Fanfic su artisti musicali > Placebo
Segui la storia  |       
Autore: Neal C_    21/09/2012    4 recensioni
[Con la partecipazione straordinaria di David Bowie e Matt Bellamy ]
Raccolta di One-shots su Brian Molko, sprazzi di vita, pallide impressioni che affiorano da foto, video, interviste, dall’ immaginazione più o meno fervida dell’autrice e naturalmente dalla musica.
Filo conduttore: il cambiamento.
Ch-ch-Changes
Just gonna have to be a different man
Time may change me But I can't trace time
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Un po' tutti
Note: Cross-over, Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

London  2009






L’album non era neanche uscito e già programmavano un concerto di promozione.
Era stata un’idea geniale di Bill*, un paio di giorni prima che Battle for  the Sun andasse in onda sulla BBC Radio 1,  dopo una sessione particolarmente fortunata,  a casa di Steve.
Non erano certo partiti con il piede giusto, considerato che quella mattina Brian non era esattamente di buon umore.
Era la prima volta che andavano  a casa di Steve, il loro nuovo batterista in erba, in gamba per essere così giovane, anche se era evidente la differenza di età che correva fra i membri storici della band e il nuovo arrivato. Quei quindici anni di differenza erano tutti in quell’appartamento di Londra, a Soho, nel caos più totale, al confine con Chinatown, e circondato da locali, disco club, pub e strip club, oltre che bar affollati da studenti che digitavano freneticamente su piccoli laptop oppure sottolineavano di giallo libri universitari o manager  che si sentivano ancora giovani  e si prendevano una pausa, magari attaccando bottone con qualche cameriera .
L’appartamento di Forrest era al quarto piano e assomigliava terribilmente ad una casa per studenti, con una scalinata squallida, un affaccio su cortile interno, grigio e con vista sui cassonetti della spazzatura, ma almeno la stanza principale, una specie di soggiorno con angolo cottura e zona batteria, era luminosa.
Quando però Brian aveva visto il bagnetto scuro e senza finestre aveva arricciato il naso e aveva commentato che non c’era il bidet. In realtà non ci sarebbe stato spazio per il bidet, avrebbe voluto far notare Steve, ma qualcosa nello sguardo del suo frontman lo aveva convinto a tacere.
Poi si erano subito messi al lavoro e, dopo un’oretta di prove, erano piombati in casa due o tre venticinquenni  che avevano intenzione di invitare Forrest a giocare a pallone.
Era una bella giornata, primaverile e stranamente non umida e piovosa come ci si sarebbe aspettati da un marzo londinese: un’occasione da non perdere.
Quelli si erano trattenuti a bere una birra in compagnia e Stefan e Bill li avevano trovati anche simpatici, ma Brian li aveva scrutati in silenzio, pazientemente, cordiale ma terribilmente formale.
Stefan per un attimo aveva pensato che non sarebbe riuscito a trattenersi dal ridere, gli sembrava di assistere ad una scena comica: da un lato quei due ragazzi con le creste colorate, in jeans stracciati e maglietta che ridevano a crepapelle, farneticando qualcosa in slang e mangiandosi le parole, e un Brian Molko trentasettenne che sfoggiava un sorriso di circostanza, completamente vestito di nero, in giacca e scarpe di vernice, che alle volte scandiva le parole, alle volte trascinava le frasi lentamente, a metà fra un dandy di fine secolo e un damerino.
Dopo più di mezz’ora di gaudio intrattenimento Molko si era fatto sentire, sostenendo che dovevano tornare alle prove e non volevano testimoni.
Steve  aveva protestato, in fondo Karl e Dereck non davano nessun fastidio e amavano ascoltare la buona musica. Se era un tentativo di lusinga, Brian non ci era cascato e  Stefan aveva pensato, un po’ meno divertito, che adesso il suo compare avrebbe piantato una grana rovinando a tutti la giornata.
Fortunatamente era intervenuto Bill che aveva appoggiato entusiasticamente l’idea di  Steve e aveva proposto di “allargare la cerchia dei partecipanti”, il giorno stesso dell’uscita dell’album,  e stupire i fan con un concerto segreto,  magari proprio da quelle parti, a Soho Square, dove l’estate scorsa era andato a vedere un piccolo festival di band emergenti che si erano sfidate fin all’ultima nota per vedere pubblicato il loro primo singolo.
William Lloyd, tu si che sei un genio, avevano pensato, all’unisono il bassista e il batterista dei Placebo, quel giorno,  e pensano ancora, in quel momento, davanti agli sguardi stupiti ed esaltati dei fan, stupiti e incuriositi di chi non li ha mai sentiti, stupiti e irritati delle nonnette, delle coppiette o delle famigliole che non riescono a calmare i loro figli e nipoti scatenati.
Sono almeno una cinquantina di persone, la giornata merita e c’è un sole primaverile che ha finalmente forzato la barriera di nuvoloni grigiastri, residuo della Londra continentale e umida nella stagione fredda.
Al sole si può intravedere la rugiada sull’erba intorno alle panchine di legno, le querciole sono ancora spoglie come fragili scheletri ma già si intravede qualche fogliolina coraggiosa.
Nonostante l’erba sia ancora umida la gente è comodamente seduta sul prato a gambe incrociate ma qualcuno già si alza per osservare meglio quegli omini che trascinano  strumenti di amplificazione con relativi cavi sul  palchetto di ferro per piccole esibizioni estive.
A Stef sembra di essere ritornati al tempo delle piccole serate nei sottoscala, davanti a sconosciuti che il più delle volte cercavano solo una buona birra e un po’ di compagnia da osteria, su quei palchetti piccoli, fragili a vedersi, così diversi dalle immense arene che ormai ospitano i loro concerti in tutta Europa e nel mondo.
Arriva a chiedersi se riusciranno a starci tutti, Bill Lloyd, con il basso a tracolla, mentre getta uno sguardo apprensivo alla pianola che viene trasportata su per le scalette del retro, Fiona Brice, dall’altro lato del palchetto si stringe misurando quanto spazio le serve per far scivolare l’archetto sulle corde del violino e allo stesso tempo cantare nel microfono. Senza di lei le voci femminili  e anche leggermente spettrali di “Running Up That Hill” non sarebbero realtà.
E infine Nick Gavrilovic che accorda la sua chitarra, allungando l’orecchio contro la cassa dello strumento per sentire il suono fioco delle corde, almeno finché non hanno finito di attaccare gli amplificatori.
C’è voluta una buona mezz’ora per preparare il campo di battaglia, qualcuno se ne è andato sperando di salvare le orecchie, borbottando contro la rumorosa musica dei giovinastri moderni, qualcuno è andato a diffondere la notizia, qualcuno già ha twittato l’evento ma il pubblico non sembra troppo agitato.
è pur sempre Soho, il quartiere più “underground” e all’avanguardia di Londra, o almeno questa è la sua fama.
Ci avranno fatto l’abitudine , riflette Brian, con una scrollata di spalle, mentre cerca di mantenersi appartato,  dietro il palco, stringendosi  nel cappotto grigio, calandosi la visiera della coppola sul viso nascosto dietro ad un paio di Ray-ban,  come un agente in incognito o semplicemente un ragazzino raffreddato.  Non vuole attirare l’attenzione, e in cuor suo, se potesse rimprovererebbe Stefan che si aggira tranquillo per il palco, uno spilungone pelato che non teme di essere riconosciuto e che non passa certo inosservato.  Anche Steve Junior sta prendendo posto dietro la batteria che è stata lentamente assemblata. Sembra davvero che manchi solo lui in scena.
Abbandona  cappotto e sciarpa ma non rinuncia al berretto e agli occhiali, sale sul palco ricevendo la chitarra accordata e collegata fra le braccia.
La lascia pendere sul grembo, prova il microfono schiarendosi la voce e ticchettandoci sopra le dita per provarlo provocando un fastidioso eco.  L’impianto stereo è  modesto, valuta in un attimo,  reprimendo a stento una smorfia, deve ricordarsi che è in pubblico.
Gli  basta un cenno, la scaletta è concordata, si alternano vecchi successi  e le canzoni del nuovo album  in ordine di copertina, più o meno, e le bacchette di Steve ticchettano l’una contro l’altra in un esercizio di stile che ha visto più volte ripetere al suo nuovo batterista prima di iniziare una sessione di lavoro. 
La prima volta in cui lui e Stefan avevano presentato quella canzone alla band che ormai  si era allargata a ben sei elementi, sé stesso incluso,  Steve aveva salutato la nuova uscita con quello sfrigolare di bacchette che lo aveva piacevolmente sorpreso. Calzava a pennello con l’attacco della chitarra elettrica,  e già sentiva che la canzone era meno sua e più loro.
Adesso attacca Stef,   e subito lo stoppato di Olsdal e Bill Lloyd segue il corso dei suoi pensieri , già gli sembra di attirare l’attenzione del suo pubblico con quel ritmo cadenzato  che cattura, ipnotico.
Potrebbe continuare così all’infinito, potrei anche non cominciare mai a cantare;
il senso di attesa si fa urgente, nel  frattempo prova qualche effetto di distorsione alla chitarra, tormenta una corda, ricostruendo la sigla iniziale, accarezzandola  e poi stritolandola.
 Con un occhio osserva Junior  che muove la testa al ritmo della chitarra e quasi quasi vorrebbe rimandare la partenza  per osservare i suoi scatti frenetici  ancora un po’.
Lo diverte, è un comportamento da ragazzino,  con un entusiasmo che lui non riesce più a provare, non così verace, così genuino e quasi tenero.
Tutto sommato gli pesa avere lì, dietro le sue spalle quel biondino scattante che si agita sul suo sgabellino e nonostante tutto l’ottimismo che predica la nuova campagna pubblicitaria del nuovo album,  oggi, Brian Molko si sente tutto tranne che sereno e ottimista.
“Hi, we are Placebo from London”  suona un po’ meccanico e poi, stupido che non è altro si ricorda che è a Soho che, guarda caso,  è un quartiere di Londra;
Cristo, Brian, concentrati, idiota che non sei altro,  “ the album is called Battle for the Sun.  This is the title track, thank you.”
Forse poteva dire qualcosa di meglio per presentare il nuovo album, pensa fra sé e sé Steve e sa , dagli sguardi di tutti che il pensiero è condiviso.  Quindi scatta in avanti con le bacchette,  pizzicando i tamburi della batteria, qualche colpetto alle guarnizioni in metallo e poi i piatti.
Osserva il suo frontman avvicinarsi al microfono, eloquente,  e cominciare a sospirare con voce sofferta  il pronome personale di prima persona singolare che rimbomba sul pubblico attonito.
Strano, si sono zittiti tutti, anche i bambini che osservano curiosi il primo concerto della loro vita, perché Steve dubita fortemente che qualcuno di questi  lattanti abbia mai visto un concerto, neanche nella mondanissima Londra. Anzi, i londinesi, fra tutti gli inglesi, specie quelli che frequentano i  giardini pubblici, sono forse una delle specie più snob della terra.
i peggiori sono i bambini snob che abitano a Nothing Hill, pensa con un mezzo sorriso mentre, dopo parecchi sospiri che accarezzano il microfono  in modo conturbante, finalmente Brian arriva alla fine della frase.

No fun if you, you, you, you, you,
you are a cheap and nasty fake
 Fake, fake, fake, fake, fake, fake
And I, I, I am the bones you couldn't break
Break, break, break, break, break, break, break

Finalmente  l’atmosfera comincia a riscaldarsi anche se, nota Steve con una punta di irritazione, Brian continua a tenere gli occhi semi chiusi, ogni tanto digrigna i denti mentre canta, ha il collo incassato nelle spalle e stringe rigidamente le braccia, dondolando avanti e indietro.
Il biondo non saprebbe dire se il suo cantante  sia veramente coinvolto nello show,  sembra rigido come un pezzo di legno, per niente scenografico, non certo trascinante.
Lui nel frattempo sente i muscoli gonfiare  i tatuaggi rossastri che gli ricoprono tutto il torace e le braccia, li esibisce fiero, senza maglietta, così sta comodo e non soffre il caldo, pensa ironico Brian mentre interpreta i suoi movimenti.  Vuole vedere come se la cava Forrest alle prese con il suo primo live e, suo malgrado,  constata di non essere abituato a tutta quell’esplosione di energia, quella giovinezza e quella attitudo macho così ostentata. 
Sei la quintessenza dell’etero Forrest,  dice a sé stesso e sorride alla folla mentre pronuncia ancora una volta il titolo del loro primo singolo, soffermandosi sul  “sun”  con un soffio sensuale.
Intorno a loro il paesaggio è cambiato, Stefan nota che sono accorsi un sacco di nuovi personaggi, per lo più trentenni, qualche ragazzino in più, magari attirato per la prima volta dalla musica prorompente che sa farsi sentire anche attraverso mediocri altoparlanti comunali.
 L’età media saranno i venticinque anni,  pensa fra sé e sé,  non a torto, poiché dal 1994 ne hanno fatta di strada.  L’applauso è tiepido, i fedelissimi sono pochi,  ancora non sono stati invasi dai fan agguerriti.
“Thank you, people! Next song is … an old song. ” 
Stefan nota con piacere che Brian comincia ad entrare nello spirito della cosa anche se non accenna a levarsi quello stupido cappello . E pensare che lui comincia a sudare sin dentro ai pantaloni,  ha una canotta bianca e una  sottile sciarpetta di seta cangiante con l’orlo glitterato, rosa e a tratti violetto.
Stefan è tremendamente gay oggi, sorride Brian mentre prende fiato, già gli manca il respiro dopo neanche una canzone, al prossimo intervallo si prenderà un bicchiere d’acqua.
“Ladies and Gentlemen! Every me and Every you!”
Ecco che Stefan abbassa lo sguardo sul manico seguendo attentamente il plettro che pizzica, rapido e indolore,  Bill lo accompagna serafico passeggiando accanto alla tastiera che lo segue con un timido accompagnamento  amplificato dal pedale;  poco lontano Fiona scompare per un attimo sul retro lasciando il suo violino appoggiato per terra e  Steve comincia a pestare  sulla batteria, contorcendo persino la schiena e squarciando l’aria con i piatti.

Sucker love is Heaven sent
You pucker up, our passion's spent
My hearts a tart, your body's rent
My body's broken, yours is bent

Pesta troppo il biondo per I suoi gusti, Brian si ritrae per un attimo, ritardando la ripresa della battuta, e lasciando sconcertato Stefan che  si esibisce in un piccolo riff fuori programma  per  tappare il buco.
Gli arrivano sguardi assassini  che chiedono a gran voce  “che cazzo fai?” “ Ma sta attento!”  “segui il ritmo!” . Ma Brian è distratto dal ciuffo biondo del suo batterista che salta su come un delfino dall’oceano e poi gli ricade sugli occhi, grondando sudore.   Poi riprende, biascicando ferocemente:
  
Carve your name into my arm
Instead of stressed, I lie here charmed
'Cuz there's nothing else to do
Every me and every you  


La canzone sembra andare avanti senza intoppi e altrettanto Kitty Litter, poi di nuovo una nota stonata in The Bitter End, Brian va fuori tempo  e cerca di riparare nervosamente .
Steve Forrest comincia a pensare che Brian abbia un tic. Si gira molto spesso nella sua direzione e segue l’ondeggiare della sua lunghissima frangetta piastrata, poi, con un gesto inconsulto riprende a cantare.
Non può andare così a lungo,  il loro primo show dopo tanto tempo sta per ridursi ad una barzelletta,  pensa  Stefan mentre scarica la sua frustrazione sulla chitarra cercando di riparare ai momenti di apatia di Brian.
“…every meeeee”
Brian coglie Bill che ha abbandonato la chitarra e fa il segno di time out, dopo appena quattro canzoni.
E pensare che quello doveva essere lo show di presentazione del loro  nuovo disco ma, non  capisce perché, Brian non riesce ad andare a tempo.
Fa segno ai tre componenti principali della band di seguirlo fuori di scena, sotto il palco, al riparo dalla folla che commenta sorpresa quell’interruzione, folla  che comincia a scalpitare.
Che diavolo ha quel tizio lì sul palco? È diventato sordo e strabico? ,  Pensano alcuni.
Che diavolo ha Molko? Si è drogato? , pensano i  fan.
Qualcuno abbandona il campo, si è fatta quasi ora di pranzo e non ha tempo per ascoltare  quattro o cinque fessi  over trenta che giocano sui palchetti per esordienti, altri ne approfittano per prendersi qualcosa da bere e un panino da consumare nel mentre la band si riunisce a consiglio per salvare lo spettacolo.
“Brian, si può sapere che cazzo fai?!”
“Bill… Mi dispiace, ragazzi. Non so cosa mi ha preso…”
“NON SAI COSA TI HA PRESO?! MI STAI PRENDENDO PER IL CULO?!”
“Stefan, Bill, calma… ”  è il biondo a salvarlo dalla furia dei suoi  più fedeli collaboratori “Brian… c’è qualche cosa che non va… con me?”
Stefan e Bill si pietrificano.  Poi lentamente prendono coscienza della situazione,  che è il loro primo serio concerto insieme, e che il loro sole è offuscato da un ombra.
Persino Brian impallidisce e digrigna i denti seccato.
“Non dire idiozie, Junior ”
Cade un silenzio imbarazzante  mentre le parole di Brian puzzano di bugia lontano un miglio.
Steve sembra ferito.  Non ama affatto quel soprannome, pensava fosse solo uno scherzo quando per la prima volta il suo frontman lo aveva chiamato così per poi riderci sopra. E da allora gli si era sempre rivolto con quel nomignolo , aveva notato Steve con fastidio ogni qual volta che capitava.
Perché non poteva essere come in studio? Con quell’atmosfera rilassata  e il fancazzismo dilagante?
Che differenza c’era? Tutta quella gente sapeva perfettamente che adesso era lui il batterista dei Placebo.
Lo avevano ufficializzato almeno un anno fa. Avevano avuto almeno dieci mesi per abituarsi all’idea.
Oppure era Brian che doveva ancora abituarsi all’idea?
“Bene, allora vedi di svegliarti, Molko. Se preferisci mettiti a contare ma intervieni a tempo.
Stai cantando di merda.”    Gli fa notare Steve, con rancore.
Bill li rimanda in scena, facendo sfociare il contenzioso in una bella pacca sulla spalla a favore di Brian e un sorriso  poco rassicurante nei confronti di Steve.
Brian barcolla sul palco fino al microfono, dapprima svogliato, poi lancia un’ occhiata penetrante a quello sbarbatello biondo di Forrest che se ne sta rilassato, le braccia forzute abbandonate come salsicciotti appesi alle travi della macelleria e osserva il pubblico vacuo.
Si riscuote, ha una sfida da raccogliere.
“Here we are, people!  And now… we do it for real!

The end of the century
I said my goodbyes
For what it’s worth
I always aim to please
But I nearly died *



***********************





London  2015




“Brian! Suonano alla porta!”
Brian lo ha sentito benissimo lo scampanellio, ma non ha nessuna voglia di alzarsi dal divano. Con lo sguardo pensoso osserva il suo compagno di band, Steve Forrest che è seduto a gambe incrociate nel salotto di casa Molko, mentre stringe appassionatamente un joystick per PlayStation3 e sfida suo figlio, Cody, a Grand Theft Auto.
“Muori! MuoriMuoriMuoriMuori! Brutta troi…Ops, scusa Brian…Fanc…ehm. No!”
Il biondino si agita scuotendo desolato il capo con tanto di cresta al profumo di gel e dà un pugno al pavimento, forse si sbuccerebbe le nocche se il colpo non fosse stato attutito dal tappeto.
“SI! HO VINTO!” urla di gioia il bambinetto estasiato, lasciando di corsa il joystick e saltando su come un grillo, le braccia al cielo in segno di trionfo.
“SISISISISI! Papà, papà, hai visto?!”
Brian si riscuote, poco entusiasta davanti alla palese euforia filiale, mentre si passa una mano fra i lunghi capelli neri, lisci come la chioma di una geisha, scostandoli dal collo sudato. Quando Cody cerca conferma nel volto paterno, il cantante si tira su a forza e sorride con finto entusiasmo:
“Grandioso! Sei forte! Dammi il cinque, campione!” esclama, la voce nasale e vagamente rauca, come di chi non parla da un pezzo.
Il bambino lo osserva con un’espressione indecifrabile, scrutando il palmo alzato del genitore che aspetta in risposta il suo batticinque. Passa un secondo di più, un momento di gelo in cui Brian pensa che il figlio ha compreso tutto, che a lui non importa una mazza di quella vittoria, un fuoco di paglia, una gioia effimera, tutto per una cretina invenzione che si chiama videogame.
A lui non sono mai interessati i videogame; quando aveva otto anni, ancora non esistevano e quando negli anni ’90 hanno preso piede – o meglio, a metà degli anni ’90 – lui aveva da lavorare, certo non poteva perdere il suo tempo giocando ai videogame.
Ma dopo quella frazione di secondo, un attimo di panico in cui Brian non riesce nemmeno a pensare cosa accadrà se Cody non ricambia, il bambino gli sorride fiero e trionfante e si avventa contro la sua mano, colpendola con forza con il proprio palmo.
“Brian! La porta! Oh, non importa! Vado io!”
Annuncia la voce stridula di Helena Berg, che emerge dalla cucina, quasi seccata di dover fare tutto sempre lei. Ogni tanto vorrebbe avere un po’ di collaborazione da parte del suo ex compagno in occasione delle grandi rimpatriate.
Questo sarà Andrew, pensa Helena. Sarebbe proprio ora che tornasse dal lavoro, che avesse chiuso l’ufficio e la galleria.
La sua espressione di delusione è palese quando dietro la porta la aspetta una figura alta e magra, oblunga, dallo sguardo obliquo, il viso da criceto, con la barba mezza rasata e mezza in ricrescita e i capelli con le radici color topo e le punte rossicce.
E quel che è peggio è che la sua  è la faccia che spopola su tutti i giornali nelle rubriche ‘musica’, addirittura “Rolling Stones USA” gli ha dedicato una prima di copertina.
“Ma tu sei Matthew Bellamy!” esclama più che stupita Helena gettando un’occhiata perplessa alla sua vecchia tuta grigio scuro adidas, le Nike new balance giallo evidenziatore e la maglietta rosa porcellino.
“Oh, ciao. C’è Brian?” chiede lo spilungone senza mezzi termini sbirciando appena dietro di lei la parete bianca dell’ingresso e in lontananza i tre divani che occupano il centro dell’enorme salone. Matt non può vedere le figure stravaccate dietro la schiena dei divani né i due contendenti sul tappeto, ma può sentire il tono autoritario di Cody che ordina:   “Jun, facciamone un’altra”.
Sente la voce poco familiare di Forrest che protesta davanti al nomignolo affibbiatogli da quel moccioso. E’ stufo di sentirsi chiamare “Junior”, lo fa sentire l’ultimo arrivato e già è difficile pensare alla differenza di età con i membri storici della band senza bisogno di infierire.
Bellamy annuisce semplicemente davanti ad una domanda di Helena, non saprebbe bene dire quale e si concentra piuttosto sul suo profilo affiliato e orientale mentre lei si volta, sulla grazia del suo nasino, dei suoi capelli fini e scuri avvolti in un solido chignon come le parrucche delle creature di cera di Madame Toussad. La camicetta bianca ha le maniche rimboccate, sotto indossa una gonna grigia al ginocchio e sopra il grembiule bianco a quadri rossi  - o forse rosso a quadri bianchi?  - stonano un po’ gli zoccoli di peluche verde foglia, in compenso sembrano molto comodi e caldi di novembre.
Brian, annoiato dai suoi capelli che gli ingombrano la cervice adocchia una pinza d’argento, forse di Helena, abbandonata nel piatto di pietra che troneggia su un ripiano della libreria di mogano, in mezzo alla stanza; la libreria fa da spartiacque tra il salotto e la zona pranzo. Dividere gli ambienti con enormi librerie invece che spessi muri di cartongesso è estata una geniale idea di Helena che, come ogni fotografa che si rispetti, ha un senso estetico impagabile oltre che un’innata eleganza.
Si alza di malavoglia dal divano, smuovendo i cuscini che lo ricoprono e nel frattempo lancia uno sguardo di disapprovazione allo schermo dove, nel mirino dei due sfidanti si susseguono pericolosi gangster ghignanti, puttane in bikini e nonnette innocenti, vittime dell’assalto indiscriminato, tutto condito con un po’ di sangue finto che non impressionerebbe nessuno.
Forrest reprime a stento le peggiori bestemmie e Brian è costretto ad ammettere che suo figlio se la cava davvero bene con quel pessimo gioco.
E’ veloce, concentrato, preciso, tremendamente serio, come se ne andasse della sua vita, non esulta continuamente ma prima si assicura di aver distrutto il suo avversario con rapidità ed efficienza; gli fa quasi paura quel ragazzino. Si specchia nel vetro della finestra, sulla parete accanto alla libreria e si sistema la pinza fra i capelli, rimirandosi come una sposa a poche ore dal suo matrimonio. Caccia via le ciocche ribelli dietro le orecchie e si ripromette di chiedere in prestito alla ex compagna quella pinza comodissima, e forse anche qualche forcina qua e là.
Con suo grande stupore vede comparire riflesso nel vetro Matt Bellamy di tre quarti che osserva la scena di Cody e Steve mentre, nel frattempo, è sopraggiunto Stefan con un giornaletto di enigmistica in mano e una penna. Il biondo si sbraca sul divano.
“Uhm… lo è un seccatore? Tu che dici, Helen?“
“Quante lettere Stef? Intanto assaggi la pasta, dici che è pronta?”
“Sette lettere, la quarta e la quinta sono -an”
“-an, -an, -an, -an-an…”
“Potrebbe essere pedante”
“Si, ci sta…ma tu sei Bellamy.”
Matt rivolge un tiepido e timido sorriso a Stefan, che ha abbandonato sul fianco l’enigmistica e la penna e si è alzato per salutare, porgendogli la mano.
“Si, ciao”
“Stefan Olsdal, non so se ti ricordi di me.”
“Ma certamente. Ci siamo visti…sarà stato quattro anni fa?”
“Si, non ci si incrocia tanto spesso.”
“Già.”
Stefan è sorpreso di vedere Bellamy da queste parti, non gli risulta che sia amico di Brian né di Helena, lui certo non c’entra nulla e tantomeno Steve.
Ma allora chi ha invitato il cantante dei Muse a casa Molko per festeggiare il compleanno di Cody?
Tra l’altro Matt non si è certo agghindato a festa. E’ più trasandato che mai, sembra il patetico volto di una star senza trucco.
“Come mai da queste parti?” si arrende, non vuole giocare agli indovinelli ancora a lungo, ma Brian precede la risposta esitante di Matt che non saprebbe neppure bene come chiamare il loro inspiegabile rapporto “amicizia”.
“Ma non dovevi essere in Australia tra i canguri a quest’ora?”
Non è sferzante o cattivo ma nemmeno scherzoso. E’ neutro e quasi formale, potrebbe quasi dargli sui nervi se Matt non conoscesse Brian e il suo tono brusco o fintamente annoiato a seconda delle occasioni.
“Parto stasera, tra otto ore.” Risponde istintivamente mentre Stefan segue quello scambio con rinnovato interesse e una nuova consapevolezza: quei due si conoscono molto meglio di quanto tutti loro e il mondo intero avrebbe mai potuto immaginare.
“Ce l’hai un minuto per me?” indica poi lo schermo al plasma, l’apparato della Play, lanciando uno sguardo significativo a Cody.    “Non qui, però”
Brian annuisce mettendo a tacere ogni occhiata curiosa che il suo migliore amico gli riserva. Sotto le mentite spoglie di un riflessivo, biondissimo bassista svedese, si nasconde l’animo pettegolo di Stefan, come Brian ama chiamare l’interessamento morboso dell’amico per la sua vita privata; è come se si divertisse a psicanalizzarlo seguendolo con l’insistenza di un ex fidanzato geloso.
Da quando Steve se ne è andato, Stefan sa che Brian non è più lo stesso e l’americano sa che lui sa.
Che casino, pensa Brian, mentre conduce Matt per le scale fino al suo studio.
Ha voluto quella camera perché da lì si accedeva direttamente al terrazzo e così poteva ritirarsi a pensare ogni qualvolta ne aveva bisogno. Gli ricordava un po’ la sua infanzia in Libano, quando si appollaiava lassù al riparo dai suoi genitori, avvolto in una coperta ad osservare le stelle con pallida malinconia.
Ha una specie di oculo tondo, chiuso da un vetro e una scala a chiocciola di legno al centro della stanza; al lato c’è la scrivania con il computer, l’impianto stereo, la parete delle chitarre – alcune appese, altre esposte sul pavimento, in piedi, in bella vista -.
Accanto alla porta  poi ci sono una serie di scatoloni di cartone che mascherano una console per Dj, comprata quell’estate, che non ha ancora avuto occasione di provare.
“Il tuo regno”  commenta compiaciuto Matthew, come se stesse facendo un complimento per rompere il ghiaccio, o semplicemente per dire qualcosa.
“Volevi un minuto? Sono tutto tuo. Ma sappi che fra poco ci sarà la torta.”
Matt inarca il sopracciglio profondamente stupito. Come se un dolce avesse mai fatto la differenza per Brian! Anzi, in tempi non sospetti quando è tornato a Londra lo aveva ritrovato salutista, vegetariano, più o meno astemio, quasi atletico e insolitamente a dieta, fino a negarsi leccornie come il burro a colazione e la pasta a cena.
Tra l’altro le due cose si possono facilmente coordinare: non a caso Matt Bellamy è un fan della pasta al burro. La sua profonda storia d’amore con il burro è poi di fatto qualcosa che Bellamy può tranquillamente permettersi sfoggiando un metabolismo che farebbe invidia a chiunque.
Il burro lo aiuta a iniziare bene la giornata, a rallegrarsi durante uno spuntino, a far rosicare Kate che lo guarda con occhi umidi e desiderosi mentre stancamente mastica carote crude e insalata scondita con il mais in scatola.
In quel momento Matt Bellamy vorrebbe un po’ di burro, è un desiderio improvviso, repentino, furtivo come un ladro e assolutamente insensato come le voglie di una donna incinta.
“Matthew, so che sei impegnato a riflettere sulle sorti della specie umana, ma è il caso che tu ti dia una mossa. Quando mio figlio spegnerà le sue nove candeline vorrei essere presente.”
Ecco spiegato il mistero. Il compleanno di suo figlio.
Matt cerca di ricordare a fatica tutto il discorsetto che si era preparato, ma ben presto capisce che dovrà improvvisare.
“A proposito di tuo figlio, non mi avevi mai parlato di lui.”
La risposta è indifferente e la voce misurata anche se quel tono ironico continua a farsi sentire in maniera irritante.
“Non mi hai mai chiesto se avessi figli”
“Si, invece”
“Ah si? E quando?”  
“Nel 2004, quando ci siamo incontrati a quella festa”
“La festa di Stipes”  
“Quella”
“Cody è nato nel 2006. Tecnicamente l’ultima volta che me lo hai chiesto non avevo  figli”
“Beh, avresti dovuto dirmelo quand’è nato. Nel 2006 già ci frequentavamo.”
Questa volta la voce di Brian è profondamente seccata e a questo si aggiunge una tendenza un po’ aggressiva ad accanirsi contro il labbro inferiore in una smorfia di irritazione:
“Non avrei dovuto proprio fare un cazzo, Bellamy”
“Molla tutto e vieni in Australia con me” suggerisce Matt, ignorando il suo palese scatto di ira e frustrazione.
“Che cosa?”
Matt sorride. Ama prenderlo di sorpresa. Lo intenerisce osservare quei pozzi blu – o azzurri o grigi alle volte – che si spalancano meravigliati quando si blocca per un attimo incapace di continuare a far finta di niente e a far finta di ignorarlo, quando contrae i muscoli del volto e tante piccole deliziose rughette ondeggiano sulla fronte. Lo delizia l’idea di averlo stupito confermandosi ancora una volta il bambino della coppia, quello che non è mai cresciuto e che non si prende responsabilità nei confronti della vita e degli altri.
“Non stai dicendo sul serio” conclude l’altro con uno sbuffo mentre si sposta verso la sua scrivania, prende a frugare in uno dei cassetti, piccolo ma profondo.
E’ una scrivania d’epoca, l’unico mobile antico di tutta la casa che brilla per il gusto ultramoderno, i colori opachi e neutri, gli spazi bianchi e l’essenzialità degli arredi.
Quella scrivania si impone sovrana nello studio come un altezzoso nobile decaduto che naviga in un ricco salotto borghese, rimessa a nuovo, restaurata, con il ripiano in pelle e i ritocchi al legno riverniciato, esibisce solo qualche piccola cicatrice, tonda e discreta, frutto dell’azione vorace dei tarli.
Eppure è un acquisto recente, comprata ad un robivecchi parigino, sotto casa di Marion a Montmartre.
Brian, con urgenza, fruga nel cassetto affastellato di carte, di buste, scartoffie e una scatola di pennarelli sequestrata a Cody quando aveva deciso di decorare le pareti della cucina, non contento del muro di cartongesso di camera sua, tutto imbrattato e dedicato a scarabocchi e adesivi.
 I compagni di Cody erano stati talmente entusiasti della parete che avevano firmato tutti, lasciando un loro contributo. Ma certo Helena non poteva permettere che i divani bianchi fossero lasciati incustoditi alla mercè del figlio.
“Sono serissimo. Lascia tutto e vieni con me.”
“Il lavoro?”  
“Ti ritiri per un po’.”
“La mia famiglia?”  
“Dì loro che sei in tour.”
“E io?”  
“Sarai con me.”
Risponde semplicemente Matt muovendo qualche passo verso Brian, ma questi si discosta dalla scrivania suggerendogli di non avvicinarsi oltre.
“Non ci posso credere, Matthew. Come ti viene anche solo in mente che io possa rinunciare a tutto per te?”
Improvvisamente Matt sente l’amaro in bocca e lo stomaco chiuso.
Non ha nessuna intenzione di portarsi Brian in Australia. L’aeroporto di Sydney, il sorriso del suo vecchio con la barba bianca accorciata di fresco – e l’orrido dopobarba al Pachouli – la loro Jeep che sfreccia dapprima sul cemento rigidamente diviso dalla striscia bianca di corsia e poi sullo sterrato, verde e selvaggio o terroso e polveroso; la spiaggia e le nuotate sul Pacifico, la pesca subacquea, la caccia, il tiro agli uccelli, facendo attenzione ad evitare le riserve.
Trova ridicola la sola idea del suo uomo che impugna un fucile da pesca o che mira ad un qualsiasi volatile. E’ un pensiero tenero, ma Brian scambia il suo sorriso per l’ennesima azione di spavalda impudenza del compagno:

“Si può sapere che cazzo hai da ridere?! Ma perché con te non si può mai parlare sul serio?”
“Ok, sono serio. Allora ci vieni o no?”
E’ tanto tempo che non discutono, che non litigano, che non sbattono le porte, che non fanno scenate e non annunciano con tono stridulo e isterico “E’ finita!” oppure “Sei uno stronzo!” ; anzi, a conti fatti si dicono anche di peggio, sboccati come carrettieri.
Alla fine Matt è deciso a mantenere il punto.  è una questione di principio, l’ennesima occasione per chiarire, tanto auspicata da Brian e, sempre a detta del compagno, tanto rifuggita da Matt.
Matthew Bellamy  è assolutamente serio. Ama pensare a Brian con il brivido di chi attende l’amante nel suo vecchio appartamento da single dopo aver raccontato alla moglie che andava dagli amici a vedere la partita.
Ma ora più che mai, dopo diverse notti insonni, si è deciso:  ha intenzione di chiedergli qualcosa di più.
Si sente pronto per sperimentare la convivenza.
Mentre Brian gli urla contro che per lui Matt è solo uno bravo a letto, la cotta estiva di una lunghissima vacanza che dura da molti anni, Matt invece vuole convivere con il vero Brian, quello che compone, che si alza alle sei del mattino per fare la doccia, che beve quantità industriali di succo Ace o di arance rosse e che lascia per terra i vestiti sporchi del giorno prima, ai piedi del letto, per raccattarli la mattina dopo, quando va in bagno a lavarsi, facendo un passaggio per il cesto dei panni sporchi.
Coglie solo qualche parola dell’infinita filippica che il compagno riversa su di lui. Continuerebbe ancora a lungo se non fosse che il display del suo cellulare si illumina insistente, vibrando sulla scrivania con il ronzio di una fastidiosa zanzara.
“Helen?”  
“Brian, ma dove siete finiti? Cody vuole spegnere le candeline! Hanno già cominciato a cantare ‘Tanti Auguri’”
“Arriviamo”
 chiude la comunicazione lapidario, lasciando scivolare l’apparecchio nella tasca del comodo jeans da casa, stravecchio, ma sempre fedele in occasione dei suoi ritiri casalinghi. Matt non ha voglia di scendere e si sente infastidito dalle continue interruzioni di Helena, poi di Cody, della sua famiglia, della sua vita, un contesto da cui lui si sente automaticamente escluso. Stranamente invece Brian non ha mai avuto da ridire sulle sue uscite con Dom e Chris, le sue vacanze dal padre, i weekend con Kate,  i suoi brevi soggiorni in Italia, dalle parti di Como, dove porta in vacanza la madre e passa le giornate a leggere alternando thriller e romanzi di fantascienza con opuscoli sul paranormale e la telecinesi. Brian non ha urgenza di entrare nella sua vita e di riempirne ogni aspetto, ha una maturità e un’indipendenza che sono quasi fastidiose.
“Matthew, ti levi davanti e ti sbrighi? Che cazzo stai guardando? E scordati questa storia dell’Australia”
Brian fa per sorpassare il compagno che si erge come un palo della luce fra lui e la porta dello studio, ma Matt lo spintona sulle spalle, respingendolo a mo’ di provocazione.
“Ti farò scendere quando accetterai di venire in Australia con me.”
“Matt, piantala di fare il cretino.”
Brian si fa avanti senza temere di essere respinto, ma Bellamy ha preso coraggio e lo spinge una seconda volta sbilanciandolo indietro.
Brian si fa più minaccioso, lo afferra per un braccio e a sua volta lo spintona con violenza per intimargli a farsi da parte. L’altro reagisce irrigidendosi, dandogli una manata sul petto, di scatto.
Molko è incredulo e inferocito.  Grida Ahia e rimane per qualche secondo fermo.
Va a massaggiarsi il petto che pompa a tutto spiano sangue e aggressività.
Carica un colpo sul naso con la violenza di chi vuol far male.   Non si ferma lì.
Gli sferra un secondo pugno sulla clavicola destra e si accanisce sulle braccia di Matt, che cerca di bloccargli i polsi. Bellamy sente il naso scricchiolare pericolosamente e ricorda che non è mai stato bravo a fare a botte; troppo mingherlino, troppo alto e gracile, un personaggio troppo bislacco per incutere timore in chiunque.
Brian, invece, che ha sempre reagito ad unghiate e morsi, soffiando come un gattino prevaricato e ferito nell’orgoglio oltre che nel fisico, è maldestro nei movimenti;   gli bruciano le nocche e si butta avanti con tutta la sua forza per poi cadere a terra sbucciandosi i palmi delle mani.
Fa per rigirarsi sul fianco ed alzarsi quando è spinto pancia a terra da Matt, che si siede sulla sua schiena, ancorandolo prono al suolo.
Brian scalcia, aggredendo le lunghe gambe di Matt sul fianco, quando Bellamy si avvinghia al collo.
Nella tasca di Brian il cellulare vibra forsennatamente mentre i due rotolano in una danza di calci e pugni, persino qualche morso di Brian che addenta il fianco di Matt come se si trattasse di vita e di morte.
Dopo un po’ sono entrambi senza fiato. Si sentono i loro ansiti, ciascuno abbandonato su un fianco in un momento di tacita tregua, poi il ticchettio acuto di un paio di zoccoli sulle scale.
Matt sente la faccia che gli formicola, le gambe malferme, ha un labbro spaccato e la maglietta ancora più insozzata di quando si era presentato.
Nonostante tutto si tira su rapidamente con una smorfia, giusto in tempo per accogliere con indifferenza Helena Berg, stufa di attendere, visibilmente preoccupata dal loro ritardo e forse irritata dalla loro negligenza che sta facendo attendere tutti.
“Si può sapere cosa facevate? Abbiamo sentito dei colpi sul pavimento”
Matt fa il giro della stanza con lo sguardo e accenna alla figura del compagno che si sta tirando su con lentezza e una smorfia che tradisce la stanchezza.
“Niente, Helen, tranquilla. Stavamo…”
“E’ scivolato. Sul pavimento.”
Matt indica il parquè di legno con disapprovazione come fosse stata appena passata della cera e non si fossero premurati di apporre l’avviso ‘pavimento scivoloso’.
Helena scoppia a ridere, incredibilmente divertita dalla scusa infantile di Matt.
Strizza l’occhio furbescamente, lasciando intendere di aver capito tutto e lascia un’occhiata eloquente alla camicia di Brian che, nella rissa, ha perso almeno un paio di bottoni e pende un po’ strappata.
Con un sorriso amabile e la complicità di una bambina, si rivolge al cantante dei Muse, forse un po’ leziosa, indicando le scale mentre Brian, già in piedi, ancora paonazzo in faccia e senza fiato, si precipita di sotto, facendo rimbombare i suoi passi, solitamente leggeri e aggraziati.
“Mi dispiace interrompervi, tra ventiquattr’ore sarà tutto tuo, Matt, ma adesso è il compleanno di Cody.”
“Capisco. Si, scusa se ho disturbato.”
Fa una strana sensazione sentirsi chiamare con il suo soprannome e con una certa dolcezza da quella donna così distante e esotica.
E’ davvero una bella sensazione, capisce perché un tempo aveva potuto affascinare uno come Brian.
Ma prima di precederla – poiché chiaramente lei non ha intenzione di avviarsi se non per ultima, controllando i suoi movimento con un piglio carismatico che lo mette quasi in soggezione – si volta di tre quarti, fermo sul primo gradino a guardarla e a chiedere:
“Puoi, per favore, dirgli che ci pensasse?”
“A fare cosa?” curiosa involontariamente la donna
“Se vuole venire a vivere con me. Da me.”  
“Va bene”
“So che manterrai il segreto”  
“Ma certamente”
Ha la sua complicità, lo sa.   Il suo affetto per Brian è evidente e c’è qualche gioia infantile che la muove, il brivido del segreto scambiato con un’amica sotto le coperte, a luce spenta,  e una strana pace nell’aria che fa il resto.


Avviene tutto in un momento.
Matt si dilegua senza nemmeno  fare gli auguri a Cody mentre di là tagliano la prima fetta di un grosso millefoglie al limone.
C’è una vasta scelta:  per mamma e papà il millefoglie, per il festeggiato la torta alla nutella, per Stef la crostata di pere e ricotta, una specialità di Helena.
La torta di brioche alla nutella e la crostata sono opera della mamma ma il millefoglie al limone che tanto piace a Brian è troppo anche per lei.
Cody nota che  la mamma ha bruciato leggermente la base del dolce, sembra appena uscito al forno, o forse è riscaldato al microonde,  scotta sul palato, che importa, in fondo la nutella è calda e la brioche è croccante.  Il piccolo osserva divertito Steve che si lecca le dita e ripulisce il piatto con le mani; a lui la mamma l’ha sempre vietato fin da piccolo.
Papà ride dicendo che Junior ha una pessima influenza su suo figlio e Cody vorrebbe ribattere che almeno Steve sa giocare ai videogiochi;  ma non sarebbe giusto nei confronti del padre che si sforza così tanto di tornare bambino, vivere un secolo che non gli appartiene al fianco di suo figlio, cercando, anche solo per un attimo, di mettere da parte quella sua musica che gli piace tanto.
Ma a Cody non piace né la chitarra né la batteria,  ogni tanto forse strimpella il piano.
Prende ancora lezioni, controvoglia, alle volte con un’intima soddisfazione quando finisce un pezzo nuovo e lo suona per intero, per prepararsi ai saggi, l’evento mondano dell’anno.
Dopo la torta, gli abbracci e i festeggiamenti di tutti, il papà lo prende da parte un attimo con un pacchetto dietro la schiena. Cody si sporge a destra e a sinistra, impaziente e fra sé e sé  spera che non sia un cd musicale,  l’ennesimo.
Non riesce a nascondere la delusione quando stringe fra le mani un’antologia dei migliori pezzi dei  Joy Division ma ringrazia con il senso del dovere che hanno tutti i bambini beneducati.
“Questo è il mio regalo. E questo è il tuo.”   Ridacchia il papà tirando fuori un secondo disco dalla busta, o forse un DVD. 
“WOW! PES 15! Grazie papà! Ma dicevi che non volevi che giocavo a questo gioco.”
Brian sorvola sul congiuntivo, indulgente, abbassandosi ad abbracciarlo e rivelandogli con voce carezzevole:
“ringrazia anche Stef, mi ha convinto lui. Ti vuole troppo bene.”
Cody vorrebbe andare ad abbracciare lo “zio”, per così dire, ma il papà lo trattiene ancora un attimo fra le braccia aggiungendo  “ma mi prometti che proverai ad ascoltare anche il mio regalo?”
Il bambino prometterebbe qualunque cosa, ha fretta di liberarsi del padre e alla sua promessa entusiasta Brian non da molto peso.
Cody fila via come una scheggia, precipitandosi verso il suo compagno di giochi preferito che sta facendo il bis di torta alla nutella.
“Jun! Vieni, giochiamo?”  esclama lui sotto lo sguardo di disapprovazione e di stupore di Helena che, per una volta, non è stata messa al corrente di un’iniziativa di Brian, viepiù riguardante suo figlio e decisamente diseducativa.


Quando lei rientra in cucina il cantante è lì, seduto su una sedia, ingobbito, a ticchettare contro una piccola ceneriera di ceramica bianca le lunghe piccole  dita nervose.
Adesso che ne ha l’occasione osserva oltre la camicia, sul collo, la pelle arrossata, un livido sotto il mento, un’occhiaia più pronunciata dell’altra, a sinistra, e le sbucciature lungo le braccia e sui palmi delle mani.
Non appena la vede lui salta in piedi con un sospiro e prende a mordicchiarsi l’unghia dell’indice,  e Helena si prepara ad ascoltare una lunga confessione con la flemma di un’insegnante della scuola materna.
“Ho assolutamente bisogno di una sigaretta.”
“Ma avevi smesso.”
“Non importa. Ricomincio.”
“Brian…”
Lui la guarda e socchiude gli occhi, un sospirone profondo, di nuovo, accompagna il sussulto delle palpebre, poi ritorna a picchiettare le dita, stavolta sul tavolo.
“Helena, sono serio.”
Ma prima ancora di iniziare quella battaglia, la sua ex moglie si è già mossa diligente e dopo qualche minuto di là torna con un pacchetto di Lucky Strike alla menta.
Brian odia le sigarette aromatizzate. Sono più costose, sono puzzolenti, lasciano la stessa sensazione delle gomme da masticare, grattano sulla lingua.
Le accoglie con una smorfia di schifo palese, con l’espressione di chi borbotta “come puoi fumare una porcheria simile?”.
Nonostante tutto apre con urgenza il pacchetto e accarezza l’accendino con rinnovata serenità mentre si accende la sigaretta e alita nel tubicino, una nuvola di fumo danza nell’aria.
“Bri, non cambierai mai.”
Con un mezzo sorriso Brian scrolla le spalle sovrappensiero e un filo di fumo alla menta fugge fra i denti.
Dopo due anni e tre mesi di astinenza da fumo ad Helena sembra già di vederli, di nuovo gialli, come un tempo.

****************


The End





Note

*William Lloyd, seconda chitarra dei Placebo, all’occorrenza basso o pianoforte, ormai diventato membro a tutti gli effetti della band ed è letteralmente adorato da Brian. Si sono conosciuti in occasione dell’uscita di “Without you I’m Nothing” , nel ’98 ed è stato amore a prima vista (perché non ci ho pensato prima?)

*TRADUZIONE
“Alla fine del secolo
ho detto i miei addii,
per quello che vale,
ho sempre voluto piacere
e sono quasi morto. “

- Per la descrizione del live di "Battle for the sun" mi sono ispirata a questa versione , colonna video-sonora : "Soulmates never die - Live in Paris 2003"  .


Angolo dell’autrice

Si, è finita. Aggiungerei finalmente.
La stavo trascinando come mio solito.  Stavo diventando crudele con questa fiction.
Eppure, nonostante abbia forzato un po’ la mano con questo capitolo non sono convinta che sia uscito poi così male. La parte che meno mi convince tanto è l’allusione al cambiamento Hewitt-Forrest che è stata vissuta in modo abbastanza traumatico da far arrancare Brian  nel momento  in cui si tratta di cantare vecchi  successi, orribilmente familiari. Ma ancora una volta tocca affrontare la realtà e tanti saluti.
Ho tradotto solo le lyrics di “For What It’s Worth” perché sono le uniche che hanno senso nel contesto in cui sono cantate.  Devo smettere con le song-fic , mi fanno male.
E poi c’è l’ultimo capitolo, scritto pochi giorni prima di , ancora prima di potermi informare e scoprire che Bellamy, felicemente sposato, ha un adorabile figliolo che, con il suo battito cardiaco, fa da sottofondo musicale in una delle tracce del nuovissimo e sconvolgente  “the 2nd law”.
*Wow,  Matty, hai scomodato la seconda legge della termodinamica! *
Ergo, se trovate che alcune situazioni siano assolutamente irreali dovrete chiudere un occhio <.<
è come se fosse finito un ciclo, mi sento soddisfatta e in pace con me stessa  e ancora eccitata se ripenso a quale splendida serata mi hanno fatto passare questi bravi ragazzi , il due agosto, alle capannelle, hanno saputo farmi apprezzare PERFINO  “battle for the sun”  che considero il peggior album che hanno scritto fin ora!
Però di una cosa mi complimento con me stessa, l’ultima scena è una signora chiusura.
Graziegraziegrazie, un grazie stratosferico a chi ha voluto pazientare così tanto, forse avrete sperato in una fine, ma sappiate che, proprio quando si tratta di mettere la parola  “the end” sono negata e non do soddisfazione.
Bene, ho finito, colpa delle tre di notte, dimenticate quello  che ho detto,  It doesn’t make any sense.
Adios,

Neal C.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Placebo / Vai alla pagina dell'autore: Neal C_