- Mad Tea Party -
ATTO PRIMO,
SCENA QUINTA
-
L’Amicizia del Giglio e della Rosa
« Tu che cosa vuoi creare? »
Ristette in silenzio, lasciando che
quell’entità sopraffina ristagnasse, e intanto sulle sue labbra rosee era apparso
un sorriso, un sorriso che non era di trionfo ma di pura gioia e quel sorriso
avrebbe potuto possederlo un angelo.
Era così incredibilmente superfluo badare
all’ora di quella telefonata, e così incredibilmente sufficiente che fosse
arrivata! Davvero, forse non aveva atteso altro.
Rispose qualcosa a voce bassa, qualcosa che
suonava simile ad un’incantevole formula magica.
« Voglio creare un sogno che sia il mondo, per
far diventare il mio mondo un sogno. »
Pronunciò quelle parole senza che il sorriso
che così teneramente gl’ingentiliva il viso vacillasse o si spegnesse.
Ascoltò, quasi con incantato affetto gustò la
soffusa reazione che quel suo sortilegio generò: nessuna, alcuna parola si fece
avanti dalle labbra di Satoru ma per lui fu come
udire il canto di quel ragazzo armonizzarsi con le sue melodie. Ormai sapeva, sapeva. Mana aveva sempre visto lontano
ed era più che convinto ormai d’essere a un passo dal raggiungimento del suo
scopo ultimo: avere quel ragazzo.
« Ah… » strano a dirsi, c’era all’improvviso
una sottile forma d’imbarazzo nella voce di Satoru,
che pareva non sapere più cosa digli, dopo quell’appassionato primo appello. Il
sorriso ora largamente divertito del giovane Manabu
s’ampliò estendendosi morbidamente anche ai suoi occhi di lucida ossidiana
nera, senza che potesse far nulla per impedirlo: allora davvero l’aveva chiamato a quell’ora assurda solo per domandargli
quello.
Gli parve di poter scorgere l’espressione di
quel sublime imbarazzo nei lineamenti di Satoru,
certamente avrebbe potuto farlo… se solo avesse saputo che volto aveva.
S’accontentò perciò di percepire quella titubanza adorabile nella voce bella e
piena di quel ragazzo.
« Scusami per l’ora… non avrei dovuto
disturbarti. »
Oh, nessun disturbo ovviamente, voleva il caso
che lui fosse perfettamente sveglio mentre il telefono squillava. E se anche
avesse dormito non gliene sarebbe importato nulla di nulla. C’era una cosa che
ai suoi occhi, neri del più scuro ebano, contava più di tutto in quel momento:
aver catalizzato l’attenzione di Satoru Okabe. Quello soltanto era per lui un motivo di gioia
sufficiente a giustificare ampiamente persino una sveglia inattesa alle tre e
mezzo del mattino.
« Non devi preoccuparti, Okabe-san,
non mi hai assolutamente disturbato. Alle quattro mi sarei alzato in ogni caso.
»
Eppure c’era ancora timidezza nella sua, di
voce, mentre proferiva quella risposta pacata, tranquilla come invece il suo
cuore non era affatto. Aveva dovuto compiere un immane sforzo per non
sussurrare, tentando di mostrarsi sicuro di sé quando invece forse tremava, pur
se era felice di sentire quel ragazzo che poteva rappresentare per lui il
futuro.
« Davvero? Come mai? »
C’era sincera curiosità nel tono di Okabe e Mana ridacchiò sommessamente, mentre il
divertimento per quella conversazione nel pieno della notte stava iniziando ad
entrargli delicatamente nel sangue.
« Vado a fare jogging attorno al quartiere, la
mattina presto. Non mi piace granché fare sport, ma quella di correre è
un’abitudine che ho conservato dal liceo. Facevo pallamano, sai. »
Non seppe mai bene per quale ragione avesse
scelto di imbastire quel singolare dialogo proprio con quell’argomento, seppe
soltanto che funzionò, e che Satoru rise di cuore
sentendolo.
« Pallamano? Come mai proprio pallamano? »
Mana alzò le spalle come se si stesse
rivolgendo ad uno dei suoi specchi, e i suoi occhi obliqui intercettarono ciò
che stava piegato e parcheggiato dietro di lui su una sedia, alias la sua tuta
da ginnastica. Effettivamente lui era ancora in vestaglia – vestaglia
rigorosamente blu, of course
– ma l’aveva davvero preparata perché andava a fare jogging tutte le mattine. I suoi capelli
nerissimi, arricchiti come sempre dalla regolare ondulazione della treccia in
cui li legava ogni giorno, erano ancora tutti spettinati e in parte
aggrovigliati, perché s’era appena svegliato.
Pensò un po’ a quella domanda, poi risolse che
la risposta era una sola e fissò il pavimento con occhi lontani rispondendo con
voce tenue come se stesse pronunciando una verità ineluttabile.
« Perché tutti gli altri la snobbavano. »
Incredibile a dirsi, dopo aver parlato gli
venne da ridere.
« Capisco. »
La voce di Satoru
invece suonava sempre allegra, allegra quanto la sua era tranquilla, come se
nulla al mondo fosse in grado di scuotere la felicità di quel ragazzo.
Udendo quella ispostine
insoddisfacente Mana fece una smorfietta con le
labbra come se non ci credesse davvero a quella presunta comprensione, cosa che
era effettivamente dannatamente probabile. Cambiò magistralmente discorso,
preferendo conoscere il suo avversario prima d’esporsi: c’erano particolari di
se stesso che non era granché interessato a rivelare.
« E tu invece, Okabe-san?
Che mi racconti di bello? »
« Di bello niente di particolare. In questo
periodo vivo una vita talmente ordinaria che a malapena me ne rendo conto. Ah,
solo una cosa… non c’è bisogno che mi chiami per cognome, Satoru
va benissimo! Anzi, se vuoi puoi fare come tutti i miei amici qui a Kyoto e chiamarmi Gackt. »
Un guizzo di luce scintillò negli occhi
scurissimi di Mana, occhi in cui distinguere iride e pupilla era impossibile:
lui li spalancò appena e il suo cipiglio s’accigliò un poco, mentre socchiudeva
le labbra con una certa naturale perplessità. Cercava di capire quanto ci fosse
di serio in ciò che stava sentendo, e il sospetto che ce ne fosse molto
conferiva a quel gioco un che di sfizioso che intrigò Mana. Resse il gioco.
« Gackt? »
La voce di Satoru era
pregna di ogni possibile sfumatura d’allegria, sembrava nato per essere felice,
tanto che quasi lo invidiò. Oh, ma non durò più di un istante. Lui non avrebbe
mai invidiato nessuno, finché fosse vissuto. Poteva invidiare solo se stesso.
« Sì, Gackt! Gackt Camui,
nato nel
Tornò il tenue, angelico sorriso sulle sue
labbra di quel rosa così tenero eppure così intenso, senza che lui se ne
rendesse minimamente conto. Era sempre più deliziosamente estasiato.
Dèi del cielo, forse veramente, finalmente
aveva trovato qualcuno in grado di tenergli testa! Lo comprese, lo capì, volle
andare avanti fino in fondo.
« “La grandezza della musica”, eh? Bel nome,
signor Camui. »
« Te ne sei accorto? »
Sembrava sorpreso. Mana invece non lo era
affatto: gli piaceva giocare alle interpretazioni. Gli rilanciò la palla senza
attendere oltre.
« Già. Io invece se dovessi essere nato da
qualche parte sarei nato a Parigi, ma purtroppo per questa vita non è andata
così e sono di Hiroshima. »
« In effetti si sente un po’ l’accento del sud
quando parli. »
Ecco, questa era una cosa che non gli piaceva:
fu totalmente involontario, ma si portò una mano alle labbra in un gesto di
sconcertato dramma e trattenne il fiato per qualche istante come se non avesse
voluto parlare di nuovo. L’accento era un punto debole di cui era conscio fino
alla disperazione.
« Cielo, davvero? »
Aveva gli occhi larghi e per un buon minuto si
sentì la pressione sotto i piedi. Che figura meschina aveva appena fatto?
« Già. Ma non è poi così pesante, stai
tranquillo. »
« È che sono anni che cerco di stroncare il mio
accento, sai purtroppo ha la brutta tendenza a stonare orribilmente con il mio
stile. »
Chiunque avrebbe potuto credere che quelle
parole proferite velocemente e con fin troppa inconsapevole agitazione fossero
soltanto una presa in giro di quell’animo giocoso che era in fondo Mana:
purtroppo invece non lo erano affatto. Erano serie.
« Hai un modo di parlare molto elegante,
comunque. »
« Lo so. Appunto. Trovo orripilante parlare un
giapponese elegante contaminato da un accento così… provinciale. »
Aveva alzato un po’ il tono della voce, ancora
senza accorgersene, ancora senza comprendere come parlare gli fosse diventato
d’un tratto naturale come il respirare stesso. Quella conversazione lui non
riusciva più minimamente a controllarla.
« Ma Hiroshima non è poi così provincia, è un
capoluogo di prefettura! »
« Che c’entra quello… è una questione mia
interiore, ecco. E poi in confronto a Tokyo, sempre provincia è. »
S’era quasi imbronciato come un bambino. Quasi.
« Vai sempre a fare jogging a quest’ora? »
« Sì. »
Avrebbe tanto voluto piantarla lì, così, ma il
suo desiderio più impellente non era quello: non lo era affatto. Capì di dover andare avanti, di non voler chiudere così,
allora parlò ancora: stava solo a lui lasciare che quella conversazione non
avesse termine.
« Mi alzo alle quattro o alle cinque al più
tardi. Tendo a dormire poco la notte, comunque. Poi se capita dormo durante il
giorno, quando mi viene sonno. »
Che letto in altri termini diventava “posso
dormire ovunque e sempre”. Di questa caratteristica Mana andava fiero, e poi il
sonno era sonno e non ammetteva repliche.
« Pensa che a me invece basta dormire due o tre
ore per notte e sono a posto! Quando non riesco a dormire prendo un libro e
studio. »
Mana stava seriamente pensando che quella fosse
una fortuna, ma prima di parlare a sproposito si concentrò sulla seconda delle
frasi che Satoru/Gackt aveva pronunciato.
« E cosa studi? »
« Ecco, mi piace studiare le lingue straniere,
vorrei impararne almeno una decina! Il coreano già lo conosco. »
« Accidenti, io invece mi limito a un po’
d’inglese e a due parole in fila di francese. »
Fu lì che il muro crollò la prima volta. Mana
rise. Rise. Compostamente prima, poi più liberamente, e la sua stessa risata
suonò alle sue orecchie dolce come quella di un bambino. Quel Satoru lo stava invariabilmente contagiando con la sua
spontaneità, doveva dargliene atto.
« Tornando alle cose serie, ho ascoltato
l’album. »
Uh, finalmente s’era giunti al punto cruciale.
Deglutì, sbatté le palpebre, si preparò. Poteva fare poco altro.
« Ah sì? Verdetto? »
« Mi ha colpito molto, sul serio. Le canzoni
chi le ha composte? »
« Quasi tutte io, alcune anche l’altro
chitarrista, Közi. »
« Davvero? Complimenti, sei bravissimo! Non sto
scherzando, c’è… c’è… »
Satoru si fermò, all’improvviso e inspiegabilmente, e
le nettissime sopracciglia di Mana s’aggrottarono in un modo che stava a metà
fra l’immensamente sorpreso e il tetramente accigliato.
« Sì? »
Volle incitarlo a continuare.
« Tu conosci bene la musica classica, vero? In
quelle canzoni c’era… c’era qualcosa di classico sotto ogni singola nota. E
l’ho trovato davvero splendido, interessante. In molti possono provare a
mescolare la musica classica al rock, ma tu lo fai in maniera veramente
particolare. »
Di nuovo, sorrise come se non fosse stato in
grado di far altro. La sua mente gli creava davvero preoccupazioni inutili che
in futuro avrebbe fatto discretamente bene ad evitare. La sua voce si sciolse,
tornò a fluire libera come il suo pensiero immenso, e lui parlò con imbarazzata
timidezza. Tutti quei complimenti lo stavano stordendo, e forse era pure
arrossito. Che bambino stupido era!
« Be’, ti ringrazio. Vedi, i miei sono
insegnanti di musica e io sono cresciuto con la classica. Mi hanno insegnato a
conoscerla e ad amarla pur non sapendo nulla della teoria che c’è dietro. Si
può dire che ho imparato prima a suonare il piano che a camminare, anche se
all’inizio la vivevo molto come una costrizione. »
« Anche a me successe così. I miei non
insegnano, ma fin da quand’ero piccolissimo mi misero davanti il pianoforte e
mi dissero “suona”. Anzi, me lo imposero. Mi facevano studiare con maestri
severissimi, e mi spiace dirlo ma arrivai a odiare il piano. Continuai a
rigettarlo fino a quando un mio compagno di scuola non mi portò a casa sua,
dove mi fece ascoltare come suonava. Era talmente bravo che rimasi sconvolto e
pensai “non gli devo essere inferiore”. Anche se in effetti lo ero e pure
parecchio. »
Mana gongolò e i suoi occhi scintillarono,
mentre si poggiava una mano sulla guancia e sospirava appena con soffice
leggerezza. E così era anche competitivo il ragazzo… non ci mise molto a
comprendere quale potesse essere stata la sua reazione.
« Fammi indovinare: ti ributtasti a studiare e
a suonare come un forsennato. »
Gackt rise.
« Già. »
Al che Mana sorrise a sua volta, delicatamente,
e gli parlò a voce bassa, in un monologo lento che suonava più rivolto a se
stesso che non all’altro ragazzo.
« Io invece non ho mai smesso, e penso che non smetterò
mai. Il piano è una parte di me come lo è la chitarra, non potrei immaginare me
stesso senza di loro. »
Stava parlando di simili questioni ad un
estraneo, stentava a crederci, lui sempre così restio a parlare di se stesso!
Eppure sapeva, senza comprender bene i come o i perché, che Gackt lo capiva, lo
poteva capire e forse era il solo che ci fosse mai riuscito davvero. Perché di
cose in comune ne avevano, nonostante tutto. Lui aveva capito che quel Satoru era speciale dal momento in cui aveva ascoltato la
sua voce, e forse… forse per Gackt era stato lo stesso.
« Quando hai iniziato a suonare la chitarra? »
« Avevo quindici anni, più o meno. Sai, i miei
me ne avevano comprata una acustica quando avevo detto loro di voler imparare a
suonarla, ma io l’ho sempre aborrita… anche se va detto che ora la suono, ogni
tanto. Alla fine me ne comprai una elettrica coi miei risparmi. »
« Ci credi che io invece a quell’età inorridivo
all’idea di fare parte di una band? La consideravo un’attività da stupidi. »
Le sopracciglia scure di Mana s’inarcarono per
la somma sorpresa. Ringraziò il cielo che Camui
avesse cambiato idea in tempo per godersela, una band.
« Accipicchia, e cos’è che ti ha traviato,
Gackt Camui? »
« È stato un chitarrista! »
Ecco, quello sì che lo sorprese. Forse i
chitarristi avevano davvero qualche potere speciale, allora! Riuscì a malapena
a trattenere un’esclamazione sorpresa; forse era il caso che iniziasse sul
serio a credere di far parte di una qualche schiatta dalle pericolosissime e
aliene potenzialità ipnotiche, giunta sulla terra apposta per traviare povere
menti innocenti che li consideravano stupidi… sì, come no, leggeva troppi
manga.
« Ma dai, sul serio? »
« Sì, ora suona nella mia band, i Cain’s Feel! Si chiama You, è davvero bravo! Magari un giorno riesco a
presentartelo! »
« Volentieri. »
Mana avrebbe quasi voluto incontrarlo sul serio
per dimostrare a Satoru e a chiunque altro che tra
lui e quel You che non aveva mai visto né sentito non
c’era storia. Almeno sul piano della classe. Che avesse troppa fiducia in se
stesso? Oh no, era solo un po’ vanitoso, che c’era di male? Aveva ben più di un
motivo per esserlo, in fondo. Inevitabilmente finì per gettare uno sguardo alle
lunghissime ciocche nere che gli scendevano giù per le spalle.
Continuarono su quel tono per un’eternità o per
un tempo che a lui parve tale. Gackt non la smetteva più di parlare e Mana gli
stava dietro con straordinario agio. Più di una volta scoppiò a ridere di
fronte all’assurdità di qualcuno dei racconti di Satoru
e altrettante volte controllò che ore fossero.
« Ma lo sai quanto stai spendendo? », gli disse
nel bel mezzo di una risata appena soffocata « È da un’ora che stiamo parlando!
»
« Se credi che me ne importi qualcosa ti sbagli
di grosso! »
« No, io non sbaglio mai! »
« Se è per questo neanche io! »
Scoppiarono di nuovo a ridere entrambi come due
perfetti scemi, e tale Mana si sentiva in quel momento.
Scoprì con gioia che non gli interessava.
« Senti, facciamo così: ti richiamo io domani,
cioè… insomma, tra qualche ora! »
« Ok, va benissimo. Facciamo verso l’ora di
pranzo? Mi trovi di sicuro! »
« Va bene, a dopo. »
Fu a malincuore che mise giù. Veramente,
dannatamente e totalmente a malincuore. Quel ragazzo lo faceva divertire. Sì,
decisamente gli piaceva. Ora restava da controllare un’ultima cosa: che faccia
avesse. Anche se c’era la possibilità che questo Mana non lo scoprisse mai,
tutto dipendeva da come sarebbe andata quando quella cosa, diventare il nuovo
vocalist dei Malice Mizer,
gliel’avesse proposta ufficialmente.
L’avrebbe richiamato, come desiderava, ma ora…
ora era il momento di infilarsi la tuta e andare a fare la sua corsetta
mattutina. Fu con somma attenzione che tolse la vestaglia blu, ripiegandola e
poggiandola delicatamente su una sedia al tavolo della cucina. Ecco il bello
dell’abitare da soli, il potersi vestire dove e quando si voleva senza nessuno
che brontolasse, specialmente se quel qualcuno era sua madre. Quando si fu tolto anche la camicia da notte – deliziosa, bianca coi nastrini blu e le maniche
lunghe e gli orli rifiniti di pizzo (elemento questo che poteva vantarsi d’aver
inserito lui) – s’infilò la tuta da ginnastica e si preparò una colazione
nutriente ma leggera, principalmente a base di yogurt: alimento che mangiava a
quintali, senza alcun eufemismo.
La tuta gli stava larga, e faceva apparire le
sue gambe magre e dritte come pali. Poco gli importava, erano pur sempre le
cinque del mattino: l’avrebbero visto solo i gatti randagi che gironzolavano
per il quartiere.
Uscì, chiudendo bene a chiave la porta, poi
scese le scale di corsa senza fare un rumore di troppo e s’avventurò per il
quartiere ancora deserto, appena rischiarato dalla luce dei lampioni che
parevano riflettersi nel cielo violaceo che precedeva l’alba. L’aria era
pungente, frizzante a quell’ora, e gli inondava quasi con dolore i polmoni che
si stringevano e s’allargavano al ritmo della sua corsa. Era vero, odiava fare
sport lui, ma correva come una lepre selvatica e soprattutto teneva a se stesso
e alla sua forma fisica. Aveva una linea da mantenere, nei suoi quarantanove
chili di peso per un metro e settantatre d’altezza c’era sempre quel
fondamentale chiletto che impediva alla bilancia di
raggiungere il cinque. Chiletto che Mana era
totalmente interessato a non prendere per nessuna ragione.
Così tutte le mattine, poco importava che tempo
facesse, anche sotto una bufera di neve lui avrebbe corso almeno una mezz’ora.
In un certo senso lo aiutava a sfogarsi, lasciando libero il suo notevole, inarrivabile
cervello: era respirando che sentiva tornargli, pompata nel cuore assieme al
sangue e all’ossigeno, anche quella sua ispirazione geniale che lo trascinava
come un’onda e che così spesso aveva condotto le scelte che agli occhi degli
altri apparivano così avventate e prive di futuro. Come quella di trasferirsi a
Osaka prima, poi definitivamente a Tokyo rinunciando a qualsiasi tipo di
avvenire certo e buttandosi in quel vortice senza ritorno che era la sua
musica.
Ascoltò il ritmo dei suoi piedi che battevano
l’asfalto, così simile a quello del suo cuore che pulsava, al ritmo del suo
respiro e del fiato che gli usciva a sbuffi dalle labbra sottili e socchiuse,
affannato, certo, ma libero come il pensiero che gli vorticava nella mente,
inondandolo d’ebbrezza e sogni. Poi guardò: guardò gli alberi attorno a lui,
guardò il cielo violaceo sopra la sua testa, oltre i tetti dei palazzi che
aveva attorno. Certe volte gli veniva voglia di raggiungerlo, quel cielo,
spiccando il volo come un angelo. Se non era lui, sarebbe stata la sua musica:
la sua musica avrebbe raggiunto i confini del mondo, la sua chitarra avrebbe
parlato all’umanità intera, che avrebbe vissuto i sogni di un ragazzo di
ventiquattro anni quale era lui, e che per questo e solo per questo l’avrebbe
amato. I suoi capelli neri volteggiavano a sobbalzi dietro di lui, legati in
una coda bassa che aveva lasciato andare qualche ciocca, che ora s’agitava viva
come uno splendido serpente nero.
Non c’era nessuno e tutto era deserto, nessuno
avrebbe visto Manabu e Manabu
non avrebbe visto nessuno. Era ciò che desiderava, starsene in solitudine,
perché di altro non aveva bisogno.
E poi sarebbe tornato a casa, lanciandosi a
razzo e rigorosamente a piedi su per le scale, si sarebbe esercitato col trucco
e sarebbe pian piano venuta l’ora di pranzo, quando avrebbe preparato il riso
al curry e avrebbe finalmente telefonato a Satoru… ops, a Gackt Camui.
Questo pensava Manabu
Satou, mentre il cielo violaceo già schiariva sotto
l’influsso del sole accecante che nasceva.
- continua -
N.d.A.
Questo capitolo può sembrare incredibilmente inutile, lo so. In realtà non lo è
così tanto, perché, se analizzato bene, contiene tutti gli elementi
caratteriali che porteranno i due verso il loro futuro, che chi sa la storia dei
Malice Mizer già conosce (e
per tutti quelli che non sanno cosa succederà, resistete che ci arriveremo!
:P).
In
questa storia comunque niente è messo a caso, neanche la più piccola parola! U_U (autrice sicura di se stessa…………..).
Strano
ma vero questa storiellina finora mi ha soddisfatto
ampiamente, spero di potermi tenere su questi livelli fino alla fine! ^^
Vitani