Allo
stretto indispensabile.
Ai colpi di testa.
Ai colori.
SEI.
Avevo
paura. Ero seriamente preoccupata: da una settimana a questa parte
non avevo incontrato Geremia né mio padre aveva cercato di
contattarmi, le cose a lavoro andavano bene, nessun danno a
oggetti personali o a me stessa; cosa mi stava succedendo? Che fine
aveva fatto la mia amica sfiga?
- Dopo la cerimonia vi
sposterete qui, è abbastanza grande per contenere entrambe
le vostre
liste di invitati; è sul prato ma i vostri due tavoli
saranno in
posizione centrale e rialzata rispetto agli altri in modo che tutti
possano vedervi. L'orchestra sarà...
- La band vuoi dire!
Ecco
che ricominciavano i battibecchi tra le due spose, per fortuna erano
amiche, non osavo immaginare cosa avrebbero detto o fatto se non lo
fossero state.
- Ilaria, io non voglio la band, voglio
un'orchestra che suoi violini e altri strumenti a corda. Voglio una
musica soave al mio matrimonio.- I suoi occhi chiusi e super
truccati, l'aria sognante e le unghie ben curate mi fecero
rabbrividire. - Ci saranno anche i gazebo vero?- Si rivolse a me,
aprendo di scatto gli occhi castani e inviperiti.
- Veramente...
No.- Prima che scoppiasse provai a spiegarle che il matrimonio era di
entrambe e che stavo provando, insieme ai miei
collaboratori, ad accontentare tutte e due. - Avevo
pensato ad alcuni tavoli con sopra delle tovaglie di
lino
bianco e appuntati a esse dei piccoli fiorellini gialli e arancio che
richiamano le composizioni ai vostri tavoli.
- Io li voglio
viola e rossi.
Giada era la sposa più complicata tra le
due, quella che stava con l'americano e che voleva le cose
più
strane. Che razza di abbinamento era quello che aveva scelto?
Sospirai cercando una ragione per non strozzarla.
- Potremmo
dividere le composizioni in base ai vostri tavoli e agli
invitati.
-
L'importante è che io abbia i miei fiori viola.
Quando
tutti e quattro andarono via, mi rilassai sulla mia poltrona
maledicendo Carla e la sua mania di darmi i lavori più
difficili.
Perché non potevo mai occuparmi di matrimoni semplici o di
quelli
civili?
Mandai le ultime email per confermare la sala del
ricevimento, chiamai il fioraio e anche il pastore che avrebbe
celebrato il rito; stavo appunto parlando con quest'ultimo quando mi
arrivò un messaggio al cellulare, mi soffermai a leggerlo
più del
dovuto, perdendo la concentrazione.
“Ehi
biondina, non pensare che mi sia scordato di te, sono solo troppo
impegnato per passare a salutarti. Non disperare,
recupereremo.”
Primo:
non ero affatto disperata, anzi tutto il contrario: non aveva la
minima idea di quanto fossi felice di non averlo incontrato in quei
giorni.
Secondo: come diavolo aveva fatto ad avere il mio
numero?
La risposta lampeggiò nella mia mente come
un'enorme insegna luminosa: il suo stupido amico che mi aveva
duplicato la scheda! Un moto di rabbia mi assalì e fui
tentata di
rispondergli mandandolo, gentilmente, a quel paese; invece lo
ignorai, credendo che in quel modo lui si sarebbe convinto che
aveva sbagliato numero.
- Signorina
Emily, è ancora in linea?
Avevo
dimenticato di essere al telefono con il pastore Marzano –
Sì,
scusi, stavo appuntando tutto sull'agenda. Quindi confermiamo?
Quello
rispose e chiusi la chiamata afflitta, possibile che quel tizio, di
cui ancora non conoscevo il nome, doveva farsi sentire nei momenti
sbagliati e inopportuni?
Anche quella mattina arrivai in
orario a lavoro; Carla non era nel suo ufficio, aveva lasciato un
biglietto dicendo che era uscita per un sopralluogo. Mina e Giulia
invece, erano già sedute alle loro
scrivanie, ma invece di
lavorare parlavano della loro serata precedente.
- Tu che hai
fatto?
Si accorsero di me solo perché feci tutti i rumori
possibili, attirando l'attenzione – Oh, buongiorno
ragazze,
anche voi qui?
La loro risata mi contagiò, era strano
essere di buon umore di prima mattina. Ultimamente ero sempre
così
cupa e triste, un po' come Meredith Grey.
Stavo per
rispondere e raccontare loro della mia serata rilassante, passata sul
divano a guardare una commedia americana quando il mio cellulare
squillò: l'ennesimo messaggio.
“Buongiorno
Dumbo. Non puoi evitarmi per sempre.”
Lo
misi in modalità 'vibrazione' e lo posai sulla scrivania.
- Chi
era?- Mina e la sua morbosa curiosità.
- Non è che per caso hai
qualche ammiratore segreto e non vuoi dircelo? - Giulia, quando ci si
metteva, sapeva essere peggio di Mina, avrebbe potuto
iscriversi a
scienze investigative perché sarebbe stata un ottimo
detective rompi
scatole.
- Nessuno di importante. Volete sapere o no quello che ho
fatto ieri?
- No, perché fai la stessa cosa ogni sera: stai
a casa a guardare un film. Sei noiosa.
Volevo ribattere alle
parole di Mina, ma l'altra arpia si intromise, mettendo fango
su
fango:
- Potrai parlare solo quando uscirai con qualcuno che
merita e farete baldoria per tutta la notte. Fino ad allora, zitta e
lavora.
Scoppiarono a ridere e finsero di darsi un cinque a
distanza; le mandai a quel paese e mi misi a lavoro
ignorandole.
Quando andavo a scuola non facevo mai
colazione o, se mangiavo, mi limitavo a ingerire qualcosa di secco
come biscotti o simile evitando il latte e il caffè
perché sapevo
che a metà mattina sarei dovuta correre in bagno. Da grande
persi la
mia intelligenza e furbizia e iniziai a fare colazione bevendo latte
e caffè, i due ingredienti più lassativi
possibili messi insieme:
verso le undici corsi in bagno per un attacco di mal di pancia
incredibile.
Forse era stata colpa del cinese della sera
precedente, non ero mai stata male come in
quel momento in
vita mia; dovevo iniziare a mangiare in maniera decente e smettere di
ingozzarmi di schifezze.
Tornando in ufficio trovai le due
streghe sedute sulla mia scrivania a ridere come due idiote.
-
Oddio... “Dovresti
tornare al locale, potrei rifare il numero della panna solo per
te.”
Stavano
leggendo i messaggi del mio cellulare.
- Giù, senti questo: “Sto
mangiando del pollo con i miei coinquilini: preferirei avere te
davanti, con quella vestaglia nera e trasparente.” Era
quella che ti abbiamo regalato noi?
Mi avvicinai a loro,
arrabbiata, togliendo dalle mani di Mina l'oggetto delle loro risa
–
Cosa state facendo?
- Ha cominciato a tremare e... Abbiamo letto.
Scusaci.- Tra le due Giulia era quella con la testa sulle spalle e la
meno curiosa. – Però adesso spiegaci cosa sono
tutti questi
messaggini.
Mi sbagliavo. - E' il tizio del Ladies Night, quello
della panna.- Non mi fecero finire di parlare perché
iniziarono a
saltellare felici come delle antilopi nella foresta per tutta la
stanza ripetendo quanto fosse romantico che - testuale - 'quel figo
mi scrivesse ogni mattina, pomeriggio e sera'. A detta loro il
romanticismo stava nel fatto che la nostra sembrava la versione
rivisitata di “Pretty Woman”, lui era il prostituto
e io la tizia
ricca che cercava di migliorargli la vita; lui però non mi
sembrava
così infelice della vita che stava conducendo.
- E tu che gli
dici?
Risposi mentre raccoglievo le mie cose per tornarmene a
casa: nel pomeriggio avrei visitato la Vigna San Sebastiano
insieme alle spose. Alla notizia che lo ignoravo per fargli credere
che avesse sbagliato numero, Mina e Giulia iniziarono a
insultarmi; non mi interessava cosa pensassero loro, io volevo
solo che quell'idiota la smettesse di importunarmi.
- Io però
potrei avergli risposto per sbaglio, prima.
Era
ufficiale: odiavo Mina. - Cosa hai fatto?-
Sibilai, mentre
mi avvicinavo minacciosa e con l'ombrello in mano: l'avrei
usato
come arma se fosse stato necessario. - Cosa gli hai scritto?
-
Niente di grave, ho usato il tuo stile.
Mi bloccai – Ironica e
tagliente?
Negò con il capo e accennò una mezza risata
–
Isterico, quello di una zitella.
Mi finsi arrabbiata mentre
loro due morivano dalle troppe risate: Giulia cadde per terra
e
si teneva la pancia, dicendo che la mia espressione
era
troppo buffa; ancora una volta le mandai a quel paese e me ne uscii
dall'ufficio.
Non sapevo cosa avesse risposto Mina al
messaggio e in tutta onestà non mi interessava
affatto, ma mi
aveva infastidito il loro intromettersi nella mia vita. Se non gli
avevo raccontato nulla di tutta quella faccenda, c'era un
motivo: quello di tener fuori, il più lontano
possibile, Mr
Panna, perché quello portava solo guai e sfiga. Loro
due non erano cattive e quello che facevano lo facevano per il mio
bene, di questo ne ero a conoscenza, ma
il mio brutto carattere mi faceva reagire in quel modo, portandomi
a trattarle sempre
male.
-
Ciao Emily, come stai?
Non
potevo crederci, quel tizio era sempre in agguato e pronto ad
assalirmi quando poteva. Stavo iniziando a pensare di scendere con le
scale e abolire per sempre l'ascensore. Lo salutai per educazione
anche se avrei preferito ignorarlo; lui come al solito aveva voglia
di parlare perciò continuò a infastidirmi con la
sua vocetta
nasale.
-
Non pensi che
sia strano incontrarci sempre qui dentro?
Lo
aveva notato davvero? Allora era un genio! - No, figurati. Io ci vivo
qui dentro è normale incontrare qualcuno ogni
tanto.
Rise
come un idiota e mi venne voglia di prenderlo a pugni – Lo so
che è
assurdo, ma ti assicuro che è una
coincidenza: è la
mia pausa pranzo e se non mangio le sfogliatine della signora Maria
starò male per tutto il giorno.
Un
altro dei miei problemi era che giudicavo troppo in fretta le
persone; quel ragazzo era sempre stato gentile con me e aveva
ragione, ci incontravamo solo negli orari di entrata o uscita dal
lavoro; in effetti anche lui doveva andare a mangiare o a casa
a
dormire. Ero proprio stupida!
Le
porte dell'ascensore si aprirono e mi lasciò
uscire, sorridendomi
gentile; non ero abituata a tutta quella galanteria.
-
Cosa sono queste sfogliatine di cui parli?
La
mia bocca non era collegata al mio cervello oppure il mio cervello
aveva smesso di funzionare. Perché cavolo mi mettevo a
parlare di
cibo con quello che fino a qualche istante prima avevo creduto fosse
un maniaco sessuale?
-
Non le hai mai assaggiate? Dobbiamo rimediare.
Mi
sorrise ancora e, prendendomi per mano, mi
trascinò
fino al piccolo panificio di fronte al palazzo in cui
lavoravamo. Ci accolse una signora bassina e ciocciotta, ma
molto simpatica: lei doveva essere Maria.
-
Emily, ti presento la signora Marianna che tutti chiamano
Maria.
Le
strinsi la mano e lei mi riempì di cibo e complimenti. Quel
tipo
aveva ragione: le sfogliatine erano squisite, non ne avrei potuto
fare a meno per il resto dei miei giorni.
Uscimmo
dal panificio rotolando: mi sembrava di essere ingrassata di
altri dieci chili per tutto quello che avevo mangiato, sarei
scoppiata da un momento all'altro; come avevo potuto farmi trascinare
da un tizio e mangiare tutte quelle cose?
Dovevo
smetterla di farmi domande e iniziare ad agire: salutarlo e andarmene
erano le prime cose da fare.
-
Grazie mille per il pranzo. Sei stato davvero gentile.
Era
chiaro come l'acqua: il mio cervello era morto; se mi avessero fatto
in quel momento un elettroencefalogramma si sarebbe vista una lunga
linea piatta.
-
E'
stato un piacere, potremmo farlo un'altra volta se ti va.
Dovevo
solo negare, salutare e andare via. - Certo, puoi solo dirmi il tuo
nome? Io, beh sai, ho una pessima memoria.
-
Mario e qui c'è anche il mio numero.
Mi
diede il suo biglietto da visita e poi lo salutai sul
serio dato
che dovevo incontrare le mie due simpaticissime clienti alla
Vigna e non potevo perdere altro tempo.
Sull'autobus
presi il cellulare per memorizzare il numero e trovai un altro
messaggio il cui mittente era sempre “Non
Rispondere”, lo lessi
per curiosità:
“Ho
vinto: mi hai risposto. Biondina 0 - Pi...”
La
voce elettronica mi annunciò che quella era la mia fermata
perciò
lanciai il telefono nella borsa e scesi di corsa per non perdere la
coincidenza. Dopo dieci minuti arrivai a destinazione, stanca
e
sudata. Odiavo i mezzi pubblici ma fin quando non avrei trovato un
automobile a buon prezzo mi sarei dovuta arrangiare.
Dopo
tutto il pomeriggio trascorso ad ascoltare le lamentele di Giada e le
suppliche di Ilaria quando arrivai a casa presi due aspirine e mi
buttai esausta sul divano con le lacrime agli occhi a causa del
troppo mal di testa; quel lavoro mi stava uccidendo.
I
matrimoni erano belli quando erano semplici e intimi, quando ci si
sposava per amore e non per interesse; ammettendo che l'amore potesse
spingere due persone a legarsi per sempre con un contratto.
Mi
addormentai vestita, senza cenare; avevo mangiato abbastanza a pranzo
e troppo stanca per camminare fino in camera da letto. Pensai a
Mario, aveva un sorriso carino e gli occhi azzurri: mi piaceva quel
colore degli occhi, chissà di che colore erano quelli di
Geremia.
Ero
in ritardo e non avevo dei vestiti puliti perché la sera
prima non
avevo caricato la lavatrice; in più, essendomi
addormentata sul
divano, ero puzzolente e ancora vestita.
Maledii
il mio lavoro per tutto il tempo della doccia, soprattutto
quando dovetti indossare un abitino beige, l'unico indumento non
troppo elegante che mi era rimasto nell'armadio, insieme a delle
scarpe con il tacco rosse.
Presi
borsa e cappotto e uscii in fretta da casa: se fossi arrivata
troppo in ritardo il Dottor Rossi non mi avrebbe ricevuta e quella
corsa sarebbe stata inutile.
Il
traffico quella mattina fu dalla mia parte e riuscii anche a beccare
tutte le coincidenze; scesa dall'autobus iniziai a correre come se
stessi facendo la maratona di New York, nonostante
non
credessi di saper correre su quelle trappole mortali. In
realtà
avevo paura di cadere a ogni passo e di fare una figuraccia davanti a
tutti i passanti, ma la reputazione con l'analista era
più
importante di una figuraccia per strada.
Aprii
la porta dello studio con soli cinque minuti di ritardo e la
segretaria mi fece accomodare su una di quelle tante sedie scomode
verdi e arancioni che c'erano nella sala d'aspetto. “Il
dottore è
occupato al momento, desidera qualcosa nell'attesa?” Mi aveva
detto
la segretaria e avrei tanto voluto spaccarle l'enorme Mac che aveva
davanti in testa, perché avrebbe potuto chiamarmi e
avvertirmi,
almeno avrei fatto a meno di correre e sudare come un maiale in
calore.
Dopo
una lunga lotta interiore tra quale colore tra giallo e arancione
fosse più brutto e quindi in quale sedia avrei poggiato il
mio accomodante sedere,
scelsi l'arancione e mi rilassai aspettando che il dottore di sto
cavolo si liberasse; sfogliai qualche rivista, cancellai tutti i
messaggi ricevuti senza neanche leggerli per liberare la memoria e ne
mandai uno a Carla dicendo che avrei ritardo per colpa
dell'appuntamento con l'analista; stavo per perdere quella poca
pazienza che avevo quando delle urla attirarono la mia attenzione, mi
sporsi dalla sedia per ascoltare meglio.
Il
mio secondo nome era curiosità.
-
La mamma sta male e io non posso andare a vederla perché tu
lo hai
proibito, che razza di padre sei?
-
Pietro, abbassa la voce.
-
Non abbasso un cazzo. Mi hai tolto tutto, ma non ti
permetterò
di portarmi via la possibilità di vedere mia madre.
-
E' colpa tua se siamo arrivati a questo punto, avresti dovuto fare a
modo mio. Seguire i miei consigli invece di fare quello che fai...
Sei una profonda delusione.
A
qualche minuto di silenzio seguì un tonfo, il rumore di un
oggetto
lanciato per terra o contro il muro. Sentii dei passi verso la porta
e mi spostai verso la finestra per non farmi vedere e
scoprire: se
avessero saputo che avevo origliato non avrei fatto una bella
figura.
-
Non ti
preoccupare, Dottore, risolveremo la questione a modo mio. E' tutto
suo signora.
Mi
voltai quando il ragazzo aveva girato l'angolo, il Dottor Rossi era
in piedi accanto la porta e stringeva la maniglia come a volerla
rompere; aveva le nocche bianche e solo dopo qualche minuto si
voltò
verso di me.
-
Mi scusi
per lo spettacolo, si accomodi pure.
Non
dovevo piangere, in fondo non era poi tanto grave avere male ai piedi
per colpa delle scarpe; dovevo resistere fino in ufficio
perché lì
le avrei tolte ottenendo la pace dei sensi.
Non
erano poi così alte o così scomode, c'era il
platò ad attutire il
peso e il tacco non era spillo ma abbastanza grosso; il problema
stava nella punta che stringeva troppo le mie dita rendendole ancora
di più dei salsicciotti pressati e doloranti.
La
vibrazione della mia borsa mi distrasse dai miei pensieri
sulle
scarpe maledette; il numero era sconosciuto e per quanto odiassi
quelle tipologie di chiamate dovetti rispondere perché
poteva essere
qualche mia cliente.
- Emily,
devi venire subito qui.
-
Scusa, ma con chi parlo?
- Con
tuo fratello! Per favore ho bisogno del tuo aiuto. Ti mando per
messaggio il mio indirizzo, fai presto perché è
urgente.
Guardai
il telefono sbigottita per qualche istante, fino a che non mi
arrivò un messaggio da “Non rispondere”
con scritto una via e il
numero civico; sbuffai e scesi alla fermata
successiva, cambiando
del tutto il mio tragitto. Al telefono mi era sembrato
preoccupato e che avesse davvero bisogno del mio aiuto,
perciò
strinsi i denti e corsi verso casa sua.
Per
fortuna non ero così lontana e arrivai presto in via Treviso
numero
diciannove, il portone del palazzo era aperto e ne fui grata
perché
non avrei saputo a chi suonare; in realtà non
sapevo neanche il
piano in cui abitava quel cretino perciò gli mandai un
messaggio a
cui rispose qualche secondo dopo dicendomi anche che avrei trovato la
chiave nelle palle del toro.
Salii
le scale fino al sesto piano perché, ovviamente, in quel
palazzo non
c'era l'ascensore; arrivai mezza sfinita e in punto di morte, avevo
tolto le scarpe davanti al 3B sorridendo come una scema pensando ai
protagonisti di un libro che stavo leggendo e avevo continuato
la mia scalata verso l'idiota.
Al
6A sospirai vittoriosa e cercai le palle del toro; a sinistra su un
muretto con il ripiano in marmo, dietro una pianta grassa, c'era una
piccola statua in bronzo di un toro in una posizione strana, sembrava
stesse per fare la cacca; non potevo credere a quello che stavo
facendo: infilai la mano sotto le palle di quella statua e le
staccai, prendendo la chiave.
Disgustata, aprii
la porta e cercai l'idiota, non sapevo neanche come chiamarlo, ma
in qualche modo mi annunciai non ottenendo nessuna risposta: mi
preoccupai. Guardavo tanti film horror o fiction poliziesche, per un
attimo pensai che mi avesse chiamata a casa sua per uccidermi o per
incastrarmi in un omicidio, poi però sentii la sua voce.
-
Sono qui, ultima porta in fondo al corridoio.
Superai
l'unico ambiente del soggiorno-cucina e camminai per il lungo
corridoio nel quale c'erano diverse porte colorate: una rossa, una
verde scuro, una blu, una nera e infine in fondo, arancione; bussai e
aprii incerta.
-
Ma che
cazz! Ti sembra il modo? Non potevi vestirti?
-
Finalmente sei arrivata. Devi aprire la porta nera e prendermi la
carta igienica, per favore.
Avrei
pagato oro per vedere la mia espressione in quel preciso istante;
dovevo avere la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite oltre
all'istinto di sbattere la porta e tornarmene da dove ero venuta.
Geremia se ne stava seduto sul water, completamente nudo, con un
rotolo finito in mano e la faccia da schiaffi.
-
Stai scherzando?- Negò e chiusi la porta in maniera poco
delicata,
borbottando. All'interno della porta nera c'era uno sgabuzzino,
cercai per un po' e quando la trovai tornai da lui lanciandogliela in
faccia -Tieni, idiota.
-
Sei molto carina con questo vestito.
Nonostante
avessi chiuso la porta, riuscii a sentire quel complimento e non
potei fare a meno di sorridere; era strano che proprio lui mi dicesse
qualcosa di gentile dato che era sempre stato scortese e maleducato.
Ero in ritardo a lavoro per colpa sua e dovevo dirglielo,
perciò mi
sedetti sul divano di stoffa blu e bianca che c'era in cucina e
aspettai che mi raggiungesse; picchiettavo il piede sul pavimento per
lo stress, lo avrei ucciso, anzi prima lo avrei
torturato: strappato i peli del naso uno alla volta, legato da
qualche parte e fatto il solletico sotto i piedi e alle ascelle, gli
avrei fatto la ceretta nelle parti intime e poi, fatto a pezzetti.
Sì, era un piano perfetto.
-
Il tuo sorriso mi spaventa: vuoi rapinarmi? Perché se
è cosi non ho
un soldo qui...
Rapinarlo?
Era proprio idiota quel ragazzo. Alzai lo sguardo per rispondergli e
per l'ennesima volta rischiai di morire quel giorno: era nudo, con
solo una misera tovaglia a coprirgli l'amichetto in basso.
-
C'è qualcosa che vorresti chiedermi o vuoi che la
tolga?
Forse
era meglio alzarmi e guardarlo in faccia. - Senti, razza di idiota,
mi hai fatto venire fino a qui di corsa solo perché non
potevi
alzare il tuo culo dal cesso e prenderti da solo la carta
igienica?
La
sua
indifferenza mi faceva innervosire ancora di più. - Non
credi sia
disgustoso camminare per casa in quel modo? Non sapevo chi altro
chiamare: Riccardo è uscito per fare la spesa e Giovanni
è a
lavoro.
Quindi
Riccardo
viveva con lui, in quell'appartamento; chissà quale delle
tre porte
era la sua camera e chissà come faceva a vivere insieme a un
troglodita come l'idiota che avevo di fronte. Era meglio non
rispondergli e andarmene, avevo già perso l'intera mattinata
in
sciocchezze e se Carla avesse saputo che invece di tornare a lavoro
subito dopo l'appuntamento con l'analista ero andata a fare visite di
cortesia a degli spogliarellisti, mi avrebbe decapitata.
-
Devo andare, ma me la pagherai.
-
Come posso sdebitarmi?- Mi accompagnò fino alla porta,
aprendomela
come un perfetto gentiluomo.
-
Intanto cominciando a smettere di mandarmi messaggi.
Uscii
da quella casa prima che l'aria diventasse irrespirabile; stare
troppo vicina al suo corpo nudo non faceva bene ai miei ormoni
arrugginiti; se sorrideva, poi, mi mandava in confusione ancora di
più: non era normale avere quei denti così dritti
e bianchi, forse
era testimonial della Mentadent, dovevo provare a fargli mordere una
mela.
Il
mio
cervello era andato di nuovo.
-
Ti darò un biglietto omaggio per il mio spettacolo.
E
tutto, come al solito si riduceva al sesso – No grazie, ho
già
visto abbastanza.
-
Potrei fartene uno privato allora. -Rifiutai mentre scendevo le
scale, mettere più distanza possibile era la soluzione
migliore. -
Ti inviterò a pranzo, o a cena! Mi farò
perdonare, vedrai.
Scossi
la testa sorridendo, non avevo nessuna intenzione di uscire con lui
né tanto meno di vederlo ancora; il modo perfetto per
ripagarmi del
favore sarebbe stato sparire per sempre dalla mia vita, ma sapevo che
una richiesta del genere era impossibile. L'orso Balù
insegnava che
più si cerca qualcosa più non la si trova e
viceversa; avevo solo
bisogno di stare ferma ad aspettare che il destino facesse il suo
corso, sperando però, che fosse come lo volevo io.
*****
Ma
ciao belle donne, come state?
Sono
già iniziate le lezioni
universitarie? Come procede la scuola? PFF l'autunno è
arrivato ma
qui fa ancora caldo.
Non
perdiamoci in chiacchiere e passiamo al
capitolo.
Prima
di dimenticarlo, il libro di cui parla Emily
quando passa davanti al 3B non esiste ma è sempre un
riferimento
alla storia di Roberta: YOU
SAVED ME.
(Che vi obbligo a leggere)
A parte il fatto che lo trovo noioso da
moooooorire, non ho molto da dire:
anche questa volta il capitolo
si divide in due parti, più o meno.
- Emily a lavoro alle prese
con quelle due sceme di spose che personalmente vorrei strozzare
perché stanno facendo impazzire pure me.
- Emily a casa di
Geremia.
Ovviamente nella prima parte accadono un sacco di cose
interessanti.
CHI è Mario e che vuole?
Alzi la mano chi li ha
shippati per un momento. IO STO ALZANDO ANCHE I PIEDI!
I numerosi
messaggini che Mr Panna le manda: oddio ma questo tizio è
una
tortura... non ha altro da fare? Lavorare, dormire, cercarsi delle
amiche che non siano Emily? MAH!!!
La litigata strana che ha
sentito dall'analista. ZANZANZAN.
Sono proprio curiosa di sentire
le vostre supposizioni soprattutto sull'ultima parte del capitolo,
quando Geremia vuole invitarla ad uscire.
*
tante risate *
Credo
di non avere altro da dire se non :
Per chi volesse esiste un
GRUPPO
dove ogni tanto mi piace fare l'idiota più di quanto io non
lo sia
xD
Esiste anche una mia pagina
facebook
dove pubblicizzo il mio account YOUTUBE
e quello DAILYMOTION.
O
ancora, il mio account TUMBLR.
Voi che aggiungete la storia tra le varie categorie, che
leggete e recensite: siete fantastiche e vi ringrazio immensamente.
Prima o poi vi arriverà un Gerry mezzo nudo a casa.
Grazie a
Ellina
Bellina
per la pazienza che ha con me e per evidenziare alcune frasi in rosa.