- Mad Tea Party
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ATTO PRIMO, SCENA QUARTA
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Il Nuovo Contatto del Giglio e
della Rosa
Satoru
Okabe, ormai universalmente conosciuto – nella sua cerchia di amici beninteso –
come Gackt Camui, abbassò la cornetta e
chiuse sistematicamente gli occhi quasi si fosse trattato di un gesto in lui
connaturato.
Si
trattava di poco più che una melodrammatica caricatura del viso magnificamente
teatrale col quale aveva impietosamente scaricato molte delle sue ex ragazze,
avrebbe detto anche “molti dei suoi ex ragazzi”, non fosse stato per il fatto
che con gli uomini le smorfie del suo bel volto ben di rado funzionavano.
Chiuse
il telefono e perse qualche istante a rendersi pienamente conto delle
implicazioni della telefonata che aveva appena ricevuto.
Tra
le righe gli era in sostanza stato offerto un lavoro a Tokyo, la capitale dei
sogni.
Immediatamente
– cioè non appena fu in grado di elaborare tutte le prospettive delle miriadi
di possibilità che gli si stavano aprendo davanti – un sorriso che andava dall’uno
all’altro orecchio stirò all’inverosimile quelle sue labbra carnose.
Ma…
e se si fosse trattato di uno scherzo? Se quel Mana non fosse stato davvero chi
diceva di essere? No, non era possibile. Conosceva Takeshi, e poi gli era parso
un concentrato incredibilmente pauroso di ritrosia e determinazione come
nessuno dei suoi amici era.
Gli
era piaciuto da matti il tono con cui aveva affermato di “non volersi fermare”.
Guardò
il biglietto su cui aveva appuntato il numero di telefono che quel tipo gli
aveva lasciato, e fu quasi tentato di richiamarlo subito giusto per vedere se
avrebbe risposto davvero lui. Chissà perché, sospettava che gli avrebbe fatto
prendere un accidente se l’avesse richiamato sul serio, quindi desistette quasi
immediatamente.
Cominciavano
a dolergli le mandibole, ma proprio non riusciva a togliersi quel sorriso
disastrosamente ebete dalla bocca quindi decise di tenerselo, tanto male non
gli faceva.
Si
sedette di schianto sul letto, prima a gambe incrociate, poi ne allungò una e
se la portò dritta sopra la testa giusto per fare un po’ di stretching (pure
quello poi male non faceva, non a lui almeno). Tra le altre cose suo padre
gestiva una palestra di arti marziali, quindi lui era particolarmente ferrato
in almeno una decina di stili di combattimento differenti, mosse mortali
comprese, ovviamente. Sì, era elastico, sciolto, forte come un cavallo
selvaggio, lui! Non aveva proprio niente da invidiare a nessuno, a nessuno!
Rise
ad alta voce come un bambino. Cos’è, non aveva forse il diritto di sentirsi
lusingato per quella inaspettata proposta che aveva ricevuto?
Se
poi l’avrebbe accettata, be’ quello era tutto un altro paio di maniche. Tanto
per iniziare aveva già la sua band e tanto per finire non sapeva nulla né di
quel Mana né del suo gruppo e non aveva tempo né voglia di lasciare il suo
lavoro sicuro a Kyoto e muoversi verso un’incognita che non sapeva neppure se
avrebbe mai funzionato.
Ah,
decise che si sarebbe preso tutto il tempo che gli era necessario per
riflettere, fossero anche state ere geologiche intere. Per prima cosa avrebbe
ascoltato il loro album, anche se quell’idiota patentato di Takeshi s’era
dimenticato di lasciargliene una copia. L’unica era telefonargli e chiedergli
il titolo, visto che lui proprio non se lo ricordava.
Sospirò
spazientito, sollevò di nuovo la cornetta del telefono e compose il numero
dell’amico sperando di non trovarlo sbronzo come al solito.
Il
telefono squillò a vuoto per quella che gli parve una mezz’ora buona, e infine
il deficiente si palesò per quel che
era rispondendo giusto un secondo prima che cadesse la chiamata.
«
Takeshi, sono Satoru! »
«
Ah, ciao Sacchan, scusa ma stavo dormendo. »
«
Non ci ero minimamente arrivato, guarda. »
Takeshi
aveva la stessa gioviale voce di sempre mentre gli parlava, e a Gackt quasi
sembrò di vedere la pagliaccesca faccia di quel sorriso ambulante di ragazzo.
«
Be’, che cosa c’è? » gli stava domandando Taka-chan – come ogni tanto si
divertiva a chiamarlo lui.
«
Mi ha chiamato quel tuo amico, Mana… »
«
Ah sì? Me l’aveva detto, ma timido com’è non ci credevo che l’avrebbe fatto sul
serio! Che ti ha detto? »
Satoru
alzò un sopracciglio, omettendo volontariamente che appunto per quello ancora non aveva finito di domandarsi come
cavolo facesse quel Manabu ad essere amico di uno scapestrato di tale
ignominiosa fatta.
«
Niente di che, si è presentato e mi ha parlato della band, ed è per questo che
ti ho telefonato. Mi servirebbe il nome del loro album, gli ho promesso che
l’avrei ascoltato! »
«
Quanto sei tenero, addirittura gliel’hai promesso? »
«
Poche storie e dammi il titolo! »
Takeshi rise maldestramente per cinque minuti
pieni, sopraffatto dall’ilarità per la stranezza di tutta quella situazione: da
una parte il suo sregolatissimo, adoratissimo, esaltatissimo, pazzo amicone Sacchan
– ops no, Gackt Camui nato in Norvegia nel 1500 – dall’altra il timidissimo,
bellissimo, assurdissimo, genialissimo
altro suo amico Mana-chan. Se il suo intuito vedeva giusto, ne sarebbero uscite
delle belle da quella coppia di pazzi scatenati.
«
Comunque dimmi: che farai, accetti vero? »
Era
quasi contento per entrambi, doveva dirlo.
«
Veramente… penso di no. Mi dispiace, ma per ora non me la sento proprio di
mollare tutto quello che ho qui. E poi, in fin dei conti a Tokyo cosa mi si
offre? Questa band - »
«
I Malice Mizer », lo corresse Takeshi.
«
Va bene, questi Malice Mizer non sono neppure famosi, e che garanzie di
successo avrebbero se anche io ne diventassi il vocalist? »
Quelle
parole bastarono e avanzarono a far tacere pesantemente Takeshi, tanto che
Satoru, sopraffatto dalla ridondanza che quel silenzio aveva nel suo cuore,
quasi si sentì in colpa per averlo ferito, il bastardello!
«
Comunque l’album si chiama “Memoire”, » soggiunse finalmente dopo un po’ il
ragazzo, con lo stesso tono mogio e ferito di un bambino a cui si rifiuta un
capriccio « e lasciami dire che per me sbagli di grosso a pensarla così. Dov’è
finito il Satoru che si butta a cuor leggero in ogni sfida che gli si presenta
davanti? »
Fu
in quell’istante che anche Gackt, per la prima volta, se lo domandò.
Era
da un po’, in realtà, che aveva perso quella carica esplosiva che fino a quel
momento l’aveva sempre portato in avanti, verso nuove scoperte, verso ogni tipo
di competizione, sia a livello personale sia in qualunque altro frangente. Ora
non gli andava di rischiare, almeno per un po’ non gli sarebbe andato più.
«
Intanto ho detto a Mana che li avrei ascoltati, questo non vedo perché non
farlo, per il resto si vedrà, va bene? »
« Come preferisci Sacchan, ma sappi una cosa:
io sono seriamente convinto del fatto che tu e Mana-chan potreste veramente
arrivare in alto se collaboraste. Sono convintissimo delle tue possibilità come
cantante, e sono convintissimo anche delle sue capacità. Dagli almeno una
chance, va bene? Promettilo a me questo. »
Gackt sorrise: alla fine, quel ragazzo aveva
sempre avuto il potere di suscitargli una indescrivibile tenerezza.
« Sì, stai tranquillo Taka-chan, non lo
eliminerò senza nemmeno averlo conosciuto un po’. »
« Bravo honey,
così si fa, e non ti azzardare mai più a chiamarmi con quel nomignolo o la
prossima volta che ci vediamo ti infilo una bomba a mano sai perfettamente dove
e mi diverto ad osservarti mentre deflagri. »
« Sono questi i momenti in cui mi viene in
mente che dovrei adorarti, in ogni caso mi farò sentire. Ciao e grazie mille! »
Riuscì a troncare la conversazione solo dopo
altri tre minuti di saluti e raccomandazioni, le due ore successive le impiegò invece
per vestirsi ed infilarsi in un negozio di dischi allo scopo di procurarsi quel
famoso album “Memoire”.
Strano ma vero, lo trovò sul serio. Non ci
avrebbe mai sperato.
Ascoltò il cd mentre era in macchina e andava a
prendere You e gli altri, e decise che sì, erano interessanti.
Lui era un pianista più che eccellente e di
musica se ne intendeva abbastanza; aveva ascoltato innumerevoli brani e si era
fatto le ossa su numerosi generi differenti, senza aggiungere che sapeva
suonare praticamente ogni strumento
musicale esistente – ebbene sì, aveva cominciato la sua carriera musicale suonando
la tromba.
Eppure… come dire, erano di una particolarità
che travalicava addirittura la stranezza. In quelle canzoni sentì, – dietro al
rock, dietro al basso, dentro
quell’organismo portante e straordinariamente potente che erano le due chitarre
– ebbene lui poté respirarvi l’essenza di una struttura profondamente classica,
qualcosa che aveva dell’incredibile e che raramente se non addirittura mai
aveva sentito altrove. C’era un eco barocco in ognuna di quelle note, in ogni
singolo pizzico delle dita sulle corde della chitarra.
Parcheggiò la sua Ferrari di fronte alla
palazzina in cui viveva You e mentre aspettava continuò ad ascoltare e riascoltare,
con gli occhi scuri larghi per quell’emozione che l’aveva preso tutto a un
tratto. Sì, gli piacevano, decisamente gli piacevano.
Si chiese chi ci fosse dietro a tutta quella
costruzione di melodie, per la prima volta provò un minimo desiderio di
conoscere davvero quelle persone,
chiunque esse fossero.
Mentre aspettava prese in mano la custodia
dell’album e sfogliò il libretto, cercando di far collaborare la sua memoria riguardo
a quale fosse Mana.
Uh, eccolo là. Se non ricordava male era quello
con la parrucca assurda e il cappellone altrettanto assurdo coi gigli sopra.
Anche gli altri, in ogni caso, a guardarli dalle foto non sembravano male.
In quel momento You gli bussò al finestrino, e
Gackt gli aprì lo sportello per farlo entrare.
« Ciao You! »
« Ciao Satoru! Come va oggi? »
« Bene perché? »
« Perché mi sembri straordinariamente assorto.
Ti sei sbronzato pure ieri sera ben sapendo che oggi abbiamo le prove? »
Gackt guardò l’altro ragazzo sbattendo le
palpebre, per una volta genuinamente sorpreso dalle sue illazioni.
« No no, guarda che non ho bevuto affatto. »
You gli sorrise amabilmente mostrando grossi denti
da cavallo.
« E allora illuminami, che ti prende? »
« Stavo soltanto ascoltando questi », rispose
Gackt passandogli il libretto.
You lo prese con la punta delle dita, non si
poteva mai sapere in cosa ci si sarebbe imbattuti con Satoru, e lo esaminò con
somma attenzione.
« Malice Mizer? E chi sono? »
« Una band indie di Tokyo, un mio amico mi ha
presentato il chitarrista, questo qui. »
Si sporse e gli indicò con un dito il “ragazzo
coi gigli sopra” che poi era Mana.
« Non sono male per niente », aggiunse poi.
You sgranò gli occhi mentre scrutava con immane
perplessità quel piccolo quadrato di carta stampata.
« Ma com’è conciato? »
Gackt mise in moto, guardando la strada ancora
con gli occhi incredibilmente lontani e pensosi, elemento che contribuì a mettere
in allarme You poiché significava invariabilmente che al suo migliore amico stava passando qualcosa per la
testa.
« Ah non chiedermelo, me lo sto domandando da
due ore e ancora non ci sono arrivato. »
Di nuovo You lo guardò. Era serio, sembrava
incredibilmente concentrato ma ogni tanto un sorrisetto beffardo gli appariva
sul viso. Non gli pareva per nulla in vena di scherzare quel giorno. Da parte
sua, il lettore dell’auto stava continuando a mandare a ripetizione quelle
canzoni, e Gackt provò ad immaginare se stesso come vocalist di quel gruppo
senza tuttavia riuscirci.
« Sono loro questi? » chiese You.
Lui annuì solo per cambiare discorso, dopo
qualche miserevole istante.
« Sai You, » iniziò « ho parlato con Mana al
telefono, prima. Sembra un tipo strano, ma non mi ha fatto una cattiva
impressione. Takeshi ha garantito per lui, in sostanza. »
You non gli mise fretta, attese che
continuasse; lo conosceva abbastanza bene per sapere che quando assumeva
quell’espressione voleva parlare.
« Mana non me l’ha chiesto direttamente, ma tra
le righe m’ha fatto capire che… insomma, che gli interessa avermi come
cantante. Quello vecchio se n’è andato, sai, così per ora il gruppo è in pausa.
»
Gackt, di fronte all’inaspettato quanto
sospetto silenzio ottenuto come risposta alzò gli occhi verso l’amico, che dopo
quelle parole lo scrutava con gli occhi larghi. Comprese immediatamente quale
fosse l’origine dei dubbi di quel pezzo di pane di ragazzo che rispondeva al
nome di You, e gli sorrise apertamente dandogli una sonora pacca sulla spalla.
« Tranquillo, non accetterò. Non ci penso
proprio a lasciare i Cain’s Feel! »
Già, neanche per idea ci pensava…
Neanche per idea.
Tornò a casa che era notte fonda, erano le tre
del mattino minuto più minuto meno, e non gli interessava. Sentiva ancora gli
echi insopprimibili di quella musica rimbalzargli dentro le orecchie, anche
dopo ore al casinò, ed era una sensazione così viva ed imperante che sentiva di
non poter aspettare un altro giorno. Per cui lo fece, e non gliene fregò nulla
di che ora fosse.
Compose il numero, il telefono squillò a vuoto,
e lui tamburellava con le dita l’apparecchio mentre il sudore gli velava la
fronte senza che potesse far nulla per contrastare quell’ansia rabbiosa che lo
stava spingendo a compiere quell’azione così dannatamente insensata nel cuore
della notte.
Non ci poteva fare proprio niente, niente,
niente.
Sentiva solo che doveva, altrimenti non avrebbe trovato pace.
C’era una cosa che assolutamente era necessario
che gli domandasse, una cosa che l’aveva roso scavando nel profondo fin quando
non s’era reso conto con una punta di dramma che sì, era stato colpito,
centrato alla grande.
Inaspettatamente la cornetta venne sollevata al
secondo squillo.
« Pronto? »
Fu una voce maschile, piuttosto bassa ma
morbida e appena venata d’allarme, vista l’ora presumibilmente, a rispondergli.
Era la voce che lui voleva sentire.
« Mana », lo chiamò impaziente, quasi con
affanno, poi cedette e la voce gli si ruppe e rimase in silenzio con totale
incertezza, senza più sapere neanche cosa aveva fatto, perché l’avesse fatto e che cosa volesse ottenere. Semplicemente
respirò, attendendo di calmarsi un poco, e con quella stessa pazienza Mana
aspettò e non gli chiese nulla, e lui gliene fu immensamente grato. C’era una
cosa, una cosa che gli doveva domandare, una cosa per scoprire la quale non
aveva avuto modo di indugiare.
« Tu che cosa vuoi creare? »
Fu rapido come un fulmine, un puro flash della
sua mente, l’immagine celata nel silenzio dell’altro capo del filo.
Lui la scorse nitidamente, per un singolo attimo.
Nel bianco candido dei suoi pensieri, c’era il
sorriso angelico di quel ragazzo.
Come se fosse stato lì con lui, Mana gli stava
sorridendo.
- continua -
N.d.A.
Ebbene? Che ve ne pare di questo capitolo? A me non dispiace, devo dirlo,
straordinariamente questa fic per ora non mi ha deluso. Ma siamo ancora
all’inizio, comunque, e credo proprio che verrà addirittura più lunga delle mie
previsioni iniziali (se non decido di accorciarla andando avanti). Ringrazio davvero
tutti coloro che hanno commentato, in particolare Kelly Kee, il cui commento mi
ha fatto davvero piacere. Sono felicissima che Mana – il mio personaggio
intendo – piaccia anche a chi non lo conosce e non conosce le sue abitudini,
penso che sia il miglior complimento che mi si possa fare. Grazie mille!(Ora
sono curiosa di sapere cosa ne pensate del mio Gackt :P Ha una grossa nota di
merito sto ragazzo: a descriverlo mi fa morire dalle risate!) Ultime due
cosette: colonna sonora di questo capitolo assolutamente No Pains No Gains
dall’album Voyage Sans Retour. E per finire, le ultime righe vogliono omaggiare
una delle cose di Mana che si ha la possibilità di vedere solo dal vivo: il suo
sorriso, che mai si vede in foto, che si vede sempre
dal vivo e che è davvero qualcosa di splendido, dolce tanto da risultare
commovente (chiedetelo a me, che ogni volta che sorrideva rischiavo di piangere
e forse ho pianto sul serio per quant’era tenero… e lo so che è difficile
credermi, io stessa prima di vederlo non avrei mai detto che potesse
raggiungere tali livelli di amorevolezza in un sorriso… insomma, ha un sorriso
che scioglie i sassi, prendetemi in parola!)
@Sesshoudany:
Uh, sono felice che questa storia ti piaccia tanto, e come al solito mi fai
arrossire >///< ß me
più timida di quanto non sembri…
@Narciso:
Giusta osservazione quella che hai fatto tu! J E’
una cosa su cui ho puntato molto, la diversità di descrizione nei capitoli di
Gackt e in quelli di Mana, e sono felice che la cosa si noti. Il fatto è che
Mana e Gackt sono diversi, e ho deciso che se potevo rendere
la loro diversità in questo modo, tanto valeva provarci!
Vitani