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Autore: Vitani    24/04/2007    2 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA QUINTA

-
L’Amicizia del Giglio e della Rosa

 

 

 

« Tu che cosa vuoi creare? »

Ristette in silenzio, lasciando che quell’entità sopraffina ristagnasse, e intanto sulle sue labbra rosee era apparso un sorriso, un sorriso che non era di trionfo ma di pura gioia e quel sorriso avrebbe potuto possederlo un angelo.

Era così incredibilmente superfluo badare all’ora di quella telefonata, e così incredibilmente sufficiente che fosse arrivata! Davvero, forse non aveva atteso altro.

Rispose qualcosa a voce bassa, qualcosa che suonava simile ad un’incantevole formula magica.

« Voglio creare un sogno che sia il mondo, per far diventare il mio mondo un sogno. »

Pronunciò quelle parole senza che il sorriso che così teneramente gl’ingentiliva il viso vacillasse o si spegnesse.

Ascoltò, quasi con incantato affetto gustò la soffusa reazione che quel suo sortilegio generò: nessuna, alcuna parola si fece avanti dalle labbra di Satoru ma per lui fu come udire il canto di quel ragazzo armonizzarsi con le sue melodie. Ormai sapeva, sapeva. Mana aveva sempre visto lontano ed era più che convinto ormai d’essere a un passo dal raggiungimento del suo scopo ultimo: avere quel ragazzo.

« Ah… » strano a dirsi, c’era all’improvviso una sottile forma d’imbarazzo nella voce di Satoru, che pareva non sapere più cosa digli, dopo quell’appassionato primo appello. Il sorriso ora largamente divertito del giovane Manabu s’ampliò estendendosi morbidamente anche ai suoi occhi di lucida ossidiana nera, senza che potesse far nulla per impedirlo: allora davvero l’aveva chiamato a quell’ora assurda solo per domandargli quello.

Gli parve di poter scorgere l’espressione di quel sublime imbarazzo nei lineamenti di Satoru, certamente avrebbe potuto farlo… se solo avesse saputo che volto aveva. S’accontentò perciò di percepire quella titubanza adorabile nella voce bella e piena di quel ragazzo.

« Scusami per l’ora… non avrei dovuto disturbarti. »

Oh, nessun disturbo ovviamente, voleva il caso che lui fosse perfettamente sveglio mentre il telefono squillava. E se anche avesse dormito non gliene sarebbe importato nulla di nulla. C’era una cosa che ai suoi occhi, neri del più scuro ebano, contava più di tutto in quel momento: aver catalizzato l’attenzione di Satoru Okabe. Quello soltanto era per lui un motivo di gioia sufficiente a giustificare ampiamente persino una sveglia inattesa alle tre e mezzo del mattino.

« Non devi preoccuparti, Okabe-san, non mi hai assolutamente disturbato. Alle quattro mi sarei alzato in ogni caso. »

Eppure c’era ancora timidezza nella sua, di voce, mentre proferiva quella risposta pacata, tranquilla come invece il suo cuore non era affatto. Aveva dovuto compiere un immane sforzo per non sussurrare, tentando di mostrarsi sicuro di sé quando invece forse tremava, pur se era felice di sentire quel ragazzo che poteva rappresentare per lui il futuro.

« Davvero? Come mai? »

C’era sincera curiosità nel tono di Okabe e Mana ridacchiò sommessamente, mentre il divertimento per quella conversazione nel pieno della notte stava iniziando ad entrargli delicatamente nel sangue.

« Vado a fare jogging attorno al quartiere, la mattina presto. Non mi piace granché fare sport, ma quella di correre è un’abitudine che ho conservato dal liceo. Facevo pallamano, sai. »

Non seppe mai bene per quale ragione avesse scelto di imbastire quel singolare dialogo proprio con quell’argomento, seppe soltanto che funzionò, e che Satoru rise di cuore sentendolo.

« Pallamano? Come mai proprio pallamano? »

Mana alzò le spalle come se si stesse rivolgendo ad uno dei suoi specchi, e i suoi occhi obliqui intercettarono ciò che stava piegato e parcheggiato dietro di lui su una sedia, alias la sua tuta da ginnastica. Effettivamente lui era ancora in vestaglia – vestaglia rigorosamente blu, of course – ma l’aveva davvero preparata perché andava a fare jogging tutte le mattine. I suoi capelli nerissimi, arricchiti come sempre dalla regolare ondulazione della treccia in cui li legava ogni giorno, erano ancora tutti spettinati e in parte aggrovigliati, perché s’era appena svegliato.

Pensò un po’ a quella domanda, poi risolse che la risposta era una sola e fissò il pavimento con occhi lontani rispondendo con voce tenue come se stesse pronunciando una verità ineluttabile.

« Perché tutti gli altri la snobbavano. »

Incredibile a dirsi, dopo aver parlato gli venne da ridere.

« Capisco. »

La voce di Satoru invece suonava sempre allegra, allegra quanto la sua era tranquilla, come se nulla al mondo fosse in grado di scuotere la felicità di quel ragazzo.

Udendo quella ispostine insoddisfacente Mana fece una smorfietta con le labbra come se non ci credesse davvero a quella presunta comprensione, cosa che era effettivamente dannatamente probabile. Cambiò magistralmente discorso, preferendo conoscere il suo avversario prima d’esporsi: c’erano particolari di se stesso che non era granché interessato a rivelare.

« E tu invece, Okabe-san? Che mi racconti di bello? »

« Di bello niente di particolare. In questo periodo vivo una vita talmente ordinaria che a malapena me ne rendo conto. Ah, solo una cosa… non c’è bisogno che mi chiami per cognome, Satoru va benissimo! Anzi, se vuoi puoi fare come tutti i miei amici qui a Kyoto e chiamarmi Gackt. »

Un guizzo di luce scintillò negli occhi scurissimi di Mana, occhi in cui distinguere iride e pupilla era impossibile: lui li spalancò appena e il suo cipiglio s’accigliò un poco, mentre socchiudeva le labbra con una certa naturale perplessità. Cercava di capire quanto ci fosse di serio in ciò che stava sentendo, e il sospetto che ce ne fosse molto conferiva a quel gioco un che di sfizioso che intrigò Mana. Resse il gioco.

« Gackt? »

La voce di Satoru era pregna di ogni possibile sfumatura d’allegria, sembrava nato per essere felice, tanto che quasi lo invidiò. Oh, ma non durò più di un istante. Lui non avrebbe mai invidiato nessuno, finché fosse vissuto. Poteva invidiare solo se stesso.

« Sì, Gackt! Gackt Camui, nato nel 1500 in Norvegia, vampiro! »

Tornò il tenue, angelico sorriso sulle sue labbra di quel rosa così tenero eppure così intenso, senza che lui se ne rendesse minimamente conto. Era sempre più deliziosamente estasiato.

Dèi del cielo, forse veramente, finalmente aveva trovato qualcuno in grado di tenergli testa! Lo comprese, lo capì, volle andare avanti fino in fondo.

« “La grandezza della musica”, eh? Bel nome, signor Camui. »

« Te ne sei accorto? »

Sembrava sorpreso. Mana invece non lo era affatto: gli piaceva giocare alle interpretazioni. Gli rilanciò la palla senza attendere oltre.

« Già. Io invece se dovessi essere nato da qualche parte sarei nato a Parigi, ma purtroppo per questa vita non è andata così e sono di Hiroshima. »

« In effetti si sente un po’ l’accento del sud quando parli. »

Ecco, questa era una cosa che non gli piaceva: fu totalmente involontario, ma si portò una mano alle labbra in un gesto di sconcertato dramma e trattenne il fiato per qualche istante come se non avesse voluto parlare di nuovo. L’accento era un punto debole di cui era conscio fino alla disperazione.

« Cielo, davvero? »

Aveva gli occhi larghi e per un buon minuto si sentì la pressione sotto i piedi. Che figura meschina aveva appena fatto?

« Già. Ma non è poi così pesante, stai tranquillo. »

« È che sono anni che cerco di stroncare il mio accento, sai purtroppo ha la brutta tendenza a stonare orribilmente con il mio stile. »

Chiunque avrebbe potuto credere che quelle parole proferite velocemente e con fin troppa inconsapevole agitazione fossero soltanto una presa in giro di quell’animo giocoso che era in fondo Mana: purtroppo invece non lo erano affatto. Erano serie.

« Hai un modo di parlare molto elegante, comunque. »

« Lo so. Appunto. Trovo orripilante parlare un giapponese elegante contaminato da un accento così… provinciale. »

Aveva alzato un po’ il tono della voce, ancora senza accorgersene, ancora senza comprendere come parlare gli fosse diventato d’un tratto naturale come il respirare stesso. Quella conversazione lui non riusciva più minimamente a controllarla.

« Ma Hiroshima non è poi così provincia, è un capoluogo di prefettura! »

« Che c’entra quello… è una questione mia interiore, ecco. E poi in confronto a Tokyo, sempre provincia è. »

S’era quasi imbronciato come un bambino. Quasi.

« Vai sempre a fare jogging a quest’ora? »

« Sì. »

Avrebbe tanto voluto piantarla lì, così, ma il suo desiderio più impellente non era quello: non lo era affatto. Capì di dover andare avanti, di non voler chiudere così, allora parlò ancora: stava solo a lui lasciare che quella conversazione non avesse termine.

« Mi alzo alle quattro o alle cinque al più tardi. Tendo a dormire poco la notte, comunque. Poi se capita dormo durante il giorno, quando mi viene sonno. »

Che letto in altri termini diventava “posso dormire ovunque e sempre”. Di questa caratteristica Mana andava fiero, e poi il sonno era sonno e non ammetteva repliche.

« Pensa che a me invece basta dormire due o tre ore per notte e sono a posto! Quando non riesco a dormire prendo un libro e studio. »

Mana stava seriamente pensando che quella fosse una fortuna, ma prima di parlare a sproposito si concentrò sulla seconda delle frasi che Satoru/Gackt aveva pronunciato.

« E cosa studi? »

« Ecco, mi piace studiare le lingue straniere, vorrei impararne almeno una decina! Il coreano già lo conosco. »

« Accidenti, io invece mi limito a un po’ d’inglese e a due parole in fila di francese. »

Fu lì che il muro crollò la prima volta. Mana rise. Rise. Compostamente prima, poi più liberamente, e la sua stessa risata suonò alle sue orecchie dolce come quella di un bambino. Quel Satoru lo stava invariabilmente contagiando con la sua spontaneità, doveva dargliene atto.

« Tornando alle cose serie, ho ascoltato l’album. »

Uh, finalmente s’era giunti al punto cruciale. Deglutì, sbatté le palpebre, si preparò. Poteva fare poco altro.

« Ah sì? Verdetto? »

« Mi ha colpito molto, sul serio. Le canzoni chi le ha composte? »

« Quasi tutte io, alcune anche l’altro chitarrista, Közi. »

« Davvero? Complimenti, sei bravissimo! Non sto scherzando, c’è… c’è… »

Satoru si fermò, all’improvviso e inspiegabilmente, e le nettissime sopracciglia di Mana s’aggrottarono in un modo che stava a metà fra l’immensamente sorpreso e il tetramente accigliato.

« Sì? »

Volle incitarlo a continuare.

« Tu conosci bene la musica classica, vero? In quelle canzoni c’era… c’era qualcosa di classico sotto ogni singola nota. E l’ho trovato davvero splendido, interessante. In molti possono provare a mescolare la musica classica al rock, ma tu lo fai in maniera veramente particolare. »

Di nuovo, sorrise come se non fosse stato in grado di far altro. La sua mente gli creava davvero preoccupazioni inutili che in futuro avrebbe fatto discretamente bene ad evitare. La sua voce si sciolse, tornò a fluire libera come il suo pensiero immenso, e lui parlò con imbarazzata timidezza. Tutti quei complimenti lo stavano stordendo, e forse era pure arrossito. Che bambino stupido era!

« Be’, ti ringrazio. Vedi, i miei sono insegnanti di musica e io sono cresciuto con la classica. Mi hanno insegnato a conoscerla e ad amarla pur non sapendo nulla della teoria che c’è dietro. Si può dire che ho imparato prima a suonare il piano che a camminare, anche se all’inizio la vivevo molto come una costrizione. »

« Anche a me successe così. I miei non insegnano, ma fin da quand’ero piccolissimo mi misero davanti il pianoforte e mi dissero “suona”. Anzi, me lo imposero. Mi facevano studiare con maestri severissimi, e mi spiace dirlo ma arrivai a odiare il piano. Continuai a rigettarlo fino a quando un mio compagno di scuola non mi portò a casa sua, dove mi fece ascoltare come suonava. Era talmente bravo che rimasi sconvolto e pensai “non gli devo essere inferiore”. Anche se in effetti lo ero e pure parecchio. »

Mana gongolò e i suoi occhi scintillarono, mentre si poggiava una mano sulla guancia e sospirava appena con soffice leggerezza. E così era anche competitivo il ragazzo… non ci mise molto a comprendere quale potesse essere stata la sua reazione.

« Fammi indovinare: ti ributtasti a studiare e a suonare come un forsennato. »

Gackt rise.

« Già. »

Al che Mana sorrise a sua volta, delicatamente, e gli parlò a voce bassa, in un monologo lento che suonava più rivolto a se stesso che non all’altro ragazzo.

« Io invece non ho mai smesso, e penso che non smetterò mai. Il piano è una parte di me come lo è la chitarra, non potrei immaginare me stesso senza di loro. »

Stava parlando di simili questioni ad un estraneo, stentava a crederci, lui sempre così restio a parlare di se stesso! Eppure sapeva, senza comprender bene i come o i perché, che Gackt lo capiva, lo poteva capire e forse era il solo che ci fosse mai riuscito davvero. Perché di cose in comune ne avevano, nonostante tutto. Lui aveva capito che quel Satoru era speciale dal momento in cui aveva ascoltato la sua voce, e forse… forse per Gackt era stato lo stesso.

« Quando hai iniziato a suonare la chitarra? »

« Avevo quindici anni, più o meno. Sai, i miei me ne avevano comprata una acustica quando avevo detto loro di voler imparare a suonarla, ma io l’ho sempre aborrita… anche se va detto che ora la suono, ogni tanto. Alla fine me ne comprai una elettrica coi miei risparmi. »

« Ci credi che io invece a quell’età inorridivo all’idea di fare parte di una band? La consideravo un’attività da stupidi. »

Le sopracciglia scure di Mana s’inarcarono per la somma sorpresa. Ringraziò il cielo che Camui avesse cambiato idea in tempo per godersela, una band.

« Accipicchia, e cos’è che ti ha traviato, Gackt Camui? »

« È stato un chitarrista! »

Ecco, quello sì che lo sorprese. Forse i chitarristi avevano davvero qualche potere speciale, allora! Riuscì a malapena a trattenere un’esclamazione sorpresa; forse era il caso che iniziasse sul serio a credere di far parte di una qualche schiatta dalle pericolosissime e aliene potenzialità ipnotiche, giunta sulla terra apposta per traviare povere menti innocenti che li consideravano stupidi… sì, come no, leggeva troppi manga.

« Ma dai, sul serio? »

« Sì, ora suona nella mia band, i Cain’s Feel! Si chiama You, è davvero bravo! Magari un giorno riesco a presentartelo! »

« Volentieri. »

Mana avrebbe quasi voluto incontrarlo sul serio per dimostrare a Satoru e a chiunque altro che tra lui e quel You che non aveva mai visto né sentito non c’era storia. Almeno sul piano della classe. Che avesse troppa fiducia in se stesso? Oh no, era solo un po’ vanitoso, che c’era di male? Aveva ben più di un motivo per esserlo, in fondo. Inevitabilmente finì per gettare uno sguardo alle lunghissime ciocche nere che gli scendevano giù per le spalle.

Continuarono su quel tono per un’eternità o per un tempo che a lui parve tale. Gackt non la smetteva più di parlare e Mana gli stava dietro con straordinario agio. Più di una volta scoppiò a ridere di fronte all’assurdità di qualcuno dei racconti di Satoru e altrettante volte controllò che ore fossero.

« Ma lo sai quanto stai spendendo? », gli disse nel bel mezzo di una risata appena soffocata « È da un’ora che stiamo parlando! »

« Se credi che me ne importi qualcosa ti sbagli di grosso! »

« No, io non sbaglio mai! »

« Se è per questo neanche io! »

Scoppiarono di nuovo a ridere entrambi come due perfetti scemi, e tale Mana si sentiva in quel momento.

Scoprì con gioia che non gli interessava.

« Senti, facciamo così: ti richiamo io domani, cioè… insomma, tra qualche ora! »

« Ok, va benissimo. Facciamo verso l’ora di pranzo? Mi trovi di sicuro! »

« Va bene, a dopo. »

Fu a malincuore che mise giù. Veramente, dannatamente e totalmente a malincuore. Quel ragazzo lo faceva divertire. Sì, decisamente gli piaceva. Ora restava da controllare un’ultima cosa: che faccia avesse. Anche se c’era la possibilità che questo Mana non lo scoprisse mai, tutto dipendeva da come sarebbe andata quando quella cosa, diventare il nuovo vocalist dei Malice Mizer, gliel’avesse proposta ufficialmente.

L’avrebbe richiamato, come desiderava, ma ora… ora era il momento di infilarsi la tuta e andare a fare la sua corsetta mattutina. Fu con somma attenzione che tolse la vestaglia blu, ripiegandola e poggiandola delicatamente su una sedia al tavolo della cucina. Ecco il bello dell’abitare da soli, il potersi vestire dove e quando si voleva senza nessuno che brontolasse, specialmente se quel qualcuno era sua madre. Quando si fu tolto anche la camicia da notte – deliziosa, bianca coi nastrini blu e le maniche lunghe e gli orli rifiniti di pizzo (elemento questo che poteva vantarsi d’aver inserito lui) – s’infilò la tuta da ginnastica e si preparò una colazione nutriente ma leggera, principalmente a base di yogurt: alimento che mangiava a quintali, senza alcun eufemismo.

La tuta gli stava larga, e faceva apparire le sue gambe magre e dritte come pali. Poco gli importava, erano pur sempre le cinque del mattino: l’avrebbero visto solo i gatti randagi che gironzolavano per il quartiere.

Uscì, chiudendo bene a chiave la porta, poi scese le scale di corsa senza fare un rumore di troppo e s’avventurò per il quartiere ancora deserto, appena rischiarato dalla luce dei lampioni che parevano riflettersi nel cielo violaceo che precedeva l’alba. L’aria era pungente, frizzante a quell’ora, e gli inondava quasi con dolore i polmoni che si stringevano e s’allargavano al ritmo della sua corsa. Era vero, odiava fare sport lui, ma correva come una lepre selvatica e soprattutto teneva a se stesso e alla sua forma fisica. Aveva una linea da mantenere, nei suoi quarantanove chili di peso per un metro e settantatre d’altezza c’era sempre quel fondamentale chiletto che impediva alla bilancia di raggiungere il cinque. Chiletto che Mana era totalmente interessato a non prendere per nessuna ragione.

Così tutte le mattine, poco importava che tempo facesse, anche sotto una bufera di neve lui avrebbe corso almeno una mezz’ora. In un certo senso lo aiutava a sfogarsi, lasciando libero il suo notevole, inarrivabile cervello: era respirando che sentiva tornargli, pompata nel cuore assieme al sangue e all’ossigeno, anche quella sua ispirazione geniale che lo trascinava come un’onda e che così spesso aveva condotto le scelte che agli occhi degli altri apparivano così avventate e prive di futuro. Come quella di trasferirsi a Osaka prima, poi definitivamente a Tokyo rinunciando a qualsiasi tipo di avvenire certo e buttandosi in quel vortice senza ritorno che era la sua musica.

Ascoltò il ritmo dei suoi piedi che battevano l’asfalto, così simile a quello del suo cuore che pulsava, al ritmo del suo respiro e del fiato che gli usciva a sbuffi dalle labbra sottili e socchiuse, affannato, certo, ma libero come il pensiero che gli vorticava nella mente, inondandolo d’ebbrezza e sogni. Poi guardò: guardò gli alberi attorno a lui, guardò il cielo violaceo sopra la sua testa, oltre i tetti dei palazzi che aveva attorno. Certe volte gli veniva voglia di raggiungerlo, quel cielo, spiccando il volo come un angelo. Se non era lui, sarebbe stata la sua musica: la sua musica avrebbe raggiunto i confini del mondo, la sua chitarra avrebbe parlato all’umanità intera, che avrebbe vissuto i sogni di un ragazzo di ventiquattro anni quale era lui, e che per questo e solo per questo l’avrebbe amato. I suoi capelli neri volteggiavano a sobbalzi dietro di lui, legati in una coda bassa che aveva lasciato andare qualche ciocca, che ora s’agitava viva come uno splendido serpente nero.

Non c’era nessuno e tutto era deserto, nessuno avrebbe visto Manabu e Manabu non avrebbe visto nessuno. Era ciò che desiderava, starsene in solitudine, perché di altro non aveva bisogno.

E poi sarebbe tornato a casa, lanciandosi a razzo e rigorosamente a piedi su per le scale, si sarebbe esercitato col trucco e sarebbe pian piano venuta l’ora di pranzo, quando avrebbe preparato il riso al curry e avrebbe finalmente telefonato a Satoruops, a Gackt Camui.

Questo pensava Manabu Satou, mentre il cielo violaceo già schiariva sotto l’influsso del sole accecante che nasceva.

 

 

- continua -

 

N.d.A. Questo capitolo può sembrare incredibilmente inutile, lo so. In realtà non lo è così tanto, perché, se analizzato bene, contiene tutti gli elementi caratteriali che porteranno i due verso il loro futuro, che chi sa la storia dei Malice Mizer già conosce (e per tutti quelli che non sanno cosa succederà, resistete che ci arriveremo! :P).

In questa storia comunque niente è messo a caso, neanche la più piccola parola! U_U (autrice sicura di se stessa…………..).

Strano ma vero questa storiellina finora mi ha soddisfatto ampiamente, spero di potermi tenere su questi livelli fino alla fine! ^^

 

 

Vitani

 

   
 
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