Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: MaTiSsE    11/10/2012    4 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 



 





Come on Balthazar, I refuse to let you die
Come on fallen star ,I refuse to let you die
Cos that's wrong and I've been waiting far too long
It's wrong, and I've been waiting far too long
For you to be mine

Centrefolds – Placebo

 





Quella notte rincasai alle tre e mezzo, accompagnata in auto direttamente da Zeno; era stato Mirko del collettivo a prestargli il veicolo perché di suo Andrea aveva soltanto una bici.
Romina la lasciai a La Piovra, perché proprio non voleva saperne di rientrare, nonostante la giornata scolastica che ci attendeva di lì a poche ore: si stava divertendo troppo, diceva. In realtà, voleva soltanto sfruttare la sua notte brava, una volta tanto che i genitori decidevano di farsi un viaggetto e lasciarla libera. L’affidai quindi alle cure di uno Stena più morto che vivo e ad un più lucido – seppur silenzioso – Polska.
Fabrizio, d’altronde, m’ispirava fiducia.
 

Feci bene attenzione ad essere quanto più silenziosa possibile, una volta varcata la soglia di casa, e forse fui premiata per questo o soltanto baciata dalla fortuna: papà non si svegliò quando la porta d’ingresso scattò, e mamma neppure. Ludovico, con ogni probabilità, non era neanche nel suo letto.
Una specie di miracolo, in altre parole. Scivolai nella mia stanza senza creare problemi e senza trovare ostacoli, ringraziando la mia buona stella.

Alle quattro crollai anche io, stremata dalla stanchezza e da tutte le emozioni di quella serata.

Il mio sonno dei giusti, tuttavia, durò poco; un’ora e mezza dopo, alle cinque e trenta del mattino, infatti, qualcuno telefonò a casa mia.
Stavo sognando, in quel momento. Sognavo di trovarmi con Andrea – un Andrea più giovane , con i capelli lunghi, lisci e chiari, per intenderci – che inveiva contro di me. Nel mio sogno – o forse incubo era più appropriato, come termine? – Zeno aveva uno sguardo furioso; non capivo le sue parole, non ci riuscivo per niente. Era come sentirlo parlare in russo o coreano: incomprensibile. Eppure sapevo che gridava contro di me o contro qualcosa che aveva a che fare con me. Io, viceversa, non mi muovevo affatto, troppo afflitta e stremata per rispondere alle sue accuse. Persino nel sonno riuscivo a percepire il magone alla gola, la disperazione che mi prendeva dall’interno, che m’impediva di difendermi e rispondere a qualcosa che neppure potevo afferrare. Mi limitavo quindi a stringermi nel maglioncino di cachemire da educanda, mangiando le mie lacrime salate e i fili di capelli chiari che mi cascavano davanti agli occhi, incapace di parlare, mentre Andrea continuava a urlare. Ad un certo punto non lo distinguevo neppure più: piangevo troppo e lui si era tramutato in una macchia sfocata della mia visuale mentre il suono di una sirena, forse un’autombulanza, veniva a disturbare il mio udito e la mia concentrazione. Non sapevo, non capivo, tutto quel che potevo afferrare era quel suono straziante. Alla fine del sogno Andrea gridava un “ci siamo rovinati, ci siamo rovinati a vicenda”, le stesse parole che mi aveva riferito Luna nella realtà, qualche tempo prima; le stesse parole, inghiottite dal suono fastidioso di quella sirena.
 
 

A quel punto, mi svegliai di soprassalto e soltanto così scoprii che la sirena del mio incubo non era altro che lo squillo del telefono di casa.
Nessun Andrea aveva inveito contro di me, però io avevo pianto per davvero: mi asciugai le lacrime e respirai a fatica, seduta nel mezzo di quel letto sfatto.


Come potevo aver sognato una cosa così brutta a poche ore di distanza dalla nostra definitiva dichiarazione d’amore?

Non è di buon auspicio questo, Margherita.


Quando mi voltai verso la radiosveglia per controllare l’orario, mi resi conto che non era di buon auspicio neanche il fatto che il telefono di casa squillasse all’alba.

Con il cuore in gola balzai dal letto e schiusi appena la porta. Avevo un unico pensiero in testa: Ludovico.

Forse non era tornato a casa quella notte? Non potevo dirlo.
Gli era successo qualcosa? Non lo sapevo.
Tremai: avevo paura.

Dal basso, udii la voce di mia madre: aveva risposto dal salotto, in camera papà non voleva telefoni di alcun tipo. Ecco perché aveva squillato così a lungo, prima che qualcuno si decidesse ad alzare quella cornetta.


“Sì, sì capisco… Ma come sta?” la sentii mormorare.
“…”
“E dove si trova, adesso?”
“…”
“Devi stare calmo, si sistemerà tutto.”
“Carlotta, che succede?”

Mio padre. I suoi passi concitati, una nota di ansia nella voce.
Mi si rivoltò lo stomaco.

Avanzai verso il corridoio, mi sporsi alla balaustra; potevo vedere un lembo della vestaglietta da camera che indossava mia madre e un piede nudo di papà. Erano decisamente saltati entrambi giù dal letto.
Fuori, il cielo era di un blu appena più chiaro.


Di chi stavano parlando? Cosa dove sistemarsi? Chi stava male?
Ludovico?


“Margherita?”

Sobbalzai; mi voltai di scatto. Alle mie spalle mio fratello mi sovrastava in tutta la sua altezza.
Era a petto nudo e scalzo; indossava soltanto i pantaloni lunghi del pigiama e aveva i capelli in disordine. Era molto più bello così che tirato a lucido, con l’abito scuro, la cravatta e una valigetta da professionista in mano.
Non era comunque quello il particolare importante; ciò che contava, in quel momento, era che lui non fosse l’oggetto della strana conversazione di mia madre. Chiunque si fosse fatto male, non si trattava di mio fratello.
Un gran traguardo.

“Scusami, ti ho spaventata?”
“Ludo, pensavo fossi tu… Ho avuto paura.”

Gli tastai la mano, incerta: normalmente non eravamo molto inclini a sentimentalismi e gesti d’affetto, ma avevo davvero temuto il peggio. Come se avesse compreso, ricambiò la stretta.

“Io cosa? Che succede, Marghe?”
“La mamma sta parlando al telefono. Non so cosa sia successo di preciso, ma qualcuno sta male.”
“I nonni, forse?”

I nonni.
Li avevo dimenticati. Mi mancò l’aria.

Sì, forse i nonni. Dopotutto erano anziani, a quell’età la vita è piuttosto precaria; basta una caduta, un malanno di troppo e finisci dritto dritto al Creatore.
Scossi la testa: per quanto faticassi ad andare d’accordo con nonna Margherita, le volevo bene. Avevo già perso nonna Anna, non ero disposta a lasciar andare via anche lei.
No, non poteva essere.

“Non lo so.”

Nel frattempo, dal basso, udimmo il rumore della cornetta, mentre mamma riagganciava.
Mi affrettai a sporgermi di nuovo dalla balaustra in legno, Ludovico fece altrettanto; poi, più coraggioso di me, chiamò nostra madre.

“Che c’è, mamma?”

“Carlotta, parla, siamo tutti in ansia” gli fece eco papà. Anche lui non sapeva un bel niente.

Mamma, comunque, non parlò. Non subito almeno. La guardai mentre si passava la mano tra i capelli, sulla fronte. Sospirò.

“Francesco…” quasi sussurrò. M’impressionò il suo tono di voce così afflitto e guardai Ludovico – che strinse le spalle – prima di avviarmi verso le scale, scendere alcuni gradini.

“Allora, che è successo?”

Altri istanti di silenzio. Troppi.

“Oh mamma, parla per favore! Mi sto sentendo male per l’ansia! Che c’è? Chi ti ha chiamato?”
“Aurelio.”
“Mio fratello?!” intervenne di nuovo papà “E perché? E successo qualcosa ai miei gen…”
Florinda.

“Cosa?!”

La voce di mamma fu quasi un sussurro. Io, viceversa, urlai.
Non lo so ancora il perché.

“Che è successo a Florinda, mamma?” Ludovico guardava la scena con occhi spalancati: era molto legato a nostra cugina, per qualche causa che proprio non comprendevo. Fuori, il cielo diventava sempre più chiaro.

“Ha avuto un incidente stradale” rispose con tristezza “ l’auto si è schiantata contro un guardrail stamattina alle tre, sulla provinciale. Adesso è in ospedale. È viva ma ha una gamba rotta, ha battuto la testa e perso parecchio sangue, a quanto pare. Dobbiamo andare all’ospedale, dobbiamo vedere come sta.”


Alle tre.
Alle tre io ero ancora a divertirmi a La Piovra.
Incredibile come possa essere diversa la vita nello stesso momento, a seconda delle persone.


Per un po’ ci guardammo in faccia gli uni con gli altri, incapaci di parlare. Papà assunse quell’aria greve e pensierosa che sempre mostrava quand’era molto preoccupato, e una ruga gli solcò con impudenza la fronte; sembrava avesse preso d’improvviso almeno cinque anni. Ma non fiatò davanti a quella notizia; piuttosto, diede subito le spalle alla mamma, impaziente com’era di andare a prepararsi. Ludovico, alle mie spalle, respirò più forte. Aveva la voce incrinata e le lacrime agli occhi mentre si teneva la fronte chiedendosi sommessamente come fosse accaduta una disgrazia simile.
Mia madre, dal canto proprio, continuava a torcersi le mani, incapace di muoversi, parlare, organizzare il da farsi. Si asciugò, piuttosto, le lacrime col dorso della mano e tirò su col naso più di una volta.
Anche lei forse si stava chiedendo come la diligentissima Florinda, sempre attenta alla guida, sempre così sicura, sempre ineccepibile e rispettosa delle regole, avesse potuto avere un incidente stradale su una strada semideserta alle tre del mattino.
Qualcosa non quadrava. A nessuno.
Tuttavia, fui l’unica ad avere abbastanza coraggio per domandare. Dovevo sopire il sospetto che si era insinuato nella mia mente.

“Mamma, quante auto sono coinvolte nell’incidente? C’è altra gente ferita?”

Mia madre necessitò di alcuni secondi prima di focalizzare la mia domanda e rispondermi.

“Non lo so, Margherita. Non l’ho chiesto a tuo zio.”

Respirai a fondo.
Potevo farcela.

“Chi guidava l’auto, mamma? Florinda?”

Mi guardò sgomenta, per qualche istante. Aprì bocca per inerzia.

“No.”

Mio padre tornò sui suoi passi, per un attimo incerto. Ludovico mi superò di qualche gradino, anche lui sorpreso.

“E chi? Qualche amica dell’ università? Un ragazzo?”
“Un ragazzo, sì.”

Strinsi i pugni. Conoscevo la risposta.

“Chi, mamma? Lo conosciamo?”

Mia madre represse a fatica un singhiozzo. Lo sapevano tutti in città che non era un nome da pronunciare, quello: si portava dietro la puzza della vergogna. Forse anche della droga, della delinquenza.
Si portava dietro l’immagine sfacciata di un ragazzo che voleva prendersi gioco del mondo intero.
Io lo conoscevo quel ragazzo.

“Carlotta, per la miseria! E rispondi! Che ti prende oggi? Lo conosciamo? Con chi stava Florinda?!” urlò mio padre, esasperato.
Tacque definitivamente quando mamma si decise a parlare.


“Emiliano Borghesi.”
 
 


***



L’ospedale puzzava di disinfettanti e di quella gomma schifosa e viscida di cui sono fatti i lacci emostatici.


Forse stanno usando uno di quei lacci anche per Flora? Le tireranno il sangue?
No, non può essere, ne ha perso già troppo.



Mi tappai il naso: quegli odori mi perseguitavano da quando, a quattordici anni, ero finita anche io nel letto di un ospedale per trauma cranico. Lo stesso ospedale, a voler essere precisi.
Avevo la nausea.

Nel corridoio si sentiva soltanto il picchiettio dei passi concitati di mia madre. Come le era venuto di indossare i tacchi per entrare in una corsia d’ospedale alle otto e mezza del mattino?

Non lo sapevo. Avevo smesso di cercare risposte quando si trattava della mia famiglia.

Poco distante da mamma, mio padre camminava a testa alta, ma pensieroso e scuro in viso.

Avrà avuto la stessa espressione preoccupata quando hanno ricoverato me?

Ludovico, al mio fianco, invece, inviava messaggi afflitti ad Amy che era tornata a Londra da due giorni. Le stava dicendo che la sua meravigliosa cugina lottava per la vita? Le stava dicendo che soffriva terribilmente per questo?

Gliel’hai detto anche quando è successo a me, Ludo?
No, non l’hai fatto: all’epoca non stavi con Amy.

 
Gli ospedali mi perseguitavano, mi perseguitavano le rianimazioni e le terapie intensive, le macchine che controllavano il respiro, il cuore, il cervello. I pensieri.
No, i pensieri no.

Prima io, adesso Florinda.
Florinda che rappresentava la mia parte cattiva.

O non era proprio nessuno?

Non lo sapevo, ma non mi sentivo bene. L’idea che fosse chiusa là dentro, dietro una di quelle porte e lottasse per se stessa, così come avevo fatto io o come aveva fatto sua madre senza riuscirci, qualche anno prima, mi dilaniava.

Magari ero soltanto stanca: avevo dormito poco più di un’ora e mi trascinavo a stento per quei corridoi.

No, non è solo la stanchezza, ammettilo.
E’ per lei, è per Florinda.

Era giugno, faceva già caldo. Erano le otto e mezza del mattino e quel giorno avrebbe decretato la fine dell’anno scolastico, per me.
Ma a scuola, quel mattino, io non ci sarei andata. E Romina mi avrebbe aspettata invano, con gli occhi ancora chiusi per il sonno, perché avevo scordato il cellulare a casa e non potevo avvisarla.
Le sarebbe venuta l’ansia. E anche ad Andrea, perché non potevo avvisare neppure lui.
 

Florinda è in un letto, priva di sensi, con la gamba rotta e ha perso sangue.
Florinda.
Emiliano come sta, invece?


Annaspai. Non ero certa di volerlo sapere.


“Carla, Franco!”


Mio zio Aurelio ci venne incontro nel corridoio, trafelato; aveva la faccia stravolta, le labbra che si piegavano in una smorfia brutta e straziante al contempo. Era molto pallido e le mani gli tremavano mentre le posava sulle spalle di mio padre – suo fratello – cercando conforto.
Dietro di lui se ne stava un’ammutolita Katiuscia, seduta compita in un angolo, il trucco neanche accennato. Non aveva avuto il tempo necessario per dedicarsi al suo adorato make up quella mattina, evidentemente. Certo che, senza fard o rossetto vistoso, non era proprio un granché.


La zia Carolina era più bella, molto di più. Flora aveva preso da lei, per sua fortuna.


“Come sta, Aurelio?” la voce di mamma si disperse in un soffio, nel vuoto di quel corridoio che sapeva di disinfettante. Un’infermiera indaffarata ci passò accanto, senza degnarci di uno sguardo: le nostre facce perplesse o disperate non valevano molto per lei che, dalla mattina alla sera, non faceva altro che assistere a tragedie. La nostra era solo una in più sul suo macabro elenco.

“Ha riportato una lussazione alla spalla destra e frattura della tibia. Ha battuto la testa e ha una ferita enorme” calcò molto su quell’aggettivo – sulla fronte. Ha perso sangue. Ha qualche scheggia di vetro nel braccio, ma… è viva, per fortuna, e non so neanche come. Mi hanno detto che l’auto è semidistrutta, il muso è accartocciato. Eppure lei è viva, non so quale santo ringraziare. Dicono che la terranno d’occhio per tutta la giornata e se va bene, stasera, la passeranno in Traumatologia. È un miracolo, un… Miracolo.”

La voce gli s’incrinò sul finale; papà se lo strinse a sé leggermente e io lo guardai sconcertata: questi gesti d’affetto, tra loro due, mi erano del tutto nuovi.
Anche mamma l’abbracciò, mentre Katiuscia finalmente si decideva ad alzarsi e venire verso di noi per partecipare al momento di dolore. Aveva l’aria scocciata, come se tutto quel che stava affrontando non la riguardasse e fosse soltanto costretta a farne parte.
Mio fratello mi si fece più vicino, mi sfiorò le spalle quasi poggiandosi a me: aveva gli occhi pieni di lacrime.
Zio Aurelio represse un altro singhiozzo, ci guardò sconvolto.

“Ma non è… Non è neanche l’idea di lei in un letto d’ospedale a farmi più male…” sussurrò d’improvviso.

Io sobbalzai: se non era l’idea di tua figlia ricoverata in ospedale con la testa rotta a causarti dolore, cos’altro?

“Hai sentito… Lo sai con chi era…?”

Si rivolse a mio padre, lui annuì.

“Non pensare a questo, adesso, Aurelio” gli suggerì mia madre, ma lui non l’ascoltò. Ricominciò a parlare guardando nel vuoto, stravolto.

“Viaggiavano su un’auto rubata…”
“Che cosa?!” esclamammo io e Ludovico, in contemporanea. Lo zio annuì mestamente.
“Una vecchia Skoda di cui il proprietario ha denunciato il furto tre mesi fa. I carabinieri che li hanno soccorsi mi hanno detto che era piena di… bottiglie vuote. Di vodka, di birra…”
“Dev’esserci un errore” bisbigliò mamma. Katiuscia la guardò, quasi mi parve di vederla sorridere. Poi, calò gli occhi per terra.
“Nessun errore. Nessuno. I carabinieri pensano che abbiano anche potuto far uso di sostanze stupefacenti ed io… Io…”
“Aurelio…”
“Maledizione!” urlò a quel punto lo zio, sorprendendoci tutti. Persino la sua giovane moglie, che sobbalzò. “Che aveva da nascondermi Florinda?! Ve ne rendete conto? Una vita di bugie, di cazzate, di recite! Mi aveva fatto credere di essere la figlia perfetta…”
“Ma lo è, è un’ottima figlia!” cercò di giustificarla mia madre.
“NO! NON LO E’!”
“Aurelio!”
“E’ una bugiarda! Se sua madre fosse viva, le prenderebbe un colpo per il dolore!”

Per fortuna non è qui, pensai tra me e me.

“Si starà rivoltando nella tomba, la mia povera Carolina!”

Katiuscia, alle sue spalle, fece una smorfia di disapprovazione – come sempre accadeva quando si nominava la mia compianta zia – e biascicò qualcosa in russo. Almeno credo.

“Signori! Dio, siamo in ospedale! Un po’ di silenzio, per favore!” un’altra infermiera spuntò da una porta poco distante, fulminandoci con lo sguardo. “Non lo sapete che qui ci sono dei malati gravi?!”
“Cristo, lo so!” urlò ancora mio zio “Mia figlia è una malata grave, razza d’idiota!” la donna ci guardò interdetta. Mamma le corse incontro, scusandosi e pregandola di preparare un sedativo: lo zio stava dando i numeri.

Katiuscia sbuffò, tornò al suo posto. Ludovico mi guardò con la coda dell’occhio, ricambiai perplessa e non aprii bocca.

“Aurelio” fu mio padre a parlare, con voce ferma, mettendogli le mani sulle spalle “Adesso calmati. Sono certo che c’è una spiegazione a tutto. Questo Emiliano Borghesi… Credo che sia colpa sua. Avrà approfittato della nostra povera Florinda, l’avrà deviata. È sicuramente colpa sua. Rilassati, la nostra Florinda è una brava ragazza e lo sai anche tu, ti ha sempre dato tante soddisfazioni! L’importante, per ora, è che si riprenda: per tutto il resto troveremo una soluzione. La troveremo fra di noi” sottolineò: era fondamentale che certe notizie non si spargessero oltre il confine della famiglia.
“Hanno avvisato i genitori del ragazzo?”
“Dov’è ricoverato?” azzardai io, improvvisamente. Si girarono tutti a guardarmi, allibiti.
“Che t’importa?” commentò mia madre. Io alzai le spalle.
“Niente, era tanto per sapere.”

Mio zio scosse un po’ la testa, sembrava non stesse badando a nessuno di noi.

“Non lo so se li hanno avvisati, i suoi genitori” rispose infine “Non li ho visti ancora. Non so neanche se abbia dei genitori! E comunque, è ricoverato in terapia intensiva. Gli sta bene.”

Fremetti: Emiliano non se l’era cavata tanto a buon mercato.
 
“I suoi genitori sono i Borghesi, li conosci… Ricordi?” commentò ancora mia madre. Lo zio la guardò scocciato.
“In questo momento no. Hanno soldi? Bene. Sia chiaro che non risolveranno un cazzo con i loro soldi, non ho intenzione di fargliela passare liscia a quel delinquente!”
“E i nostri genitori?” domandò papà, cambiando discorso “Li hai avvisati?”
“Arriveranno a momenti. Nostra madre era distrutta, quando l’ho chiamata.”

“Possiamo vedere Flora?” domandò mamma, ancora scossa, sedendo accanto a Katiuscia.
“Per ora no. Più tardi, mi hanno detto.”

Annuimmo. Poi, ci accomodammo in sincrono sulle scomode sedioline del corridoio. Erano blu, in plastica, erano scheggiate e traballavano.
Restai lì seduta per almeno due ore, combattendo contro il sonno, maledicendomi per non aver portato con me il cellulare e mangiucchiando le pellicine ai lati delle unghie per passare il tempo. Smisi quando il pollice cominciò a sanguinare.

Ludovico, accanto a me, non proferì parola. Guardava il vuoto, a volte scuoteva la testa; mamma faceva altrettanto.
Era troppo difficile per loro accettare una verità così scomoda sulla propria cugina e nipote prediletta. Una ragazza esemplare, dall’eccellente carriera scolastica e lavorativa, bella e affascinante, talentuosa e carismatica.
In realtà, solo una povera ventenne delusa dalla vita e intossicata di alcol e fumo.

Emiliano non mi aveva mentito quella volta alla manifestazione, dunque. Era stato più sincero di mia cugina, certamente; lui la conosceva, la frequentava. Forse ne era addirittura innamorato.
Ma Flora sapeva bene che ammettere quella relazione avrebbe implicato un certo grado di disonore; la sua buona reputazione sarebbe stata macchiata dall’infamia di quel figlio di famiglia perbene che i suoi stessi genitori avevano buttato fuori casa, dopo averne scoperto la reale natura di drogato e forse anche delinquente.
Non poteva permetterselo.
Ecco perché aveva negato. Ecco perché mi aveva quasi mangiata viva quando aveva capito che io volevo metterla alle strette.
Lei Emiliano lo conosceva eccome.

Emiliano.

Mi chiesi dove fosse e come stava. Dopotutto, se i suoi genitori neppure erano andati a salutarlo, chi si stava preoccupando per lui?

Mi alzai di scatto dalla sedia.

“Dove vai?” domandò papà sospettoso, dall’angolo più lontano dove si era rifugiato con zio Aurelio, in attesa dei nonni.
“A prendere un caffè al distributore” risposi veloce.  Annuì per darmi il permesso di allontanarmi.

Povero papà.
Non gliel’aveva detto nessuno che il distributore automatico era terribilmente vicino alla terapia intensiva?
L’avevo fregato ancora una volta.
 



***
 


 
La terapia intensiva sapeva ancora di più di quell’odore di disinfettante disgustoso. Il bip bip delle macchine, quelle che ti dicevano se eri vivo e per quanto tempo potevi ancora ritenerti tale, si alternava ad un silenzio inquietante. Una signora piangeva nell’angolo suo marito che lottava dopo un infarto.

Emiliano era da solo. Nessuno era andato ancora a trovarlo.
Da solo, accanto ad altri tre sfortunati come lui.

Teneva gli occhi chiusi, il braccio attaccato a una flebo, due tubicini che gli uscivano dal naso. Sembrava dormire semplicemente, o forse l’avevano sedato o era privo di sensi, questo non potevo saperlo. Ma il suo viso era così pallido che avrei temuto fosse già morto se la macchina cui era attaccato non mi avesse viceversa segnalato il suo debole ma persistente battito cardiaco.

Il cantuccio dov’era relegato avrebbe fatto piangere il più insensibile degli uomini: era grigio, asettico, sterile, privo di amore e rischiarato da una fredda luce artificiale mentre fuori esplodeva il sole di giugno.
In quell’angolo di stanza non c’era soltanto una testa rotta, un braccio fratturato, un’emorragia interna, un respiro affannoso: c’era un cuore spezzato, sgretolato, sanguinante, ma ancora vivo.
Un cuore che chiedeva di essere amato e io lo vedevo e capivo così, all’improvviso, senza un reale motivo. Sapevo che c’era e che piangeva perché nessuno era disposto a ricambiare quell’amore.

Mi venne da piangere. Lo feci.
Mi chiesi perché nessuno fosse ancora andato a trovarlo. Mi chiesi perché ci fossi andata io, che manco lo conoscevo chissà quanto.
Per pietà?
La pietà non è un bel sentimento.

Alla fine, trovai una sediolina di legno scheggiato abbandonata a qualche metro più in là, me la trascinai verso il letto di Emiliano e mi ci accomodai stancamente. Ero esausta.



Adesso che dovrei fare, Emiliano?
Parlarti? Per dirti cosa?
Io non so niente di te.
Pregare? Per chi?
Per te?
Non so neanche se credi in Dio.
Non so neanche se ci credo io.

 


Alla fine, feci solo quel che sapevo, solo quel che potevo.
Piansi ancora.
Piansi per una Florinda che mentiva, che non sapeva se amarlo oppure no.
Per la vita sbagliata che si era scelto Emiliano, per  quella stessa vita sbagliata che forse stava per dirgli addio.
Per quella bici che non era riuscito a rubare, per l’auto che invece aveva sottratto ad un ignaro padrone soltanto per riempirla di coca e bottiglie di vodka, per i tatuaggi strani che qualche altro tossico gli aveva stampato sulla pelle bianca e fredda, per le carezze che di certo aveva ricevuto da bambino e ora non ricordava più, per i baci da innamorata che qualcuno aveva lasciato sulla sua guancia, per i baci di mia cugina che erano gelidi e caldi al contempo. E ancora, per le strade che aveva percorso, per i porticati che aveva abitato, per le risate che erano esplose sulla sua bocca, per le lacrime che aveva finto di non versare, per gli amici che aveva avuto, per la sua famiglia che aveva dimenticato di avere un figlio. Per quel che era stato, per ciò che era diventato, per quel che avrebbe potuto essere.


Emiliano, sei poco più grande di me.
Hai la vita davanti per cambiare, forza!
Alzati da questo letto, fai vedere a Florinda quanto vali.
Fallo vedere al mondo intero, a me, ad Andrea.

 


Andrea. Andrea.
Dov’era Andrea in quel momento? E perché ce l’aveva con me?
D’accordo, era stato solo un sogno, ma perché ce l’aveva con me?
Perché mi accusava di avergli rovinato la vita? Perché diceva di averla rovinata lui a me, a sua volta?
Perché si trattava delle stesse parole brutte, crudeli e senza sentimento che mi aveva rivolto Luna soltanto poco tempo prima?

“L’altra Gherardi non l’ha rovinato Andrea” mi aveva detto.

L’altra Gherardi era Florinda. Perfetta, bellissima, impeccabile Florinda, relegata in un letto d’ospedale con una gamba rotta e troppo alcool in circolo in quel suo sangue blu immacolato.


Continuai a piangere – l’unica cosa che sapevo fare – con la mano ferita di Emiliano nella mia. Era grande, le dita esili e lunghe.
Forse era stato un pianista.
Quando infine alzai gli occhi, intontita com’ero dal dolore, dal mal di testa, dal sonno, dall’incertezza, incontrai altri occhi sconosciuti che mi guardavano.
Appartenevano a una donna biondissima, bella come poche, più giovane di mia madre, con un collier d’oro ben abbinato al colore della chioma e il viso pallido come quello di un fantasma.
Non le stava bene quella tinta dorata, non associata al biancore della sua pelle in quel momento. Comunque, era bellissima lo stesso, sul serio.

Non si trattava di un’infermiera, ovviamente, né di un’estranea qualsiasi.
Quando aprì bocca per parlare, sapevo già perfettamente cosa mi avrebbe detto. La lasciai fare comunque.


“Sono la mamma di Emiliano. Tu sei la sua ragazza?”




***




Secondo il parere dei medici, Florinda stava decisamente bene. Era quasi un miracolo che dopo un simile incidente se la fosse cavata con appena una gamba rotta, un taglio sulla fronte e qualche escoriazione. Sarebbe guarita in fretta.
Ciò che turbava tutti, a fine giornata, era il fatto che, anche nel suo sonno precario, Florinda continuasse ad agitarsi. Talvolta addirittura urlava qualcosa d'incomprensibile, nel bel mezzo del sonno, e respirava a fatica. L’aveva fatto già per tre volte di fila. Alla fine, avevano deciso di darle un calmante.
Nessuno aveva capito cosa biascicava nei suoi deliri, neanche la nonna che, appena aveva visto la sua nipotina preferita così conciata per le feste, era quasi svenuta per il dolore.
Soltanto io avevo riconosciuto, in quelle frasi smozzicate, un’invocazione, la ricerca di qualcuno, la paura di perdere ancora quel qualcuno, di non averlo avuto mai.

Florinda chiamava il nome di Emiliano, lo strascicava, voleva gridarlo e non ci riusciva.
Lo sentii soltanto io. Gli altri no o, forse, finsero soltanto di non ascoltarlo.

Quando lasciai l’ospedale, una donna bionda e profumata di Chanel n°5 – il cui nome era Viviana – stava ancora seduta al capezzale di suo figlio. Medici e infermieri non ne potevano più di sbraitare e farle presente, con le buone o le cattive maniere, che l’orario delle visite era passato da un pezzo.
Non se ne sarebbe andata. Li avrebbe pagati pur di restare.
Non sarebbe andata via.



Arrivai a La Piovra alle sette di sera, senza aver chiuso occhio, senza aver mangiato e senza cellulare. Non avevo avvisato nessuno, non sapevo nulla del mondo intero dalle tre della notte precedente.


Romina ti avrà cercato e tu dov’eri?


Barcollavo ancora sui gradoni del centro sociale, distrutta com’ero dagli avvenimenti della giornata e dal dondolio poco rassicurante di due autobus strapieni, quando incontrai Andrea.
Stava seduto sull’ultimo scalino, l’espressione seria, alcuni fogli tra le mani e una birra di lato. Un tipo alto, con i capelli scuri e un pochino diradati, gli stava affianco, controllando quelle carte con lui; a parte una dilatazione particolarmente grande all’orecchio destro, il suo aspetto non sembrava molto stravagante. Non si accorse di me finché non mi parai davanti a lui.

Alzò lo sguardo, mi regalo un sorriso.

“Toh, guarda chi c’è! Ciao fidanzata, ti ho cercata tutto il giorno, che fine avevi…”

Non continuò. Io stavo ancora piangendo.

Il tipo accanto a lui tossicchiò, imbarazzato. Si alzò di scattò, biascicò qualcosa riguardo certe cose che aveva da organizzare con un fantomatico collettivo studentesco. Se ne andò subito, non gli diedi peso. Dal centro sociale arrivavano delle voci, come di qualcuno che recitasse un copione o leggesse qualcosa d’importante a un pubblico. Non sapevo cosa stavano facendo.
Appena il ragazzo si allontanò, Andrea mi allungò le braccia per invitarmi a sedere accanto a lui. Era turbato.

“Che è successo Margherita?! Perché stai piangendo?”

Non gli risposi. Repressi a stento un altro singhiozzo.
Si alzò di scatto anche lui, mi abbracciò subito; mi persi nella sua stretta, non volevo altro.

“Piccola, che succede?”

Succede che mia cugina è in ospedale a farfugliare del suo presunto fidanzato in fin di vita e per quanto io la detesti sto da cani a vederla così.
Succede che mi sembra di essere tornata indietro di cinque anni, di essere riattaccata a quelle macchine, di non riuscire a respirare, di non riuscire a ricordare niente, come se fossi di nuovo io la malata.
Succede che un ragazzo di vent’anni sta con un piede nella fossa e se l’è cercata, certo, ma non è giusto. Quel ragazzo è stato amico tuo, Andrea? Io questo non lo so.


E quando ti ho rovinato la vita?
Quando l’hai rovinata tu a me? Perché?

 

Dall’edificio arrivavano altre voci, degli applausi. Guardai distrattamente verso La Piovra, poi gli domandai:

“Che… che stanno facendo?”
“Chi?”
“Dentro… che stanno dicendo?”
“Oh, dentro… Niente, leggono brani di Marx. A volte ci riuniamo a facciamo cose così.”
“E tu? Tu che stavi facendo prima?”

Continuavo a formulare domande che non c’entravano niente con quello che avrei voluto dire realmente o col mio stato d’animo. Forse lo facevo per distrarmi, in maniera inconscia, o chissà per quale altro motivo. A volte risultavo strana persino a me stessa.
“Maggie, allora? Che hai?”

Andrea mi strinse più forte, respirò sul mio collo e poi ci lasciò un bacio. Io tremai; cercavo il coraggio che non avevo per aprir bocca e parlare di Florinda ed Emiliano. Alla fine, parlai di tutt’altro.

“Ho sognato…” cominciai.
“E da quando sognare fa un così brutto effetto?” rispose, interrompendomi; lo sentii sorridere sulla mia spalla.

Mi staccai da lui, all’improvviso.
Il sogno era nitido ancora, davanti ai miei occhi.


“Urlavi. Urlavi contro di me…” spiegai.

Mi guardò perplesso.

“Maggie, era solo un sogno. Che c’è?”
“Tu non urleresti contro di me, vero?”
“No, mai.”


Perché non ci credevo?
Mi venne l’ansia.


“Andre, che significa che ti ho rovinato la vita?”
“Che stai dicendo?”
“Me l’ha detto Luna!”

Andrea lanciò un’occhiata irritata verso il centro sociale. Forse Luna era là dentro?

“Allora, che ho fatto? Avevo quattordici anni, che…”
“Margherita, per piacere…”
“Che ho fatto a quattordici anni per rovinarti la vita?!”
La mia voce assunse un tono stridulo. Una ragazza, all’ingresso, mi guardò incuriosita.

“Maggie, stai sragionando… Non può essere soltanto a causa di un sogno, che ti è successo?!”

Mi tenne le spalle, cercò di guardarmi negli occhi.
Non ci riuscì.
Distolsi lo sguardo, mangiucchiai il labbro inferiore; ero disperata, quel pomeriggio. Stanca, provata, preoccupata. Disperata.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato nella gioventù che mi circondava, nel risentimento senza ragione di mia cugina, nel bisogno di farsi male di Emiliano, nelle mie insicurezze, nel desiderio di fuga che aveva spinto Andrea, negli anni passati, così lontano da casa propria e da se stesso. Questa certezza, che aveva ormai preso corpo in maniera definitiva dopo l’incidente di Flora, mi stava divorando da quel mattino.
Avevamo avuto tutto o quasi dalla vita e sembrava che niente ci riempisse per davvero. Ognuno di noi era fuggito, fuggiva ancora, a modo suo.

Mi sentivo svuotata, svuotata e incompleta, come ogni volta che non riuscivo ad afferrare un ricordo, farlo mio, riappropriarmi di me stessa e di ciò che ero stata.

E quel sogno, quel mio sogno orribile, in realtà, era un ricordo?
Era parte della mia memoria o solo un brutto scherzo della mia fantasia? Non sarebbe stata la prima volta, del resto.
C’era qualcosa che dovevo ancora scoprire? E quanto quel qualcosa avrebbe potuto minare le basi del nuovo rapporto che intercorreva tra me e Andrea?

“Marghe…”
“E’ un sogno? Solo un incubo, Andre? O quel che ho visto l’ho anche vissuto?”


Mi guardò a lungo, gli occhi improvvisamente lucidi.
Poi, mi rispose sicuro, mentre dal centro sociale veniva uno scroscio di applausi.


“E’ stato solo un sogno, Meg. Calmati, per favore. Adesso andiamo? Devi raccontarmi che ti è successo.”

Che voce dolce hai, Andre.
Così calma, priva d’incertezze.
Andrea, Andrea… Sono stanca oggi, aiutami tu, per favore.



Presi un lungo respiro, lo guardai a mia volta; mi erano mancati i suoi occhi grigi, in quella giornata.
C’impiegai qualche minuto, ma alla fine annuii: gli credevo.

Gli diedi quindi la mano, incerta e tremante, mentre scendevamo piano i gradini d’ingresso de La Piovra.






***

 



Quella sera Andrea non se la sentì di tornare a casa. Affrontare la cena in famiglia, il sorriso rassicurante della mamma, il viso stanco di suo padre e o le domande della sorellina irrequieta trascinandosi dietro il peso di quel che aveva scoperto riguardo Emiliano lo devastava. Saperlo in un letto d’ospedale a combattere contro la morte significava guardarsi in uno specchio – usurato dal tempo – e ritrovare il riflesso di sé che aveva affrontato la stessa battaglia, qualche anno prima.
Lui l’aveva vinta, quella battaglia; non sapeva come, ma ce l’aveva fatta.
Emiliano, invece? Che intenzioni aveva?
Andrea non era certo che il suo amico avesse delle buone motivazioni per lottare, andare avanti e uscire da quell’incubo.

Emiliano.
Il suo amico, sì, perché un tempo erano stati amici, proprio come lo erano adesso lui e Fabrizio.
Emiliano era stato la spalla che l’aveva sostenuto nei lunghi mesi di freddo in Inghilterra, quello con cui era uscito a far casino e a cercare risse, la persona che aveva condiviso con lui notti a base di alcool e Pink Floyd, l’amico con cui si era passato le belle studentesse straniere conosciute nei locali della City.
All’epoca, Emiliano era scappato di casa, almeno stando a quello che diceva lui. In giro, viceversa, si vociferava che l’avessero cacciato dopo aver scoperto la vita dissoluta che conduceva nella propria città, ma Andrea non aveva mai stentato a credere alle parole del giovane perché sapeva quanto la sua esistenza fosse complicata. La famiglia di Emiliano era ricca e perbene; il padre lavorava nel settore edile, aveva soldi a sufficienza per dare da mangiare a un villaggio di bambini africani, era sempre bello, profumato di acqua di colonia costosa, il suo fisico era asciutto, i denti bianchi, indossava camicie fatte su misura, con le sue iniziali cucite sopra, e picchiava regolarmente sua moglie. Almeno una o due volta a settimana, in base ai comportamenti che Viviana adottava, alle risposte che gli forniva e che lui considerava più o meno impertinenti, in base a quanto valutasse succinta la sua mise. A volte, la picchiava solo per noia. In ogni caso, stava sempre bene attento a colpirla in punti poco o per nulla esposti, affinché nessun altro membro dell’alta società, durante un aperitivo o un vernissage, fosse tentato di chiedere come una graziosa e compita signora come Viviana potesse procurarsi tali ecchimosi.
Andrea ancora non capiva come avesse potuto farci tre figli con quell’uomo, Viviana, o perché non avesse ancora chiesto il divorzio.
Emiliano detestava suo padre, sin da bambino e per ovvi motivi; col tempo, era cresciuto trasformandosi in un bel ragazzo alto, slanciato e provvisto di una forza sufficiente a contrastare quella dell’odiato papà. A diciassette anni, per la prima volta, gli aveva rotto il naso dopo aver scoperto l’ennesima serie di lividi sulla schiena immacolata della madre. Solo con l’aiuto di chissà quale santo in paradiso Viviana era riuscita a placare la furia del marito, evitare uno scandalo e tenere il figlio minorenne ancora in casa, sotto la propria protezione. Da allora, comunque, padre e figlio non si erano più parlati; evitavano persino di guardarsi negli occhi poiché sapevano che la reciproca rabbia sarebbe esplosa al minimo segnale. Non era una bella vita, quella in casa Borghesi.
E poi, Emiliano era cresciuto ancora, i suoi genitori l’avevano iscritto ad architettura senza considerare il suo parere, e ad architettura Emil aveva cominciato a prendere parte alle feste organizzate in facoltà. Aveva conosciuto i ragazzi del Lanificio, Zeno compreso, preso a bere, a farsi passare qualche canna. E quando il Lanificio era stato sgomberato aveva continuato a frequentare Andrea, perché gli stava simpatico, anche se lo conosceva da poco. Diceva che era uno a posto, che sapeva il fatto suo. Uno che soffriva in silenzio, come faceva lui.

Emiliano di casa sua non parlava quasi mai, se non quand’era molto sbronzo e molto triste.

Cos’era successo dopo, esattamente?
Ah sì, l’alcool, la coca.
Le pasticche.
Emiliano aveva smesso di ragionare lucidamente. Il giorno che gli aveva comunicato di essere costretto a partire, Andrea aveva faticato non poco per farsi capire. Gli diceva soltanto: “io me ne vado, Emil, me ne vado. Devo farlo per il bene di tutti, mi stai a sentire?” ed Emiliano rideva. Poi gli rispondeva: “se vai a Londra dimmelo, se vai a Londra mi porto la mia ragazza.”
“Hai una ragazza?”
“La vorrei. Lei non vuole me. E’ una fottuta puttana come tutte le altre, ma io la amo.”
“Anche io amo la mia. Ma non lo sa che stiamo insieme, forse non lo saprà mai. È troppo piccola. È immacolata ed è mia.”

Avevano riso, su quelle frasi. Nessuno sapeva chi fosse la ragazza dell’altro. Adesso lo sapevano entrambi.
All’epoca erano entrambe delle bambine.

E poi Andrea aveva percorso l’Europa come un nomade, spostandosi da una nazione all’altra, e quando era approdato a Liverpool, Emiliano aveva rubato un po’ di soldi in giro ed era andato in Inghilterra anche lui, perché era il suo sogno visitare quel paese senza alloggiare in uno stramaledetto college per lo studio della lingua.
Ma Emiliano non stava bene, non meglio di prima. Continuava a farsi dalla mattina alla sera e rubava le sterline ad Andrea, quando non ne aveva per comprarsi la roba. E faceva a botte con la gente; una volta coinvolse anche Andrea in una rissa e poi lo lasciò da solo a vedersela con la polizia.
Zeno se la cavò soltanto perché qualcuno – non ricordava neppure chi – testimoniò in suo favore.

Emiliano toccò infine il fondo quando decise di trascorrere una notte di alcol e droghe a casa di Andrea, con Marilena. Quella che s’era scopato pure l’amico, per intenderci.
La poveretta ebbe un calo di pressione, svenne; sbrodolava saliva, teneva gli occhi a rovescio ed Emiliano rise per tutto il tempo, più fatto di lei, finché non decise di lasciare quella casa e andarsene in giro per la città, fregandosene della bella ragazza che aveva riempito di droga.
Fu Andrea a trovare Marilena, Andrea ad aiutarla, a chiamare un’autombulanza, a cercare di salvarle la vita.
Fu Andrea ad essere cacciato dalla sua padrona di casa.
A quel punto, tornò in Italia e giurò a se stesso di smetterla con le droghe – il viso pallido e scavato di Marilena l’aveva turbato troppo per continuare – e chiuderla con Emiliano che, nel frattempo, era sparito nel nulla.
Con tutto il bene che gli voleva, ma gli aveva procurato soltanto guai. Era questa la verità.

E adesso? Cosa ne sarebbe stato di lui, di quello che un tempo era stato uno degli amici più cari?
Sarebbe morto?
Avrebbe trovato la forza e la voglia, soprattutto, di tornare alla vita?
E se la sarebbe ripresa la sua Florinda o l’avrebbe lasciata andare come aveva fatto un tempo lui, con Margherita?

Avanti Emil, non puoi fare lo stesso sbaglio che ho fatto io!

No, non poteva. Ma d’altronde, Flora non era Meg e forse non meritava tutte quelle premure.

Alla fine, quella sera, Andrea non tornò a San Giovanni. Davvero, non poteva affrontare la sua famiglia con lo spettro del suo passato che gli aleggiava sulle spalle e con lo spettro dei ricordi brutti di Meg che riaffioravano nei momenti meno opportuni, tra l’altro.  

Chissà come aveva fatto a farle credere che era stato soltanto un brutto sogno.

Davvero, non se la sentiva proprio.
Si limitò quindi a inviare un messaggio ad Arianna per avvisarla e poi dirottò verso il bilocale che Polska aveva affittato alle spalle del Borgo Cariati, con i soldi che guadagnava lavorando come cameriere.
Avrebbe potuto parlarne con lui; con Fabrizio era suo agio, si conoscevano da una vita, erano come fratelli. Avrebbe potuto raccontargli di Emiliano, soffrire con lui o forse non andare troppo oltre nelle spiegazioni e accontentarsi di bere una birra assieme al suo amico, perché Polska non era bravo nelle parole, ma lo conosceva così bene che non avrebbe avuto bisogno di una chiacchierata stentata per comprendere il suo stato d’animo e sostenerlo.
Sì, sarebbe andata proprio così.
Tra l’altro, avevano ancora un sacco di cose da organizzare assieme, loro due: la manifestazione di Roma, per esempio, e l’occupazione del Rhodiaceta, che rimandavano da troppo tempo; avrebbero dovuto decidersi sul da farsi.

Arrivò al portoncino d’ingresso con il cuore appena più sollevato. Fuori era già buio e Maggie era tornata a casa: ce l’aveva accompagnata lui stessa. Era esausta e disperata, povera piccola. Sperava proprio che fosse già a letto.

Bussò al citofono – quello senza targhetta col nome – una, due volte.
Attese, respirando a tratti.

I lampioni si accesero uno ad uno, nella strada. Un cane abbaiò da un balcone, dei ragazzini passarono di lì sui loro rumorosi motorini, senza casco. Ridevano.
Un tempo anche lui l’aveva fatto.
Polska non rispose. Non era in casa? Non era neanche a La Piovra.
Ritentò.

Una, due, tre volte.

Alla fine si ricordò che lui le chiavi di casa di Polska ce le aveva: gliene aveva dato una copia l’amico stesso, nel caso in cui avesse avuto bisogno di un posto dove stare che non fosse casa Zenovi. Fabrizio lo sapeva che a volte Andrea aveva ancora la necessità di staccare.
Salì i gradini quattro alla volta, fino al bilocale all’ultimo piano, umido, vecchio, dalle tapparelle scheggiate e il divano con le molle cigolanti su cui gli piaceva addormentarsi. Sorrise: avrebbero parlato di Emiliano, forse sarebbe riuscito a sfogare quel senso di colpa che gli premeva sul petto come un macigno.
Sì, senso di colpa: da quando Meg gli aveva detto che Emil era in fin di vita, aveva cominciato a chiedersi se non avesse potuto salvarlo prima, Emiliano, piuttosto che lasciarlo sprofondare ancora di più nel suo abisso soltanto per ripicca. Se l’avesse cercato, una volta tornato in Italia, se l’avesse aiutato, se avesse provato a farlo smettere di riempirsi di acidi e vodka…

Se, se, se.


Quando superò l’ultimo gradino, gli parve di aver piuttosto scalato l’Everest: era distrutto. Mentre infilava la chiave nella toppa, dall’altro lato della porta, sentì dei rumori, una musica che risuonava per la casa: Polska stava ascoltando gli Smashing Pumpkins. Mellon Collie and the Infinite Sadness era uno dei suoi album preferiti sin da ragazzino.
Sorrise.

“Ma allora sei in casa…” commentò tra sé e sé, sorpreso. Perché non aveva risposto al citofono? Il volume della musica non gli sembrava così assordante da non sentirne che qualcuno lo stava cercando.

“Polska? Sono io…”

Entrò adagio, posando la pesante borsa di tela sul pavimento dell’ingresso prima di richiudersi la porta alle spalle. Si guardò attorno, riconoscendo particolari familiari: la sedia nell’angolo con i vestiti buttati sopra alla rinfusa, i dischi sparpagliati tra il pavimento e il divano logoro, l’orologio fermo sulla parete di fronte, la caffettiera sul fornello. La stanza era in totale disordine – come sempre – ed era vuota ma non silenziosa: la voce di Billy Corgan risuonava piacevolmente.

Si strinse nelle spalle, Andrea, e guardò oltre la porta aperta del bagno: non c’era nessuno.

Polska stava dormendo?

Si avviò verso la stanza da letto dell’amico, tranquillo. Non ci trovò quasi nulla di strano nell’atmosfera surreale che riempiva l’appartamento, soltanto non capiva perché Polska non rispondeva.
Beh, non gli ci volle molto tempo per comprenderlo, in effetti, quando poi Fabrizio schizzò fuori dalla stanza in boxer, la cresta in disordine, una faccia allucinata.

“Andrea!”

Sul pavimento fuori alla porta c’era un reggiseno colorato. Come aveva fatto a non notarlo prima?
“Oh… Oh cazzo Fabrì, scusa! Cazzo, io proprio non immaginavo… Avrei dovuto avvisarti, che cretino!”

Si passò le mani nella cresta viola, mortificato. Avrebbe dovuto pensarci che Polska aveva una vita sessuale, no? Dopotutto, era uno dei più ambiti a La Piovra.

“No, no Zeno, è tutto okay, sul serio…”
“Davvero Fabrì, scusami. Avevo bisogno di starmene lontano da casa stasera e sono venuto qui. Magari potevo evitare di aprire la porta senza chiedertelo…” si rimproverò. Fabrizio fece un gesto con la mano, per indicare che era tutto okay, anche se la sua espressione diceva tutt’altro. La sfumatura rossa delle sue guance lo tradiva: era in imbarazzo.

“E’ successo qualcosa?” riuscì comunque a domandargli. “Perché sei qui?”

Andrea deglutì a fatica.

“Sì… un incidente. Ma ne parliamo un’altra volta, dai…”

Dalla stanza, con la porta semichiusa, arrivavano rumori continui: qualcuno stava aprendo un’anta dell’armadio, spostando una sedia. Forse l’amica di Polska si stava rivestendo, convinta che il divertimento fosse finito.
Beh, certo non sarebbe finito per causa sua.

Andrea fece per voltarsi.

“Incidente? Di chi parli?”

Fabrizio sembrava preoccupato, gli toccò il braccio, lo fermò.

“Che è successo”?
Emiliano” la voce gli uscì in un soffio “Emiliano è in terapia intensiva. Ha avuto un incidente stradale stanotte, sulla provinciale. È sbattuto contro il guardrail.”
“Ma che cazzo dici!” Fabrizio urlò quasi “E da quando aveva un’auto, tra l’altro?”
“Era rubata.”

Polska lo guardò allibito, improvvisamente pallido. Si allontanò di qualche passo, andò avanti e indietro, a piedi nudi, mangiucchiandosi le unghie. Cazzo, cazzo, cazzo ripeteva, come un mantra. Non sarebbe servito a nulla.

“Ma tu che ne sai?”
“Me l’ha detto Margherita. Sua… sua cugina Florinda era in macchina con Emiliano, adesso è ricoverata anche lei. Pare avessero una storia. Margherita era distrutta.”

Dalla stanza venne un rumore sordo, come se la persona che alloggiava in quella camera avesse lasciato cadere in terra qualcosa. Forse il cellulare? Una scarpa? Che altro?
Polska lanciò un’occhiata perplessa in quella direzione.

“Beh, comunque adesso io vado” concluse Andrea, ricordandosi improvvisamente che Polska non era solo “Ne parliamo un’altra volta. Ti faccio sapere di Emiliano appena mi arriva qualche notizia.”
“D – d’accordo” rispose Fabrizio. Andrea non l’aveva mai visto così impacciato.

Aveva già voltato alle spalle all’amico, quindi, pronto ad andarsene e certo che mai più avrebbe messo piede in quella casa senza il suo permesso, quando una voce conosciuta – una voce femminile – chiamò il suo nome.

Si voltò lentamente, quasi non ci credeva che fosse lì, non per fare certe cose, almeno. Aveva sempre avuto così l’aria innocente, Romina, un po’ come Margherita: gli sembrava qualcosa di troppo strano per lei. Ma d’altronde era una ragazza di neanche vent’anni: perché era così sbalordito?
Quando si voltò, perse la lingua per un attimo.
Andrea non l’aveva mai vista così bella, Romina, avvolta com’era nel lenzuolo bianco opaco di Polska, con i capelli arruffati, le guance rosse, la labbra gonfie, gli occhi brillanti. Di solito era sempre curata nel suo aspetto da stravagante ragazza alternativa, eppure soltanto adesso che la scopriva così sfatta e in disordine gli sembrava più vera e graziosa del solito. Aveva l’impressione di conoscerla e vederla per la prima volta realmente.
Sembrava felice e preoccupata al tempo stesso,  oltre che profondamente imbarazzata. Poteva indovinare il motivo di tutti quegli stati d’animo.


“R-Romina?”

Era tentato di dirle “che ci fai qui?”, ma sapeva che non era il caso né la domanda più adatta e originale; si chiese allora, semplicemente, se Margherita sapesse nulla di tutto quello. Di quella presunta storia tra la sua amica e Polska, per essere precisi. Alla fine, la risposta gli parve scontata: era un no. Gliel’avrebbe detto, altrimenti.

Romina, dal canto suo, annuì in risposta all’occhiata sconcertata di Andrea. Polska, viceversa, distolse lo sguardo. Ancora in boxer, si avviò verso il fornello, chiese se qualcuno volesse un caffè.
Andrea rifiutò, la ragazza pure. Poi lo guardò di nuovo.


“Dimmi che è successo, Andrea. Dimmelo, per favore” domandò infine, con voce carica di paura.
 
 
 














 
 
Non ho molto da dire riguardo a questo capitolo, se non che scriverlo mi ha quasi svuotata.
Parlare di Emiliano che sta male mi causa una malinconia tremenda, anche se non mi crederete perché a questo poveretto lo sto proprio torturando! xD
A dispetto di quel che sembra, posso dirvi che amo molto questo personaggio… Se vi va e se trovo l’ispirazione, più in là, potrei scrivere una OS tutta su di lui. Fatemi sapere cosa ne pensate :)
La canzone che ha fatto da colonna sonora a tutto il capitolo è Centrefolds dei Placebo, di cui vi ho scritto le prime strofe all’inizio. Se l’ascoltate cadrete nel baratro della depressione con me.
A dire il vero, per motivi personali, anche parlare di terapie intensive mi mette un po' d'ansia, ma vabbè.... Andiamo avanti! ;D

Sono stata veloce nell’aggiornamento stavolta, visto? ;)
Per qualsiasi cosa, spoiler e quant’altro, vi ricordo il link del mio gruppo personale, In the Sky with Diamonds:
https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
Grazie di tutto e a presto!
Mati

PS: Camilla, questo capitolo è tutto tuo, in onore del compleanno, come promesso! ;)
PPS: capitolo non betato, scusate gli errori! :)
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: MaTiSsE