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Autore: Sickness    29/04/2007    1 recensioni
Io sono il frutto di quello che mi è stato fatto. È il principio fondamentale dell'universo: a ogni azione corrisponde una reazione uguale contraria.
[V - V per Vendetta]
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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La stanza era, come al solito, scura e con colori molto tenui. Il nero regnava, facendo da sfondo ad altre luci, la maggior parte delle quali erano rosse.

Una stanza molto spoglia, avrebbero detto in molti. Sul soffitto si potevano scorgere, nel buio, alcuni macchinari immobili, in attesa di qualcosa, mentre al centro della stanza vi era un solo tavolo, a cui accanto era seduto un annoiato scienziato in camice da lavoro.

L’illuminazione, molto sobria, era una via di mezzo, in modo che fosse possibile guardarsi attorno ma anche che le luci rosse, alle pareti, brillassero con forza.

Se si guardava bene le pareti si vedeva che erano incisi dei cerchi, file e file, ordinatamente e ripetutamente per tutta l’ampiezza e la grandezza della stanza. Ognuno di quei cerchi era come una stereotipata faccina.

Infatti, se si guardava, le luci rosse erano posizionate in ogni cerchio in modo da formare un’espressione annoiata, quasi addormentata, preciso segnale che ciò che c’era dietro non era ancora pronto ad uscire.

La nascita, sul pianeta Irk, era quello. Gli Irken non avevano genitori, e non c’era bisogno di due persone perché delle piccole cellule decidessero di prendere forma. C’era invece bisogno di incubatrici, tante piccole incubatrici in cui potessero svilupparsi sani e tranquilli, per poi poter uscire, ancora in una forma terribilmente infantile e quasi… dolce. L’uscire dalle incubatrici era la vera e propria nascita, quando l’individuo cominciava a comprendere e a guardarsi attorno, non più protetto dal liquido di stasi, e quindi poteva dare inizio alle sue prime esperienze.

Una delle tante faccine disegnate sulle pareti divenne, in pochi attimi, sorridente, passando dal rosso a una luce verde, che fece riprendere allo scienziato coscienza di se e di ciò che lo circondava.

Le macchine sul soffitto presero vita, in concomitanza con quel tacito segnale, rivelando un braccio meccanico che svitò rapidamente l’incubatrice.

I tanti cerchi erano infatti solo una superficie dei tubi dentro cui si formavano i piccoli Irken, e le luci erano delle spie luminose che rendevano noto quando erano pronti al fatidico momento della nascita, nonché appoggio grazie al quale il braccio meccanico riusciva a svitare i cilindri vitrei dal muro.

Tolta l’incubatrice, un secondo braccio meccanico prese l’altra estremità del cilindro, spezzandolo nella metà e lasciando che il piccolo tesserino al suo interno cadesse, assieme al liquido di stasi, a terra, con un impatto non indifferente contando l’esigua grandezza dell’Irken in questione.

Aveva un che di adorabile, alla quale ormai lo scienziato era abituato e a cui non faceva più tanto caso. Poteva stare tranquillamente nel palmo di una mano, a parte per la testa, sproporzionata rispetto al resto del corpo e troppo pesante per quel corpicino che, straordinariamente, sembrava essere sopravvissuto alla caduta da quei due metri di altezza. Le braccia e le gamba erano troppo piccole ed esili perché potessero sorreggerlo, ed infatti non lo fecero. L’Irken appena atterrato non sembrava avere alcuna vita: atterrato seduto e con la testa crollata innanzi a se, appoggiata al pavimento, il piccolo non aveva accennato a volersi muovere da quella scomoda posizione ne sembrava aver risentito di alcun danno in seguito all’impatto.

In pochi attimi i due bracci meccanici si rimisero all’azione, uno trapassando la carne del piccolo, sulla schiena, creando due fori paralleli sulla spina dorsale, l’altro prendendo uno strano macchinario, dalla forma a metà ovale, che grazie alla forma a ‘spina’ si incastrò perfettamente sul dorso dell’Irken, nelle ferite appena create. Appena completato questo procedimento, uno dei due macchinari liberò una scossa elettrica nel corpo del piccolo, che sembrò prendere istantaneamente vita.

Lo scienziato, muto spettatore della nascita di una nuova esistenza, osservò l’Irken che a sua volta lo guardava con occhi talmente innocenti da far sciogliere all’istante chiunque.

Pelle liscia, nessuna imperfezione ne macchia, colorito del normale verde chiaro. Occhi senza iride, pupilla o cornea, completamente viola, lunghi circa due terzi del volto. Le antenne, nere, erano in quel momento rivolte verso il basso. Classico spessore di circa cinque millimetri, ma troppo lunghe. Arrivavano fino alla schiena, sebbene gli ultimi centimetri fossero rivolti in una specie di spirale interna, tuttavia non comportava nessun problema a livello fisico, quindi era un dettaglio di poco conto. Grandezza complessiva di dieci centimetri, cinque di testa, gambe e braccia di appena un centimetri ma esili nella norma, e comunque abbastanza forti da sorreggerlo senza apparente fatica.

 

-“Benvenuto alla vita, Irken bambino. Adesso ti illustrerò le funzioni del tuo PAK e da li decideremo il tuo nome.”

 

Era una frase talmente neutra che sembrava persino fuori luogo in presenza di un Irken bambino. Eppure era ciò che lo scienziato diceva ogni volta, o almeno cosi sembrava vista la sua flemma e il tono poco vivo nel parlare.

Eppure il giovane Irken sembrava troppo impegnato a squadrarlo con i classici occhi enormi che appartenevano fin dalla creazione alla razza per poter avere una qualche reazione nel sentirlo cosi annoiato, troppo incantato a osservare ciò che aveva attorno con la certezza che finalmente l’avrebbe ricordato, e che non avrebbe mai più continuato in un loop continuo. Sempre che riuscisse a ricordare quella vita che gli era appartenuta fin dieci minuti prima, ovviamente.

Magari erano passati troppi secondi e di quando era nell’incubatrice non sapeva assolutamente nulla. Capitava, contando anche che quelli erano momenti in cui la memoria era acerba, inutilizzata e terribilmente stancante per esseri che da poco avevano abbandonato la struttura puramente unicellulare.

Eppure lo scienziato non notava i cambiamenti che il piccolo faceva, tutte le cose che imparava in cosi poco tempo, forse perché ormai abituato a quella routine a cui da tempo era stato assegnato. In quel momento voleva semplicemente sbrigarsi e magari tornare a casa prima.

Fu vedendo che lo scienziato stava girandosi che l’Irken gli saltò in braccio, abbracciandolo come poteva con le sue braccine che a malapena cingevano un bottone della sua divisa, probabilmente perché era giunto alla conclusione che volesse andarsene e lasciarlo solo, o chissà per quale altro motivo. Magari era solo bisogno di affetto materno.

 

-“Ti voglio bene scienziato che spiega le funzioni del PAK!”

 

Non si poteva dire che lo scienziato si fosse arrabbiato per quella particolare effusione affettuosa, ma l’espressione sorpresa lasciava intendere che avrebbe preferito se l’avesse prima avvertito.

Dagli sguardi perplessi e dai movimenti cauti, come se stesse tenendo in mano un calice di finissimo cristallo, era evidente che non sapesse molto come trattare con i piccoli, e ogni volta che tentava di dire qualcosa le parole gli morivano in gola nel vedere il pallido verde che colorava l’enorme e graziosa testa che continuava a strusciarsi contro il suo camice.

Fece una strana smorfia, tentando di non farsi prendere dal panico, ricordando antiche lezioni e gesti che aveva visto fare da casuali infermiere del laboratorio e limitandosi infine ad una semplice goffa carezzino sulla testa, come si poteva fare con un micino.

 

-“S-sisiii, ma ehm, ecco. Allora. Tu ti chiami Farz e… uh, questo è registrato nel coso strano che hai sulla schiena, che si chiama… PAK.

 

Era evidente che avrebbe preferito farsi fucilare dietro una fabbrica di rifiuti chimici piuttosto di affrontare una simile situazione, ma riuscì con poche, confuse parole e parecchi balbettii a ritornare al discorso originale, nella sua comoda e confortevole routine in cui tutto si sarebbe risolto in fretta e tutto era sotto il suo controllo. Certo, a parte l’Irken che, oltre ad abbracciare o per meglio dire a tentare di abbracciarlo, aveva anche ripreso a guardarlo, con quegli occhi, per cosi dire, innocenti che continuavano a imbarazzarlo non poco.

Un leggero sospiro, giusto il tempo per inamidarsi le labbra, quindi si sedette, sentendo l’impellente necessità di scaricare il piccolo a qualcuno un pochettino più pratico.

 

-“A grandi linee il PAK è ciò che ti rende riconoscibile sempre ed ovunque. Puoi collegarti a qualsiasi tecnologia, interagirci grazie a dei cavi la cui funzione ti verrà insegnata più avanti. Guarisce qualsiasi tua ferita in un tempo massimo di dieci secondi. Purtroppo, c’è di negativo che se il PAK si danneggia gravemente, e con questo intendo che non riesce a ripararsi da solo o non si può riparare in alcun modo, oppure anche se non lo indossi, puoi sopravvivere solo per un massimo di dieci minuti, alla fine dei quali morirai.

 

Lo scienziato si interruppe, preso per la prima volta in tanti anni di lavoro da un dubbio: era giusto rendere noto a quel particolare piccolo delle possibili fini che potevano attenderlo con simili parole? Non ci aveva mai fatto caso, ma ‘morirai’ sembrava un po’ fortino da dire.

Tutti i suoi dubbi si annullarono quando vide che Farz semplicemente continuava a guardarlo.

Li sorgeva spontanea la domanda ‘hai capito cosa sto dicendo’, ma per amor di sintesi decise di lasciar perdere e continuare con la sua spiegazione.

 

-“Nel PAK vi sono numerose altre funzioni. Una che di solito piace agli Irken bambini è questa…”

 

Essendo lo scienziato un esponente della stessa razza di Farz, anche lui possedeva il suo PAK. Più grande di quello dell’Irken bambino, certo, ma quello era dovuto alla crescita: in realtà le funzioni erano le stesse.

Inutile dire, quindi, che secondo questo logico pensiero Farz andò in brodo di giuggiole vedendo crescere dal PAK dello scienziato quattro zampe filiformi simili in tutto e per tutto a quelle dei ragni, a parte per la composizione, puramente metallica.

Con un gesto sicuramente avventato, lo scienziato mosse qualche zampa verso l’Irken bambino, che con discreta velocità le afferrò e le tirò verso di se, trovando quel gioco decisamente divertente.

Cosa che non pensò lo scienziato, che un po’ perché preso alla sprovvista, un po’ perché la cosa non sembrava fargli piacere, fece una faccia discretamente infuriata.

 

-“LASCIAMI… andare. Le hai anche tu le zampe. E le ha anche il tuo futuro tutore… magari preferiresti le sue!”

 

Agitando le zampe a cui vi era attaccato Farz e trattenendo uno scatto d’ira, lo scienziato prese a premere veementemente un bottone sulla pulsantiera, desideroso di liberarsi del piccolo il più presto possibile.

Non che fosse particolarmente dispettoso, per carità. Una volta gli avevano anche strappato via le ‘zampe’, quindi quello era ben poco, nella sua lista di guai.

Ma c’erano impercettibili segnali che facevano capire agli scienziati quando era il caso di liberarsi di un altro essere vivente, e non era quasi mai un bene non ignorarli.

 

 

 

Sometimes

I forget I'm still awake

I fuck up and say these things out loud

 

Don't look at me that way

It was an honest mistake

 

[The Bravery – Honest Mistake]

 

  
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