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Autore: Seehl    26/09/2012    0 recensioni
René ha tutto quello che una persona può desiderare. Un marito che lo ama, un figlio splendido, degli amici secolari che non lo lasceranno mai. La sua vita è felice. Lui vive, felice.
Finché non sopraggiunge la morte.
Non è un diario, quanto più una lettera, o un semplice sfogo, di un ragazzo nel fiore dell'età che affronta una malattia terminale che lo ucciderà in tre mesi. Un ragazzo che decide di farsi beffe della morte, e che vive fino all'ultimo attimo che gli è concesso dal suo Dio col sorriso sulle labbra e la determinazione a non far soffrire nessuno.
D'altronde, è solo un'arrivederci.
Questa storia è nata come un regalo di compleanno alla mia LoLe, e quindi la dedica è giustamente a lei. René non esisterebbe senza il suo Dani, e il René che è raccontato qui è con tutti suoi personaggi. E' qualcosa a metà, che abbiamo ruolato e scritto insieme, io ho solo allungato il brodo.
Enjoy~
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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1. Crescendo e diminuendo~

 











Era giovedì mattina e mi ero svegliato col chiodo fisso di dover donare il sangue. Così. Tanto per. Perciò mi ero alzato presto, mi ero diretto alla parrocchia, e lì mi avevano rifiutato, dicendomi anzi di andare al pronto soccorso, perché avevo dei valori sballati, vai a capire cosa. Ovviamente, tutto mi immaginavo, tranne che un tumore al cervello.

I dottori hanno quel modo tutto loro di parlare. Ti visitano, poi si siedono mettendo qualcosa tra te e loro, come ad esempio una scrivania. Afferrano con due dita la stanghetta degli occhiali, e li tolgono, tenendoli comunque in mano. L’altra mano va a massaggiare piano una tempia.

Poi alzano gli occhi. Incerti. Alcuni (di solito i più giovani) si mordono anche il labbro inferiore. E ti osservano. Per quelle che sembrano ore, e che magari sono davvero pochi attimi. Ma tu non lo sai, sei in attesa di sapere cos’hai. Perché hai i valori sballati. Perché non puoi donare il sangue.

Allora esordiscono con un ‘signore..’, e l’esitazione nella voce che prevede qualcosa di grave. Ancora, però, non te ne rendi conto. E poi arriva la rivelazione.

‘Signore, lei ha un tumore al lobo frontale.’

Ah, meraviglioso. Fantastico! Grazie mille, dottore, ora vado a dire a quelli della parrocchia che non è niente e che posso donare-.. aspetti scusi, ripeta un momento, ha detto tumore al lobo frontale?

‘Sì. Bisogna procedere immediatamente con degli esami per definirlo, poi dovrà fare la chemioterapia.’

Ti crolla il mondo addosso. Magari avevi programmato un’intera vacanza, e il dottore viene a dirti che dovrai passare il resto della tua vita attaccato a una flebo. Per quel poco che ti resta. Quant’è, tralaltro?

‘Tre mesi scarsi, se non ci sbrighiamo con la terapia.’

Ah, meraviglioso. Fantastico.

E con la terapia?

‘Sei mesi, sette.’

Al che, mi sono girato e sono uscito dallo studio medico. Il dottore mi conosceva, sapeva com’ero fatto. Non mi avrebbe seguito né costretto a fare niente, non poteva e non avrebbe potuto neanche se non mi avesse conosciuto, se ancora conosco i miei diritti.

 

Mentre camminavo verso casa, ricordo che pensavo soltanto a come l’avrei detto a tutti. Come avrei esordito? ‘Ciao ragazzi, ehilà, sapete, sono stato dal dottore e beh, ho un tumore al cervello! Ma state tranquilli, ho ancora tre mesi tutti per me!’

No, proprio no. Pensavo, pensavo, e più le ipotesi si accalcavano nella mia testa, più mi convincevo che non c’era motivo di allarmare nessuno. D’altronde, in quel momento mi sentivo più che bene. Quindi deviai, e tornai in parrocchia, stavolta senza fermarmi davanti al banchetto di donazione del sangue. Mi diressi direttamente dentro, accolto dalla freschezza dell’ambiente. Ricordo che l’odore dell’incenso era piuttosto forte, e che c’erano tante candele accese. Sorrisi. Per tutte le preghiere lasciate a bruciare davanti all’altare. Chissà chi simboleggiavano quelle luci tremule. Chissà quali amici, quali familiari, avevano deciso di affidare a una candelina bianca l’onere di arrivare sino in cielo, a mostrare a Dio la luce. Chissà quali problemi stavano affrontando e quali dolori stavano passando. Per un attimo pensai di accenderne una per me, per poi cambiare idea. Sarebbe stato.. strano. E parlare con Dio era più utile che lasciargli segni che, magari, avrebbe frainteso o non capito.

Mi inginocchiai quindi sulla prima panca a destra, giunsi le mani a preghiera e osservai le mie nocche diventare bianche. Tremavo. Alzai lo sguardo, e contemplai il crocefisso, che ricambiò il mio sguardo con sguardo disperato. Lo stesso sguardo da duemila anni, ormai.

Da bambino ricordo che chiesi a mia madre perché avessero ucciso Gesù, se Gesù era una persona così meravigliosa come ce la raccontano i vangeli. E mia madre non seppe rispondermi. Da allora sono convinto nell’infinità della crudeltà umana, che arriva ad uccidere anche un Dio, nella sua ottusa intolleranza.

Anche in quel momento, negli occhi del Cristo, c’era una sofferenza incomprensibile. Strinsi di più le mani. Troppo presto avrei compreso quella sofferenza, e lo sapevo anche allora.

Rimasi nella semioscurità della chiesa per mezz’ora, circa. Non c’era nessuno, a parte me, la gente normale non va a pregare il giovedì mattina. Ci va di domenica, come si conviene, come è scritto nelle sacre scritture. Io sono sempre stato dell’idea che, andando a pregare in giorni anomali, Dio avrebbe dato più tempo all’eccentrico che si fosse rivolto a lui. Sempre convinto. Povero Signore, pensate voi: ogni domenica, milioni di voci da ascoltare tutti insieme. Ci credo che non ci sono più tanti miracolati come ai primi tempi cristiani.

Quando mi alzai dalla panca, non avevo risposte, ma tante domande. La prima di tutte, ‘perché a me?’. Seguita da ‘che cosa ho fatto di male?’ e ‘cosa dirò a Dani?’

Presi quindi la strada di casa, e guardavo il cielo, e vedevo le nuvole. Per il mondo non era cambiato niente, era soltanto un René Flumeur che sarebbe morto di lì a tre mesi. Al mondo non importava. Al mondo non importava mai niente, no? .. ma anche io facevo parte di quel mondo.

All’improvviso trovai la forza di tenermi tutto dentro. Finché al mondo non fosse importato, non sarebbe importato neanche a me. E’ così che funziona l’essere umano, vive nell’indifferenza. Ci avrei almeno provato.

Perciò sorrisi. Ricordo che sorrisi, e anzi, scoppiai a ridere, e feci una giravolta, e alzai le braccia al cielo, e ringraziai il Signore, o le nuvole, o il sole, o il vento, o qualunque cosa ci fosse lì sopra.

Ringraziai, e cominciai a correre, ridendo, perché potevo ancora farlo, potevo ancora godere dell’aria sulla faccia e dei capelli svolazzanti. Potevo ancora prendermi gioco della morte, burlarmene anche!, e godermi ogni singolo istante.

Fu con questo zelo che entrai in casa, oh, me lo ricordo. Entrai urlando, ridendo forte, girando su me stesso, cadendo rovinosamente sul tappeto. Per poi ridere ancora.

Dani, attirato da tutto quel trambusto, uscì dalla camera. Mi guardò a terra e rise anche lui, quella risata che era tutto, la composizione più bella del mondo, una nota dopo l’altra di pura estasi musicale. Dio aveva fatto un capolavoro, con quel ragazzo.

Mi girai a contemplarlo, perché è di questo che si parla. La perfezione la vedi e la riconosci, e non puoi che contemplarla. La mia personalissima perfezione si chiamava Dani Kharolyi, e in quel volto giulivo incorniciato da una cascata di riccioli mori, i suoi occhi mi catturavano. Sempre.

Occhi furbi, guizzanti. Come acqua. Ribollivano di emozione, liquidi, ridenti, di quell’indefinibile colore tra il verde, il grigio e l’azzurro. Il colore di un fiume.

E in quegli occhi c’era tutto il mio mondo. Un mondo bellissimo, che stava per finire. Questo pensiero mi fece incrinare il sorriso, ma per poco, perché al suo, di sorriso, era impossibile non rispondere.

‘René!’, mi chiamò. Il mio nome tra quelle labbra, come vibravano le sue labbra sulla ‘r’, lo schioccare della lingua sui denti per pronunciare la ‘n’. E ancora sorrideva. ‘René, sei caduto, che è successo stavolta?’

Oh, che è successo. Giusto. Non ci avevo pensato. Mi persi un momento a fissare un punto oltre la sua spalla, poi mi tirai su, spolverandomi le ginocchia, e incrociai le braccia.

‘E’ successo che da oggi in poi registreremo la nostra musica, ecco cosa è successo!’ buttai lì, tanto per dire. Lui sembrò pensarci su un secondo, forse si chiedeva se l’avrei anche voluta vendere. Sciocchezze! La nostra musica, venduta? Non sarebbe più stata nostra.

Però sarebbe stato qualcosa da conservare, da tenere per sempre, da riascoltare anche dopo. Qualunque cosa fosse successa nel suo futuro, lui doveva avere qualcosa di mio a cui aggrapparsi. Perciò mi sbracciai e ripresi a vaneggiare.

‘Pensa, la registriamo, e poi ci miglioriamo, e raggiungiamo la perfezione!, e poi la riascoltiamo. Sempre! Io vorrei poterti ascoltare anche quando non ci sei.’

A questo punto lo vidi arrossire. Le guance che si coloravano, lo sguardo distolto e il labbro morso piano, sotto il sorriso. Gli piaceva, come idea, lo vedevo. E piaceva anche a me.

‘Direi che si può fare, perché no..?’

La prospettiva di registrarci aveva annullato ogni brutto pensiero di morte e di sparizione. Saltai su, pimpante e felice, e gli circondai il collo con le braccia, stampandogli un bacio sulle labbra. A lui brillavano gli occhi, fosse stato anche solo il riflesso dei miei nei suoi. Era felice e lo ero anche io.

Tre mesi, bene o male, sembravano tanti, allora. Ma tre mesi sembrano sempre tanti, chiedetelo a qualunque studente in vacanza estiva. A giugno ci sono tre mesi per i compiti e il ripasso, e dopo un battito di ciglia è già settembre.

 

‘Sai, René, penso che dovremmo chiedere a Dennis di aiutarci con questi microfoni, ho paura di fare un pasticcio da solo-‘

‘Tranquillo Dani, posso farlo io senza alcun problema!’

Evidentemente non si fidava, perché sorrise, scosse la testa e andò a bussare, due volte e mezzo come ogni volta, alla porta della stanza di nostro figlio. Non ricevendo alcuna risposta. Lo vidi accostare l’orecchio al legno. Probabilmente stava ascoltando la musica al massimo, non aveva di certo intenzione di essere disturbato da due genitori imbranati. La mia teoria venne confermata dal sospiro di Dani: sicuramente l’aveva sentito canticchiare, o strimpellare una delle sue chitarre.

Abbassò la maniglia e aprì la porta di uno spiraglio, con sguardo colpevole. Come se non avesse diritto ad entrare prima di sentire un ‘avanti’ da parte di Dennis.

Ripresi ad armeggiare con i fili dei microfoni, confidando moltissimo nelle mie capacità di fonico.

Cinque minuti dopo, Dennis era accanto a me a tentare di spiegarmi che i fiocchetti non servono a far passare più velocemente l’energia. Protestai. Anche i microfoni hanno un loro modo di agghindarsi. Mio figlio fece una risatina e scosse la testa- quello l’aveva sicuramente ereditato da Dani.

Beh, di certo non aveva niente di nessuno di noi due. I capelli rossicci scivolavano lunghetti alle spalle, adattissimi a scapocciare durante i concerti metal, e gli occhi a volte grigi a volte azzurri brillavano di curiosità. Forse si stava chiedendo come avessi fatto a fare un gattino con quei fili.

Dani si era dissociato a prescindere. Non ci avrebbe capito nulla comunque, lasciava a me l’arduo compito di decifrare il linguaggio di Dennis.

‘.. e alla fine lo colleghi al computer e poi lasci fare tutto al cd. Semplice, no?’

‘Aspetta, mi sono perso al fiocchetto.’

‘Ma papà!’, e una risata. Ero così felice di sentirlo ridere. Stava bene. Aveva due padri musicisti che spesso giravano senza una lira in tasca, eppure era contento, e non si faceva problemi. Ero fierissimo di come l’avevo cresciuto, da una cesta al ragazzo indipendente e presuntuoso che avevo davanti.

Alla fine, fece lui tutto il lavoro, e assistette anche alla prima registrazione, per spiegarci come salvarla. Non penso sia necessario precisare che fu presente a tutte le seguenti registrazioni, perché nessuno dei due aveva ben capito dove finisse la registrazione, una volta salvata.

 

Accadde qualche giorno dopo, quando avevo più o meno capito come funzionassero tutti quei microfoni e file e cose del genere. Dani lasciò il suo prezioso violino sul divano, si stiracchiò, e annunciò che si sarebbe fatto una doccia. Annuì, pensieroso.

‘Lo salvi tu il disco, ora?’

‘Mh! Se non ce la faccio chiedo a Dennis.’

‘Non lo troverai, è andato a fare le prove con Charlene e gli altri due.’

Oh, nessun’altro in casa. Guardai Dani sparire nel bagno, accendere l’acqua, e attesi di sentirlo canticchiare un motivetto. Certo che si fosse infilato nella doccia, presi il microfono e ci battei sopra con un dito. Poi continuai a registrare quel famoso disco, schiarendomi la voce.

‘Riascolterai questa musica e non ti aspetterai niente del genere, ma sappi che ti amo. Ti amo davvero, davvero tanto, Dani. Sono felice.. di essere tuo marito e di avere avuto il privilegio di incontrarti e di passare la mia vita con te.’ Rimasi in silenzio per qualche secondo. Poi abbassai gli occhi. ‘Ti amo e ti amerò sempre. Qualunque cosa accada. E non potrò mai smettere di ringraziarti, per tutto quello che hai fatto per me, per tutto- per tutto l’amore che mi hai regalato. Grazie. Ti amo. Ti amo.’ Un altro momento di silenzio. ‘.. Ti amo.’

Poi armeggiai per far smettere il registratore, rischiando anche di legarmi a terra col filo del microfono che stava tentando di tenermi con sé per la vita. Riuscii a spegnerlo dopo qualche imprecazione. Salvai la registrazione tra le tante che avevamo già fatto, e mi considerai soddisfatto, per quel giorno.

Dani rimase in doccia per un altro quarto d’ora abbondante, che io passai a cercare la nutella in giro per casa. Evidentemente qualcuno l’aveva mangiata tutta, e quel qualcuno ovviamente non ero stato io.

 

‘Tornerai, stasera?’ mi chiese Dani, guardandomi annaspare nell’armadio per trovare una camicia decente. Il problema era che in quel momento non ne avevo la più pallida idea. Voglio dire, uscivo con Coop e Fed, quindi potevamo stare in giro mezzora, oppure tutta la notte, e tutto il giorno dopo, e tutta la notte del giorno dopo, dipendeva da quanto ci stavamo divertendo.

Tirai fuori una splendida camicia verde cachi a fiorellini gialli, alzai gli occhi e scossi la testa con sguardo sconsolato.

‘Non ne ho proprio idea. Ma stavolta ti faccio sapere!’

‘Seeh, vabbeh. Chiamerò io, nel caso fossi preoccupato. Piuttosto, sei sicuro di voler mettere quella camicia?’

‘Certo. Perché no?’

‘Pfft.. niente, niente.’

Una cosa che non ho mai accettato di Dani era la sua crociata contro i miei capi di vestiario. Come se fossero così osceni. Ho visto Federico ubriaco, posso affermare che non sono il peggiore su questo mondo.

Mi sedetti accanto a Dani, mezzo vestito e mezzo no, e gli passai un braccio attorno alle spalle.

‘Lo sai, Dani?’

‘Mhhn?’

‘Ti amo.’ Osservai le sue reazioni, curioso e divertito allo stesso tempo. ‘E penso che tu abbia appena scoperto qualche nuova variante del rosso, sai?’

Mi regalò un meraviglioso sorriso e un bacio sulla guancia.

‘Vai da quegli altri o farai tardi, su!’ mi incitò, quasi spintonandomi. Finii di vestirmi con una risata. Feci per prendere le scale, ma la sua voce mi fece arrestare per qualche attimo.

‘E, René?, anche io ti amo. Ti amo.’

Scesi di corsa e con un sorriso ebete stampato sulla faccia.

 

E’ proprio vero. Quando sei felice, non pensi più alle cose brutte, anche se loro sono sempre appollaiate al tuo fianco. Se sai che stai per morire non puoi farci molto, conviene davvero vivere col sorriso e basta. Pensavo fosse difficile, ma in quei primi giorni non lo era affatto.

Arrivai al Bar di Coop con una manciata di minuti di ritardo, lo trovai intento a lucidare un bicchiere col sorriso da barista stampato sulla faccia. Di Federico, nemmeno l’ombra. Mi accomodai davanti al mio migliore amico, che mi ammiccò. L’unica persona in tutto l’universo capace di ammiccare con un solo occhio. Mi aveva raccontato di tutto sulle cose che erano successe all’occhio mancante, come se lo fosse perso e come avesse comprato, o rubato, o fabbricato anche, quello di vetro che c’era adesso. Non che credessi ad ogni cosa che mi raccontava, eh, però erano racconti così belli che crederci era una delizia.

Mollò il bicchiere, si passò una mano tra i capelli rossicci e allargò il sorriso.

‘Sei in anticipo sul ritardo di Federico. Vuoi un po’ di acqua frizzante?’. Di nuovo l’ammiccamento.

Annuii, poi mi guardai intorno. C’erano i clienti abituali che chiacchieravano tra di loro e con Len (il biondo, lui no?, il marito di Cooper!) dietro al bancone,  poi c’era un gruppo di ragazzi che vociava in un tavolino accanto alla finestra, bambini che si inseguivano tra gli sgabelli o che contemplavano la porta del magazzino prima di spingerla con reverenza e fiondarvisi dentro.

Il magazzino di Cooper era una meraviglia. Dentro, c’era davvero di tutto, libri, principalmente, ma anche moltissime altre cose. Pensate a qualcosa, qualunque cosa. Bene, dentro al magazzino c’era.

Cooper si vantava di aver avuto un mostro di Loch Ness per un periodo, chiuso qualche piano più giù nella pozza che ora era un parco acquatico per formiche, ma nessuno gli credeva. Io sì. Io credevo in tutte quelle cose che potevano essere davvero in quel magazzino.

Ci ero entrato più volte, da solo o con Cooper, e ogni volta avevo trovato cose strabilianti: ricordo il giorno in cui trovai il baule delle cose a cui teneva di più, e lo aprimmo insieme. C’era anche Federico. Dentro, lettere, un carillon, giocattoli, costumi.. mi ero innamorato.

Gli copiai l’idea. Trovai un vecchio baule nella soffitta di papà, e lo confiscai, mettendoci dentro, a caso, tutto quello che mi sembrava avere un valore di qualche genere, anche solo affettivo: cartoline, lettere, vestiti vecchi, fotografie ingiallite e nuove, un vecchio giocattolo, dei disegni sbiaditi, spartiti che non avevo mai tentato di leggere.. Probabilmente ci sarà dentro anche questo libricino. Ma comunque.

Cooper mi osservò con occhio indagatore, sventolandomi davanti una mano. Mi ero perso a vagare per il ricordo del magazzino, perciò stava sicuramente cercando di riportarmi alla realtà. Sbattei gli occhi, sorrisi, mi girai, e mi trovai davanti a due sfere verdi e fosforescenti. Lenti a contatto, sì, ma facevano un bell’effetto sul volto di Federico, che sorrise e mi fece ‘buh’. Finsi (più o meno) di essermi spaventato e lo abbracciai forte, di slancio, affondando il naso nei capelli arcobaleno che si tingeva con tanta pazienza una volta ogni due giorni, per tenerli sempre brillanti. E lo erano, oh, se lo erano.

Rise forte, una risata sicura, calda, e mi scompigliò i capelli.

‘Ciao, piccoletto!’, anche se ero di un anno più grande, sì.

Cooper lasciò il bicchiere nell’acquaio, si avvicinò al biondo e lo abbracciò da dietro, appoggiando lentamente le labbra al suo collo. L’altro si paralizzò, per poi rilassarsi tra le sue braccia.

‘Ci vediamo più tardi, Len.’

‘Vedi di non tornare a notte fonda, perché non ti aprirò.’

Cooper rise, lasciò il suo uomo e scavalcò il bancone, spostando lo sguardo da me a Federico.

‘Allora, qualche idea per la meta di stasera?’

Sapevamo tutti e tre dove saremo andati.

 

.. ecco, a dire la verità, non lo sapevamo affatto. Però quel giorno, incredibilmente, avevamo una direzione. Dovevamo svoltare a destra, a sinistra, a destra, a destra, a destra, a sinistra e poi fermarci e vedere dov’eravamo arrivati. Il piano era semplice, se il posto non ci piaceva, si continuava senza una meta. Ma, almeno inizialmente, una meta l’avevamo.

Eravamo uno strano gruppetto, noi tre. Uno con i capelli arcobaleno e gli occhi sparafleshosi, più orrendi accostamenti di vestiti che non voglio davvero ricordare. Un altro che era un pirata mascherato da maggiordomo. E infine io, che tra capelli sventolanti e argentati e occhiali da sole inutili perché già imbruniva, non potevo essere acconciato peggio.

Ci accomunavano tre cose, principalmente. La prima e la più importante, era la devozione che avevamo per i viaggi. Nessuno dei tre era capace a rinunciare a un paese straniero, conosciuto o meno, da visitare in lungo e in largo. Cooper viaggiava da sempre, io dai diciotto anni e Federico dai venti. Eravamo carichi di aneddoti da raccontarci vicendevolmente, e non sprecavamo mai l’occasione per dare sfoggio delle nostre conoscenze linguistiche pari a zero.

La seconda cosa, era la nostra data di nascita. Federico era nato il 16 novembre ’83, Cooper era nato il 17 novembre ’81, e io ero del 18 novembre ’82. In sequenza un po’ disordinata, ma sempre in sequenza. Scoprire questa cosa ci aveva resi pazzi di gioia, perché potevamo festeggiare tutti e tre insieme il compleanno. Lascio ai posteri l’arduo compito di immaginare una festa di compleanno festeggiata noi tre. Esatto, esatto- no, non così tanta gente, eravamo sempre quattro gatti- oh, sì, da bere ce n’era sempre in abbondanza. Praticamente nessuno ricordava mai niente, se non che ci si era divertiti molto.

La terza e ultima cosa, ma non la meno importante, erano i mocassini che avevamo ai piedi quando uscivamo tutti e tre insieme. Federico li aveva verdi, li spacciava per mocassini di pelle di coccodrillo ma sapevamo tutti che non era vero, e che erano soltanto squamosi e viscidi. Cooper ne aveva a milioni, di mocassini, però quando usciva con noi si superava. Li metteva spaiati, uno rosa e uno giallo, con i lacci slacciati. I miei erano dorati, e quasi brillavano al buio. Ero estremamente fiero di quei mocassini, che si adattavano perfetti alla camicia verde cachi fiorellini gialli. O almeno così ero convinto.

Ora mi viene da chiedere quanta gente sia inorridita vedendo oltraggiato il comune senso dello schifo al nostro passaggio. Ma va beh, sono affari loro e della loro scarsa voglia di divertirsi.

Noi quella sera volevamo divertirci eccome.

E ovviamente, non ricordo niente di niente, se non un osceno boa di piume fucsia che improvvisamente è entrato nel mio campo visivo per non uscirne mai più.

 

Quando Dani era fuori e Dennis usciva, o viceversa, io mi accoccolavo alla mia arpa. Lei sapeva molte, molte cose. Mi aveva sentito sussurrare, mi aveva letto nel pensiero, mi aveva fatto sentire bene. La mia arpa non è mai stata soltanto uno strumento, l’ho sempre considerata una sorellastra. Pizzicavo distrattamente le sue corde, pensando alla vita, cercando di evitare l’argomento morte. Ma lei ci tornava sempre, con un fa diesis grave che mi incitava a pensare alla sofferenza che sarebbe subentrata. Lei era preoccupata per me. Era preoccupata, e me lo faceva presente con vibrazioni spaventate. Sembrava dirmi, chi mi suonerà se tu muori?, chi potrà mai toccarmi come mi toccavi tu?

La mia amante, la mia amante esigente e superba, preoccupata per la mia salute. Era l’unica a cui lo permettevo, perché oltre che trillare brontolante non poteva fare altro.

E mi divertiva. Il suo persistere, lasciarsi pizzicare solo per poter dare voce alla sua saggezza nei miei confronti. Lei sapeva cosa avrei provato, cercava di farmi capire che era troppo. Come avrei potuto sopportare? Da solo? A un certo punto era talmente disperata da dirmi che per qualunque cosa, sarebbe stata lì per sorreggermi. Lei, fatta del più pregiato legno, lucidata ogni tre giorni, con le corde perfettamente accordate, mai saltate una volta, si offriva di diventare il mio letto di morte.

Quando me lo disse mi commossi. E la presi tra le braccia e la suonai, perché era ciò che voleva, e la sentivo vibrare felice, e si sentiva soddisfatta del suo sacrificio.

E dire che a volte mi vergognavo di lei. Mi capitava, di guardarmi le dita e chiedermi perché sembrassero fatte apposta per suonare proprio l’arpa. Non avrei potuto suonare nessun’altro strumento, e non perché ci avessi provato: semplicemente perché lei me lo comunicava ogni volta che la pizzicavo giocosamente.

L’arpa mi aveva riempito di problemi, sempre. Da bambino, quando ancora mi inceppavo tra le corde per distinguerle, i miei compagni di classe che le maestre insistevano a farmi chiamare ‘amici’ non smettevano mai di prendermi in giro. Mi dicevano che l’arpa era uno strumento da donna, che quindi io ero una donna. Ho sempre cercato di non ascoltarli, ma a volte era troppo difficile. Quando ci si abitua ad un certo comportamento e ad un certo nomignolo, non si prova più neanche a toglierselo.

Io ci provavo sempre a farmi amici gli altri bambini. Spiegavo loro che l’arpa era uno strumento che poteva accompagnare qualsiasi arco, ottone o fiato, cercai di suonare per loro, per far sentire la dolcezza della musica che poteva uscire da quelle corde, e loro, per tutta risposta, ridevano. Mi additavano.

Ma l’arpa mi diceva di non arrendermi. L’arpa mi ha sempre sostenuto. Mi è stata accanto qualunque cosa succedesse. L’arpa mi tirava su e mi permetteva di sfogarmi sulle sue corde, mi regalava vibrazioni positive quando non volevo fare altro che piangere.

In realtà, mi vergogno ancora di lei. Non tanto come quando ero bambino, ma sicuramente moltissimo- abbastanza da fingermi un suonatore di cornamusa. Dani non mi crede quando dico che l’arpa mi mette il broncio. Dice che sono solo io che sono sfaticato. Ma lei ha sempre provato dei sentimenti, lei ha sempre odiato il mio imbarazzo, e amato il mio sorriso.

In quel periodo, tirò fuori il meglio, per me e per Dani. Voleva il mio sorriso a tutti i costi. Suonavo, e lei mi suggeriva dove pizzicare, dove l’improvvisazione avrebbe portato la musica al paradiso. Se ne accorse anche Dani, che si congratulava con me (ingiustamente) e con lei (che tutta pomposa si prendeva i complimenti) alla fine di ogni suonata. Prima di avvinghiarmisi contro, ovviamente.

La musica ci ha sempre fatto strane cose. La prima volta che abbiamo suonato insieme, io ho percepito un orgasmo. Forse non fisico, ma so che ero nell’estasi che precede l’orgasmo fisico, perciò è come se avessi avuto un rapporto con Dani quando ancora non eravamo che conoscenti.

E l’arpa ha sempre saputo di aver rivestito un ruolo importantissimo nella mia vita insieme a Dani. E quanto se n’è vantata! Ma ha sempre avuto ragione, quindi perché non ascoltarla?

Dopo ogni registrazione, Dani mi prendeva - o io prendevo lui, a scelta - e facevamo l’amore. Ovunque noi fossimo, a casa, sul palco, al bar a suonare il sabato sera, in giro insieme, dopo la nostra musica avevamo bisogno di sentirci, di toccarci, di riscoprirci ogni volta.

Perché il corpo di Dani mi era nuovo ad ogni tocco.

Passavo le dita sul suo volto e scoprivo nuove rughette di espressione, scivolavo lentamente sul collo, e sul petto, e scoprivo per l’ennesima volta un punto sensibile che gli strappava un ansito. Era il mio ‘do’. Appena sentivo la prima nota, cominciavo a suonarlo.

Lui non era un’arpa, non conoscevo accordi e note di un Dani. Le ho scoperte improvvisando, e non ho mai visto del disappunto sul suo volto.

Dani vibrava sotto il mio tocco. Si contorceva, si inarcava, e un altro rumore, un nuovo rumorino musicale da associare a qualche tocco particolare. I versetti, i mugugni trattenuti, tutte espressioni di contentezza ed eccitazione. Ed ero io il suo suonatore. L’unico che avrebbe saputo suonare Dani.

Quando finivamo, si arrotolava stringendosi a me. E io non volevo che poterlo sentire vicino, la sua pelle sulla mia, i respiri che si scontravano ritmicamente, lenti, le labbra che si toccavano, sporadiche e timide, e le sue risate imbarazzate.

Io ho sempre avuto bisogno di lui e lui di me. Ci siamo trovati. Ed eravamo così perfetti, così.. fatti l’uno per l’altro. Mi ritrovo a chiedermi se troverà qualcun altro con cui dividere la sua vita e il suo violino. Datemi pure dell’egoista, ma io vorrei che Dani rimanesse sempre e solo mio.

Lui è mio.

 

Sono una persona molto, molto, molto socievole, io. Nel senso che posso seriamente fare amicizia con chiunque senza troppi indugi. Non esistono conoscenti e sconosciuti, a me piace conversare con chiunque. Anche perché senza sconosciuti che conoscenze potremmo avere?

Nessuna, esatto. Più o meno è così che ho conosciuto tutte le persone che sono importanti nella mia vita, con un ciao e un discorso improvvisato a caso.

Quando ho conosciuto Dani, ero a Budapest da più o meno un paio di settimane, e assistevo a questa conferenza su vattelappesca cosa, ero lì solo per dei panini gratis che il volantino stava promettendo. Non era approfittare, era semplicemente l’ultima spiaggia per non morire di fame, avendo io lasciato il portafoglio in camera come sempre.

E d’un tratto, ricordo che niente aveva più senso. Adesso, a ripensarci, non so neanche dire con esattezza cosa mi fosse preso. Però ero disperato, e lui, che cercava semplicemente un posto dove sedersi per seguire la conferenza, si fermò e mi chiese se andasse tutto bene.

La scintilla, e tutto mi fu chiaro- beh, non subito, certo. Appena ho cominciato a parlargli ho capito che non aveva bisogno di nessuno che non fossi io, nella sua vita. Però, in quel momento, nel momento in cui per la prima volta ho visto quegli occhi, ho sentito il bisogno di stargli accanto per un po’.

Abbiamo suonato per la prima volta, insieme, nell’albergo, quella sera.

Non avevo mai provato un’emozione così grande come quella che provai quando il suo violino si unì alla mia arpa. Non suonammo niente di conosciuto, solo improvvisazione, eppure fu l’improvvisazione meno improvvisata del mondo, perché io guardavo lui e lui guardava me, e poi chiudeva gli occhi e raggiungeva note altissime, stridenti e malinconiche, e io lo accompagnavo e lui accompagnava me e- Dio. Dio, quella musica. Quella musica fu la cosa più bella dell’universo. Lui era nella mia testa, capiva le mie note, io ero nella sua testa, capivo il suo dondolare ritmico. Ci capivamo, lui mi capiva.

Dopo quella magia, ci siamo abbracciati. Mi innamorai in quell’istante, quando capii che anche lui aveva provato tutte le sensazioni che avevano attraversato il mio cuore durante quella musica.

E lui è rimasto a dormire lì, perché ormai, dopo quella musica, potevamo anche dividere un letto senza problemi. Il giorno dopo abbiamo suonato ancora, e ancora il giorno seguente, e così finché Dani non ha dovuto prendere un treno.

Ero in stazione, e c’era anche lui, e i suoi occhi erano lucidi. E piangeva. Odiavo vederlo in lacrime, in quel momento, perché volevo piangere anche io. E gli dissi, ‘Se questa è l’ultima immagine di te che mi lasci, quando ci rivedremo sarà impossibile per me riconoscerti!’, e lui sorrise, anche se piangeva, ed era bellissimo.

Ma io non sono tipo da lasciare le persone senza un regalo di addio. Tirai fuori dalla tasca una sacchetta, gliela porsi con un sorrisone. Non si sarebbe dimenticato di me così facilmente.

La aprì, curioso, tirando fuori una catenina, a cui era legata un’arpa d’oro, piccolina, ma bella. Particolare. Lo vidi sciogliersi, sorridermi ancora, e abbracciarmi più forte.

‘Non ti dimenticherò mai.’

‘Lo so! Ora vai, che sennò il treno parte senza di te.’

Dani annuì, e salì a sedersi al suo posto.

Fu allora che realizzai, vedendo la sua schiena, i suoi riccioli sventolare lontano da me, quanto fosse importante per me quel ragazzo. Salii sul treno senza neanche pensarci, conseguenze, multe, bah!, cosa potevano importarmi?

Lo trovai seduto al suo posto, il ciondolo già al collo. Mi schiarii la voce, lui si voltò e mi guardò con sguardo interrogativo.

‘Dimenticato qualcosa?’

‘Sì.’ Mi avvicinai, e sorrisi. ‘Te.’

Poi l’ho baciato. E lui non se l’aspettava, ma aspettava quel momento da sempre, perché mi si strinse addosso senza commenti e partecipò più che entusiasticamente al bacio.

Oh, se ricordo quel momento. Il mio cuore batteva a mille, quello di Dani anche più veloce. Gli presi la mano, e mi sedetti accanto a lui, mentre lui mi si accoccolava addosso per la prima volta. La sua testa sulla mia spalla. Il suo sorriso sornione e gli occhi ancora rossi di pianto, e io che mi scusavo e gli accarezzavo i riccioli. E lui era felice. E lo ero anche io.

Pensavo ora.. a quanto la mia vita è stata felice. Anche chi mi è stato intorno è stato felice, almeno per un po’. Ho portato un sorriso a tutte queste persone che sono tanto importanti per me. La mia vita è completa, alla fine. C’è un motivo per cui Dio mi ha intimato di uscire di scena, se continuo a rimanere in vita non saprà più cosa farmi fare.

 

Capitano quei giorni in cui ci si sveglia male e basta, e non ci si può fare niente. Uno di quei giorni arrivò e com’era arrivato passò via, perché quella mattina, inaspettata e puntuale, venne a farci visita Monique.

Monique era la mia unica ragione di vita prima di Dani e Dennis. La mia sorellina, otto anni meno di me e un fisico gracilino, sempre malata, sempre esposta, sempre in pericolo. La sorellina che dovevo proteggere a tutti i costi.

Moni è sempre stata il mio angioletto custode. E anche quella mattina, fece ciò che le veniva meglio, cioè, farmi stare bene.

Entrò in casa con il suo sorriso, che si trascinava dietro un calore che non potevo trovare in nessun altro, e con gli occhi spalancati di chi ha una notizia da comunicare. Mi prese le mani e rise forte, e mi abbracciò, e rimase accoccolata alla mia spalla. Sentivo il suo sorriso sulla mia pelle, lo potevo percepire. Era una sensazione spettacolare.

Alla fine non aveva nessuna notizia da comunicare, soltanto tanta felicità di vedermi di nuovo. A suo avviso, era passato troppo tempo ‘dall’ultima volta che abbiamo passato del tempo tra fratelli’. Si fece offrire un caffè e rimase a chiacchierare con me per tutto il giorno, di tutto. Si fece suonare la sua ninnananna preferita, cantammo insieme le canzoncine con cui eravamo cresciuti (sotto lo sguardo divertito di Dani e Dennis, che forse neanche capivano come potessimo passare dal francese al tedesco all’olandese in due arpeggi), poi riprese a parlottare, di come tutto stesse andando bene, dell’università, del futuro da cantante che Nancy le stava offrendo. Io ascoltavo tutto affascinato.

La sua voglia di vivere era seconda solo alla mia. Eravamo cresciuti insieme, quindi mi sembrava una considerazione molto stupida, ma ogni volta che la vedevo mi sentivo rinascere. E quando si hanno due mesi e poco più di vita, è una grande, grandissima cosa.

Lei, con la sua camicetta azzurra e la gonna lunga, i capelli legati in una coda bassa e le ballerine rigorosamente senza tacco, lei meritava tutto quel benessere e tutta quella vita che stava vivendo egregiamente. ‘La grinta dei Flumeur’, disse una volta Dani, facendo ridere tutta la mia famiglia. Chi ero io per poter interrompere tutto con la mia morte? Lei stava rendendo fieri mamma e papà, e stava rendendo fiero me.

E la mia morte le avrebbe lasciato una ferita impossibile da guarire.

Mi sentii un fratello indegno. Lei non sembrò sentire la mia debolezza, e continuò ad illustrarmi il programma che aveva in mente per quell’estate. Sarebbe tornata a Sanremo con Nancy, e voleva sapere se anche Dani ed io eravamo interessati. Le dissi che glielo avremmo comunicato, ma con la testa ero da un’altra parte. E qui probabilmente se ne accorse, perché mi si avvicino, mi prese le mani, e sorrise. Semplicemente, sorrise.

Solo lei era capace di tirarmi su da una brutta mattina, solo lei riusciva a farmi tornare il buonumore dopo un pensiero demotivante come la mia stessa morte.

La ringraziai, stringendola tra le braccia, e lei fece finta di non capire. Fece una faccia buffa e mi salutò con la mano, e sparì per le scale, inciampando negli svolazzi della gonna ad ogni scalino.

 

Ricordo che la visita di Moni mi fece provare tanta nostalgia per la mia infanzia, e di conseguenza, per mamma e papà. Non dovetti pensarci molto; presi Dani e Dennis e andammo a pranzo dai nonni come ogni famiglia normale fa la domenica a pranzo.

Mio padre apriva sempre alla porta, perché mamma era troppo impegnata a cucinare, o a leggere, o a fare qualunque altra cosa, conscia che tanto avrebbe aperto papà. Anche quella volta, fu lui ad aprire e ad abbracciare tutti e tre con un sorriso che volava da un orecchio all’altro. Da mio padre ho preso molto, anzi, probabilmente tutto fuorché il suo naso. Lo notavo ogni volta che sorrideva, che faceva una battuta, che rideva, che alzava gli occhi al cielo pensando a qualcosa che poi si rifiutava di dirci perché non avremmo capito del tutto. Papà era sempre a casa, a parte quando andava a suonare l’organo in chiesa. Poteva suonare qualunque cosa, mescolava i registri in nuove combinazioni per cimentarsi in qualcosa di mai provato, premeva con forza sui tasti consumati del vecchio organo, per far sentire al mondo la passione e il fervore che metteva nella musica di preghiera. Per il resto, non suonava nient’altro. Aveva provato il pianoforte, ma non gli dava tutte le emozioni che invece un organo, rimbombante e potente, poteva lasciargli. Così aveva abbandonato l’idea di suonare altro, e si limitava a suonare per ogni liturgia possibile.

Mamma era in cucina, ovviamente, dato che pranzavamo da loro. Si stava dando da fare con il gulasch perché da quando le avevo detto che a Dani piaceva molto, eccola lì, ogni visita era sempre a base di gulasch. E di tutti i dolci possibili e immaginabili per la felicità di tutti, ma va bene.

‘Constaaance, ci sono tuo figlio e famiglia!’

‘E’ tuo figlio, se non mi porta il nipotino, Gerard.’

‘Ho detto che c’è anche il resto della famiglia!’

‘Ma potevi dirlo subito! Dennis, tesoro!’

Osservai Dennis farsi abbracciare dalla nonna con un sorriso imbarazzato, mentre Dani seguiva il profumo di pranzo fino alla cucina e io seguivo lui stringendogli la mano.

Dato che mia madre era una cuoca provetta, primo, secondo, contorno e dolce vennero spazzolati in quattro e quattr’otto. Dennis parlava a mio padre di come stesse andando il gruppo, e mio padre gli offrì il garage per le prove. Dennis quasi lanciò un grido, perché lo sapevamo tutti che cercava un posto per le prove da mesi. E ora lo aveva. A momenti si lanciava al collo di mio padre. Mamma, invece, discuteva con Dani di come andassero le cose con me - tutti mi hanno sempre considerato un pericolo pubblico, ma io non faccio niente di male, lo giuro! - e lui sorrideva, e esaltava la vita con me al puro paradiso. Quanto lo amavo.

Era tutto perfetto. Niente poteva intaccare la mia felicità, avevo la pancia piena, un tavolo di persone che amavo e che discutevano di cose piacevoli, e sentivo quel torpore che viene quando mangi troppo, con annessa la voglia di andare a mettermi a dormire da qualche parte.

In quel momento assonnato, mi chiesi se sarebbero comunque andati a pranzo dai miei genitori, Dani e Dennis. E poi, improvviso, il pensiero più doloroso di tutti. Come sarebbero andati avanti?

Seguito da un peggiore. Sarebbero andati avanti?

Dennis di sicuro. Era forte abbastanza da riuscire a tirarsi su dalla tristezza. Ma Dani..? Chi sarebbe stato accanto a Dani? Chi lo avrebbe stretto forte, chiudendogli gli occhi e asciugandogli le lacrime?

Dani non era forte abbastanza, e non potevo pensare di smollare la responsabilità di tenerlo in vita a mio figlio. Mi paralizzai, letteralmente, con gli occhi spalancati ad osservarmi le scarpe, perso nelle visioni che stavano attraversando la mia mente, e giunsi alla stessa conclusione a cui ero arrivato mentre Moni chiacchierava, qualche giorno prima.

Quando me ne fossi andato, la mia famiglia si sarebbe fratturata.

Nessuno fece caso al mio improvviso silenzio, perché non era raro vedermi perso nel nulla ad analizzare qualcosa che mi era stato detto, e a quel tavolo tutti mi conoscevano abbastanza da sapere per certo che non c’era nulla di grave nel mio comportamento.

Ma non riuscivo a togliermi dalla mente l’espressione di Dani quando avesse scoperto che stavo per morire. La vedevo, cristallina. Ancora immaginaria, sì, ma chiarissima. La smorfia sul suo viso.. i suoi occhi spalancati.. persino il sussulto del suo corpo, mentre ancora cerca di capire. Anzi. Di non capire.

Scossi la testa più forte possibile e mi chiusi nel bagno, senza permettere a nessuno di entrare. Da fuori si chiesero cosa stesse succedendo, poi Dani ipotizzò che stessi inventando qualcosa di rivoluzionario e tutto finì in una risata.

Io trattenevo a stento le lacrime.

 

E’ vero, sono un piagnucolone e tendo a fare la vittima. Questo libricino ne è la prova, no?, e beh. E’ una parte di me, del me che tutti considerano tanto bravo e meraviglioso e amichevole e altruista e cose così. Io non mi ci sono mai visto.. ho sempre creduto di sfruttare le persone.

Alla fine, io le sfrutto davvero, le persone, come ogni altro essere umano. Tutti noi pretendiamo qualcosa da altri, che sia una parola gentile, o una serata insieme. E’ una pretesa che facciamo per, magari, scaricare un po’ di stress. Ma è una pretesa.

Io ho preteso amore, ho preteso amicizia, ho preteso tante cose. Se andate a dirlo a Dani lui vi risponderà che non è vero. Che io sono una persona speciale e meravigliosa e che anche lui mi ama, perciò è reciproco, non ci sono pretese nella nostra relazione. Ma lui non capisce il mio punto di vista.

A dire la verità, penso che nessuno capisca davvero quello che mi passa per la testa. C’è chi mi asseconda, sì, c’è anche chi mi accompagna nelle mie follie, ma non è vera comprensione. Magari loro pretendono di capire, quindi si fanno in quattro per cercare di pensare come me. Forse. Non lo so.

Non so più niente.

Rileggendo quello che ho scritto finora, vedo che non c’è filo logico. Non c’è assolutamente niente di quello che volevo scrivere. Che poi, cosa volevo scrivere? Una lettera d’addio a tutti quelli che mi hanno amato? E’ una cosa molto vigliacca, lasciare che sia la carta a parlare, mentre mi lascio morire.

No, non è una lettera d’addio. E’ uno sfogo, un diario. Nasce come tale, così deve rimanere. Sto scrivendo così tante cose inutili, ma forse ho solo bisogno di rivivere ogni momento di questo poco tempo che mi è rimasto. Sì, dev’essere così.

L’essere umano è debole e ha paura. Io ho paura, ho tantissima paura, della morte, del nulla o di Dio, di qualunque cosa ci sia dopo. O non ci sia dopo.

Vorrei poter sapere cosa mi aspetta. Potrei andare più preparato, potrei spirare con un sorriso sul volto, in quel caso. E’ come quando vai sulle montagne russe per la prima volta. Non ti aspetti niente di troppo eccessivo e poi stai male per tre giorni, oppure ti aspetti chissà cosa e ti ritrovi su un bruco mela. Sì, la vita è un’enorme montagna russa. E rende, come paragone. Tutti corrono, fanno a botte per arrivare primi, e chi se la prende comoda non riesce a salire sulla giostra.

L’unica differenza è che nelle montagne russe della vita manca un pezzo di rotaia, e ogni vagoncino crolla nel vuoto della morte.

Vorrei tanto poter fare un giro di prova sul bruco mela.

 

Una volta ci sono andato, al luna park, ero con il governo. Ce l’avevo trascinato contro la sua volontà, in quei giorni che sembravano dover essere solo l’inizio di una lunga, lunghissima vita.

Andy non era molto d’accordo, di fuori. Comunque non mi avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi esaltato, né spaventato. Salimmo insieme sulle montagne russe e non saprei dire chi dei due abbia urlato di più. Forse io- comunque, la sua versione sarà sempre contro di me.

Andy mi vuole bene. Non so come mai, non so quale strano legame ci sia tra noi due. L’ho conosciuto per caso, come ho conosciuto tutti. Sul tram, lui guardava fuori e sembrava che non pensasse a niente, però aveva dei mocassini bellissimi. Erano neri. Con le borchie. E le fibbie arancioni. Mi ero deciso a chiacchierare con lui fino ad accompagnarlo a casa, ma più camminavamo, più mi rendevo conto che stava girando in cerchi. Come se non volesse che io sapessi il suo indirizzo.

C’è da dire che non avevo proprio niente di meglio da fare, quel giorno. Continuai a seguirlo impassibile, inventandomi qualunque cavolata per insistere con le chiacchiere, e lui mi guardava stranito. Probabilmente aveva del lavoro da fare, a casa, e io gli stavo impedendo di arrivare.

Fantastico! Stavo regalando un po’ di tempo libero a un impiegato superimpegnato. Anche se non mi sembrava un impiegato. Aveva una bella giacca smanicata e una bella cravatta, e non camminava ingobbito come tutti, nossignore. Era.. un passo regale. Sicuro. Di chi sapeva mettere un piede dopo l’altro.

Alla fine sbottò, dicendomi di andarmene. Per tutta risposta, allargai il sorriso più possibile, gli smollai un biglietto col mio numero e l’indirizzo del bar di Cooper, e me ne andai canticchiante.

Oh, ci avevo preso. Il giorno dopo, all’orario di apertura, Coop si ritrovò Andy alla porta, che guardava l’orologio, nervoso. Forse era in ritardo al lavoro.

Mi ero ripromesso di passare da Cooper comunque, quel giorno, quindi arrivai avanzando con tutta la tranquillità del mondo, e lui mi fulminò da sotto gli occhiali da sole.

‘Allora, cosa vuoi da me? Sei un terrorista o cosa?’

Rimasi un momentino interdetto.

‘Sono un fiume, non so se i fiumi siano terroristi.’

Alzò gli occhi al cielo e fece per andarsene.

‘Aspet- Mi chiamo René! E tu?’

‘.. Andrew.’

Da quel giorno, molto lentamente, cominciammo a vederci, al bar, o in giro, al parco. Lui aveva localizzato casa mia, e a volte lo vedevo girare con noncuranza per il mio quartiere. Era una cosa esaltante. Dani mi dava del pazzoide, e poi rideva.

Quando ci incontravamo per strada ci salutavamo formalmente. Un paio di domandine necessarie, poi lui se ne andava per la sua strada e io per la mia. Piano piano, queste domandine diventarono sempre più intime, e le conversazioni sempre più lunghe, tanto che dovemmo metterci a sedere su una panchina, una volta. Rimanemmo nel parco per un paio d’ore.

E diventammo migliori amici. Piano, eh!, con tutta la tranquillità del mondo. Per una relazione non c’era bisogno di correre. Un annetto, circa, ma neanche. Qualche mese. Che era tanto, per i miei standard di esaltazione. Era presente al mio matrimonio, e lo costrinsi ad essere mio testimone.

Ora.. ora ci parlo più o meno ogni giorno, via telefono o via sms, o in qualunque modo io riesca a raggiungerlo,  e cerco di passare con lui più tempo possibile, perché è sempre impegnato e ha tanto da fare. Però è mio amico, e uno dei migliori. Perché Andrew Watson non da la sua fiducia a chiunque, o almeno così mi ha detto. Come mi ha detto tante tante cose. Che inizialmente erano bugie, ma sono sicuro che ha smesso di mentirmi, dai suoi occhi e dal sorriso che mi fa quando mi vede.

Avevamo davvero poco tempo, quelle volte, e quando dico ‘poco’ intendo davvero poco. Qualcosa come una manciata di minuti per prendere un caffè assieme e aggiornarci velocemente sulle nostre vite.

Lo incontrai esattamente un mese dopo aver scoperto di essere terminale. E non gli dissi niente del tumore, come avevo già progettato. Gli raccontai della musica registrata, della band di Dennis che andava a gonfie vele, di come tutto stesse andando per il meglio. Lui non sorrise, intrecciò le dita e mi guardò storto. Continuai a restare allegro e a raccontare aneddoti a caso, e lui continuava a non sorridere.

‘Va tutto bene, vero René?’

‘E quindi Cooper ha- .. certo che sì! Perché chiedi?’

‘… tanto per.’

Ero pietrificato, me lo ricordo. Andy era bravo, a capire le persone, anche troppo bravo. Mi chiedevo come facesse, a ‘dedurre’ tutto quello che ti passava per la testa. E non avevo pensato al fatto che avrebbe potuto leggere i miei sentimenti verso la morte. Il suo sguardo mi trapassava. Cercai di concentrarmi sui suoi capelli rossi, o sul cameriere dietro di lui, ma sentivo che mi analizzava, freddo, e che sapeva ogni cosa. Più o meno. Restammo in silenzio per secoli. Lui analizzava, io trattenevo il respiro.

‘.. Hai smesso di parlare, che c’è?’

‘Oh-uhm-ecco- mi stavi fissando.’

‘Cerco di capire cosa non vuoi dirmi.’

Eccolo. Sapeva. Sapeva tutto, o avrebbe saputo tutto in pochi secondi. Io non potevo permetterlo, ma non sapevo neanche come fermarlo. Distolsi lo sguardo e feci per alzarmi, ma lui mi bloccò, tenendomi saldo per la manica.

‘Ok, ok. La smetto.’ disse. I suoi occhi continuavano ad analizzarmi, però, come se la bocca non avesse detto niente. ‘Però lo sai che qualunque cosa, a me puoi dirla, vero?’

Deglutii, per poi annuire. Sembrò soddisfatto, così chiuse gli occhi e girò il suo caffè.

‘Stavi dicendo, di Cooper?’

Mi aveva provato tutto quello che poteva essere ancora incerto. Un Andrew avrebbe lottato con unghie e denti per sapere il mio segreto, ma lui si fidava di me. E io stavo tradendo la sua fiducia.

Improvvisamente mi sentivo un mostro, perciò accusai un malessere e me ne andai, la mani affondate nelle tasche, mentre sentivo il suo sguardo seguirmi, come indeciso se lasciarmi andare o no.

Mi lasciò andare.

Io tornai in chiesa, il tempo veloce di recitare un’Ave Maria. Poi rientrai in casa.

 

°*°*°*°*°*°*°

   
 
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