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Autore: Antony_    07/10/2012    2 recensioni
La mia storia inizia da una sfida.
Sfida che, stupidamente, ho accettato una noiosa mattinata di scuola.
Con la mia compagna di banco.
Ora che ci penso, quasi tornerei indietro. Quasi.
Avevo promesso qualcosa di pericoloso, estremamente pericoloso e avevo giurato che avrei combattuto per ciò in cui credevo, quello che propriamente, la maggior parte delle persone chiama il proprio ideale, comunque, avrei combattuto e, se fosse stato necessario, sarei morta.
Promessa da coglioni, vero? Me ne accorgo ora, ma ora è troppo tardi.
Genere: Azione, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 10

Quella sera tornai a quella che, per scopo di sola comodità, definisco “casa” correndo. Cor­revo per arrivare prima e fondare il blog. Correvo per scappare dal nulla che mi rincorre­va, come nella storia infinita di Michael Ende. Correvo per avere il vento in faccia, per provare a volare con quel corpo sottile e leggero che mi ritrovavo.

Quando arrivai, fin troppo presto, capii che non avrei dovuto correre. Mio padre sedeva austero e m'invitava a sedermi a mia volta.

Mi hanno telefonato i miei colleghi ridendo come dei rincoglioniti perché ti hanno vista nuda su, come si chiama?... Facebook– strabuzzai gli occhi, nuda? Io nuda? E lui ci crede­va? Oh beh, questa non era una novità, ma io non avevo mai messo foto di me nuda in rete, né tantomeno me n'ero mai fatta di foto nuda. Ho sempre detestato le foto e quelle che mi piacevano di me erano solo della mia faccia (o di un pezzo di faccia) ed erano due o tre massimo.

Io non ho messo foto di me nuda su Facebook, non mi aspetto affatto che tu ci creda, co­munque–

Infatti non ti credo– il filo scorreva seguendo la sua solita trama –ma ti ho vista io, sei sul­la pagina della Chiesa! Del prete!– mi stava per venire un collasso, ma come poteva esse­re? Dovevano aver artefatto le foto.

Hai mai sentito parlare del photoshop?–

Sei proprio tu!–

Sì, perché tu mi vedi sempre nuda!– anche urlando infuriata, il mio collo (io arrossisco sul collo) si colorò di un rosso acceso.

Vai a studiare!–

Sono le otto di sera, voglio mangiare, da quando mi dài ordini?! Non prendo ordini da nessuno figurarsi da un alcolizzato! Smetti di comportarti come un padre! Smettila! Ho studiato tutto il giorno, solo perché non mi vedi non significa che non l'abbia fatto!– si sa­rebbe meritato anche uno: “stronzo!”, ma evitai.

Mi trasferii in cucina e lì vi trovai Aliviero.

Come lo sopporti?– gli chiesi.

Per me è molto più facile che per te, Ronny– nella rabbia non mi ero accorta che mi aveva dato del tu e chiamata “Ronny”.

Hai ragione, ti prometto che, quando andrò via, ti porterò con me–

Quando andrai via sarò io a licenziarmi– e mi sorrise. In lui, c'era molta più furbizia di quanto credessi.

Fai credere al tuo nemico di essere stupido, cosicché quando gli tirerai un colpo, sarà trop­po occupato a chiedersi come poteva essere successo e tu potrai fregarlo definitivamente e lo stupido sarà diventato lui.

Fai credere al tuo nemico di essere stupido, solo così lui diverrà tale.

In camera non trovai il Mac portatile che usavo di solito e che mi ero comprata con i soldi datami da zii e nonni alle varie feste, così girai per quella casa enorme che mi dava l'idea di essere un'estranea. Sorvolai lo studio di mio padre, augurandomi che non fosse lì dentro. Non era da nessuna parte. Mi affacciai cauta allo studio, ma non poteva essere là, lui non lo usa­va e io non ce l'avevo portato di certo. Lo vidi brillare argentato sopra la scrivania d'accia­io fredda e poco accogliente. Entrai con tutte le intenzioni di prendere il computer e scap­pare, ma rimasi dentro. Era stato Aliviero a metterlo sulla scrivania, l'aveva fatto ap­posta, cosa voleva dirmi? Riluttante feci vagare lo sguardo. Quadri che valevano migliaia di euro, carte strapazzate, penne della società di mio padre, fuori non c'era molto. E nei cassetti nemmeno, ebbi modo di visionare subito dopo. Era stato un caso che il Mac si tro­vasse lì... no, non poteva essere. Aliviero voleva forse farmi trovare la vodka? No, tanto quella era nel baretto cinese insieme agli altri alcolici.

E se ci fosse stato un trabocchetto come in libreria? L'apparenza inganna. Posai i palmi sui muri candidi e li feci scorrere, il muro era dipinto bene, ma c'erano dei granuli di pittura qua e là. Ad un certo punto non li avvertii più: la superficie era perfettamente lucida e li­scia. Come avevo fatto a non accorgermene? Appoggiai entrambi i palmi e spinsi con tutto il corpo. Niente. Il pavimento, non lo avevo controllato. Mi buttai a terra sulla moquette grigio chiarissimo. Sorrisi: esattamente sotto la parte di muro lucido mancava la moquette. Il muro spuntava di pochissimo, infilai le dita e feci leva. Il muro si aprì. Una semplice anta, come quella di un armadio, semplice ed efficace. Ci entrai. Si accesero varie luci al neon, percorsi un piccolo corridoio e quello che incontrai dopo fu... una camera da letto? Mio padre dormiva in un'altra stanza... mi si accesero gli occhi, quella camera aveva l'im­mancabile tocco di mia madre. Credevo l'avesse murata quella stanza. Su un comò c'erano alcune foto della mamma, mi scese una lacrima. Questo voleva farmi trovare Aliviero? Non ne ero affatto certa. Mi distesi sul letto dalla parte dove dormiva mia mamma, sentivo il suo profumo Chanel. Un'altra lacrima. Il cuscino s'inumi­dì, ci misi una mano sotto. Gli occhi mi si spalancarono: carta! Documenti!

Era il certificato di morte della mamma! Ce n'erano due e c'era anche l'appunto di un noto avvocato. Oddio, in un certificato la mamma era morta d'omicidio non suicidio. L'appunto dell'avvocato era una mappa, un'intrigo. Si trovavano tutti i modi per scagionare l'omicida, una frase era cerchiata in penna blu: morte cancerosa ----> fumo.

Strinsi i pugni. Abbozzi, quelle carte erano solo bozze, bozze per compiere un reato. Chi aveva ucciso mia madre, allora? Non avevo bisogno di riflettere, sapevo chi era stato, ma non ci volevo credere. Chiusi le palpebre sforzandomi di calmarmi e non spaccare tutto. Contai fino a dieci.

Quando li riaprii dovevo avere un'espressione che avrebbe incenerito una pietra delle più solide.

Non mi preoccupai di chiudere niente, camminavo veloce, marciavo con quelle carte male­dette strette nella mano, le stavo rovinando, non importava, non volevo denunciarlo, vole­vo qualcosa di più.

Cominciai a correre per casa, ero diventata una scheggia infuocata pronta a colpire.

Lo trovai che stava per entrare nell'ufficio, mentre Aliviero tentava di fermarlo.

Tu. Aliviero, vai via, devo parlare con lui– puntai gli occhi neri su mio padre, serrai la ma­scella.

Cosa ci facevi lì dentro?– chiese lui allarmato, i suoi occhi si posarono sui documenti nelle mie mani –Non puoi avere...– le parole gli morirono in bocca non appena spalancò la porta dello studio e vide il passaggio segreto decriptato.

Sgranò gli occhi e aprì la bocca. Restò immobile.

Come. è. morta. davvero. la. mamma?– sillabai.

Ronny...–

Veronica, il mio nome è Veronica– precisai, non mi facevo chiamare Veronica da nessuno, mi dava fastidio, però, in questo caso, era diverso.

Figlia mia– ribatté.

Purtroppo– dissi.

Tua madre non è morta di cancro ai polmoni–

Fin qui c'ero arrivata e so anche che è stata uccisa, l'hai uccisa tu? Le risposte sono: sì o no– abbassò il capo, mentre quel debole barlume di speranza stava svanendo.

Sì–

Voglio sapere com'è successo–

E' tardi...–

Non me ne frega niente! Dimmi cosa le hai fatto! È un ordine!–.

Riluttante mi raccontò tutto: –Tua madre, ammalata di cancro, da due anni dopo la tua na­scita, la sera del 5 gennaio 1999 mi volle parlare dicendomi che non mi poteva più soppor­tare, che non sopportava il mio lavoro e la mia fame di ricchezza. Mi disse che se ne sareb­be andata il giorno dopo e ti avrebbe portata via– la mamma mi voleva portar con lei, non mi stava abbandonando, sapeva di essere ammalata, ma non mi voleva lasciare, mi stava salvando da quell'uomo orrendo che era mio padre –intanto che lei parlava io bevevo vod­ka, cominciai a traballare e urlarle che non se ne poteva andare, che l'amavo, ma lei comin­ciò a fare le valigie. Le aveva finite, le tue erano già pronte, ti chiamò. Sentivo i tuoi passet­tini fieri percorrere la gradinata delle scale. Non ci vidi più. La presi per un braccio, lei provò a liberarsi, io, per la furia, afferrai la bottiglia di vodka e gliela sfracellai in testa- fece una pausa.

Stavo morendo, morendo dentro, lui aveva ucciso con una cazzo di bottiglia di vodka la mia mamma, non ricordavo niente di quel giorno, solo mia madre stesa a terra, ma niente sangue, il mio cervello doveva aver ricostruito tutto, in fondo avevo tre anni.

Quando arrivasti fu difficile tenerti a bada, eri una bambina tenace. Potrai mai perdonar­mi?– parevo calma, o almeno questo mi disse Aliviero quando tutto fu finito. Feci un passo avanti e lo fissai. Sguardo nello sguardo.

Io ti odiavo prima di sapere ciò che hai fatto e speri che ti possa perdonare ora? No no no. Quello che hai fatto è imperdonabile– mi fermai per controllare che mi stesse ascoltan­do e urlai –hai ucciso la mamma con una cazzo di bottiglia di vodka! Sei un alcolizzato... ti odio! Mi fai schifo, mi fai ribrezzo!– s'impaurì –Ti ucciderò– dichiarai –ti ucciderò bastar­do! Guardami bene perché la prossima volta non avrai molto tempo per farlo! Tua figlia ti uc­ciderà! Non voglio rivederti, non voglio il tuo cinismo, non voglio te! Padre schifoso! Stammi lontano!– aveva gli occhi bassi –Guardami!– urlai a metà tra il disperato e l'incaz­zato nero. Alzò lo sguardo –Me ne vado, se provi a fermarmi ti uccido adesso; ricorda che sono sangue del tuo sangue, ne commetterò di azioni spregevoli. Lurido bastardo!– mi ave­va fatta piangere, mi avventai su di lui mordendolo e prendendolo a pugni, non sembrava, ma ero forte. A cavalcioni su di lui gli tirai un pugno in faccia, gli si ruppe il naso. Corsi in camera, presi tutto ciò che avevo di più caro. Riempii una valigia e una borsa quasi intera­mente di libri e dei pochi vestiti che indossavo sul serio. Nello zaino infilai il Mac, il taccui­no, la penna e scappai.

Figlio di puttana!– gridai correndo, mi avrebbe presa se non avessi corso velocissima e non avesse avuto morsi e pugni in tutto il corpo.

Era notte. Non c'erano pullman o tram. Valutai l'idea di farmi a piedi tutto il pezzo da qui alla libreria. Ci avrei messo due ore buone. Iniziai a camminare sotto il peso dei bagagli.

Ronny! Aspetta, ti porto io!– mi voltai, Aliviero.

Non cerchi di fregarmi, vero?–

Scherzi? Sali, svelta!– dalla mia ex casa uscì mio padre emaciato ordinandomi di fermar­mi. Figurarsi, gli ordini erano l'unica cosa a cui non provavo nemmeno ad obbedire.

Nel bagagliaio dell'auto di Aliviero c'erano altre due valigie, senza pensare buttai le mie te­nendo lo zaino e saltai al posto del passeggero. Sgommammo via nella notte. Dopo un paio di minuti mi assalì una domanda: perché Aliviero aveva una Porsche?!

   
 
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