrest che protesta davanti al
nomignolo
affibbiatogli da quel moccioso. E’ stufo di sentirsi chiamare
“Junior”, lo fa
sentire l’ultimo arrivato e già è
difficile pensare alla differenza di età con
i membri storici della band senza bisogno di infierire.
Bellamy annuisce semplicemente davanti ad una domanda di Helena, non
saprebbe
bene dire quale e si concentra piuttosto sul suo profilo affiliato e
orientale
mentre lei si volta, sulla grazia del suo nasino, dei suoi capelli fini
e scuri
avvolti in un solido chignon come le parrucche delle creature di cera
di Madame
Toussad. La camicetta bianca ha le maniche rimboccate, sotto indossa
una gonna
grigia al ginocchio e sopra il grembiule bianco a quadri rossi - o forse rosso a quadri
bianchi? - stonano
un po’ gli zoccoli di peluche verde
foglia, in compenso sembrano molto comodi e caldi di novembre.
Brian, annoiato dai suoi capelli che gli ingombrano la cervice adocchia
una
pinza d’argento, forse di Helena, abbandonata nel piatto di
pietra che
troneggia su un ripiano della libreria di mogano, in mezzo alla stanza;
la
libreria fa da spartiacque tra il salotto e la zona pranzo. Dividere
gli
ambienti con enormi librerie invece che spessi muri di cartongesso
è estata una
geniale idea di Helena che, come ogni fotografa che si rispetti, ha un
senso
estetico impagabile oltre che un’innata eleganza.
Si alza di malavoglia dal divano, smuovendo i cuscini che lo ricoprono
e nel
frattempo lancia uno sguardo di disapprovazione allo schermo dove, nel
mirino
dei due sfidanti si susseguono pericolosi gangster ghignanti, puttane
in bikini
e nonnette innocenti, vittime dell’assalto indiscriminato,
tutto condito con un
po’ di sangue finto che non impressionerebbe nessuno.
Forrest reprime a stento le peggiori bestemmie e Brian è
costretto ad ammettere
che suo figlio se la cava davvero bene con quel pessimo gioco.
E’ veloce, concentrato, preciso, tremendamente serio, come se
ne andasse della
sua vita, non esulta continuamente ma prima si assicura di aver
distrutto il
suo avversario con rapidità ed efficienza; gli fa quasi
paura quel ragazzino.
Si specchia nel vetro della finestra, sulla parete accanto alla
libreria e si
sistema la pinza fra i capelli, rimirandosi come una sposa a poche ore
dal suo
matrimonio. Caccia via le ciocche ribelli dietro le orecchie e si
ripromette di
chiedere in prestito alla ex compagna quella pinza comodissima, e forse
anche
qualche forcina qua e là.
Con suo grande stupore vede comparire riflesso nel vetro Matt Bellamy
di tre
quarti che osserva la scena di Cody e Steve mentre, nel frattempo,
è
sopraggiunto Stefan con un giornaletto di enigmistica in mano e una
penna. Il
biondo si sbraca sul divano.
“Uhm… lo è un seccatore? Tu che dici,
Helen?“
“Quante lettere Stef? Intanto assaggi la pasta, dici che
è pronta?”
“Sette lettere, la quarta e la quinta sono -an”
“-an, -an, -an, -an-an…”
“Potrebbe essere pedante”
“Si, ci sta…ma tu sei Bellamy.”
Matt rivolge un tiepido e timido sorriso a Stefan, che ha abbandonato
sul
fianco l’enigmistica e la penna e si è alzato per
salutare, porgendogli la
mano.
“Si, ciao”
“Stefan Olsdal, non so se ti ricordi di me.”
“Ma certamente. Ci siamo visti…sarà
stato quattro anni fa?”
“Si, non ci si incrocia tanto spesso.”
“Già.”
Stefan è sorpreso di vedere Bellamy da queste parti, non gli
risulta che sia
amico di Brian né di Helena, lui certo non c’entra
nulla e tantomeno Steve.
Ma allora chi ha invitato il cantante dei Muse a casa Molko per
festeggiare il
compleanno di Cody?
Tra l’altro Matt non si è certo agghindato a
festa. E’ più trasandato che mai,
sembra il patetico volto di una star senza trucco.
“Come mai da queste parti?” si arrende, non vuole
giocare agli indovinelli
ancora a lungo, ma Brian precede la risposta esitante di Matt che non
saprebbe
neppure bene come chiamare il loro inspiegabile rapporto
“amicizia”.
“Ma non dovevi essere in Australia tra i canguri a
quest’ora?”
Non è sferzante o cattivo ma nemmeno scherzoso. E’
neutro e quasi formale,
potrebbe quasi dargli sui nervi se Matt non conoscesse Brian e il suo
tono
brusco o fintamente annoiato a seconda delle occasioni.
“Parto stasera, tra otto ore.” Risponde
istintivamente mentre Stefan segue
quello scambio con rinnovato interesse e una nuova consapevolezza: quei
due si
conoscono molto meglio di quanto tutti loro e il mondo intero avrebbe
mai
potuto immaginare.
“Ce l’hai un minuto per me?” indica poi
lo schermo al plasma, l’apparato della
Play, lanciando uno sguardo significativo a Cody.
“Non qui, però”
Brian annuisce mettendo a tacere ogni occhiata curiosa che il suo
migliore
amico gli riserva. Sotto le mentite spoglie di un riflessivo,
biondissimo
bassista svedese, si nasconde l’animo pettegolo di Stefan,
come Brian ama
chiamare l’interessamento morboso dell’amico per la
sua vita privata; è come se
si divertisse a psicanalizzarlo seguendolo con l’insistenza
di un ex fidanzato
geloso.
Da quando Steve se ne è andato, Stefan sa che Brian non
è più lo stesso e
l’americano sa che lui sa.
Che casino, pensa Brian, mentre conduce Matt per le scale fino al suo
studio.
Ha voluto quella camera perché da lì si accedeva
direttamente al terrazzo e
così poteva ritirarsi a pensare ogni qualvolta ne aveva
bisogno. Gli ricordava
un po’ la sua infanzia in Libano, quando si appollaiava
lassù al riparo dai
suoi genitori, avvolto in una coperta ad osservare le stelle con
pallida
malinconia.
Ha una specie di oculo tondo, chiuso da un vetro e una scala a
chiocciola di
legno al centro della stanza; al lato c’è la
scrivania con il computer,
l’impianto stereo, la parete delle chitarre –
alcune appese, altre esposte sul
pavimento, in piedi, in bella vista -.
Accanto alla porta poi
ci sono una serie
di scatoloni di cartone che mascherano una console per Dj, comprata
quell’estate, che non ha ancora avuto occasione di provare.
“Il tuo regno”
commenta compiaciuto
Matthew, come se stesse facendo un complimento per rompere il ghiaccio,
o
semplicemente per dire qualcosa.
“Volevi un minuto? Sono tutto tuo. Ma sappi che fra poco ci
sarà la torta.”
Matt inarca il sopracciglio profondamente stupito. Come se un dolce
avesse mai
fatto la differenza per Brian! Anzi, in tempi non sospetti quando
è tornato a
Londra lo aveva ritrovato salutista, vegetariano, più o meno
astemio, quasi
atletico e insolitamente a dieta, fino a negarsi leccornie come il
burro a
colazione e la pasta a cena.
Tra l’altro le due cose si possono facilmente coordinare: non
a caso Matt
Bellamy è un fan della pasta al burro. La sua profonda
storia d’amore con il
burro è poi di fatto qualcosa che Bellamy può
tranquillamente permettersi
sfoggiando un metabolismo che farebbe invidia a chiunque.
Il burro lo aiuta a iniziare bene la giornata, a rallegrarsi durante
uno
spuntino, a far rosicare Kate che lo guarda con occhi umidi e
desiderosi mentre
stancamente mastica carote crude e insalata scondita con il mais in
scatola.
In quel momento Matt Bellamy vorrebbe un po’ di burro,
è un desiderio
improvviso, repentino, furtivo come un ladro e assolutamente insensato
come le
voglie di una donna incinta.
“Matthew, so che sei impegnato a riflettere sulle sorti della
specie umana, ma
è il caso che tu ti dia una mossa. Quando mio figlio
spegnerà le sue nove
candeline vorrei essere presente.”
Ecco spiegato il mistero. Il compleanno di suo figlio.
Matt cerca di ricordare a fatica tutto il discorsetto che si era
preparato, ma
ben presto capisce che dovrà improvvisare.
“A proposito di tuo figlio, non mi avevi mai parlato di
lui.”
La risposta è indifferente e la voce misurata anche se quel
tono ironico
continua a farsi sentire in maniera irritante.
“Non mi hai mai chiesto se avessi figli”
“Si, invece”
“Ah si? E quando?”
“Nel 2004, quando ci siamo incontrati a quella
festa”
“La festa di Stipes”
“Quella”
“Cody è nato nel 2006. Tecnicamente
l’ultima volta che me lo hai chiesto non
avevo figli”
“Beh, avresti dovuto dirmelo quand’è
nato. Nel 2006 già ci frequentavamo.”
Questa volta la voce di Brian è profondamente seccata e a
questo si aggiunge
una tendenza un po’ aggressiva ad accanirsi contro il labbro
inferiore in una
smorfia di irritazione:
“Non avrei dovuto proprio fare un cazzo, Bellamy”
“Molla tutto e vieni in Australia con me”
suggerisce Matt, ignorando il suo
palese scatto di ira e frustrazione.
“Che cosa?”
Matt sorride. Ama prenderlo di sorpresa. Lo intenerisce osservare quei
pozzi
blu – o azzurri o grigi alle volte – che si
spalancano meravigliati quando si
blocca per un attimo incapace di continuare a far finta di niente e a
far finta
di ignorarlo, quando contrae i muscoli del volto e tante piccole
deliziose
rughette ondeggiano sulla fronte. Lo delizia l’idea di averlo
stupito
confermandosi ancora una volta il bambino della coppia, quello che non
è mai
cresciuto e che non si prende responsabilità nei confronti
della vita e degli
altri.
“Non stai dicendo sul serio” conclude
l’altro con uno sbuffo mentre si sposta
verso la sua scrivania, prende a frugare in uno dei cassetti, piccolo
ma profondo.
E’ una scrivania d’epoca, l’unico mobile
antico di tutta la casa che brilla per
il gusto ultramoderno, i colori opachi e neutri, gli spazi bianchi e
l’essenzialità degli arredi.
Quella scrivania si impone sovrana nello studio come un altezzoso
nobile
decaduto che naviga in un ricco salotto borghese, rimessa a nuovo,
restaurata,
con il ripiano in pelle e i ritocchi al legno riverniciato, esibisce
solo
qualche piccola cicatrice, tonda e discreta, frutto
dell’azione vorace dei
tarli.
Eppure è un acquisto recente, comprata ad un robivecchi
parigino, sotto casa di
Marion a Montmartre.
Brian, con urgenza, fruga nel cassetto affastellato di carte, di buste,
scartoffie e una scatola di pennarelli sequestrata a Cody quando aveva
deciso
di decorare le pareti della cucina, non contento del muro di
cartongesso di
camera sua, tutto imbrattato e dedicato a scarabocchi e adesivi.
I compagni di Cody
erano stati talmente
entusiasti della parete che avevano firmato tutti, lasciando un loro
contributo. Ma certo Helena non poteva permettere che i divani bianchi
fossero
lasciati incustoditi alla mercè del figlio.
“Sono serissimo. Lascia tutto e vieni con me.”
“Il lavoro?”
“Ti ritiri per un po’.”
“La mia famiglia?”
“Dì loro che sei in tour.”
“E io?”
“Sarai con me.”
Risponde semplicemente Matt muovendo qualche passo verso Brian, ma
questi si
discosta dalla scrivania suggerendogli di non avvicinarsi oltre.
“Non ci posso credere, Matthew. Come ti viene anche solo in
mente che io possa
rinunciare a tutto per te?”
Improvvisamente Matt sente l’amaro in bocca e lo stomaco
chiuso.
Non ha nessuna intenzione di portarsi Brian in Australia.
L’aeroporto di
Sydney, il sorriso del suo vecchio con la barba bianca accorciata di
fresco – e
l’orrido dopobarba al Pachouli – la loro Jeep che
sfreccia dapprima sul cemento
rigidamente diviso dalla striscia bianca di corsia e poi sullo
sterrato, verde
e selvaggio o terroso e polveroso; la spiaggia e le nuotate sul
Pacifico, la
pesca subacquea, la caccia, il tiro agli uccelli, facendo attenzione ad
evitare
le riserve.
Trova ridicola la sola idea del suo uomo che impugna un fucile da pesca
o che
mira ad un qualsiasi volatile. E’ un pensiero tenero, ma
Brian scambia il suo
sorriso per l’ennesima azione di spavalda impudenza del
compagno:
“Si
può sapere che cazzo hai da ridere?! Ma perché
con te
non si può mai parlare sul serio?”
“Ok, sono serio. Allora ci vieni o no?”
E’ tanto tempo che non discutono, che non litigano, che non
sbattono le porte,
che non fanno scenate e non annunciano con tono stridulo e isterico
“E’
finita!” oppure “Sei uno stronzo!” ;
anzi, a conti fatti si dicono anche di
peggio, sboccati come carrettieri.
Alla fine Matt è deciso a mantenere il punto. è una questione
di principio, l’ennesima
occasione per chiarire, tanto auspicata da Brian e, sempre a detta del
compagno, tanto rifuggita da Matt.
Matthew Bellamy è
assolutamente serio.
Ama pensare a Brian con il brivido di chi attende l’amante
nel suo vecchio
appartamento da single dopo aver raccontato alla moglie che andava
dagli amici
a vedere la partita.
Ma ora più che mai, dopo diverse notti insonni, si
è deciso: ha
intenzione di chiedergli qualcosa di più.
Si sente pronto per sperimentare la convivenza.
Mentre Brian gli urla contro che per lui Matt è solo uno
bravo a letto, la
cotta estiva di una lunghissima vacanza che dura da molti anni, Matt
invece
vuole convivere con il vero Brian, quello che compone, che si alza alle
sei del
mattino per fare la doccia, che beve quantità industriali di
succo Ace o di
arance rosse e che lascia per terra i vestiti sporchi del giorno prima,
ai
piedi del letto, per raccattarli la mattina dopo, quando va in bagno a
lavarsi,
facendo un passaggio per il cesto dei panni sporchi.
Coglie solo qualche parola dell’infinita filippica che il
compagno riversa su
di lui. Continuerebbe ancora a lungo se non fosse che il display del
suo
cellulare si illumina insistente, vibrando sulla scrivania con il
ronzio di una
fastidiosa zanzara.
“Helen?”
“Brian, ma dove siete finiti? Cody vuole spegnere le
candeline! Hanno già
cominciato a cantare ‘Tanti Auguri’”
“Arriviamo”
chiude la
comunicazione lapidario,
lasciando scivolare l’apparecchio nella tasca del comodo
jeans da casa,
stravecchio, ma sempre fedele in occasione dei suoi ritiri casalinghi.
Matt non
ha voglia di scendere e si sente infastidito dalle continue
interruzioni di
Helena, poi di Cody, della sua famiglia, della sua vita, un contesto da
cui lui
si sente automaticamente escluso. Stranamente invece Brian non ha mai
avuto da
ridire sulle sue uscite con Dom e Chris, le sue vacanze dal padre, i
weekend
con Kate, i suoi
brevi soggiorni in
Italia, dalle parti di Como, dove porta in vacanza la madre e passa le
giornate
a leggere alternando thriller e romanzi di fantascienza con opuscoli
sul
paranormale e la telecinesi. Brian non ha urgenza di entrare nella sua
vita e
di riempirne ogni aspetto, ha una maturità e
un’indipendenza che sono quasi
fastidiose.
“Matthew, ti levi davanti e ti sbrighi? Che cazzo stai
guardando? E scordati
questa storia dell’Australia”
Brian fa per sorpassare il compagno che si erge come un palo della luce
fra lui
e la porta dello studio, ma Matt lo spintona sulle spalle,
respingendolo a mo’
di provocazione.
“Ti farò scendere quando accetterai di venire in
Australia con me.”
“Matt, piantala di fare il cretino.”
Brian si fa avanti senza temere di essere respinto, ma Bellamy ha preso
coraggio e lo spinge una seconda volta sbilanciandolo indietro.
Brian si fa più minaccioso, lo afferra per un braccio e a
sua volta lo spintona
con violenza per intimargli a farsi da parte. L’altro
reagisce irrigidendosi,
dandogli una manata sul petto, di scatto.
Molko è incredulo e inferocito. Grida
Ahia e rimane per qualche secondo fermo.
Va a massaggiarsi il petto che pompa a tutto spiano sangue e
aggressività.
Carica un colpo sul naso con la violenza di chi vuol far male. Non si ferma
lì.
Gli sferra un secondo pugno sulla clavicola destra e si accanisce sulle
braccia
di Matt, che cerca di bloccargli i polsi. Bellamy sente il naso
scricchiolare
pericolosamente e ricorda che non è mai stato bravo a fare a
botte; troppo
mingherlino, troppo alto e gracile, un personaggio troppo bislacco per
incutere
timore in chiunque.
Brian, invece, che ha sempre reagito ad unghiate e morsi, soffiando
come un
gattino prevaricato e ferito nell’orgoglio oltre che nel
fisico, è maldestro
nei movimenti; gli
bruciano le nocche e
si butta avanti con tutta la sua forza per poi cadere a terra
sbucciandosi i
palmi delle mani.
Fa per rigirarsi sul fianco ed alzarsi quando è spinto
pancia a terra da Matt,
che si siede sulla sua schiena, ancorandolo prono al suolo.
Brian scalcia, aggredendo le lunghe gambe di Matt sul fianco, quando
Bellamy si
avvinghia al collo.
Nella tasca di Brian il cellulare vibra forsennatamente mentre i due
rotolano
in una danza di calci e pugni, persino qualche morso di Brian che
addenta il
fianco di Matt come se si trattasse di vita e di morte.
Dopo un po’ sono entrambi senza fiato. Si sentono i loro
ansiti, ciascuno
abbandonato su un fianco in un momento di tacita tregua, poi il
ticchettio
acuto di un paio di zoccoli sulle scale.
Matt sente la faccia che gli formicola, le gambe malferme, ha un labbro
spaccato e la maglietta ancora più insozzata di quando si
era presentato.
Nonostante tutto si tira su rapidamente con una smorfia, giusto in
tempo per
accogliere con indifferenza Helena Berg, stufa di attendere,
visibilmente
preoccupata dal loro ritardo e forse irritata dalla loro negligenza che
sta
facendo attendere tutti.
“Si può sapere cosa facevate? Abbiamo sentito dei
colpi sul pavimento”
Matt fa il giro della stanza con lo sguardo e accenna alla figura del
compagno
che si sta tirando su con lentezza e una smorfia che tradisce la
stanchezza.
“Niente, Helen, tranquilla. Stavamo…”
“E’ scivolato. Sul pavimento.”
Matt indica il parquè di legno con disapprovazione come
fosse stata appena
passata della cera e non si fossero premurati di apporre
l’avviso ‘pavimento
scivoloso’.
Helena scoppia a ridere, incredibilmente divertita dalla scusa
infantile di
Matt.
Strizza l’occhio furbescamente, lasciando intendere di aver
capito tutto e
lascia un’occhiata eloquente alla camicia di Brian che, nella
rissa, ha perso
almeno un paio di bottoni e pende un po’ strappata.
Con un sorriso amabile e la complicità di una bambina, si
rivolge al cantante
dei Muse, forse un po’ leziosa, indicando le scale mentre
Brian, già in piedi,
ancora paonazzo in faccia e senza fiato, si precipita di sotto, facendo
rimbombare i suoi passi, solitamente leggeri e aggraziati.
“Mi dispiace interrompervi, tra ventiquattr’ore
sarà tutto tuo, Matt, ma adesso
è il compleanno di Cody.”
“Capisco. Si, scusa se ho disturbato.”
Fa una strana sensazione sentirsi chiamare con il suo soprannome e con
una
certa dolcezza da quella donna così distante e esotica.
E’ davvero una bella sensazione, capisce perché un
tempo aveva potuto
affascinare uno come Brian.
Ma prima di precederla – poiché chiaramente lei
non ha intenzione di avviarsi
se non per ultima, controllando i suoi movimento con un piglio
carismatico che
lo mette quasi in soggezione – si volta di tre quarti, fermo
sul primo gradino
a guardarla e a chiedere:
“Puoi, per favore, dirgli che ci pensasse?”
“A fare cosa?” curiosa involontariamente la donna
“Se vuole venire a vivere con me. Da me.”
“Va bene”
“So che manterrai il segreto”
“Ma certamente”
Ha la sua complicità, lo sa. Il
suo
affetto per Brian è evidente e c’è
qualche gioia infantile che la muove, il
brivido del segreto scambiato con un’amica sotto le coperte,
a luce
spenta, e una
strana pace nell’aria che
fa il resto.
Avviene tutto in un momento.
Matt si dilegua senza nemmeno fare
gli
auguri a Cody mentre di là tagliano la prima fetta di un
grosso millefoglie al
limone.
C’è una vasta scelta:
per mamma e papà
il millefoglie, per il festeggiato la torta alla nutella, per Stef la
crostata
di pere e ricotta, una specialità di Helena.
La torta di brioche alla nutella e la crostata sono opera della mamma
ma il
millefoglie al limone che tanto piace a Brian è troppo anche
per lei.
Cody nota che la
mamma ha bruciato
leggermente la base del dolce, sembra appena uscito al forno, o forse
è
riscaldato al microonde, scotta
sul
palato, che importa, in fondo la nutella è calda e la
brioche è croccante. Il
piccolo osserva divertito Steve che si
lecca le dita e ripulisce il piatto con le mani; a lui la mamma
l’ha sempre
vietato fin da piccolo.
Papà ride dicendo che Junior ha una pessima influenza su suo
figlio e Cody
vorrebbe ribattere che almeno Steve sa giocare ai videogiochi; ma non sarebbe giusto nei
confronti del padre
che si sforza così tanto di tornare bambino, vivere un
secolo che non gli
appartiene al fianco di suo figlio, cercando, anche solo per un attimo,
di
mettere da parte quella sua musica che gli piace tanto.
Ma a Cody non piace né la chitarra né la batteria, ogni tanto forse
strimpella il piano.
Prende ancora lezioni, controvoglia, alle volte con un’intima
soddisfazione
quando finisce un pezzo nuovo e lo suona per intero, per prepararsi ai
saggi,
l’evento mondano dell’anno.
Dopo la torta, gli abbracci e i festeggiamenti di tutti, il
papà lo prende da
parte un attimo con un pacchetto dietro la schiena. Cody si sporge a
destra e a
sinistra, impaziente e fra sé e sé spera
che non sia un cd musicale, l’ennesimo.
Non riesce a nascondere la delusione quando stringe fra le mani
un’antologia
dei migliori pezzi dei Joy
Division ma
ringrazia con il senso del dovere che hanno tutti i bambini beneducati.
“Questo è il mio regalo. E questo è il
tuo.”
Ridacchia il papà tirando fuori un secondo
disco dalla busta, o forse un
DVD.
“WOW! PES 15! Grazie papà! Ma dicevi che non
volevi che giocavo a questo
gioco.”
Brian sorvola sul congiuntivo, indulgente, abbassandosi ad abbracciarlo
e
rivelandogli con voce carezzevole:
“ringrazia anche Stef, mi ha convinto lui. Ti vuole troppo
bene.”
Cody vorrebbe andare ad abbracciare lo “zio”, per
così dire, ma il papà lo
trattiene ancora un attimo fra le braccia aggiungendo
“ma mi prometti che proverai ad ascoltare
anche il mio regalo?”
Il bambino prometterebbe qualunque cosa, ha fretta di liberarsi del
padre e
alla sua promessa entusiasta Brian non da molto peso.
Cody fila via come una scheggia, precipitandosi verso il suo compagno
di giochi
preferito che sta facendo il bis di torta alla nutella.
“Jun! Vieni, giochiamo?”
esclama lui
sotto lo sguardo di disapprovazione e di stupore di Helena che, per una
volta,
non è stata messa al corrente di un’iniziativa di
Brian, viepiù riguardante suo
figlio e decisamente diseducativa.
Quando lei rientra in cucina il cantante è lì,
seduto su una sedia, ingobbito,
a ticchettare contro una piccola ceneriera di ceramica bianca le lunghe
piccole dita
nervose.
Adesso che ne ha l’occasione osserva oltre la camicia, sul
collo, la pelle
arrossata, un livido sotto il mento, un’occhiaia
più pronunciata dell’altra, a
sinistra, e le sbucciature lungo le braccia e sui palmi delle mani.
Non appena la vede lui salta in piedi con un sospiro e prende a
mordicchiarsi
l’unghia dell’indice,
e Helena si
prepara ad ascoltare una lunga confessione con la flemma di
un’insegnante della
scuola materna.
“Ho assolutamente bisogno di una sigaretta.”
“Ma avevi smesso.”
“Non importa. Ricomincio.”
“Brian…”
Lui la guarda e socchiude gli occhi, un sospirone profondo, di nuovo,
accompagna il sussulto delle palpebre, poi ritorna a picchiettare le
dita,
stavolta sul tavolo.
“Helena, sono serio.”
Ma prima ancora di iniziare quella battaglia, la sua ex moglie si
è già mossa
diligente e dopo qualche minuto di là torna con un pacchetto
di Lucky Strike
alla menta.
Brian odia le sigarette aromatizzate. Sono più costose, sono
puzzolenti,
lasciano la stessa sensazione delle gomme da masticare, grattano sulla
lingua.
Le accoglie con una smorfia di schifo palese, con
l’espressione di chi borbotta
“come puoi fumare una porcheria simile?”.
Nonostante tutto apre con urgenza il pacchetto e accarezza
l’accendino con
rinnovata serenità mentre si accende la sigaretta e alita
nel tubicino, una
nuvola di fumo danza nell’aria.
“Bri, non cambierai mai.”
Con un mezzo sorriso Brian scrolla le spalle sovrappensiero e un filo
di fumo
alla menta fugge fra i denti.
Dopo due anni e tre mesi di astinenza da fumo ad Helena sembra
già di vederli,
di nuovo gialli, come un tempo.
****************
The End
Note
*William Lloyd, seconda chitarra dei Placebo, all’occorrenza
basso o
pianoforte, ormai diventato membro a tutti gli effetti della band ed
è
letteralmente adorato da Brian. Si sono conosciuti in occasione
dell’uscita di
“Without you I’m Nothing” , nel
’98 ed è stato amore a prima vista
(perché non
ci ho pensato prima?)
*TRADUZIONE
“Alla fine del secolo
ho detto i miei addii,
per quello che vale,
ho sempre voluto piacere
e sono quasi morto. “
-
Per la descrizione del live di "Battle for the sun" mi sono ispirata a
questa
versione , colonna video-sonora : "Soulmates
never die - Live in Paris 2003" .
Angolo
dell’autrice
Si, è finita. Aggiungerei finalmente.
La stavo trascinando come mio solito.
Stavo diventando crudele con questa fiction.
Eppure, nonostante abbia forzato un po’ la mano con questo
capitolo non sono
convinta che sia uscito poi così male. La parte che meno mi
convince tanto è
l’allusione al cambiamento Hewitt-Forrest che è
stata vissuta in modo
abbastanza traumatico da far arrancare Brian
nel momento in
cui si tratta di
cantare vecchi successi,
orribilmente
familiari. Ma ancora una volta tocca affrontare la realtà e
tanti saluti.
Ho tradotto solo le lyrics di “For What It’s
Worth” perché sono le uniche che
hanno senso nel contesto in cui sono cantate.
Devo smettere con le song-fic , mi fanno male.
E poi c’è l’ultimo capitolo, scritto
pochi giorni prima di , ancora prima di
potermi informare e scoprire che Bellamy, felicemente sposato, ha un
adorabile
figliolo che, con il suo battito cardiaco, fa da sottofondo musicale in
una
delle tracce del nuovissimo e sconvolgente
“the 2nd law”.
*Wow, Matty,
hai scomodato la seconda
legge della termodinamica! *
Ergo, se trovate che alcune situazioni siano assolutamente irreali
dovrete
chiudere un occhio <.<
è come se fosse finito un ciclo, mi sento soddisfatta e in
pace con me
stessa e ancora
eccitata se ripenso a
quale splendida serata mi hanno fatto passare questi bravi ragazzi , il
due
agosto, alle capannelle, hanno saputo farmi apprezzare PERFINO “battle for the
sun” che
considero il peggior album che hanno
scritto fin ora!
Però di una cosa mi complimento con me stessa,
l’ultima scena è una signora
chiusura.
Graziegraziegrazie, un grazie stratosferico a chi ha voluto pazientare
così
tanto, forse avrete sperato in una fine, ma sappiate che, proprio
quando si
tratta di mettere la parola “the
end”
sono negata e non do soddisfazione.
Bene, ho finito, colpa delle tre di notte, dimenticate quello che ho detto, It doesn’t make
any sense.
Adios,
Neal C.